"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

82 | luglio/agosto 2010

9788898260270

Da Perseo a Perseo: il filo rosso dell’ars combinatoria

Un colloquio con Cristiano Tessari su Percy Jackson e gli dei dell’Olimpo: Il ladro di fulmini di Chris Columbus (2010) e Scontro tra titani di Louis Leterrier (2010)

a cura di Alessandra Pedersoli

English abstract


I manifesti di Scontro tra Titani (Clash of the Titans 1981 e 2010) e Percy Jackson (2010)

Alessandra Pedersoli – La scorsa primavera sono uscite a distanza di pochi giorni due pellicole statunitensi che hanno per tema il mito greco. I due film – Percy Jackson e gli dei dell'Olimpo: Il ladro di fulmini diretto da Chris Columbus e Scontro tra titani di Louis Leterrier – sono stati al centro di un forte battage pubblicitario; nel caso della regia di Leterrier (il cui titolo originale Clash of the Titans è il remake dell’omonima pellicola del 1981 diretta da Ray Harryhausen), la produzione ha deciso di posticipare l’uscita del film per consentirne la visione stereoscopica, e puntare quindi su una più spettacolare resa in 3D. In entrambi i film il protagonista è Perseo, figura del mito che, se si escludono i tre film menzionati, ha una fortuna cinematografica quasi nulla. La materia mitica presentata in chiave spettacolare è solo funzionale? La scelta dei temi è solo un pretesto per potersi proludere in mirabolanti effetti speciali?

Cristiano Tessari – Punto di partenza: la coincidenza delle iniziative sta tra il casuale e l’epocale. Il casuale per il trattarsi di cose riguardanti la mitologia; l’epocale, per una cronica mancanza di idee che qualifica il cinema, soprattutto quello statunitense e il ‘prodotto di confezione’ da un po’ di tempo a questa parte. Nel caso specifico questo si intreccia con un’altra componente, ovvero il ricorrere alla letteratura: è evidente il nesso che c’è tra il successo di Harry Potter e l’iniziativa Percy Jackson [tratto da una serie di romanzi di Rick Riordan pubblicati negli Stati Uniti ndr], anche se curiosamente il film tradisce lo spirito del libro fin dal primo episodio, nel momento in cui trasforma un bambino – che era il Percy Jackson letterario, così come l’Harry Potter del primo volume di Joanne Kathleen Rowling – in un adolescente. E questo già ti fa capire che l’operazione da un lato si copre le spalle con il successo letterario (un po’ come era già accaduto con Eragon di Christopher Paolini), dall’altro però non confida fino in fondo nel plot letterario e allora trasforma il bimbo in un adolescente. Allo stesso modo era stata deficitaria la versione cinematografica di Never Ending Story dallo splendido libro di Micheal Ende Die unendliche Geschichte, perché il bambino resta bambino per tutta la storia del film, cosa che invece nel libro non è: c’è una perdita di identità con la crescita. Qui, invece, far diventare un bambino adolescente (evidentemente da parte della produzione più che del regista) significa da un lato la bella pensata di cercare di sfuggire all’analogia con Harry Potter, dall’altro la scelta di un target di pubblico attorno ai tredici anni. Pubblico al quale sono rivolti tutti gli ammiccamenti, che sono la parte peggiore del film, e anche dal punto di vista del racconto risultano lenti, scontati, ovvi come il fauno che fa la breakdance – similialle produzioni disneyane o televisive. Per questo penso che il ragionamento sul mito sia troppo elevato per questa roba sostanzialmente mediocre. Detto questo, rimane il rispetto per gli artigiani: l’importante – e questo se lo dimenticano sistematicamente i critici – è valutare il film nei limiti e nei margini di quello che gli compete di essere. Allora vanno bene grandi attori che recitano tre battute su Zeus o Poseidone, purché si accetti che è nei limiti di quella produzione e quindi senza inutili preziosismi o sprechi anche in quanto a esercizio critico, sull’uso inopportuno di questi attori. L’all movie star che dice una singola battuta c’è sempre stato: da questo punto di vista, la versione originaria di Scontro tra Titani era più che evidente: Ursula Andress a fare Venere, Claire Bloom un po’ anzianotta a fare Giunone, Laurence Olivier a fare Zeus, ecc.


Afrodite (Ursula Andress) in Scontro tra Titani del 1981

Per quello che riguarda in specifico Perseo, come mito a sé stante era di una povertà disarmante: la sua situazione in fondo non è molto diversa da quella di Giasone, o di Edipo (la vicenda del figlio ‘allontanato per paura di’, o della madre ‘maledetta per paura di’). Si tratta, potremmo dire, di uno dei miti di fondazione ciclici della storia greca e della storia romana (basti pensare all’analogia con la Rea Silvia dei Latini) ma anche quello la cui vicenda tutto sommato – al di là di un’adolescenza più o meno dorata dopo la fuga nella cassa per mare – ha la fiammata nel momento della liberazione di Andromeda – che non a caso ha prodotto moltissima pittura – ma sostanzialmente è tutto lì. Nel film d’esordio di Duccio Tessari, che si intitolava Arrivano i Titani, il mito di Perseo era evocato esclusivamente per l’episodio con Medusa, presentata come una generica gorgone. Medusa è presente anche in Lo sguardo che uccide (The Gorgon) del 1964 di Terry Fisher e prodotto dalla Hammer, ma si trattava di un film ‘contemporaneo’, ambientato a fine Ottocento-inizi Novecento, e il rimando al mito serviva solo per il gioco dello specchio, che in questo caso è uno scudo, come mezzo per disarmarla e tagliarle la testa.

  
Perseo (Harry Hamlin) con la testa di Medusa in Scontro tra Titani del 1981; Percy (Logan Lerman) uccide Medusa (Uma Thurman) in Percy Jackson e gli dei dell’Olimpo: Il ladro di fulmini

Perseo è famoso per un solo episodio, e porlo al centro è qui pretesto per fare altro. Nella versione di Harryhousen di Scontro fra Titani era un modo per prendere un personaggio e fargli attraversare più avventure, in una sorta di cammino iniziatico. Vale la pena sottolineare che un personaggio che scompare totalmente nel remake del 2010 è il mentore dell’eroe. La finezza – pur nei limiti artigianali del tempo– della prima versione, anche se rivolta a un pubblico adolescente, era quella di creare un’analogia tra il teatro del mondo e il teatro nel quale Zeus muove le sue figurine. Il mentore appare presentandosi con le caratteristiche del teatrante, con la maschera, una maschera greca che ne amplificava la voce.


Il ‘teatro’ di Zeus e il mentore (Burgess Meredith) con la maschera nella prima versione di Scontro tra titani del 1981

Quella componente scompare totalmente nel remake, così come scompaiono degli anacronismi divertenti, che già avevano fatto la fortuna di certi allestimenti come Scipione l’africano di Magni (ambientato nelle rovine di Paestum dove il nostro eroe arriva all’incontro con uno pseudo Cerbero, ecc). Soprattutto, peggio che gli anacronismi, ha la meglio un bisogno di rimescolare le carte dell’immaginario: è con Harryhousen che gli sceneggiatori hanno avuto la bella pensata – oggi qui ripetuta e amplificata – di mettere insieme le Furie, Cerbero, Medusa, ecc. a un inopinato Kraken che, com’è noto, viene invece dalla mitologia scandinava.


Il Kraken nella prima versione di Scontro tra titani del 1981

Lì il Kraken era la parte inferiore di un gigantesco aragostone, la parte superiore una sorta di tritone umanoide, che rinnovava le fattezze dei giganti di Harryhousen in un film credo totalmente dimenticato, l’Ammazzagiganti del 1962, e ne risulta un intreccio tra un troll di caverna, Alien e un vario tentacolato, poi moltiplicato a dismisura nel remake.


Harry Hamlin (Perseo 1981) e Sam Worthington (Perseo 2010)

Dopo di che, tra un Perseo pettinato alla Cele Vergottini della versione del 1981 e l’attuale marine, preferisco l’ingenuità del primo; in questo senso ci può essere l’idea di veicolare l’altro tramite un uso terra-terra del mito: a Giove non basta più l’iridescenza dietro la testa nella versione interpretata da Laurence Olivier, in questa’ultima versione deve diventare una sorta di jedi in corazza bianca, e forse l’attore Liam Neeson è stato scelto anche per questo [Neeson ha interpretato il guerriero Qui-Gon Jinn in Star Wars episodio I La Minaccia Fantasma ndr], oltre che per la sua splendida voce.


Laurence Olivier (Zeus 1981) e Liam Neeson (Zeus 2010)

Alla fine io credo che non sia altro se non l’ars combinatoria all’ennesima potenza quella contaminazione che è l’unico vero filo rosso che ha attraversato i generi e che è diventato l’‘altro’ genere. I generi –guerra, western movie, poliziesco, ecc. – sono finiti: è la contaminazione il nuovo, la cui grande idea spetta sicuramente a George Lucas.

A. P. – È possibile in film come Percy Jackson o Scontro fra Titani, individuare qualcosa che possa essere la cifra di un nuovo sguardo sull’antico? È solo quest’idea del melting-pot, della commistione spesso inopportuna di segni, temi, allusioni, figure a essere veicolo di tradizione del classico? Il cinema popolare con i peplum, o ‘sandaloni’, aveva un elemento comune forte: in queste nuove produzioni cosa può essere?

C. T. – In linea di massima no: continuo a ritenere più che sensato questo tipo di attenzione, ma parafrasando un bel titolo di un collega storico dell’arte e dell’architettura statunitense si tratta di un “eccesso di buona volontà culturale”, perché in tutto questo ci si dimentica la funzione della televisione. La mia generazione è cresciuta con l’Ivanoe con Roger Moore, i Robin Hood statunitensi, il Lancillotto francese, e quel tipo di apporto faceva da tessuto connettivo a favore dell’immaginario, insieme ai fumetti e all’onda lunga dei peplum, con ciò che ti raccontavano a scuola. A tutto questo la produzione televisiva anni Ottanta ha sostituito altro: un misto di storia e mitologia, da Xena la principessa guerriera – ambientata in un’ipotetica età del mito, in cui non si capisce bene perché questa guerriera debba diventare l’avversaria di Giulio Cesare – fino all’Hercules disneyano. Quelli sono diventati i riferimenti: una figura cupa del mito greco come Ade in Percy Jackson che veste come un metallaro si era già visto in Xena, e così via per tutti gli anacronismi del caso, di cui il taglio di capelli da marine dell’ultimo Perseo non è che l’ultimo esempio in ordine di tempo. In una sola occasione l’interrogativo ha una ragione al di là dell’oggetto a cui si applica: nel fatto che, mentre di solito un remake tiene l’ossatura del film primario, questo nella più recente versione di Scontro tra Titani non c’è. Il primo era sostanzialmente aderente – con un po’ di arrotondamenti – al mito di Perseo, questo invece no. Qui c’è l’idea che il dio dell’antichità non accetta di essere estromesso dalla beghe umane, non accetta di essere sottovalutato, di cedere il passo: è l’esatto contrario del Merlino disincantato che se ne va alla fine di Excalibur di Boorman e che dice “non è più il nostro tempo, i molti dei vengono sostituiti dal dio unico”. L’idea potrebbe essere una sola connessa al presente: una sorta di richiamo al bisogno di una decenza più che di una morale, “state attenti a non concentrare le vostre azioni, la vostra vita, il vostro essere sulle piccole beghe di portineria, perché da un altrove può arrivare la distruzione”.

A. P. – In questo tipo di produzioni recenti può essere presente una ricaduta sociologica conseguente alla scelta dei temi, degli eroi e dei personaggi presentati, a partire da Alexander (vedi la recensione pubblicata in Engramma), passando attraverso Troy (vedi la recensione pubblicata in Engramma), fino a questo ultimo richiamo al mito di Perseo?

C. T. – Sì, ma soltanto a patto di ricordare che ci sono due modi per smuovere l’interesse di chi poi metterà i soldi: puntare alla somma di tutti i luoghi comuni all’interno del genere – quando c’erano i generi – e da qui i prodotti all stars (dalla Conquista del West, a Il Giorno più lungo, ecc.) oppure, sempre per mancanza cronica di immaginazione, utilizzare quei personaggi che si ritengono far parte di un inconscio collettivo. Prendere i nomi che già si conoscono – al di là dei modi barbari con cui vengono pronunciati in americano – rende più facile modernizzarne l’immagine. Si dà per scontata la lettura iconica e si ritengono più semplici da attualizzare.

A. P. – Per quanto riguarda la scenografia: la scelta dei luoghi e le ambientazioni utilizzate per questi film è quanto mai anacronistica. Ad esempio in Percy Jackson l’accesso all’Ade avviene dalla collina di Hollywood, proprio attraverso la lettera “H” [come per “Hades” in inglese - o semplicemente “Hell” inferno ndr], mentre all’Olimpo ci si arriva dalla cima dell’Empire State Building di New York: due luoghi simbolo nel mondo americano contemporaneo, giustapposti però a un’altra location famosa, come la riproduzione del Partenone di Nashville. Un’oscillazione tra il falso e il finto…


L’accesso all’Ade in Percy Jackson e gli dei dell’Olimpo: Il ladro di fulmini

C. T. – Da questo punto di vista si tratta di una scelta a dir poco grossolana, tanto che – nel momento in cui non hanno l’equivalente per ciascuno delle tre principali avventure del film – si scollegano completamento da questa sequenza. I fratelli Cohen in Fratello dove sei (vedi la recensione in pubblicata in Engramma) tutto sommato erano stati più rigorosi a mettere insieme un immaginario impossibile – come la mucca sotto l’acqua, il ciclope, ecc. – rispetto all’ambientazione anni Cinquanta del film. E d’altra parte il Partenone di Nashville era stato il teatro del drammatico inaspettato finale di Nashville di Robert Altman del 1975.


Percy Jackson combatte l’Idra nel naòs del Partenone di Nashville

Credo che tutto sommato per le scenografie valga la componente che vale per i costumi: un gioco di allusioni, a scapito della congruenza. Nell’episodio presso la collina di Hollywood (quello che resta della parola originaria Hollywoodland) c’è un’altra perla del film: perché mai una frase di Dante andrebbe scritta in greco in modo tale da permettere al solo Percy (con l’innato dono di comprendere la lingua del padre Poseidone) di decifrarla e di recitarla? Neanche il fastidio di cercare eventualmente nel mito un’iconica frase greca che fosse congruente con le specificità del personaggio. Ma si deve invece presupporre che qualcuno dovrebbe aver scritto in greco antico una frase che viene da Dante in italiano tradotto in inglese. Peggio di così…


L’innata capacità del protagonista di tradurre le iscrizioni in greco antico si dichiara all’inizio in Percy Jackson e gli dei dell’Olimpo: Il ladro di fulmini proprio con una citazione al mito di Perseo

A. P. – Perché questo insistere delle produzioni hollywoodiane – spesso a sproposito – sulla mitologia greca e mai nulla sul mito nordico?

C. T. – Perché la mitologia nordica è meno conosciuta. Una buona parte del pubblico anglosassone, soprattutto americano, sa dell’esistenza di un mito nordico solo ed esclusivamente per le contaminazioni televisive. Per il pubblico statunitense l’unico paradigma della mitologia nordica è la serie parallela dedicata ai racconti di Asgard e dei fumetti che hanno come protagonista calato nella contemporaneità il mito di Thor.

English abstract

In spring 2010 came out at a distance of few days two U.S. films whose plot deal with Greek myth: Percy Jackson and the Olympians: the Lightning Thief, directed by Chris Columbus, and Clash of the Titans, directed by Louis Leterrier, a remake of the homonymous film directed in 1981 by Ray Harryhausen. In both films protagonist is the figure of Perseus, a mythical character little present in film adaptations, but especially the use – often excessive – of a mixture of themes, myths and references from antiquity. An ‘ars combinatoria’ that delegates to the spectacular the ultimate meaning of these productions.

keywords | Perseus; Columbus; Leterrier; Cinema.

Per citare questo articolo / To cite this article: A. Pedersoli, Da Perseo a Perseo: il filo rosso dell’ars combinatoria. Un colloquio con Cristiano Tessari su Percy Jackson e gli dei dell’Olimpo: Il ladro di fulmini di Chris Columbus (2010) e Scontro tra titani di Louis Leterrier (2010), “La Rivista di Engramma” n. 82, luglio/agosto 2010, pp. 28-36 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2010.82.0010