Marianna Gelussi
Immagini come lucciole, secondo Georges Didi-Huberman
Fotogramma tratto da: Pier Paolo Pasolini, La sequenza del fiore di carta, con Ninetto Davoli (da Amore e rabbia, ITA 1968)
Le lucciole, nel loro bagliore fugace, notturno, formano come delle immagini a salti, intermittenti. Chiarori fragili che disegnano in volo un desiderio, si muovono come anime erranti, presenze ‘fantasmatiche’ nelle notti estive. Nell’opera di Pasolini, le lucciole si fanno materia poetica, immagini che ritornano come metafore di uno stato di eccezione velato di nostalgia poetica, di grazia innocente, sfuggente, che brilla di gioia amorosa. Nelle sue opere gli esseri umani si trasformano, eccezionalmente, in lucciole, corpi lirici: si muovono come esseri danzanti erratici, simboli di un’umanità innocente, incorrotta. Comparse eccentriche, spensierate, gioiose sotto gli occhi meravigliati dello spettatore: sono i personaggi incarnati spesso nei film di Pasolini da Ninetto Davoli, ‘Riccetto’, l’uomo-lucciola ne La sequenza del fiore di carta del 1968. Nel 1975, nel suo Articolo delle lucciole, Pasolini decreta amaramente e definitivamente la scomparsa delle lucciole. Con le lucciole, per il poeta, scompare tutta un’umanità, spazzata via dal fascismo totalitario della società dei consumi. “La tragedia è che non ci sono più esseri umani”, scrive. Di Lucciole malgrado tutto si occupa il libro recente di Georges Didi-Huberman. Sopravvissute malgré tout, nascoste, rare certo ma non scomparse, o almeno scomparse solo agli occhi di chi ha rinunciato a inseguirle, le lucciole sono (metaforicamente) per lo studioso immagini di survivances, resistenze nomadi del pensiero. Nell’oscurità del tempo presente, segnato dalla caduta del corso dell’esperienza, secondo la definizione di Walter Benjamin, dalla crisi della cultura occidentale, in un momento storico in cui la cultura stessa si è trasformata in strumento di barbarie totalitaria, le lucciole sono “la cosa più fragile e fugace che ci sia”. Ma proprio nei periodi di catastrofe, secondo lo studioso, le immagini possono essere lucciole: intermittenze che offrono un’apertura improvvisa, quasi insperata, uno spiraglio nello spazio di un lampo, “spazi nomadi” in cui una forma di resistenza del pensiero diventa possibile. Bagliori malgré tout nel buio del tempo presente o flebili luminosità difficilmente distinguibili nella luce accecante del flusso continuo di immagini analfabete, stereotipe, della ‘società dello spettacolo’.
La ‘questione-immagine’ è il filo continuo che lega il discorso di filosofo e storico dell’arte intessuto da Didi-Huberman, è l’ossessione che lo abita. Sempre vi è questione di immagini. L’immagine ritorna, continuamente e nuovamente, questionata, aperta, smontata e rimontata. Interpretata in quanto apertura, déchirure, sintomo, anacronismo, survivance, revenant di una storia di fantasmi. Lo studioso vi porta uno sguardo che si spinge nelle sue interiora, nella complessità delle immagini, rifiutando a ogni momento di guardarle superficialmente (di maniera altezzosa) come a semplici espressioni ‘innocenti’ o, inversamente, di demonizzarle come finzioni, apparizioni illusorie, menzognere.
La dinamica del modo di procedere di Didi-Huberman si rivela di una pratica quasi ‘gestuale’. Il gesto dell’aprire ricorre instancabilmente. Aprire le immagini, come in un moto istintivo, quasi ‘infantile’: il gesto elementare, intuitivo, dell’aprire per capire, per cercare di scrutare il funzionamento delle cose. “Aprire la scatola della rappresentazione”, fendere una déchirure, uno strappo nell’immagine e guardarvi dentro. In una posizione incomoda, mobile, che sceglie di non poggiarsi su categorie interpretative prestabilite, senza dare nessuna conoscenza per acquisita. È un esercizio in bilico, quasi ‘ri-fondativo’ del fare storia dell’arte.
“Les images s’ouvrent et se ferment comme nos corps qui les regardent. Comme nos paupières quand elles clignent pour mieux voir, ici ou là, ce que l’image recèle encore de surprises. Comme nos lèvres quand elles cherchent leurs mots pour offrir une parole à ce regard, fût-il interloqué. Comme notre respiration, imperceptiblement suspendue, voire haletante, devant une image qui nous émeut. Comme notre cœur qui bat un peu plus vite à mesure de l’émotion, dans son rythme de diastole qui ouvre et de systole qui ferme, de diastole qui rouvre et de systole qui referme, et ainsi de suite. Cela, bien sûr, va s’entendre métaphoriquement”
(L’image ouverte. Motifs de l'incarnation dans les arts visuels).
Il percorso di Didi-Huberman è costellato quasi fatalmente di immagini che aprono uno spazio allo ‘sconcerto’, immagini che, nella loro eccezionalità ‘asistematica’, hanno il potere di incrinare il ‘sistema conoscitivo’ dello sguardo, sbaragliare le sue rigide categorie interpretative e descrittive. “L’œil par malheur sait, non moins souvent, se clore devant l’évidence, lorsque l’évidence est là pour déconcerter”. Non chiudere gli occhi, quindi. Anzi, aprirli ancora di più, lasciarsi cogliere alla sprovvista. Non restare barricati, impigliati nella ‘rete della conoscenza’ ma rettificare di volta in volta le categorie, in un perenne stato di veglia, in un movimento interpretativo attivo, mobile. Non cadere nell’atteggiamento sicuro, spavaldo, del connaisseur o dello storico dell’arte, che crede di avere piena coscienza della ‘meccanica’ dello sguardo, di poterla facilmente addomesticare perché ‘sa’ le immagini. Al contrario, lasciarsi stupire continuamente e ancora.
Applicato allo studio del Rinascimento, il gesto dell’aprire le immagini obbliga a rimettere in discussione gli schematismi tramandati dalla lezione di Vasari: esige la rinuncia a ‘capire’ la sua storia come una storia fatta di figurations, come un cammino progressivo e inesorabile alla conquista della ressemblance mimetica (Devant l’image). Procedendo per approssimazioni, aprire uno squarcio nelle immagini e nella logica al tempo stesso. Nell’atto di guardare, abbandonare ogni aspettativa prestabilita e lasciare che il fenomeno visivo prenda il sopravvento. Far emergere così le eccezioni. E ambire a riscrivere una nuova storia dell’arte a partire proprio da quelle “eccezioni imperiose”, dalle espressioni più controverse di dissemblance che, sviluppando un “anti-soggetto nella melodia del visibile”, “strappano il tessuto mimetico”. Aprire uno spazio di ‘dissenso’ in cui si inseriscono nuove forme d’inquietudine, in cui si esprime la “parte maledetta” della pittura.
Beato Angelico, La Madonna delle ombre (dettaglio), 1438-1450, affresco, Convento di San Marco, Firenze
Nella storia delle “eccezioni imperiose”, la fascia inferiore dell’affresco di Beato Angelico detto La Madonna delle Ombre, del Convento di San Marco a Firenze, datato tra il 1438 e il 1450, segna un episodio esemplare (Fra Angelico. Dissemblance et figuration). Sotto la sacra conversazione, opera figurativa (mimetica) mirabile, Beato Angelico esegue un ‘pezzo’ di pittura non-figurativa, non-descrittiva che ci si potrebbe spingere fino a definire ‘astratta’. La sua estensione corrisponde a quella della scena sacra. Quest’opera rimane, di fatto, un inedito. Gli storici dell’arte e i cataloghi hanno sempre trascurato (sapientemente evitato?) la parte inferiore, anti-mimetica, nelle loro analisi: omessa nelle dimensioni dell’opera, tagliata dalle riproduzioni. Si tratta di una prova evidente di ciò che lo studioso intende per “facoltà di non vedere”, che ha a che vedere con un pregiudizio dello sguardo, causa di inesattezze storiche. Una rappresentazione di finti marmi? A ben guardarla, la pittura consiste piuttosto in una pioggia di macchie colorate proiettate sul muro. Per la tecnica, è assimilabile più a un dripping di Jackson Pollock che a una pittura rinascimentale. La superficie “se présente plutôt pour ce qu’elle est en toute rigueur sur cette paroi: de la peinture pure, de la peinture non feinte”. Più che ‘marmi finti’, ‘pittura non finta’ dunque. Un brano di pittura che sovverte l’ordine mimetico e si insinua come un virus malizioso, lo schernisce presentandosi come colore, ovvero materia pura, anti-mimesi. Puro gesto, a imitazione non della natura ma piuttosto, simbolicamente, del gesto liturgico dell’aspersione. Questa pittura quattrocentesca apre in maniera insospettata un contre-point, portando in seno un principio di negazione – di dissemblance –, “gioca con l’economia mimetica in un rapporto di inquietudine”. Provoca una déchirure nell’arte imitativa del suo tempo, nella logica della ressemblance.
Le “eccezioni imperiose” della storia delle immagini, portatrici di dissemblance, costituiscono per Didi-Huberman dei “sintomi”, ovvero delle faglie, aperture in cui l’immagine accetta di spogliarsi e mostrarsi interamente. I sintomi – ossia la “congiunzione di due durate eterogenee: l’apertura improvvisa e l’apertura di una ‘latenza’ o di una survivance” – si manifestano come uno squarcio subitaneo.
L’immagine è apertura di una “latenza”, di una survivance. Didi-Huberman apre qui – nuovamente – l’immagine ma nel senso del tempo o, piuttosto, dei tempi (Devant le temps e L’image survivante). A partire dagli studi di Warburg sulla survivance (Nachleben) nell’arte e dal pensiero di Benjamin in materia di immagini e storia, riannoda i fili con quella tradizione della storia dell’arte e della cultura occidentale fatta di ritorni, di survivances, di tradizione. Rifiutando il modello ideale vasariano basato sul ciclo naturale di vita e morte, riapre l’accesso a una storia dell’arte fatta di “fantasmi” e sopravvivenze, sulla strada tracciata dalle intuizioni di Burckhardt prima (sul Rinascimento come “stile impuro”), approfondite da Warburg poi. Un “tempo delle immagini”, ovvero un “tempo di fantasmi”, un tempo della memoria delle immagini, di eterni e inattesi ritorni, di una ressemblance non schiacciata più sull’imitazione dell’ideale ma modellata sul tempo 'spurio' delle sopravvivenze. Un tempo di sintomi, di permanenze che al modello ideale sostituisce un modello fantômal della storia. L’immagine si costituisce allora come anacronismo, un insieme di più tempi. È l’”immagine dialettica” di Benjamin: “Immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora (Jetzt) in una costellazione”. L’immagine è un bagliore fulmineo, in cui il passato unendosi al presente lo illumina, creando un’apertura verso il futuro. Un’immagine “a salti”. Ancora una volta, l’immagine è un’apertura – in senso quasi profetico – un gioco non cronologico, un sintomo, che nel suo rapporto col passato, intriso di memoria, può illuminarci sul presente.
László Moholy-Nagy: Rinnstein (Scolo), 1925, pubblicata in Foto-Auge, Akademischer Verlag Dr. Fritz Wedekind & Co, Stuttgart 1929,
fig. 38, con il titolo Kloake in Paris (Fognature di Parigi)
“L’image est admirable: extrême pauvreté de la chose vue, extrême complexité de la vision elle-même. La plaque d’égout, le flux du caniveau, le drapé trempé forment, dans leur misérable “sujet”, un saisissant feu d’artifice de rythmes et de textures. Métal, pierre, bitume, tissu, eau, chaque matière reçoit la lumière et la renvoie différemment. Immobilité des choses dures, mobilité de l’eau, état intermédiaire du morceau de tissu. L’image est floue devant nous – en bas, là où nous sommes le plus proche, là où rien ne bouge –, elle devient nette sur l’eau en mouvement et sur le gris haillon qui fuit vers le haut”
(Ninfa moderna. Essai sur le drap tombé).
“Le survivances corrono ovunque, si infilano in ogni antro della storia”. Soprattutto negli angoli più bui, bistrattati, si celano nei suoi oggetti più umili. Didi-Huberman, sui passi dello storico-straccivendolo di Benjamin, le cerca lì dove sono le meno attese (ovvero proprio lì dove lo sono di più): tra gli stracci consunti che giacciono negligentemente a terra per la strada. Esercizio dello storico che cerca “uno sguardo immemore capace di far sorgere l’antico” anche negli oggetti più infami, per estrarre “la bellezza misteriosa che la vita umana vi immette involontariamente”. Scova in un cencio la modernità anacronistica delle survivances, in un oggetto démodé tipicamente parigino: quel pezzo di stoffa fatto di moquette o di vestiti usati, tessuto sdrucito – di difficile interpretazione per un occhio straniero, non avvezzo – utilizzato dalla pulizia urbana per deviare le acque di scolo lungo i marciapiedi, verso gli imbocchi delle fognature. L’oggetto di ‘archeologia urbana’ immortalato da Moholy-Nagy. Un drappo informe, al suolo, può essere portatore di memoria. Oggetto ‘a strati’, è fatto di più tempi, da ascoltare (guardare) pazientemente per percepirne le vibrazioni di un pathos antico. Per Didi-Huberman, quel drappo al suolo riflette metaforicamente l’immagine attualizzata, moderna (decaduta) degli accessori in movimento, dei drappi – un tempo svolazzanti – della ninfa tanto cara a Warburg. Incarna l’inattualità senza tempo delle survivances, di un tempo anacronistico che non è il tempo dell’attualità storica o artistica, ma quello dell’intimità della modernità con la memoria, con il passato. Quello straccio è l’immagine di un presente in cui “les dieux sont au chômage, les ménades sont ‘en cheveux’”. Le drap est tombé.
Immagini-survivances, quindi. Le immagini sono lembi di survivance. Strappate all’inferno del presente, schiudono ai nostri occhi degli istanti di verità. Bisogna saper guardare anche lì, in quelle fessure, dove fa male. Saper guardare l’orrore. Saper guardare anche le immagini – le uniche drammatiche survivantes – tramandate nelle quattro fotografie scattate clandestinamente durante la Soluzione finale nell’agosto 1944 ad Auschwitz, per testimoniare l’orrore dell’Olocausto, rendere visibile l’invisibile, credibile ciò che a parole non lo sarebbe stato (Images malgré tout). Quei quattro scatti strappati all’oblio sono una testimonianza, una forma ultima di resistenza contro la distruzione – fisica e perpetrata contro ogni forma di memoria – messa in atto dalla barbarie nazista. Immagini malgré tout. “Un semplice rettangolo di 35mm anche strisciato a morte salva l’onore di tutto il reale” (Jean-Luc Godard).
Anonimo (membro del Sonderkommando d’Auschwitz), Donne spinte verso la camera a gas del crematorio di Auschwitz, agosto 1944. Oswiecim, Museo di Stato d’Auschwitz-Birkenau (negativo n. 283)
Sono immagini clandestine, scattate in una situazione di pericolo estremo, in fretta. L’ultima fotografia non è inquadrata. Il risultato è quasi astratto. Controsole, l’immagine è sovraesposta, bruciata. Si intravedono solo le cime di alcune betulle. Il soggetto – l’orrore, lo sterminio, l’evidenza del massacro – rimane fuori dalla cornice. La storia, di conseguenza, sembra rimanere fuori. Solo in apparenza, però. Anche – e forse proprio – in questa fotografia in apparenza non riuscita, che pare avere un minor valore di testimonianza, è invece impresso un senso più profondo, un senso di urgenza che fa intimamente parte di quella storia. Restituisce l’immagine dell’urgenza stessa del ‘salvare’ la storia: proprio nell’assenza accidentale del ‘soggetto’ essa narra il rischio occorso, la corsa, la fretta, la difficoltà dei movimenti, l’impossibilità del gesto di mirare. È un’immagine à bout de souffle. In cui l’emergenza del gesto, la sua drammatica necessità e la volontà di strappare un pezzo di survivance dall’inferno si imprimono con violenza. Per ricordare e rendere visibile, testimoniare. Per far sapere.
L’immagine è déchirure, apertura, sintomo. L’immagine è survivance capace di illuminare il presente, facendosi portatrice di memoria. Le immagini sono fonte di sapere. “Pour savoir il faut s’imaginer”, scrive Didi-Huberman. Essenziale è ‘riabilitare’ l’immaginazione, ristabilirla in un percorso di conoscenza. Citando Baudelaire, riformula il concetto di ‘immaginazione’: l’immaginazione non è la fantasia e nemmeno la sensibilità; l’immaginazione è la facoltà che percepisce “il rapporto intimo e segreto delle cose, le corrispondenze e le analogie”. Immaginare per sapere (L’œil de l’histoire, I: Quand les images prennent position). Le immagini però non sono innocenti. Decidere di dedicarsi alla storia dell’arte è una scelta dettata spesso da un desiderio, più o meno inconscio, di proteggersi, di ritagliarsi un mondo fatto di bellezza, autosufficiente, fuori dalla storia. Fare storia dell’arte per evitare la Storia. Ma le immagini non sono mai innocenti. Come formulato nella condanna pronunciata ne La sequenza del fiore di carta di Pasolini: “l’innocenza è una colpa”. E nemmeno la storia dell’arte ha più il diritto di essere innocente (si veda, a tale proposito, la conferenza Quand les images prennent position, tenuta presso il Centre Pompidou nel maggio 2009). “Nel nostro modo di immaginare c’è la condizione per il nostro fare politico” (La survivance des lucioles). L’immaginazione è infatti politica. “Organizzare il pessimismo”, secondo l’espressione di Benjamin, significa proprio per Didi-Huberman scoprire uno spazio di immagini. È nei momenti di catastrofe, come nel drammatico presente italiano, che si devono aguzzare ancora di più i sensi e la vista per poter riconoscere i bagliori intermittenti delle lucciole – delle survivances –, le clandestinità, le risorse inaspettate. Le immagini sono lucciole. L’immagine, nella sua fragilità, nella sua intermittenza di lucciola assume questo potere ogniqualvolta ci dimostra la sua capacità di riapparire, di sopravvivere. È nei momenti in cui la speranza si fa più debole che si deve ritrovare la gioia del movimento, il desiderio dell’agire. Farsi portatori di immagini, e quindi di un dissenso. Diventare lucciole, resistere. Farsi luce, per quanto piccola e seppur fugace, per il presente. Immagini malgré tout. Lucciole.
Bibliografia di riferimento
Georges Didi-Huberman, Fra Angelico. Dissemblance et figuration, Flammarion, Paris 1990; tr. it. Beato Angelico, Leonardo, Milano 1991 e Fra’ Angelico. Figure del dissimile, Abscondita, Milano 2009
Georges Didi-Huberman, Devant l’image. Questions posées aux fins d'une histoire de l'art, Minuit, Paris 1990
Georges Didi-Huberman, Devant le temps, Minuit, Paris 2000; tr. it. Storia dell’arte e anacronismo delle immagini, Bollati Boringhieri, Torino 2007
Georges Didi-Huberman, L’Image survivante, Minuit, Paris 2002; tr. it. L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell’arte, Bollati Boringhieri, Torino 2006
Georges Didi-Huberman, Ninfa moderna. Essai sur le drapé tombé, Gallimard, Paris 2002; tr. it. Ninfa moderna. Saggio sul panneggio caduto, Il Saggiatore, Milano 2004
Georges Didi-Huberman, Images malgré tout, Minuit, Paris 2004; tr. it. Immagini malgrado tutto, Raffaello Cortina, Milano 2005
Georges Didi-Huberman, L'Image ouverte. Motifs de l'incarnation dans les arts visuels, Gallimard, Paris 2007; tr. it. L’immagine aperta. Motivi dell’incarnazione nelle arti visive, Bruno Mondadori, Milano 2008
Georges Didi-Huberman, L'Œil de l'histoire, I. Quand les images prennent position, Minuit, Paris 2009
Georges Didi-Huberman, La Survivance des lucioles, Minuit, Paris 2009; tr. it. Come le lucciole. Una politica delle sopravvivenze, Bollati Boringhieri, Torino 2010