"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

223 | aprile 2025

97888948401

Il fantasme di Venere

Dal testo letterario all’adattamento cinematografico

Andrea Bellavita

English abstract

Venere in pelliccia (La Vénus à la fourrure), 2013, Roman Polanski.

La creazione del fantasme

Wanda von Dunajew non esiste – nonostante la stratificazione di riferimenti autobiografici riguardanti Leopold von Sacher-Masoch, che la vorrebbero proiezione letteraria della scrittrice Fanny Pistor, come ampiamente documentato nei testi che indagano e riflettono la parabola umana del suo autore; ancora meglio: proprio a partire da tali riferimenti, non già come forma di rispecchiamento tra vita reale e produzione finzionale, ma piuttosto come dispositivo meta-rappresentativo che contempla il concetto di ruolo e di scrittura.

È infatti nella dimensione della scrittura che si inscrive lo statuto di Wanda, quale risultato di un’azione linguistica del personaggio Severin, prima che dell’autore Leopold. Scrittura, facoltà organizzatrice della realtà, in possesso di un soggetto che si definisce, si (in)scrive, nel racconto prima di tutto come un dilettante.

Un dilettante nella pittura, nella poesia, nella musica e in alcune altre di quelle arti che non danno pane, come suol dirsi, ma che tuttavia oggigiorno assicurano ai loro Maestri la rendita di un ministro, anzi di un piccolo regnante. Ma soprattutto sono un dilettante nella vita (von Sacher-Masoch [1878] 2017, 21).

Dilettante e, per di più, inconcludente.

Qui avrei tutto l'agio di riempire una galleria di quadri, e di rifornire di novità un teatro per tutta una stagione o una dozzina di virtuosi di concerti, trii e duetti… Ma… che vado mai dicendo? alla fine tutto si riduce a spianare la tela, ad aprire il quaderno, a tirare le linee del pentagramma, poiché io – via, bando ai falsi pudori, caro Severin, menti pure agli altri, ma non a te stesso – resto sempre un dilettante (ivi).

Un inconcludente dilettante che non riesce a portare a termine una proposizione di scrittura, variamente articolata lungo tutti gli assi della produzione artistica, perché portatore di una strategia compositiva radicalmente differente non solo dall’azione letteraria, ma anche dalla facoltà linguistica di organizzazione della relazione.

L’emersione della presenza di Wanda passa attraverso un percorso articolato di svelamento e di progressiva manifestazione: la “vedova”, donna ancora senza nome, inizialmente non si dà nella realtà se non attraverso la riconoscibilità (e la riconoscenza) di uno sguardo.

Dev’essere bella davvero, la principessa, e ancora molto giovane, al massimo ventiquattr’anni, e molto ricca. Abita al primo piano e io al terreno. Tiene sempre le persiane verdi chiuse e ha un balcone soffocato da rampicanti verdi; io invece ho proprio là sotto il mio caro, intimo pergolato di caprifoglio, dove mi ritiro a leggere, a scrivere, a dipingere, a cantare come un uccellino tra i rami. Da lì posso vedere il balcone. E ogni tanto alzo gli occhi, e più di una volta ho intravisto tra la fitta trama verdeggiante il bagliore di una veste bianca (ivi, 22).

Seguendo le soluzioni linguistiche nella traduzione di Giulio De Angelis e Maria Teresa Ferrari, troviamo tracce di un’ipotesi di esistenza (“dev’essere bella davvero”), unita a un nascondimento (“tiene sempre le persiane chiuse e ha un balcone soffocato da rampicanti verdi”), che consente soltanto una visione cieca (“da lì posso vedere il balcone”) e tutt’al più confusa (“ho intravisto”), carica di speranza, ai confini con l’attività allucinatoria.

Ciò che viene visto, che si manifesta concretamente, è al contrario una statua, simulacro dell’oggetto di sguardo e, insieme, di desiderio.

Nel giardino, in mezzo a quella piccola selva, c'è un praticello leggiadro, dove pascolano tranquilli alcuni caprioli addomesticati. Nel suo centro s'innalza una statua di Venere di pietra, il cui originale, almeno credo, si trova a Firenze; questa Venere è la donna più bella che abbia mai visto in vita mia (ibidem).

Questa visione di Venere riprende e rispecchia la (già) doppia agnizione contenuta nella cornice del romanzo, in cui l’amico di Severin si trova al cospetto della Venere allo specchio di Tiziano: prima in sogno (traslazione onirica) e poi nella copia (traslazione artistica) appesa nel salotto del suo ospite.

E insieme innesca una teoria di operazioni di scrittura stratificate da parte di Severin che, con parole e azioni creatrici, predispone l’esistenza del suo oggetto di desiderio: una piccola riproduzione del quadro procurata da “un ebreo che traffica in fotografie”, l’idea (inconclusa) di una poesia, la scritta “Venere in pelliccia” vergata sull’immagine, “alcuni versi di Goethe che avevo appena letto nei Paralipomeni al Faust”, qualche appunto in ricordo della relazione tra Sansone e Dalila e Giuditta e Oloferne, e quindi il lasciare l’immagine all’interno di un volume destinato alla donna, inconscio affidamento cortese della promessa d’amore, chiusura nel libro.

Sulla scorta di questa predisposizione immaginaria, fatta di scritture, si attiva la vera e propria performance di recitazione di Wanda.

La dea chiede come mi chiamo e mi dice il suo nome.
Si chiama Wanda, principessa Dunajew. Ed è veramente la mia Venere.
“Ma, Madame, come le è venuta quell'idea?”
“È stata la piccola immagine che ho trovato nel suo libro…”
“L'ho lasciata lì per errore.”
“Le singolari osservazioni che lei ha scritto sul retro…”
“Perché singolari?”
Mi guardò. “Ho sempre desiderato conoscere un vero visionario, così, tanto per cambiare, e lei mi sembra davvero uno di loro, e fra i più pazzi” (ivi, 28).

Inesorabilmente Wanda dice di recitare la parte scritta da Severin, di darsi come personaggio, ruolo, evocato dalla sua attività creatrice: non solo personaggio letterario nella scrittura di Leopold, ma personaggio recitato, interpretato, della scrittura di Severin. Che non si limita a immaginarla, come pazzo visionario più che come scrittore (che rimarrebbe dilettante, e inconcludente), ma la fa recitare, la dirige, ne è il regista.

La sua è un’identità fantasmatica. Come fantôme, veste bianca e svolazzante, residuo di un rimosso che ritorna per perpetrare l’hantise di un desiderio mai sopito e mai realizzato, ma soprattutto come fantasme, nell’accezione di Jacques Lacan.

[Per descrivere il fantasme] mi sono servito, come metafora, di un quadro che viene a porsi nella cornice di una finestra, tecnica senza dubbio assurda, dal momento che, come ho spiegato, non si tratta di vedere meglio ciò che è raffigurato sul quadro, ma piuttosto, qualunque sia il fascino di ciò che è dipinto sulla tela, di non vedere ciò che si vede attraverso la finestra (Lacan [2004] 2007, 35).

Il personaggio recitante di Wanda è a tutti gli effetti un fantasme lacaniano, quadro ‘staccato’ dalla parete per essere posto di fronte a una finestra, schermo protettivo frapposto tra il Soggetto e ciò che deve essere tenuto fuori dalla sua vista, ovvero l’angoscia, quadro posto sulla finestra del Reale (Recalcati 2012, 370-384; Miller 2006).

Prima di delineare i tratti dell’angoscia da cui Severin vuole difendersi, approfondiamo ancora due tratti essenziali della scrittura in quanto fantasme di Wanda.

Il primo è quello dell’esclusività: il ruolo di Wanda interpretato dalla principessa, che si dispiegherà nelle pratiche della dominazione sadica e che coincide con il suo statuto di fantasme a difesa dell’emersione del Reale e della persistenza dell’angoscia, non può essere fruito, ovvero visto da nessun’altro al di fuori di Severin, che è insieme regista e spettatore unico della sua creazione.

Le peregrinazioni di Wanda e Severin sono costellate di riferimenti al fatto che “non si fanno vedere” da altri, che mantengono un comportamento differente di fronte allo sguardo dell’Altro, fino all’esplicitazione iperbolica durante la loro tappa a Venezia. Gli unici altri (personaggi) a poter ammirare Wanda nel suo ruolo, il Greco e il Pittore, lo fanno esclusivamente quando partecipano del teatro privato che la coinvolge insieme a Severin, la vedono nel medesimo istante in cui lo fa Severin, secondo una logica di raddoppiamento dello sguardo (allucinatorio e proiettivo) piuttosto che di condivisione empirica. Lo stesso può dirsi per le tre domestiche di colore, soggetti a loro volta fantasmatici, radicalmente altri, sconosciuti e inconoscibili, che agiscono come ulteriori moltiplicazioni dello sguardo di Wanda, riflessioni allo specchio, proliferazioni del suo gesto.

Il secondo tratto, che non è solo conseguenza narrativa ma qualità essenziale, è la traducibilità all’interno del contratto, poiché Wanda è scritta nel e dal contratto di Severin, predisposto diegeticamente dalla Padrona, ma di fatto istituito dallo schiavo, che a sua volta si iscrive in esso con il nome di Gregor.

Il riferimento autobiografico ritorna utile per ricordare che Wanda è anche il nome con cui von Sacher-Masoch “scrive” la moglie Aurora von Rümellin, al punto da essere scelto dalla donna nel momento in cui decide di condividere (mettere in scrittura) la propria esistenza e la propria relazione con il marito (W. von Sacher-Masoch [1905] 1977).

Fuori da ogni pruriginosa curiosità sulla vita coniugale dell’autore o dalla tentazione di compiere una clinica dell’autore, ciò che interessa qui è la presenza di due differenti ‘forme di contratto’: una, inesorabilmente insufficiente, è rappresentata dal matrimonio come istituzione e forma di regolamentazione della relazione e, l’altra, quasi indispensabile, è rappresentata dall’accordo condiviso tra padrona e schiavo. Questa dicotomia è descritta in modo esplicito nella lettera che Severin riceve da Wanda alla fine del romanzo:

Ora che più di tre anni sono trascorsi da quella notte a Firenze, posso confessarLe ancora una volta che L'ho amata profondamente. Fu Lei a soffocare il mio sentimento con la Sua stravagante dedizione e la Sua folle passione. Dal momento in cui capii che non sarebbe potuto diventar mio sposo, mi decisi a fare di Lei il mio schiavo, trovai eccitante realizzare il Suo ideale e forse in tal modo, divertendomi, guarirLa (von Sacher-Masoch [1878] 2017, 142-143).

Il contratto del matrimonio è impossibile perché insufficiente a proteggere dall’angoscia: insufficiente per von Sacher-Masoch (come mostra la sua sfortunata biografia), insufficiente per Severin, ma soprattutto insufficiente per il soggetto perverso.

Il soggetto perverso e l’argine al godimento

È importante a questo punto cercare di ridimensionare il più possibile le speculazioni proiettive tra autore e personaggio, perché ciò che importa qui non è in alcun modo stabilire se e come Leopold von Masoch possa essere considerato un soggetto perverso, benché l’affermazione sia per certi versi imprescindibile dal momento che, proprio a partire dal suo sintomo di parafilia, lo psichiatra Richard von Krafft-Ebing arrivò a formalizzare il termine di masochismo. Né interessa, soltanto, rilevare come il personaggio di Severin-Gregor costituisca una declinazione narrativa e finzionale particolarmente fedele della medesima sintomatologia.

Al contrario, il nodo essenziale della nostra riflessione è capire in che modo la struttura testuale di Venere in pelliccia, e le trasposizioni cinematografiche, possano essere utili a comprendere la struttura della perversione, sia a livello dell’enunciato (le azioni e i comportamenti dei personaggi e il loro ruoli), sia a livello dell’enunciazione (le modalità di costruzione del discorso).

L’idea stessa di perversione come una delle tre possibili strutture che determinano il soggetto, insieme alla nevrosi e alla psicosi, non appartiene alla formulazione teorica freudiana: per Freud, a partire da Tre saggi sulla teoria sessuale, la perversione è una caratteristica intrinseca della sessualità umana fin dalla fase originaria della sua costituzione (Freud [1907] 1977). Prima di essere una ‘aberrazione sessuale’, la perversione si configura come un attributo della sessualità umana, in quanto ‘perversa polimorfa’. La teoria del ‘bambino perverso polimorfo’, che si ritrova anche nello scritto Feticismo (Freud [1927] 1978), apre a una connotazione essenzialmente negativa di questo tratto, legata all’evoluzione del soggetto: ogni bambino è strutturalmente perverso, ma raggiunta l’età adulta, il mantenimento del tratto implica naturalmente la caduta sintomatica.

È Jacques Lacan a compiere l’essenziale passo trasformativo, per due ragioni: perché individua nel masochismo, più che nel sadismo, la dimensione primaria della perversione, e perché determina la perversione come una struttura autonoma, indagando il carattere specifico del desiderio e del godimento perverso.

Non potendo approfondire in questa sede, ci limitiamo a sottolineare, con le parole di Massimo Recalcati, come:

Rispetto al pensiero di Freud […] segna indubbiamente una svolta del tutto inedita: la perversione non si riduce più solo a un “tratto” presente nella nevrosi o nella psicosi, ma viene definita come una vera e propria struttura a se stante caratterizzata dalla spinta non tanto a trasgredire la Legge, ma a rifondarla. A Lacan interessa definire la struttura del desiderio perverso come sforzo di far esistere una nuova Legge, una Legge per il godimento e non contro il godimento (Recalcati 2016, 424).

Il cambio di passo di Lacan rispetto a Freud consiste nel far virare il discorso sulla perversione dalla nozione di difesa nei confronti dell’angoscia di castrazione dell’Altro alla problematica del sadismo e del masochismo che […] situano al centro della perversione le nozioni di desiderio nel loro rapporto con la Legge (ivi, 447).

Solo apparentemente la sequenza di situazione sempre più degradanti alle quali Severin viene sottoposto dopo la sottoscrizione del contratto può essere considerata come uno sprofondamento nel godimento, un totale asservimento ad esso, inteso sia come godimento dell’Altro, del quale è oggetto e vittima, sia come godimento del sé, rispetto al quale non riesce a porre un argine.

Lo psicoanalista statunitense Bruce Fink, tra i più attenti conoscitori della teoria lacaniana, in un saggio compreso nel libro Perversion and the Social Relation, curato da Molly Anne Rothenberg, Dennis Foster e Slavoj Zizek, approfondisce ulteriormente il rapporto tra Legge e godimento all’interno della struttura perversa (Fink 2003).

[..] perversion involves the attempt to prop up the law so that limits can be set to jouissance (what Lacan calls "the will to jouissance"). Whereas we see an utter and complete absence of the law in psychosis, and a definitive instatement of the law in neurosis (overcome only in fantasy), in perversion the subject struggles to bring the law into being—in a word, to make the Other exist (Fink 2003, 38).

[…] la perversione implica il tentativo di puntellare la legge in modo da porre dei limiti al godimento (ciò che Lacan chiama “volontà di godimento”). Mentre nella psicosi si assiste a un'assenza totale e completa della legge, e nella nevrosi a un'instaurazione definitiva della legge (superata solo nella fantasia), nella perversione il soggetto lotta per far nascere la legge - in una parola, per far esistere l'Altro.

Jouissance is simply overrated. It is not so wonderful that everyone really wants it, the pervert supposedly being the only one who refuses to give it up and who is able to go out and get it. The psychotic suffers due to an uncontrollable invasion of jouissance in his or her body, and neurosis is a strategy with respect to jouissance—above all, its avoidance. Perversion too is a strategy with respect to jouissance: it involves the attempt to set limits thereto (ivi, 48).

Il godimento è semplicemente sopravvalutato. Non è così meraviglioso da essere ricercato da tutti, il pervertito è l'unico che si rifiuta di rinunciarvi e che è in grado di andare a prenderselo. Lo psicotico soffre a causa di un'invasione incontrollabile di godimento nel suo corpo e la nevrosi è una strategia rispetto al godimento, soprattutto circa il suo evitamento. Anche la perversione è una strategia rispetto al godimento: comporta il tentativo di porvi dei limiti.

The pervert [… ] does not desire as a function of the law — that is, does not desire what is prohibited. Instead, he has to make the law come into being. Lacan plays on the French term, perversion, writing it as père-version, to emphasize the sense in which the pervert calls upon or appeals to the father, hoping to make the father fulfill the paternal function (ivi, 55).

Il perverso, invece, non desidera in funzione della legge, cioè non desidera ciò che è proibito. Deve invece far nascere la legge. Lacan gioca sul termine francese, perversion, scrivendolo come père-version, per sottolineare il senso in cui il pervertito fa appello al padre, sperando di fargli svolgere la funzione paterna.

One of the paradoxical claims Lacan makes about perversion is that while it may sometimes present itself as a no-holds-barred, jouissance-seeking activity, its less apparent aim is to bring the law into being: to make the Other as law (or law-giving Other) exist (ivi, 54).

Una delle affermazioni paradossali che Lacan fa sulla perversione è che, mentre a volte si presenta come un'attività senza esclusione di colpi, alla ricerca del godimento, il suo scopo meno apparente è quello di far nascere la legge: far esistere l'Altro come legge (o l'Altro che dà legge).

L’originale proposta teorica di Fink si rivela essenziale per mettere in relazione la struttura perversa con quella testuale di Venere in pelliccia: per il soggetto perverso, di cui il personaggio di Severin non è una reificazione ma una rappresentazione sintomale, non si tratta di sprofondare nel godimento, ma al contrario di porre un argine ad esso, di proteggersi. O, meglio ancora, secondo una celebre definizione lacaniana, di spostare il godimento nel campo dell’Altro.

L’angoscia da cui tenta di difendersi è l’angoscia del rendersi indissolubile al godimento. La funzione protettiva del fantasme di Wanda assolve dunque a questa funzione essenziale: nella sua forma esclusiva e soprattutto contrattuale, rappresenta il tentativo di far nascere nell’Altro una Legge, l’Altro come Legge, l’Altro che dà la Legge.

Questa Legge non può essere quella del Nome del Padre, la Legge per tutti (esemplificata nella forma fallace del matrimonio), ma deve nascere in modo inedito come Legge per lui, contratto esclusivo, fuori norma.

Il contratto è l’argine all’angoscia del masochista come essenza della struttura della perversione, argine allo sprofondamento del godimento: fantasme, quadro posto di fronte alla finestra del Reale.

Mimì, Vanda e Wanda: l’immagine fantasme

L’analisi delle trasposizioni cinematografiche del romanzo di von Sacher-Masoch può offrire nuovi spunti di riflessione per approfondire la dimensione fantasmatica e ‘scritturale’ del ruolo di Wanda e del contratto. Se l’immaginario generato dal testo è proliferato in modo esponenziale, in tutte le forme possibili di rappresentazione della dinamica padrone-schiava, i titoli che possono essere ascritti a una formula di vero e proprio adattamento (Hutcheon 2011; Carluccio, Masecchia, Rimini 2023) sono pochi, e tutti presentano differenze spesso radicali dal testo di partenza: Paroxismus (1969, distribuito con il titolo internazionale Venus in Furs) di Jess Franco, Venere in pelliccia (1969, ridistribuito nel 1975 con il titolo Le malizie di Venere) di Massimo Dallamano, Venus in Furs (1994), di Victor Nieuwenhuijs e Maartje Seyferth, e soprattutto La Vénus à la fourrure (2013) di Roman Polanski.

Il tema del masochismo o, più generale, della perversione è costante nella cinematografia di Polanski, in maniera più velata in molti dei film della prima parte della sua carriera, da Repulsion (1965) a L’inquilino del terzo piano (Le locataire 1976) e La morte e la fanciulla (The Death and the Maiden 1994), ma per certi versi il testo di von Masoch trova una sua prima ‘formulazione’, non esplicita già in Luna di fiele (Bitter Moon), del 1992, tratto dal romanzo di Pascal Bruckner (1981).

Ci concentreremo qui sui due film ‘gemelli’ di Polanski: l’adattamento ‘apocrifo’ Luna di miele e quello meta-rappresentativo Venus in Furs.

Luna di fiele mette in scena l’incontro su una nave da crociera tra una giovane coppia in luna di miele e un’altra al crepuscolo della relazione sentimentale e sessuale. Quest’ultima è composta da Oscar, scrittore ridotto su una sedia a rotelle dopo un incidente, e Mimì, interpretata da Emmanuelle Seigner. La parabola mortifera di Oscar e Mimì viene ripercorsa in flashback, ed è animata da fantasmi masochisti, o meglio sado-masochisti, che nel corso degli anni cambiano di segno, poiché il ruolo di vittima e carnefice passano dall’uno all’altra, cambiano di pratica, dal gioco erotico all’umiliazione fisica e psicologica, e soprattutto cambiano di modalità e condivisione del contratto.

Nella scena più esplicita [figg. 01-02], consegnata all’immaginario cinematografico di genere, Mimì, dopo aver immobilizzato il compagno su una sedia, legato e con un cerotto sulla bocca, si presenta con un triviale ‘costume’ da Mistress domestica (soprabito nero, biancheria intima, stivali) e agisce una fantasia di dominazione (e insieme di castrazione) che eccita Oscar, ma al contempo lo turba, lo spaventa, conducendolo a temere per la propria integrità. In una seconda [fig. 03], in bilico tra condivisione ludica e lugubre scivolamento verso la reciproca abiezione, Oscar indossa una maschera da maiale, e mima gesti animaleschi, con il rumore di una fattoria sullo sfondo. Quando la ricerca della performance erotica mostra la sua inefficacia, si innesca prima la vessazione posta in atto da Oscar su Mimì, a minarne l’integrità psichica ed esistenziale, e poi la vera e propria schiavitù che Mimì impone a Oscar dopo l’incidente, totalmente succube e dipendente sia dal punto di vista fisico che da quello mentale [fig. 04].

La situazione che i due personaggi vivono sulla nave, nel presente diegetico della narrazione, corrisponde alla versione finale del loro rapporto, che è normato da un contratto non più tacito ma esplicito, e che coinvolge l’altra coppia: a Mimì è consentito avere degli amanti, a patto che Oscar ne sia informato e possa assistere, anzi ‘dirigere’ gli incontri.

Prima di giungere a questa negoziazione contrattuale del godimento, Mimì e Oscar si sono sposati per due volte: la prima in modalità finzionale, posando per una fotografia dietro a un cartonato che riproduce abiti nuziali [figg. 05-06-07], e la seconda con un rito civile, consumato proprio quando la schiavitù di Oscar è definitiva, irresolubile [fig. 08]. Mimì, nel prendere su di sé il ruolo di Wanda, tenta di superare l’impasse in cui si è trovata il suo personaggio nel testo originale: insieme sposa e stabilisce un contratto con il suo (non più) amato e schiavo.

Oscar invece, a differenza di Severin, sprofonda nel godimento mortifero, incontrollabile, ancora per due volte: quando cerca di sottrarsi al rapporto con Mimì, la rifiuta, e intraprende una fase della propria vita in cui passa da un’amante all’altra, in una coazione a ripetere auto-distruttiva che termina, dopo una notte di puro godimento, con l’incidente stradale che lo lascia paralitico e poi alla fine del film, quando non riesce più a gestire il contratto, uccide Mimì e si suicida.

A differenza di Severin Oscar, che è a sua volta uno scrittore dilettante e inconcludente, non riesce a costruire il fantasme protettivo del proprio oggetto di desiderio. In primo luogo, sperimenta che il matrimonio (raddoppiato), il patto primigenio che lega i due soggetti in una relazione amorosa oltre che sessuale, non è sufficiente a gestire la sua struttura: come contratto della Legge, della Legge del Nome del Padre, il matrimonio non consente al perverso di porre un argine al godimento, di iscrivere finalmente la Legge nel luogo dell’Altro. Di fronte a questa consapevolezza, a un passo dal crollo, tenta disperatamente di costruire un secondo contratto, chiedendo (in termini letteralmente lacaniani) all’Altro di fornire una nuova Legge che lo protegga dall’angoscia del Reale, dal surplus di godimento, ma non riesce a sopportarlo e sprofonda in esso, arrivando alla dissoluzione letale.
Oscar, in ultima analisi, non sopravvive alla forza del proprio godimento.

La situazione cambia radicalmente nell’adattamento del 2013, Venus in Furs.

Anche in questo caso Polanski non è il creatore, perché si tratta dell’adattamento di un adattamento, una trasposizione meta-testuale, ovvero la versione cinematografica di una partitura teatrale del drammaturgo David Ives, portata in scena a Broadway per la prima volta due anni prima, nel 2011.

L’intuizione straordinaria di Ives, a cui Polanski dà, letteralmente, corpo, è di tradurre il contratto, come motore essenziale e chiave interpretativa di von Sacher-Masoch in una scrittura, teatrale, costruita su una stratificazione costante di ulteriori riscritture.

La situazione di partenza è molto semplice: un regista teatrale, Thomas, si trova da solo in teatro [fig. 09], a fine giornata, dopo un’estenuante sessione di casting per trovare l’interprete della riduzione teatrale di Venus in Furs. È al telefono e si lamenta con il suo agente di quanto tutte le attrici siano assolutamente poco dotate: non soltanto come attrici, ma anche come donne. Incomparabili, a suo dire, con la Wanda del testo originale.

Mentre sta per andarsene, arriva in ritardo un’ultima aspirante [fig. 10], Vanda, ancora interpretata da Emmanuelle Seigner, che lo convince, tra insistenza e seduzione, a farle un provino.

Da questo innesco si sviluppa un continuo e costante sbalzamento tra diversi livelli di scrittura, di écriture, e tra diverse modalità di adattare, e ripensare, il romanzo.

A differenza di Oscar, Thomas è, senza alcun dubbio, un nuovo Severin.

Scrittore, nel senso più ampio e articolato del termine. Non è auteur della pièce: come, d’altra parte, non lo è Severin, in quanto alter ego di von Sacher-Masoch, artistico e per struttura psichica, e come non lo è lo stesso Polanski. È adactateur, come Polanski, come Severin. È directeur, come Polanski e metaforicamente come Severin, che ‘dirige’ il rapporto con Vanda, e che sceglie per sé, un altro nome, al punto che Thomas si rivela come un altro possibile appellativo di Gregor.

In più è acteur, attore, perché dà le battute a Vanda [fig. 11], in qualche modo reificando l’ambiguità, molto lacaniana, tra jouer (recitare, oltre che giocare) e jouir (godere), e il senso della jouissance, del godimento, come recita, come parte in commedia.

Infine, come Vanda sottolinea più volte, e come lui stesso ammette, è un dilettante, incapace di portare a termine un’opera d’arte, se non come che scrittura del contratto che regola la propria perversione.

Il contratto di Venere in pelliccia, come scrittura di Wanda da parte di Severin, viene qui tradotto nel “copione” che i due si trovano a mettere in scena [fig. 12].

Un copione che consente a Thomas di fare i conti con il godimento, di non perdersi in esso, di riattivare la Legge, di “tenersi”, di sopravvivere, perché a differenza di Luna di fiele la conclusione non è mortifera. Thomas verrà sottoposto ad un supplizio “teatrale” da parte di Vanda ma come Severin viene lasciato, vivo, sulla scena.

La sopravvivenza di Thomas è strettamente legata alla dimensione di fantasme di Vanda, che arriva in teatro sospinta da una forza, come una forza, femminile, un respiro, un élan, uno spirito, che è chiaramente quello divino di Venere, della statua, e insieme quello delle Baccanti di Euripide [fig. 13], e con lo stesso élan lascia il teatro e permette la sopravvivenza di Thomas.

In lei è presente la stessa ambiguità tra verità e finzione della sua origine letteraria: è portatrice del suo stesso nome – si chiama ‘davvero’ Vanda – e per questo sostiene di essere perfetta per la parte. Inizialmente si mostra ingenua, naïve, ignorante, sboccata, del tutto inconsistente e inconsapevole, preda del caso, ma poi rivela di avere nella borsa il ‘copione’ di Thomas, di averlo già letto, studiato, imparato, conosciuto, così come mostra di aver letto il romanzo di von Sacher-Masoch.

È dunque del tutto consapevole e onnisciente: sa tutto, anche di essere stata ‘già scritta’.

Ha firmato il contratto, conosce perfettamente il suo ruolo (in commedia), conosce la sua funzione.

È sfaccettata: si fa analista [fig. 14], mostrando di conoscere la vita privata e sentimentale di Thomas, le sue fantasie, le sue mancanze, le sue perversioni [fig. 15-16-17], e si fa attrice e a sua volta regista, perché ‘dirige’ in scena [fig. 18]. Auteur, directeur, maieuta (che poi è sempre come dire analista), perché fa scaturire dalla creatività Thomas alcune (nuove) scene, soltanto desiderate e non ancora scritte.

Gioca costantemente sulla sovrapposizione dei ruoli, confondendo i piani e i nomi, secondo una modalità di continuo scambio e sostituzione che ha l’andatura di una partitura jazz.

Il rapporto para-matrimoniale, tra Thomas e la sua fiancée (Vanda la chiama insistentemente così, per fissarla nel suo ruolo prodromico al matrimonio) è ancora una volta insufficiente: Thomas ha bisogno di questa nuova écriture, di questo contratto per sottrarsi all’esorbitanza del godimento.

Come il Severin di von Sacher-Masoch, Thomas ha posto in atto il suo fantasme come oggetto del desiderio perverso, e da esso viene protetto di fronte all’esondazione dell’angoscia, del surplus di godimento.

Rimasto solo sulla scena [fig. 19], al pari del suo alter ego letterario, può sorridere della propria esperienza [fig. 20].

Libero, sopravvissuto, consapevole del fatto che, come dice Fink, “il godimento è ampiamente sopravvalutato”.

Galleria iconografica

1 | Luna di fiele (Bitter Moon), 1992, Roman Polansky

2 | Luna di fiele (Bitter Moon), 1992, Roman Polansky

3 | Luna di fiele (Bitter Moon), 1992, Roman Polansky

4 | Luna di fiele (Bitter Moon), 1992, Roman Polansky

5 | Luna di fiele (Bitter Moon), 1992, Roman Polansky

6 | Luna di fiele (Bitter Moon), 1992, Roman Polansky

7 | Luna di fiele (Bitter Moon), 1992, Roman Polansky

8 | Luna di fiele (Bitter Moon), 1992, Roman Polansky

9 | Venere in pelliccia (La Vénus à la fourrure), 2013, Roman Polanski

10 | Venere in pelliccia (La Vénus à la fourrure), 2013, Roman Polanski

11 | Venere in pelliccia (La Vénus à la fourrure), 2013, Roman Polanski

12 | Venere in pelliccia (La Vénus à la fourrure), 2013, Roman Polanski

13 | Venere in pelliccia (La Vénus à la fourrure), 2013, Roman Polanski

14 | Venere in pelliccia (La Vénus à la fourrure), 2013, Roman Polanski

15 | Venere in pelliccia (La Vénus à la fourrure), 2013, Roman Polanski

16 | Venere in pelliccia (La Vénus à la fourrure), 2013, Roman Polanski

17 | Venere in pelliccia (La Vénus à la fourrure), 2013, Roman Polanski

18 | Venere in pelliccia (La Vénus à la fourrure), 2013, Roman Polanski

19 | Venere in pelliccia (La Vénus à la fourrure), 2013, Roman Polanski

20 | Venere in pelliccia (La Vénus à la fourrure), 2013, Roman Polanski
 

Bibliografia
Fonti
  • Bruckner 1981
    P. Bruckner, Lunes de fiel, Paris 1981.
  • von Sacher-Masoch [1878] 2017
    L. von Sacher-Masoch, Venere in pelliccia, tr. it. di G. De Angelis, M.T. Ferrari, Milano 2017.
Bibliografia critica
  • Carluccio, Masecchia, Rimini 2023
    G. Carluccio, A. Masecchia, S. Rimini (a cura di), Cinema, letteratura, intermedialità, Roma 2023.
  • Fink 2003
    B. Fink, Perversion, in M.A. Rothenberg, D. Foster, S. Zizek (a cura di), Perversion and the Social Relation, Durham 2003, 38-67.
  • Freud [1905] 1977
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  • Freud [1927] 1978
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  • Hutcheon [2006] 2011
    L. Hutcheon, Teoria degli adattamenti [2006], tr. it. di G.V. Distefano, Roma 2011.
  • Lacan [2004] 2007
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  • Miller 2006
    J. A. Miller, L’angoscia. Introduzione al Seminario X di Jacques Lacan, Macerata 2006.
  • Recalcati 2012
    M. Recalcati, Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione, Milano 2012.
  • Recalcati 2016
    M. Recalcati, Jacques Lacan. La clinica psicoanalitica: struttura e soggetto, Milano 2016.
  • W. von Sacher-Masoch [1905] 1977
    W. von Sacher-Masoch, Le mie confessioni, tr. it. di G. Bartoli, Milano 1977.
English abstract

Leopold von Sacher-Masoch's novel has created a complex imaginary world that has influenced the history of arthouse and genre cinema (erotic and otherwise), but the films that can be considered true ‘adaptations’ are few: in this essay we will focus on Roman Polanski's Venus in Furs (2013) and on another film by the same director, Bitter Moon (1992), which, although not an explicit representation of von Sacher-Masoch's text, contains many interesting elements for exploring the masochistic dynamic. In particular, a psychoanalytical interpretation will be used to explore the figure of Wanda as a fantasme, or rather as a textual invention capable of protecting the subject from the emergence of anxiety. Reflecting on the relationship between the perverse subject and his desire, different ways of representing the ‘contract’ as a form of protection from excess of enjoyment will be analyzed.

keywords | Adaptation; Psychoanalysis; Phantom; Polanski; Cinema.

questo numero di Engramma è a invito: la revisione dei saggi è stata affidata al comitato editoriale e all'international advisory board della rivista

Per citare questo articolo / To cite this article: Andrea Bellavita, Il fantasme di Venere. Dal testo letterario all’adattamento cinematografico, “La Rivista di Engramma” n. 223, aprile 2025.