"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

NEWS | febbraio 2002

Lorenzo Bonoldi, Monica Centanni, Alessandra Pedersoli | From Hell to Hell. Recensione a: From Hell. La vera storia di Jack lo Squartatore, regia di Albert e Allen Hughes, USA 2001

Attenzione: la seguente recensione contiene particolari che svelano il finale del film.

L’ultima versione della storia di Jack lo Squartatore – portata per la prima volta sul grande schermo da Alfred Hitchcock nel 1929 – è una produzione diretta dai fratelli Hughes, ispirata a un popolare racconto a fumetti di Alan Moore. Nel film si ripropone la tesi secondo la quale lo Squartatore sarebbe un personaggio strettamente legato alla Casa Reale inglese: la mano che uccide – come rivelato nello scioglimento del giallo – è indirettamente guidata dal capo coronato della regina Vittoria. Lo scopritore di questa pericolosa e compromettente verità – il giovane e visionario detective Abberline (Johnny Depp) – non riuscirà a fermare la mano dell’assassino, ma scoprirà la verità rimanendone però egli stesso vittima. Bello e dannato il tenace e coraggioso ispettore Abberline; bella, splendente e ‘virtuosa’ tra la miseria e la dannazione in cui vive, la prostituta di cui si innamora, Mary Kelly (Heather Graham): ma la kalokagthia imposta ai protagonisti della storia dal codice estetico hollywoodiano innesca un’interessante citazione ‘iconografica’ e storico-artistica. Le vittime a cui Jack lo Squartatore dà la caccia sono cinque prostitute, testimoni di una verità scomoda che non poteva né doveva essere rivelata. Mentre quattro di esse appaiono sempre sporche, ispide e sgualcite, l’affascinante Mary Kelly assume le sembianze di una figura preraffaellita appena uscita da un quadro di Dante Gabriel Rossetti: carnagione candida, capelli rosso fiamma, occhi verdi e guance rosate (come si può vedere dall’immagine in basso). Nonostante lo stridente, e poco verosimile, confronto con le colleghe ben più trasandate e sciupate, si può dire che in questo caso i "conti tornino": come anche nel film si ricorda esplicitamente, all’epoca le modelle degli artisti erano spesso prostitute: è il caso, ad esempio, di Fanny Cornforth ritratta proprio da Dante Gabriel Rossetti nei panni di Lady Lilith. Un’ulteriore scena ci restituisce la consapevolezza dell’orizzonte simbolico in cui questa versione della storia si inscrive (una consapevolezza tutta dichiarata nel testo molto colto della sceneggiatura e nel registro raffinato della regia). Di fronte al corpo di una delle prostitute massacrate, Abberline prova un gesto di pietà che sconfina nella pietas rituale: pone sugli occhi della povera donna due monete, secondo l’uso antico, comune a molti rituali funebri, di dotare il morto di tali manufatti; le monete, poste simbolicamente sugli occhi chiusi, assolvono la funzione di pagare a Caronte il prezzo del traghettamento. Il rito delle monete funerarie ritorna, amplificato e con un’ambigua connotazione di significato, nella scena finale del film. Abberline viene trovato morto nella sala da oppio che usava frequentare: una morte certo volontaria come confermano le due monete che l’ispettore procura di stringere nella mano, prima di partire per l’ultimo viaggio’. l’amico viceispettore – cultore di Shakespeare – pone le due monete sugli occhi del suicida: così l’ultima inquadratura ritrae il volto del protagonista con gli occhi sigillati dal doppio profilo della Regina coniato sulle sterline. Seppure indiretta mandante – e primum movens – degli efferati omicidi, la Regina conserva tutta la sua auctoritas e il volto del Re è l’unica immagine dotata di una tale carica di potere e di sacralità da poter accompagnare l’eroe dall’inferno di un mondo spietato e crudele alla dimensione infera dell’aldilà.

Per citare questo articolo / To cite this article: L. Bonoldi, M. Centanni, A. Pedersoli, From Hell to Hell. Recensione a: From Hell. La vera storia di Jack lo Squartatore, regia di Albert e Allen Hughes, USA 2001, “La Rivista di Engramma” n. 14, febbraio 2002, pp. 37-38 | PDF

Laura Squillaro | La ‘memoria di Pico’. Presentazione della mostra: Pulchritudo Amor Voluptas. Pico della Mirandola alla corte del Magnifico, Mirandola, Centro Culturale Polivalente, 15 dicembre 2001/17 febbraio 2002; catalogo a cura di Pagliai, Polistampa Editore

Presso il Centro Culturale Polivalente di Mirandola (Mo) viene ospitata, fino al 17 febbraio, la mostra riguardante la stagione fiorentina di Giovanni Pico, illustre mirandolese il cui nome e il cui ricordo conferiscono alla cittadina un’auctoritas che l’esposizione sottolinea. Il decennio che va dal 1484 al 1494 vede Pico alla corte di Lorenzo il Magnifico e segna un momento culturale e intellettuale altissimo, che si rispecchia nella produzione letteraria e artistica del periodo. Il rilancio della dottrina platonica rivisitata in chiave salvifica costituisce il ‘filo rosso’ che collega le opere esposte, raggruppate in quanto exempla – si potrebbe dire quasi spolia – del neoplatonismo fiorentino e in quanto antologia omogenea di oggetti di proprietà, o di committenza, medicea. La mostra sembra seguire il monito bruniano (e warburghiano) che spinge a ricercare, fra realia di diversa qualità e valore, collegamenti e interrelazioni, dal cui incrocio e attrito possano scaturire scintille di conoscenza: in questo senso il percorso espositivo comprende, accanto a capolavori come Pallade e il centauro di Botticelli o il tondo Madonna col bambino e angioli di Filippino Lippi, oggetti di uso domestico come i cassoni nuziali; o di fruizione privata, quali cammei e gemme: oggetti maneggevoli e accessibili, accanto a opere d’arte importanti che veicolano messaggi politici e filosofici. Tra questi si segnalano, per il loro valore simbolico e testimoniale, le medaglie di Niccolò Fiorentino: nel Rinascimento il campo della medaglia-impresa è il luogo privilegiato – luogo felicemente recuperato dall’esempio della numismatica antica – per la rappresentazione e la veicolazione di virtù, concetti, desideri o ideali. E la mostra è stata intitolata a Pulchritudo Amor Voluptas, proprio prendendo spunto dall’immagine e dal motto che compare sul rovescio di una delle medaglie di Pico che vede rappresentate le tre Grazie. A testimoniare il rapporto di tradizione o tradimento, e comunque di confronto, con i modelli classici, i due cammei con centauro (databile al II sec. d.C.) e con busto di Minerva (databile al I sec. a.C.) provenienti dalla collezione laurenziana, vengono proposti quali spunti iconografici per il famoso dipinto botticelliano, offrendo così un chiave di lettura per accedere al significato ulteriore e complesso dell’opera: a significare che non di Minerva ma di Pallade appunto si tratta, la quale, in veste di Castitas, doma Furor, rappresentato dal centauro, sotto l’egida e gli stemmi medicei. La presenza permeante del simbolismo numerico viene esemplificata da alcune opere significative. Tra queste il cosiddetto ‘Sgabello Bardini’, con la seduta a forma ottagonale (che rimanda al rito del Battesimo e alla sua azione salvifica) e le tre gambe. Ma soprattutto le Imagines pietatis (tra cui una Pietà del Perugino e una terracotta invetriata di Andrea della Robbia) in cui Cristo, con il busto allungato e le braccia distese verso il basso che ostentano i segni della Passione, forma una sorta di triangolo, ad alludere alla trinità ma anche al numero ‘tre’, da sempre nella tradizione occidentale sinonimo di perfezione, di rinascita, di salvazione. È lo stesso numero tre che si ritrova come cifra delle Grazie a dirne la perfetta armonia: un ciclo che è il movimento da cui tutto parte e a cui tutto torna, attraverso il quale la memoria non si perde ma, enigmaticamente, ritrova sempre i suoi intricati sentieri. 

Per citare questo articolo / To cite this article: L. Squillaro, La ‘memoria di Pico’. Presentazione della mostra: Pulchritudo Amor Voluptas. Pico della Mirandola alla corte del Magnifico, Mirandola, 15 dicembre 2001/17 febbraio 2002, “La Rivista di Engramma” n. 14, febbraio 2002, pp. 39-40 | PDF

Katia Mazzucco | La descrizione di un attimo ‘patetico’: il compianto a scatti. Recensione a: Graziano Campanini, Il compianto di Niccolò dell’Arca a Santa Maria della Vita, fotografie di Andrea Samaritani, Editrice Compositori, Bologna 2001

Il celeberrimo gruppo in terracotta di Niccolò dell’Arca conservato a Bologna, trova nelle belle fotografie di Andrea Samaritani pubblicate in questa monografia, un calore tutto umano. Al contrario di quanto avviene normalmente a causa della diffusione di vecchie riprese fotografiche, questo catalogo offre alcune riproduzioni in bianco e nero che non sviliscono affatto l’opera originale, bensì ne esaltano, attraverso la scelta di tagli e luci nettamente interpretativi, il pathos originale che tanto colpiva, commuoveva o scandalizzava fedeli, pellegrini e studiosi. Realizzato verso il 1463, il gruppo di Niccolò è costituito dalle sei figure dei dolenti e dal corpo disteso del Cristo morto. Riconducibile alla tradizione dei compianti (a questa proposito si riveda la "Tavola fantasma", e delle cosiddette "Passioni recitate", l’opera di Niccolò d’Apulia è diventata celebre per la resa estremamente realistica e dettagliata del dolore delle figure che compiangono il Cristo. Proprio questa sensibilità per i particolari – i volti, le mani, le vesti – è ben testimoniata dalle fotografie. Da segnalare il primissimo piano sul volto di Giovanni, chiuso nella conca della mano e segnato dal dolore che solca la fronte e il naso, e l’immagine del profilo di una delle Marie "così sterminatamente piangenti" (Malvasia 1686, p.12, cit. nel volume) scelta per la copertina. Il volume è accompagnato anche da una breve selezione di brani letterari – dai testi evangelici ai commenti di storici e appassionati – che si riferiscono al genere del ‘compianto’ e al gruppo di Niccolò in particolare. 

Per citare questo articolo / To cite this article: K. Mazzucco, La descrizione di un attimo ‘patetico’: il compianto a scatti. Recensione a: Graziano Campanini, Il compianto di Niccolò dell’Arca a Santa Maria della Vita, fotografie di Andrea Samaritani, Editrice Compositori, Bologna 2001, “La Rivista di Engramma” n. 14, febbraio 2002, pp. 41-42 | PDF