"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

213 | giugno 2024

97888948401

Genere, gioco e architettura

Viaggio nelle case dei sogni di Barbie

Giuseppina Scavuzzo

English abstract

1 | La casa dei sogni di Barbie del 1962, fotografata da Evelyn Pustka per PIN–UP, 2022.

Architettura, giocattoli e stereotipi

L’architettura, come molte discipline contemporanee, è scarsamente rappresentata nei programmi scolastici pre-universitari. Così la sensibilità allo spazio – e le sue implicazioni estetiche, funzionali e simboliche – si sviluppano attraverso altre esperienze, una delle quali è il gioco. Diversi studi hanno dimostrato il legame tra i giocattoli, specialmente quelli di costruzione, e il modo in cui il linguaggio architettonico si modifica e si evolve. I giocattoli influenzerebbero non solo il mondo formale dell’architettura, ma anche le logiche costruttive e compositive che ne sono alla base (Vale, Vale 2013).

I Gender Studies, d’altra parte, attribuiscono ai giochi rilevanza nella costruzione dell’identità e dei comportamenti sociali, tra i quali la scelta della professione. Gli stereotipi di genere, che conformano molti giocattoli, destinano ai maschi modelli connotati da dinamismo, azione, tecnologia e manualità. Le occupazioni suggerite alle femmine riguardano, invece, la cura di sé e degli altri, stimolano abilità comunicative mentre tendenzialmente inibiscono quelle tecniche. Rispetto al costruito e soprattutto allo spazio della casa, viene proposto loro un ruolo di cura piuttosto che creativo. Gli stereotipi non determinano solo il tipo di giocattoli destinati a maschi e femmine, ma connotano anche giocattoli che potrebbero essere gender free, come i giochi di costruzione, che più influenzano le capacità estetico spaziali. Solo dopo anni di critiche e campagne contro gli stereotipi di genere, la LEGO ha superato la distinzione in costruzioni per maschi e per femmine, introdotta a separare per genere i famosi mattoncini che, fino agli anni ’70, erano unisex.

È lecito domandarsi se, oltre a influire sulla scelta della professione di architetto – su cui si tornerà più avanti – i giochi che incidono sulla percezione dello spazio e la sua elaborazione tendano a determinare una sensibilità per l’architettura differenziata per genere. Un giocattolo legato all’abitare e all’architettura, destinato da sempre prevalentemente alle bambine, è la casa di bambola.

La doll’s house raggiunge il suo maggior successo in epoca vittoriana e ha il suo punto più alto nella casa delle bambole della regina Maria d’Inghilterra, progettata nel 1924 dall’architetto Edwin Lutyens. La doll’s house reale è emblematica della funzione pedagogica della casa di bambola, che insegna a governare e a rigovernare, a seconda dello status sociale, materializzando quanto Roland Barthes critica nel giocattolo imborghesito: il suo riprodurre “un microcosmo adulto, interamente socializzato” costituito “dai miti o dalle tecniche della vita moderna adulta”. Riferendosi, tra gli altri, ai giocattoli che preparano la bambina “alla causalità domestica”, Barthes formula la definizione di “oggetti fedeli, rispetto ai quali il bambino può costituirsi esclusivamente in funzione di proprietario, di utente, mai di creatore; non inventa un mondo, lo utilizza” (Barthes [1970] 1974, 51). Il prefigurare l’universo delle funzioni adulte induce il bambino ad accettarle tutte, depotenziando sia la funzione dissacrante del gioco, cui si sono riferiti in molti che qui è impossibile citare, che la straordinaria “capacità teorica” dei bambini (hooks [1994] 2020, 93) non ancora educati ad accettare le pratiche sociali abituali come ‘naturali’ e aperti a interrogare tali pratiche chiedendo instancabilmente il senso e la ragione di ogni cosa.

La casa di bambole, diorama della vita domestica, è indicativa dell’idea di abitare e di relazione, più o meno creativa, tra abitante e casa, compresi i ruoli di genere, cui bambine e bambini vengono preparati. Non è un caso se il dramma che descrive un difficile processo di autodeterminazione femminile, Casa di bambola di Henrik Ibsen, assumesse questo oggetto come metafora dell’infantilizzazione imposta alla donna dal maschilismo ottocentesco.

Si prenderà qui in esame la casa di una bambola, Barbie, che fin dalla sua comparsa incarna “i miti della vita moderna adulta” citati da Roland Barthes. La maggiore novità di cui Barbie è portatrice, rispetto alle bambole prodotte fino ad allora, risiede proprio nell’essere una bambola adulta, che dal momento della sua comparsa anima discussioni sull’immagine femminile che riflette e veicola, sugli stereotipi che ha contribuito a costruire e che oggi sembrerebbe voler abbattere.

In a Barbie world

La bambola Barbie, nata dalla collaborazione tra Ruth ed Elliot Handler e Harold Matt Matson, viene presentata per la prima volta il 9 marzo 1959 alla fiera del giocattolo di New York. Da allora è divenuta uno dei giocattoli più famosi del mondo e tra i prodotti di design più longevi di tutti i tempi. Ogni secondo si vendono nel mondo tre bambole Barbie, malgrado la concorrenza abbia determinato anche momenti di crisi.

Prima che l’uscita del film Barbie, nel 2023, riportasse la bambola al centro del dibattito mediatico, era stata la sua architettura a essere protagonista di un’operazione editoriale, promossa dalla stessa Mattel e dalla rivista di architettura “PIN–UP. The Magazine for Architectural Entertainment” con il libro Barbie Dreamhouse. An Architectural Survey, a cura di Felix Burrichter, Whitney Mallett, Ben Ganz. Il volume si focalizza sulla Casa dei sogni – prima e più rappresentativa tra le proprietà nel portafoglio immobiliare della fashion doll, prodotta in diverse edizioni dal 1962 al 2021 – sottoponendola a un’indagine architettonica con dettagliati rilievi e fotografie originali realizzate da Evelyn Pustka.

2 | Barbie analizzate con prelievo di campioni. F. Tamburrino, M. De Vincentiis, R. Aversa, A. Apicella, Analysis of the Barbie Case Study: Social, Material and Technological Evolution Related to the Development of the Product, ATINER’S Conference Paper Series, No: ARC2015-1891, Athens 2016.

Questa esplorazione architettonica – seppure orientata a celebrare l’unicità della bambola Mattel, eludendo prospettive critiche che qui, invece, si cercherà di sondare – colma un vuoto nell’ampio campo di studi che ha considerato ogni aspetto, antropologico, commerciale, tecnologico, del fenomeno Barbie. Gli studi, finora, si sono concentrati soprattutto sul corpo della bambola, sull’evoluzione delle sue forme, dei giunti tra le parti, della materia che lo costituisce – dal polivinilcloruro plastificato dei primi modelli al polietilene vinil acetato utilizzato oggi – e sulle interconnessioni tra corpo e cambiamenti della società (Tamburrino, De Vincentiis, Aversa 2016) [Fig. 2]. Mentre, infatti, il primo modello commercializzato presenta un busto scolpito in un unico blocco, la Barbie Twist and Turn, del 1966, presenta un incastro che permette di ruotare la parte inferiore e ballare il twist, magari indossando le minigonne alla Mary Quant. Nel 2000, con Barbie Belly Button, viene introdotto un addome in gomma siliconica, per rispondere all’attenzione crescente nella moda a scoprire questa parte del corpo. Così, per datare una Barbie, si potrebbe analizzarne il ventre, come si fa per i crocifissi lignei del Duecento individuando la presenza o meno dell’addome tripartito.

Diversi studi antropologici hanno analizzato le mise della bambola, espressione delle sue attività di svago e professionali. Prima bambola adulta, come si è detto, viene venduta dentro una scatola illustrata con disegni di moda, lasciando presumere un lavoro da modella. Il suo guardaroba è concepito come uno strumento didattico, utile a insegnare alle ragazze della classe media americana a vestirsi nelle varie occasioni, accostando i giusti accessori (Pearson, Mullis 1999). Solo più tardi saranno proposti modelli di Barbie con abiti e accessori specifici per far acquistare ai consumatori molti più tipi distinti e stilisticamente individuati invece di una sola bambola con diversi abiti da alternare, secondo una riuscitissima strategia commerciale.

La bambola viene proposta, dunque, come un modello di gestione della propria immagine, secondo un progetto di agency apparentemente ‘emancipativo’, tuttavia, come vedremo, teso a determinare la forma di vita stessa come manifestazione del consumo, come soggettività di consumo. In ogni caso, Barbie con il suo corpo adulto agisce nel mondo come una donna adulta, ruolo sociale possibile per le bambine che ne fanno esperienza di gioco, a differenza del bambolotto con cui imparano a prendersi cura di qualcun altro, di altri corpi da accudire: passaggio esaltato dalle scene iniziali del film di Greta Gerwig che rimandano, in forma parodica, all’incipit di 2001 Odissea nello Spazio, citando l’apparizione del monolite. Qui a comparire è il profilo del corpo di Barbie, nuovo modello di bambola e di donna, di fronte al quale un gruppo di bambine, impegnate con i tradizionali giochi mimetici di attività domestiche e di cura, interrompono il gioco e iniziano a fare a pezzi i bambolotti, lanciandoli per aria in un gesto liberatorio che suggerisce l’avvio di un nuovo corso, subito rivelato dalla scena successiva che mostra dall’alto la città di Barbieland.

Il rapporto di Barbie con le attività domestiche e di cura, dunque il suo grado di domesticità, presentato come un indicatore dell’emancipazione femminile, in realtà varia nel corso della sua storia. Pur non essendo concepita come giocattolo protofemminista, Barbie fornisce, alla sua nascita, un’immagine relativamente emancipata delle possibilità sociali e lavorative delle donne come riflesso delle sue creatrici, Ruth Handler e Charlotte Johnson, prima stilista di Barbie, entrambe donne in carriera, che concepiscono Barbie a propria immagine. Si racconta che l’offerta di una ditta di aspirapolveri di produrre un apparecchio delle dimensioni della bambola venga respinto da Handler in quanto “Barbie non si dedica a lavori domestici pesanti” (Pearson, Mullis 1999), presumibilmente, perché, come Ruth Handler, può pagare qualcuno per farli per lei.

Mattel ha sempre cercato di evitare accenni di sociopolitica e la cultura materiale di Barbie degli anni ’60 riflette la volontà di presentare una vasta gamma di possibilità, sia domestiche che di carriera, evitando di assumere una posizione nel dibattito sul cambiamento dei ruoli sociali e lavorativi delle donne. Tuttavia, Barbie diviene oggetto di discorsi politicizzati, specie negli anni ’70 quando, nelle manifestazioni femministe per l’uguaglianza, sfilano cartelli con scritto “I am not a Barbie doll!”. Per smorzare questi sentimenti di avversione, in quegli anni Mattel rifocalizza le opzioni di gioco sulla moda. Negli anni ’80, invece, l’azienda fa prevalere una domesticità più conservatrice, connessa con l’ascesa, in USA, della destra evangelica e la vittoria presidenziale di Ronald Reagan del 1980. Nel 1984, viene prodotta una ‘Cucina dei Sogni’ di Barbie, completa di forno, lavello, frigorifero e compattatore per rifiuti.

In anni più recenti, si delinea una figura più complessa, costantemente in bilico tra il ruolo di icona di bellezza femminile e i tentativi di adeguarsi alle aspettative di emancipazione e indipendenza delle donne. La relazione ambigua con le attività domestiche, utilizzate per controbilanciare le spinte più emancipative o per assecondarle, è indicativa di un preciso modello culturale. Una delle critiche dell’attivismo femminista nero al femminismo borghese è l’avere insistito sulla liberazione dalle attività di cura, anche domestiche, svalutando queste attività e destinandole ad altre donne di ceto sociale più basso o di altre etnie, come sostenuto da molti autori (tra gli altri, hooks [1990] 2020). La Casa dei sogni è uno strumento utile a comprendere come queste tensioni si materializzino nello spazio domestico, quale idea di architettura della casa e quale “buon abitare”, per citare Iñaki Ábalos (Ábalos [2000] 2009), venga proposto alle bambine.

Le sei case dei sogni

Il volume Barbie Dreamhouse. An Architectural Survey offre la possibilità di cogliere i mutamenti nell’ideologia domestica di Barbie nel loro contesto costruito, interrelandoli con l’immaginario architettonico che di volta in volta fa da riferimento per le diverse ‘Case dei Sogni’. Le immagini del libro mostrano le piccole architetture giocattolo in modo molto diverso dalle campagne pubblicitarie, dove vediamo anche delle bambine che giocano. Qui, invece, non compaiono bambini né le abitanti delle case, le Barbie. Case e arredi sono isolati su fondi neutri e in questa decontestualizzazione appaiono improvvisamente più veri. La presenza dei bambini, infatti, rivela subito la natura di giocattolo e il suo essere fuori scala. Lo stesso effetto provoca la presenza delle Barbie, per cui la casa è sempre leggermente troppo piccola, con la testa della bambola che quasi sfiora il soffitto.

Isolate, le case e i loro arredi incarnano la perfetta miniatura cui Gaston Bachelard dedica un capitolo del suo La poetica dello spazio: la miniatura condensa la “rêverie dei sognatori nati” per cui “io possiedo il mondo quanta maggiore è la mia abilità di miniaturizzarlo” (Bachelard [1957] 2006, 181-215). Così queste miniature di case, al pari delle miniature letterarie descritte dal filosofo, consentono l’accesso a un mondo complesso di rimandi storici e architettonici.

L’intervista alla storica Beatriz Colomina, che apre la ricognizione sulle sei Dreamhouse, rappresenta il tentativo di collocare il testo nell’ambito di quegli studi condotti sull’immaginario architettonico muovendo da fenomeni mediatici o commerciali, istituendo un parallelo con la celebre ricerca della storica ispano-americana sulla cultura architettonica proposta e divulgata dalla rivista “Playboy” (Colomina, Avilés 2016).

La prima casa di Barbie viene prodotta tre anni dopo la nascita della bambola, nel 1962. A differenza dalle case successive, è in cartone, pieghevole, con pareti gialle e senza la predominanza del rosa che poi diverrà distintiva di tutto quanto circonda la bambola Mattel [Fig. 1]. Questa prima dimora sembra incarnare la carica rivoluzionaria del giocattolo Barbie celebrata dalle prime scene del film di Greta Gerwig.

3 | Charles and Ray Eames, Revell Toy House Model, 1959.

La prima Dreamhouse costituisce effettivamente una novità radicale rispetto alle tradizionali doll’s house in cui ampio spazio era dedicato a quanto utile al buon funzionamento della dimora, con particolare attenzione alle cucine, alla loro attrezzatura, da rimettere in ordine ed esporre ordinatamente su mensole e credenze. Nella prima casa di Barbie, la cucina non c’è affatto e ai muri, invece delle forme in rame per dolci, sono appesi i gagliardetti del college. L’unico letto presente fa di questa la prima doll’s house per una donna single. La casa sembra una scena teatrale o – come sottolinea Beatriz Colomina – il set di una delle serie televisive che in quegli anni cominciano ad avere come protagonista una donna single. Torna in mente anche la Villa E-1027, progettata nel 1926 da Eileen Gray, un precedente importante di casa costruita intorno alla cura e al piacere del corpo femminile e che presenta, come la prima Dreamhouse, un letto nel soggiorno. I materiali e i colori della prima Dreamhouse ricordano, soprattutto, la casa giocattolo progettata da Charles e Ray Eames per l’azienda di giocattoli Revell nel 1959, anno di nascita di Barbie. La Revell Toy House [Fig. 3], mai messa in produzione, è costituita da quattro stanze che possono essere accostate in piano o sovrapposte, introducendo, nella rigidità delle doll’s house, una possibilità creativa e combinatoria, caratteristica degli altri, diversi, giocattoli progettati dagli Eames. La Toy House – più che doll’s house, al suo interno non compaiono bambole – sembra la miniatura della casa dei due architetti, costruita nel 1949 e nota come Eames House o Case Study House n. 8. La casa, infatti, è una delle circa due dozzine di case costruite nell’ambito del programma Case Study House avviato, tra la metà degli anni ’40 e la metà degli anni ’60, da John Entenza, editore della rivista “Arts & Architecture”. Si trattava di sperimentazioni di architettura residenziale e al tempo stesso di esemplari dimostrativi per illustrare agli utenti, attraverso vere case in scala 1:1, le qualità della nuova architettura moderna americana.

Nel suo Il buon abitare, Iñaki Ábalos inserisce la casa degli Eames e le altre Case Study Houses nel capitolo dedicato alla “casa del pragmatismo” (Ábalos [2000] 2009, 181-217) nella cui genealogia colloca l’azione di un gruppo di femministe americane che, a metà Ottocento, iniziano a problematizzare la casa come luogo di schiavitù della donna, rivendicando il diritto alla remunerazione per i lavori domestici e mettendo in discussione l’organizzazione spaziale della casa. In testi come The American women’s home, scritto nel 1869, dalle sorelle Catharine e Harriet Beecher – la prima educatrice, promotrice di un egualitario accesso all’istruzione per le donne, la seconda scrittrice, autrice del romanzo La capanna dello zio Tom e attivista della causa abolizionista – la battaglia per la professionalizzazione del lavoro domestico passa attraverso l’elaborazione di un prototipo di casa efficiente che muove dalla casa vittoriana borghese alterandone gli schemi e concentrando impianti e servizi nel cuore dell’edificio (Beecher, Beecher [1869] 2002). Secondo lo storico Reyner Banham, il nucleo centrale di servizi introdotto dalle sorelle Beecher per facilitare la manutenzione e la gestione della casa, costituisce un’anticipazione dell’essenzialità dell’organizzazione funzionale della Dymaxion House di Buckminster Fuller (Banham [1969] 1978, 96) e, secondo Ábalos, avrebbe influenzato anche gli schemi tecnologici e spaziali adottati da Frank Lloyd Wright.

La prima dreamhouse, probabilmente nell’inconsapevolezza di questi precedenti genealogici, rappresenta comunque la reimmaginazione del mondo domestico di una donna.

4 | La casa dei sogni di Barbie del 1974 fotografata da Evelyn Pustka per PIN–UP, 2022.

La seconda ‘Casa dei Sogni’, del 1974, si avvicina al modello della doll’s house tradizionale sviluppandosi su tre livelli, con fondali che raffigurano i diversi ambienti, tra cui fa la sua comparsa anche la cucina, evocata dalle immagini sullo sfondo ma senza la presenza di arredi specifici [Fig. 4]. Se l’immaginario domestico è più tradizionale, c’è, rispetto alle tipiche case di bambola, un’inedita attenzione costruttiva, con i pilastri a vista infilati in basi che sembrano invitare allo smontaggio e rimontaggio di una struttura a telaio che richiama la Maison Dom-ino di Le Corbusier – sistema costruttivo e manifesto dell’estetica moderna il cui nome deriva dall’unione dei termini domus e innovazione ma allude anche a un classico gioco da tavolo. Gli arredi della seconda ‘Casa dei Sogni’ sono ispirati a pezzi iconici del design, dalle sedie di Marcel Breuer a quelle di Verner Panton, e anche qui il letto è singolo.

La terza dreamhouse, del 1979 [Fig. 5], con il suo grande tetto a falde, ricorda il tipo del cottage A-frame americano e il Sea Ranch Style, lo stile dal carattere utopico e ottimista della comunità di Sea Ranch, fondata negli anni ’60 a nord di San Francisco dall’architetto e urbanista Al Boeke con un team creativo composto, tra gli altri, dagli architetti Joseph Esherick e Charles Moore, il paesaggista Lawrence Halprin e la designer grafica Barbara Stauffacher Solomon.

I grandi lucernari sul tetto, le porte scorrevoli e le tante fioriere della dreamhouse suggeriscono la continuità tra interno ed esterno che è una caratteristica delle case immerse nella natura a Sea Ranch. Anche i colori vivaci, con prevalenza di giallo e arancio, ricordano la grafica gioiosa di Stauffacher Solomon negli interni delle case e degli spazi comuni del complesso californiano. L’influenza tra questa architettura e il mondo dei giocattoli, sembra reciproca. Nella Halprin Cabin, la casa di Lawrence e Anna Halprin al Sea Ranch, infatti, Charles Moore progetterà e realizzerà personalmente, nei primi anni ’80, una sorta di casa giocattolo colorata che si intreccia ai vari piani della casa ‘vera’, a metà tra un mobile e una scultura, nelle cui nicchie, simili a piccole edicole, porte e finestre, sono esposti tamburi, trottole e altri giochi colorati [Fig. 6].

5 | La casa dei sogni di Barbie del 1979 fotografata da Evelyn Pustka per PIN–UP, 2022.
6 | Charles Moore, interno della Halprin Cabin al Sea Ranch, 1983.

La quarta casa, del 1990, segna un radicale cambiamento nella sensibilità estetica delle dreamhouse. Sono gli anni in cui si afferma l’associazione globale della fashion doll con uno specifico colore, il Pantone 219C o Barbie Pink, una precisa e vibrante tonalità di rosa magenta. La casa assume un aspetto zuccheroso: dai colori vivaci e gli arredi di design delle case precedenti si passa ai colori pastello delle carte da parati a fiori, agli arredi total pink e alla sovrapposizione eclettica di elementi architettonici quali colonne doriche e finestre a bovindo in stile Tudor. Un’intera stanza è dedicata al bagno, con le luci intorno allo specchio come nel camerino di un teatro, dimostrando quanto la cura del corpo e della propria immagine sia una fondamentale occupazione della padrona di casa [Fig. 7].

Un carattere ancora più conservatore domina la quinta ‘Casa dei Sogni’, del 2000, una sorta di castelletto con letto a baldacchino e un accenno di strutture lignee a vista, tutto in una palette che va dal rosa al violetto. Qui compaiono, per la prima volta nella dreamhouse, gli arredi di una cucina, con tanto di forno apribile, ovviamente rosa [Fig. 8].

Sotto l’influenza delle molte battaglie contro gli stereotipi di genere nei giocattoli e contro l’abuso del rosa – come le campagne inglesi Pinkstinks, del 2008, e Let toys be toys, nata nel 2012 e ancora attiva – l’ultima dreamhouse, del 2021, abbandona la vena romantica delle case precedenti e cerca di andare incontro all’accresciuta sensibilità verso l’inclusione e la sostenibilità. La casa, grazie a un ascensore adeguatamente dimensionato – la seconda dreamhouse presentava un piccolo ascensore appena sufficiente per l’esile padrona di casa – è la prima a essere accessibile agli amici di Barbie su sedia a rotelle. Questi personaggi, introdotti già dal 1997, erano finora rimasti fuori dalla dreamhouse.

L’ultima ‘Casa dei Sogni’ è, soprattutto, una “casa dei divertimenti” ispirata all’affermarsi dell’experience economy e al mondo dei social media attraverso cui condividere ogni divertimento quotidiano. Ambienti e oggetti di questa fun house sono versatili e trasformabili per passare da una forma d’intrattenimento a un’altra, come il barbecue che si trasforma in un buffet di dolci o la piscina mobile cui si arriva attraverso uno scivolo agganciabile in più punti, a scelta, del solaio del primo piano, fino al tetto giardino che diviene discoteca con consolle per DJ [Fig. 9].

7 | La casa dei sogni di Barbie del 1990 fotografata da Evelyn Pustka per PIN–UP, 2022.
8 | La casa dei sogni di Barbie del 2000 fotografata da Evelyn Pustka per PIN–UP, 2022.
9 | La casa dei sogni di Barbie del 2021 fotografata da Evelyn Pustka per PIN–UP, 2022. 

L’uso della plastica trasparente colorata in alcuni elementi della casa sembra riflettere la profusione contemporanea di facciate in vetro colorato. Architetture che sembrano realizzate, a loro volta, con i moduli colorati di giochi come Playplax, prodotto nella seconda metà degli anni ’60, costituito da tessere piane o curve in polistirene trasparente e colorato, assemblabili a incastro. Al tempo si stentava a considerarlo un gioco di costruzioni, tanto appariva lontano dall’orizzonte degli edifici realizzabili (Vale, Vale 2013, 164). Oggi plexiglass, metacrilato e vetro colorato segnano, invece, una tendenza diffusa.

10 | MVRDV con The Why Factory, Tetris Hotel, Eindhoven, 2017.

In questo contesto, l’architettura più vicina alla sesta ‘Casa dei Sogni’ è il Tetris Hotel, progettato dallo studio olandese MVRDV nel 2017 [Fig. 10]. Se Le Corbusier assume come modello di tecnica combinatoria un gioco da tavolo, il domino, qui diversi moduli colorati, corrispondenti ad altrettante stanze, si incastrano tra loro come gli elementi del famoso videogioco degli anni ’80. Il prototipo del Tetris Hotel realizzato a Eindhoven ricorda molto una doll’s house, con la sua facciata-sezione in cui vediamo gli abitanti impegnati in diverse attività domestiche. Con i suoi colori vicini al Barbie pink potrebbe essere una perfetta dreamhouse se non fosse troppo coraggioso e innovativo, proiettato, seppur giocosamente, a segnalare un futuro in cui la richiesta di alloggi sarà sempre più insistente, l’offerta di abitazioni più carente, e si dovranno trovare modi nuovi e creativi di co-abitare.

La casa di Barbie evoca modelli contemporanei ma li addomestica, riportandoli a un immaginario di prossimità a immaginari più consueti. Il retro della ‘Casa dei Sogni’ è molto più ordinario e rassicurante, ricordando una casetta monofamiliare con intonaco bianco e comuni finestre dai serramenti scuri.

Barbie o del perturbante?

Nel film Barbie, la protagonista vive in un quartiere composto da dreamhouse dell’ultimo tipo. Isolata ai margini di Barbieland, compare invece un’altra casa, quella di Weird Barbie o la Barbie Stramba, vittima delle trasformazioni e mutilazioni che le bambine spesso infliggono alle bambole e per questo più capace di comprendere il mondo degli umani in cui la Barbie protagonista sta per recarsi. La casa di questo personaggio [Fig. 11], suo malgrado trasgressivo, emarginato perché non conforme ai canoni delle Barbie, è una citazione evidente della casa di Norman Bates in Psyco. Una casa che, nell’immaginario cinematografico, è tra i più emblematici casi di architettura perturbante, in cui ciò che è familiare e rassicurante si ribella e diviene una minaccia, come spiega Anthony Vidler nel suo Il perturbante dell’architettura (Vidler [1992] 2006). Il fatto che, in un film il cui messaggio dichiarato è che ciascuno possa essere qualsiasi cosa desideri, la diversità di Barbie Stramba sia accostata a uno dei più celebri maniaci della storia del cinema, spinge a cercare ragioni profonde per questa scelta.

11 | La casa del personaggio Barbie Stramba nel film Barbie, Greta Gerwig, 114 min, Stati Uniti d’America, Regno Unito, 2023.

Barbie è stata oggetto di molte critiche per l’immagine corporea distorta e irraggiungibile che le bambine rischiano di interiorizzare come forma corporea ideale. Alcune ricerche hanno osservato che le bambine più grandi tendono a mutilare e sfigurare Barbie in quello che potrebbe essere un rito di passaggio e di separazione da un giocattolo dell’infanzia, ma che può essere interpretato anche come un rifiuto del corpo di Barbie e del modello che impone (Matthewson 2002).

Barbie Stramba, oggetto di queste pratiche, rappresenterebbe, allora, non solo la diversità ma il rifiuto del corpo normato, l’esito di un residuo resistente della capacità teorica e critica dei bambini. Barbie Stramba costituisce allora una minaccia che motiva l’architettura perturbante che le è destinata.

La lunga storia di Barbie dimostra, tuttavia, la sua resilienza a ogni forma di critica: qualunque giudizio o biasimo viene prontamente introiettato, accolto e sublimato per essere reimmesso sul mercato, alimentando nuove possibilità di consumo. La Weird Barbie del film, infatti, diventerà presto una ‘vera bambola’, la cui vendita in edizione limitata è stata annunciata da Mattel a seguito del successo del film.

La storia delle ‘Case dei Sogni’, dell’alternarsi di diversi modelli di abitare e di domesticità, fino alla vicenda della Barbie antagonista e della sua casa perturbante, sembrano trovare un’interpretazione negli aforismi del libro Elementi per una teoria della Jeune-Fille, del collettivo Tiqqun (Tiqqun [2001] 2003). Il fallimento di un certo tipo di femminismo, che il testo evidenzia, può essere letto nella casa di Barbie come quell’indissolubile “mescola di liberazione e asservimento capitalista” visto finora, che emancipa solo apparentemente. Nei termini di Tiqqun: “La funzione della Jeune Fille consiste nel trasformare la promessa di libertà contenuta nel compimento della civiltà occidentale in surplus di alienazione, in approfondimento dell’ordine mercantile, in nuova servitù, in statu quo politico” (Tiqqun [2001] 2003, 113). Così Barbie libera le bambine da bambolotti, cucine, assi da stiro, che impongono il ruolo di angelo del focolare, per renderle più malleabili ad altre forme di controllo, più sottili.

In questa luce, la dreamhouse si conferma un giocattolo conservatore, riproducendo la funzione della casa di bambola di educare alla gestione, seppur di un modello di vita diverso, e non alla libertà di inventare nuovi e alternativi modelli di vita e di spazio. Le insidie rappresentate da questa architettura giocattolo riflettono le insidie e le ansie predittive dell’architettura nel suo imporre modelli, nel funzionare ortopedicamente formando a un modo di muoversi, vivere, consumare.

Per fortuna non tutti possiedono le case dei sogni e così possono sognarne altre. La stessa curatrice del libro sulle Barbie Dreamhouse racconta di non averne mai posseduta una e di avere costruito la propria casa per la bambola utilizzando le librerie Ikea, praticando un atto libero e creativo di bricolage. La Barbie del film intenderebbe insegnare a bambine e bambini che possono essere ciò che vogliono, dunque anche architette e architetti. Tuttavia lo spazio architettonico delle Dreamhouse è esso stesso una forma modellizzante e normativa almeno quanto il corpo della Barbie. L’atto critico conseguente, ai fini della formazione di una sensibilità architettonica libera – anche dagli stereotipi di genere – dovrebbe coerentemente procedere oltre la sovversione e trasfigurazione del corpo polivinilico e perfetto della Barbie, rivoluzionando anche il corpo delle sue case, ripetendo il gesto liberatorio compiuto dalle bambine sui bambolotti nell’incipit del film, oltre che sulla stessa Barbie, anche sulla sua casa dei sogni.

Se lo stereotipo esplode?

La carriera di architetto è stata inserita tra le possibilità professionali della bambola Mattel: Architect Barbie viene lanciata nel 2011, con l’approvazione dall’American Institute of Architects, nella linea “I Can Be...” progettata per illustrare alle ragazze diverse scelte professionali. La serie era iniziata nel 2001 con un concorso che invitava il pubblico a esprimersi sulla prossima carriera che Barbie avrebbe intrapreso. La professione di architetto era stata la più votata ma alla Mattel pensavano che l’architettura fosse troppo complessa da comprendere per le bambine. Solo otto anni dopo Mattel si decide a produrre Architect Barbie, subito contestatissima per il suo outfit – tipicamente teso a mediare tra rosa iconico e elementi rassicuranti per genitori acquirenti – giudicato lontano dall’eleganza creativa delle architette come dalle esigenze di comodità legate a sopralluoghi e visite in cantiere.

L’anno successivo, la rivista inglese “The Architect’s Journal” dedica un numero alla condizione delle donne in Architettura (Murray 2012a) inserendo in copertina una Barbie architetta, diversa da quella Mattel, vestita di nero, senza alcun dettaglio rosa, con un accessorio stola che ricorda un Nastro di Möbius [Fig. 12].

12 | Copertina di “Architect’s Journal” del 12 gennaio 2012.
13 | Zaha Hadid, Baghdad, Iraq, anni ’50.

Rifiutando la Barbie prodotta da Mattel, anche “The Architect’s Journal” ha manipolato la sua Barbie, nel tentativo dichiarato di “far esplodere lo stereotipo” (Murray 2012b) utilizzando la popolarità della bambola più discussa del mondo per richiamare l’attenzione sulle architette in carne e ossa e sulle vere questioni di genere nel settore. Il problema non è attirare le donne verso l’architettura, come suggerito da Mattel e dall’American Institute of Architects con l’operazione Architect Barbie – da decenni le donne rappresentano il 40-50% dei laureati in architettura – ma i guadagni delle architette più bassi di quelli dei colleghi maschi e l’importante percentuale di donne che abbandona la professione.

Se i giocattoli sono strumenti serissimi e fondamentali per allenare e ampliare la visione del mondo e dello spazio, e se è dimostrato che gli stereotipi di genere trovano nei giocattoli, e nella loro architettura, un potente mezzo per perpetuarsi, è anche vero che ogni gioco sembra contenere gli anticorpi per resistere e riconfermare la propria funzione disubbidiente, sognatrice e sovversiva dello statu quo.

Le traiettorie dei giocattoli influenzano certamente la sensibilità futura di chi li usa, tuttavia i giochi sono esperienze situate nel tempo e nello spazio, anche nel caso di un modello globale come Barbie. I giochi sono pratiche legate a determinati momenti della vita di ciascuno, intrecciate nelle relazioni che si sviluppano e maturano dall’infanzia, all’adolescenza fino all’età adulta.

Così, possiamo guardare con fiducia alla foto di Zaha Hadid bambina con una bambola tra le braccia [Fig. 13]. Il suo sguardo sembra anticiparci che neanche questo giocattolo convenzionale e stereotipato potrà precluderle una visione spaziale aperta e assolutamente innovativa.

 

Riferimenti bibliografici
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English abstract

The article delves into the intricate relationship between architecture, toys and gender stereotypes, with a specific focus on Barbie Dreamhouses. Toys, particularly those related to construction, shape spatial perceptions and influence architectural sensitivity. Gender studies highlight the role of toys in constructing social roles, which are also reflected in domestic spaces and architecture. Through a historical exploration of Barbie Dreamhouses from the 1960s to their representation in the recent Barbie film, the article identifies changes in design aesthetics, social attitudes, and the portrayal of Barbie, reflecting evolving notions of femininity and domesticity. Domestic labor and its spaces emerge as central elements in negotiating the balance between emancipatory forces and conservative impulses that Barbie’s producers ambiguously strive to maintain, in a consistently successful commercial strategy. Only by subversively manipulating the Barbie model and her Dreamhouse can the toy reclaim its disobedient, imaginative, and subversive function against the status quo.

keywords | Architecture; toys; Gender stereotypes; Barbie; Doll’s houses; Domesticity.

La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)

Per citare questo articolo / To cite this article: G. Scavuzzo, Genere, gioco e architettura. Viaggio nelle case dei sogni di Barbie, “La Rivista di Engramma” n. 213, giugno 2024.

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2024.213.0011