"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

64 | maggio 2008

9788898260096

Innamorarsi lentamente di una Categoria

Corrado Bologna

1. La misura di quel che ci manca

"Este libro pudiera ser llamado novela, novela autobiográfica. Contará la aventura de un hombre lentamente enamorado de una Categoría". La figura allegorica con cui Eugenio d'Ors apriva l'edizione spagnola del suo saggio sul barocco, originariamente apparso in francese, si adatta con forza spirituale immutata a descrivere la sottile relazione che lega Enrico Castelli e il suo Il demoniaco nell'arte.

Anche Enrico Castelli, come il suo per certi aspetti prossimo fratello maggiore catalano, si innamorò lentamente di una Categoria: come quello del Barocco, così lui del Demoniaco. Anzi, Castelli l'ideò, la elaborò, la plasmò come un'opera d'arte, la Categoria del Demoniaco. Ad essa si lega buona parte del suo pensare, del suo ricercare, in un attraversamento degli spessori storico-artistici, a loro volta ipostatizzati quali categorie dello spirito, dello stesso Barocco, del Manierismo, dell'Umanesimo.

"Aimer une femme passe encore; mais une statue, quelle sottise!", grida Damis a proposito dell'esorcismo di Apollonio che riscuote e salva l'"amoureux de la Vénus", nella Tentation de Saint Antoine di Flaubert, il più grande libro moderno sul Demoniaco tentatore, intriso di foltissime, erudite letture medievistiche. E già Thomas, il non meglio noto chierico anglo-normanno che per primo, nel XII secolo, mise in versi il grande mito di Tristano, aveva dichiarato ironicamente di non averlo mai provato ("esprové ne l'ai!"), quell'amore-passione dominante, quell'amore-ossessione invasivo che porta l'eroe triste per destino, perduta Isotta, a riprodurne l'immagine in una statua per parlarle, cedendo alla tentazione di sostituire un simulacro alla donna reale. Chiunque l'abbia provato, invece, sa bene che ci si può innamorare, oltre che di una donna (e di un uomo, e di una loro immagine), anche di un oggetto, di un gesto, di un'idea, di un ideale. Quindi (perché no?) anche di una Categoria.

E sarà pure "une sottise": ma solo per il cinico che, accogliendo l'insidiosa acedia, abbandonandosi all'abbaglio oscurante del demone meridiano, sente impossibile "mesurer ce qui nous manque", dando forma a un modo di essere e di vivere, a un'azioneche, sperimentando il futuro come progetto e misura di inediti mondi possibili, non dismetta l'interrogazione di fronte alla tenebra della propria natura difettiva, irriducibile all'interpretazione, e che anzi condiziona e dimensiona l'interpretare. A questo faceva cenno la bellissima formula petrarchesca ricordata da Christophe Carraud, Laurence Devillairs e Carlo Ossola nel riflettere intorno al lascito morale ed ermeneutico di Enrico Castelli alle nostre generazioni, che dev'essere anche, arricchito, il dono nostro a quelle a venire: "Erat […] potius quemadmodum in actum illa produceres experiendo tentandum"("Meglio sarebbe stato che tu tentassi di trovare il modo di mettere in pratica quello che avevi imparato", Petrarca, Secretum, III, §§ 191-192). In questa esperienza del 'modo', del 'mezzo' mediante il quale sperimentare e manifestare un'idea in actu, arricchendo l'ermeneutica con l'etica, si può ritornare a comprendere il nesso che stringe, nella storia etimologico-semantica, l'atto del 'valutare' (per i Romani metiri, part. mensus), quello del 'misurare' (mensurare) e l''intelligenza astuta e pratica' dell'eroe che sfugge all'insidia demoniaca dell'ambiguità interpretativa (per i Greci mètis): nodo affine all'altro che lega pensare a pendere, il Pensiero al 'peso mentale', alla 'misura' del 'peso' che hanno le idee e le cose.

Di mirabili, necessarie "sottises" come l'innamoramento per una Categoria vive la quête ininterrotta del pensiero: la ricerca, la filosofia, che Eugenio d'Ors definiva "passione del meditare"; una passio che coinvolge l'evento stesso del pensiero, la determinazione delle sue condizioni di esistenza. La si potrà rappresentare anche come l'aspra lotta con l'angelo (e con quell'angelo supremo e decaduto che è il diavolo) nell'urgenza di dar misura allo smisurato, alla mancanza che è anche infinita, irrisolta potenzialità, nello sforzo di dare figura e configurazione all'assenza, a ciò con cui ci si confronta e in cui ci si rispecchia secondo i parametri umani, terrestri, proprio in quanto appare incerto, inafferrabile nella sua smisuratezza.

Bevendone (secondo il paradosso dantesco) non si riesce a dissetarsi, perché "quel che ci manca" è il confine irrimediabile del nostro ricercare, il desiderabile di cui, come nell'amore cortese, è intrinsecamente prevista la non conquistabilità. Il paradosso dell'interpretazione consiste nell'ammettere l'insufficienza di qualsiasi procedura d'inquisizione, la 'mancanza' ontologica dell'inchiesta, che tuttavia del ricercare costituisce la premessa e la sostanza. L'Angelico (ma così, aggiungeremo con Castelli, anche il Demoniaco), secondo l'acuta osservazione di Michel de Certeau ripresa ancora da Carlo Ossola, "là dove è pensato permanente, si cancella, e quando lo si pensa effimero, riappare. Certi teologi moderni lo inseguono nel suo sfuggire e ritrarsi".

2. La tentazione del Genius

Lentamente, dunque, Enrico Castelli si innamorò di una Categoria. Il Demoniaco divenne il suo Dèmone familiare, il suo Genius. Divenne "il dio" (ma si potrebbe, pensando grecamente, dire anche: il dàimon) a cui - scrive Agamben - "ciascun uomo viene affidato in tutela al momento della nascita […]. Si chiama mio Genius, perché mi ha generato (Genius meus nominatur, quia me genuit) […]. Genius è la nostra vita, in quanto non ci appartiene". Il Genius-Dàimon genera l'individuo aprendolo alla coscienza di un limite irriducibile nella proprietà della vita: quindi come esperienza di "intimità di un essere estraneo", di costante "relazione con una zona di non-conoscenza", cioè di "una pratica mistica quotidiana, in cui Io […] testimonia incredulo del proprio incessante venir meno".

La vita dell'uomo si svela, in questa prospettiva, una costante lotta con il suo Genius, che è "ciò che non gli appartiene", per evitare di essere posseduto dal Genius finendo per appartenergli, diventando suo. Forme di manifestazione di Genius sono l'Angelo Custode e il Dèmone Tentatore, potenze dissimulate, che accompagnano, stringono, braccano e sostengono senza apparire. Il rapporto con essi fa cenno al limite consustanziale a quella non-appartenenza e non-conoscenza, ma anche alla sfida ininterrotta verso quel limite del conoscibile. Essi sono spie della difettività insita nella percezione della Mancanza che quel non-sapere e non-potere e non-possedere impronta di sé; ma anche riflesso, nel contempo, di un desiderio di misurarla e così ridurla, quella Mancanza, quella difettività. Dissimulano la loro presenza, come gli Pseudonimi di Kierkegaard negli Stadi sul cammino della vita: "Io sono un personaggio che scompare, come l'ostetrica quando il bambino è nato", dichiara Constantin; "c'ero, eppure non c'ero" dice, aforistico e paradossale, "il più reticente di tutti, William Afham".

Dall'Angelo-Dèmone occorre staccarsi per misurarne l'assenza, la distanza necessaria. La deformazione, la smorfia, il grottesco, la nausea, sono le tracce di un tale duello gnoseologico: "Il modo in cui ciascuno cerca di distogliersi da Genius, di fuggire da lui, è il suo carattere. Esso è la smorfia che Genius, in quanto è stato schivato e lasciato inespresso, segna sul volto di Io. Lo stile di un autore, come la grazia di ogni creatura dipendono, però, non tanto dal suo genio, ma da ciò che in lui è privo di genio, dal suo carattere" (Agamben).

Smorfia e nausea generate dal pensiero e dalla fantasticheria "sull'umano" anche per Castelli sono il marchio del limite. Trovano perfetta figura di simbolo nelle sfrenate, livide tentazioni di sant'Antonio e degli altri asceti che l'"incubo del deformato" assedia; nel "fantastico puro" attraverso cui "i dèmoni sferrano l'offensiva", poiché "è nella loro natura non essere natura"; nel "fantastico come defigurazione", che nasconde anziché manifestare (come fa invece la maschera, "un chiarimento, non un modo di nascondere": cioè il "simbolo" che con la sua "plurivalenza […] smaschera la direzione unica di un discorso che non vorrebbe lasciare alternative"). Quindi, nascondendo, il fantastico "esprime il demoniaco proprio perché […] maschera la maschera, diventando così tragicamente oppressivo". Per questo, nell'introdurre a Il demoniaco nell'arte, Castelli si sofferma sul "banchetto della nausea":

È certamente il simbolo del principio della disgregazione dell'essere. La nausea non è che il modo di distinguersi, un modo di distinguersi. Si ha la nausea quando buttiamo fuori di noi qualche cosa che non è assimilato. Ci separiamo. La nausea è un separarsi, o il principio di una separazione. Quindi la nausea è un aspetto del demoniaco, nel simbolismo dei pittori-teologi.

Oltre che la fenomenologia e la filosofia dell'esistenzialismo, Castelli ha letto e meditato (come dimostra ampiamente il diario) anche il Kierkegaard 'romanziere', Kafka e Camus e Sartre. Anzi, prima che di uno studio, il Demoniaco è per lui, fin dal 1949, tema di un "dramma filosofico", forse non riuscito dal punto di vista della messa in scena, ma certo umorale, teso, denso di spunti che il grande libro più tardi svilupperà, teorizzando (come suona il sottotitolo) un "significato filosofico del Demoniaco nell'arte":

Quando si parla della storia umana, si parla di una storia della possibilità di errore che è la storia stessa del male, perché la nostra possibilità, in quanto costituisce una tentazione, è già un male. È un male, teologicamente parlando, fecondo di bene. Sia, ma fecondo anche di male e, in quanto è tentazione, non è pace, è dramma […]. Tutta l'esperienza religiosa cristiana lo proclama e un'indagine filosofica non può prescindere da questa proclamazione, che non è altro che una constatazione: la storia del possibile è la storia stessa del male. Ché, se "fatti non foste a viver come bruti - ma per seguir virtute e conoscenza", è lo stesso seguire "ragione e conoscenza" una tentazione che ci immette nella condizione drammatica di identificarci con la ragione stessa, e fa coincidere la nostra esistenza col pensiero puro, proclamandoci la Divinità medesima […]. Si è dannati per la ragione, dalla ragione, con ragione.

3. Ermeneutica, teatro, cinema

Castelli pensava teatralmente. Teatrale è la sua ermeneutica, e forse (se è lecito dirlo) anche la sua teologia, dominata da Enti opposti, da agonisti e deuteragonisti in movimento su un palcoscenico che l'arte figurativa visualizza cristallizzandone le forme, ma che già sul piano categoriale hanno contorni forti, possenti dinamiche. Però lo attrae anche il cinema, forma moderna di rappresentazione del movimento. Se il platonismo degli umanisti, e più ancora l'aristotelismo del XVI secolo, avevano ribadito "il primato dell'immobile sul mobile", "il titolo di preferenza dello statico sul dinamico", l'"essere dinamico, tumultuoso, indefinito, proteiforme, psicologicamente aggressivo, ripugnante, o seducente", appare una caratteristica peculiare del demoniaco: nel quale non a caso un formidabile allievo indiretto di Castelli, Eugenio Battisti, individuerà "un aspetto essenziale dell'antirinascimento", ponendolo a fondamento d'una parte notevole della sua rivoluzionaria esplorazione delle manifestazioni 'anticlassiche' e dei risvolti oscuri del Rinascimento.

Il cinema offre dunque a Castelli, attraverso il genere del documentario d'arte, uno spazio privilegiato per restituire alla vita il dinamismo intrinseco delle opere cui i "pittori-teologi" affidano la scenografia della loro ermeneutica sacra. Nel 1949 riflette sul "discorso filmico" come "discorso del partito preso"; partecipa attivamente a congressi di filmologia al Festival di Venezia; con arditissimo slancio interdisciplinare decide di dedicare il III fascicolo dell'"Archivio di Filosofia" a Psicologia e nuove tecniche del discorso (oppure Psicologia e Linguaggio: nuove tecniche del discorso: Filosofia e Linguaggio sarà la più prudente titolazione definitiva, nel '50). Mentre prepara un'esposizione che si realizzerà con grande successo a Roma nella primavera del 1952, già nel '51 Castelli, in collaborazione con suo fratello, si dedica alla realizzazione di alcuni filmati, come spiega più in dettaglio nella Premessa a questo libro Enrico Castelli Gattinara jr., la tenace, operosa pazienza del quale li restituisce oggi a fruibilità come importanti materiali di secondo livello per accostarsi all'interpretazione de Il demoniaco nell'arte.

Le pagine diaristiche garantiscono l'importanza che questi documenti assumono nella concezione di Castelli di un'ermeneutica dell'immagine, addirittura nell'accostamento alla non sempre amata arte contemporanea, e come canale di viva comunicazione anche con gli artisti o i non-intellettuali. Castelli proietta i suoi documentari, accompagnati da testi di commento, non solo a raffinati umanisti, ma agli operai della Olivetti; e quando gli accadrà di incontrare quest'ultimo, durante una proiezione privata di Giulietta degli spiriti, non mancherà di donare una copia del suo Tempo esaurito a un regista che a sua volta il Demoniaco aveva corteggiato e interpretato, Federico Fellini.

Letteratura, teatro, cinema, arte, come forme di pensiero, forme spirituali diverse da quelle della filosofia o della teologia, ma che giungono a cristallizzare al di là dell'argomentazione razionale un'idea della realtà, dei fatti, delle cose, per inserirla nella vita, e così per avviare la sua interpretazione: è uno dei messaggi più forti dell'ermeneutica di Castelli. È appunto uno scrittore, il Kafka 'teologico' degli aforismi di Zürau che, unico nel Novecento, riuscì a "creare una demonologia moderna" lottando con i dèmoni "come un moderno Evagrio, ricco d'ironia" (Zolla), ad aver colto fulmineamente fra i primi la paradossale natura del Demoniaco, la contraddittoria capricciosità della sua potenza seduttiva che pretende una fede, e che si sconfigge solo negandola, la fede, e opponendole unaconoscenza impassibile:

Uno dei mezzi di seduzione più efficaci del male è l'invito alla lotta. È come la lotta con le donne, che finisce a letto.
Una volta accolto in noi, il male non chiede più che gli si creda.
I pensieri reconditi con i quali accogli in te il male non sono i tuoi, ma quelli del male.
L'uomo non può vivere senza una costante fiducia in qualcosa di indistruttibile dentro di sé, anche se quell'indistruttibile come pure quella fiducia possono rimanergli costantemente nascosti.
In teoria vi è una perfetta possibilità di felicità: credere nell'indistruttibile in noi e non aspirare a raggiungerlo.
La nostra arte è un essere abbagliati dalla verità: vera è la luce sul volto che arretra con una smorfia, nient'altro.
Può esservi un sapere del diabolico, ma non una fede, poiché di diabolico non può esserci più di quanto già c'è.

4. Gli 'incontri dell'Epifania'

La Categoria del Demoniaco fu il Genius di Castelli. Lo ispirò, lo assediò, lo sedusse, tessendo con lui un dialogo scientifico ed esistenziale di grande intensità, mai più intermesso. Fu la sua diabolica tentazione e il suo braccio di ferro con l'Angelo. Impresse un marchio al suo stile, sempre additando e sempre negando il punto-limite del pensabile, del dicibile, scandendone i modi e i tempi dell'assunzione di un abito verbale: perfino, direi, all'elaborazione di una 'maniera', o tecnica argomentativa, improntata alla fulmineità aforistica, una sorta di mordi-e-fuggi espressivo, traccia della battaglia interiore e sua rappresentazione in forma di linguaggio.

Del Demoniaco Castelli riconobbe il drammatico ruolo teologico di deuteragonista del Divino. Ne vide il valore ermeneutico, l'importanza acquisita in una secolare interpretazione da parte degli 'artisti spirituali' europei, soprattutto quelli settentrionali di età umanistico-rinascimentale: e proprio mentre la categoria del Divino andava oscurandosi fino all'eclisse nel pensiero teologico legato al principio della demitizzazione, egli rilanciò quella che gli parve la sfida estrema, la sommamente sagace trappola metafisica disposta dal Demoniaco per negare il suo opposto: e assunse l'onere della sua difesa, studiò, rappresentò, protesse questa categoria fino a darle autonoma dignità e autorità, perché irresolubilmente annodata all'altra. Il progetto fu di salvarle entrambe, per salvare quella essenziale, riconoscendo nel Demoniaco lo specchio del Divino, pur distorto, deformato, snaturato. Per questo, coraggiosamente, egli elesse il Demoniaco a momento centrale della propria riflessione scientifica nel quadro della filosofia della religione (disciplina che insegnò a lungo all'Università di Roma); gli diede la caccia come alla dantesca pantera dall'alito profumato, lo inseguì "nel suo sfuggire e ritrarsi", lo snidò nel suo permanente dislocarsi altrove rispetto al luogo culturale in cui la quête della ricerca invitava a riconoscerlo.

Quest'innamoramento per una Categoria, anziché ridurlo nell'eremitaggio della meditazione segregata, generò in Castelli, e non solo nella sua scrittura, una contagiosa maniera, uno stile condiviso: stile del vivere e del ricercare, maniera dell'essere e del pensare, entrambi trasformati, al di là dell'irriducibile solitudine della condizione umana, in pratica dell'esistenza e della relazione con gli amici sodali nella quête, in progetto di futuro basato sulla solidarietà di individui e di generazioni. Cuore pulsante, generosa offerta di grazia trasmessa in forma di parola scritta a noi perché possiamo trasmetterlo al tempo per noi ancora a venire, furono i memorabili congressi-seminari voluti e coordinati da Castelli intorno a temi e problemi che nascevano dalla sua personale ricerca, ma che erano capaci di raccogliere e accendere menti diversissime, abitudini e pratiche di lavoro anche molto lontane. Festosa e fastosa, strabiliante cornucopia di doni del pensiero, della grazia, della generosità intellettuale intorno a un'idea e a uno slancio, che potremo definire ormai gli 'incontri dell'Epifania'.

Con ritmo annuale, nei primi giorni di gennaio, essi riunirono a Roma da tutt'Europa il fiore dell'intelligenza: filosofi, teologi, ermeneuti, linguisti, storici dell'arte, storici delle religioni, storici delle mentalità. Si trattò quasi d'un sempre identico e sempre rinnovato rito di passaggio stagionale, ma anche epocale: quasi della fondazione di un nuovo axis mundi dello spirito. Risuonava ancora una volta, al di là dei nazionalismi e dei revanscismi, l'antica voce polifonica, infine nuovamente armonizzata, dell'Europa restituita oltre ogni retorica, e proprio a Roma, alla solidarietà umanistica e al ritrovamento delle radici comuni nel blasone di un sentire collettivo espresso in lingue diverse, per resuscitare dalle rovine visibili l'invisibile vita, deformata ma non annullata dal Demoniaco incarnato nella storia. L'ermeneutica tornava ad offrire una misura e una maniera all'evento delicato e rischioso dell'interpretazione: applicata non più solo alle parole, ma alle immagini, silenti nodi di senso, immobili, mute pietre d'inciampo e di paragone cariche di energie comunicative da scoprire e liberare.

Tanti decenni più tardi, nel 1980, tre anni dopo la morte di Castelli, quegli stessi sodali (in assenza, ormai, degli scomparsi: Robert Klein, Erich Przywara) si sarebbero raccolti in un'ultima cena spirituale intorno al suo nome: oltre agli italiani (fra i quali Eugenio Battisti, Rubina Giorgi, Cesare Vasoli, Raoul Manselli, Gillo Dorfles, Maurizio Bonicatti), Hans-Georg Gadamer e Paul Ricoeur, Stanislas Breton e François Secret, Karl Rahner e Marie-Dominique Chenu, André Chastel e André de Muralt, Raimundo Panikkar e Karóly Kerényi, Emmanuel Lévinas e Vladimir Jankélévitch,Yves Congar e Xavier Tilliette.

Non un 'metodo' né un''ideologia' né un 'magistero', ma un 'progetto' e, appunto, una 'maniera' intellettuale e umana affratellava quegli spiriti di somma altezza d'ingegno: tutti disposti a rivedere e soprattutto a ridistribuire il proprio altissimo, variato specialismo in una coralità e in una comunione talmente intense che non saprei definire se non angeliche. Gli incontri dell'Epifania diedero vita, nella memoria fedele del progetto di Castelli, non ad una 'scuola' né ad un 'istituto' né a un 'circolo', ma a quello che direi un cenacolo, un simposio platonico e umanistico, à la manière de Ficino e degli altri umanisti così cari a Castelli. Straordinaria agàpe intellettuale e umana altrimenti impensabile, e mai pensata né realizzata in séguito con tanto sovrana libertà, essa vide la luce proprio quando la filosofia incominciava a dichiarare di essere - così Martin Heidegger - "entrata nel suo stadio terminale"; e continuò a illuminare finché Castelli fu vivo, perforando l'oblio e l'inerzia dei tempi per giungere attraverso i suoi eredi spirituali fino alle attuali generazioni, a offrir loro, ancora e sempre, un modo e un mezzo per mettere in pratica, manifestare nell'esperienza, il comune desiderio di andare oltre.

La stessa condivisione nella ricerca di ciò che sfugge e si ritrae, che appare fondamento ed è assenza, mancanza, incompletezza, rischio, Roland Barthes (il quale dedicò il primo corso al Collège de France, chiuso proprio mentre Castelli scompariva, al "fantasme" dell'"idiorrythmie", del "Vivre-Ensemble", saldando l'"Éloge du Un" al "désir du Deux") in uno dei suoi primi saggi l'aveva definita "chant de solidarité", capace di farci "goûter le plaisir de n'être plus singulier en restant soi-même":

C'est se soutenir par des générations antérieures d'hommes semblables, à la pointe desquelles il nous suffit de nous savoir pour éprouver le vertige de l'obscur et la sécurité d'un passé lumineux.

5. Il dèmone dell'acedia

Quando Enrico Castelli ne riconobbe il fascino pericoloso, innamorandosene lentamente, il Demoniaco era ancora una categoria indefinita dalla cultura italiana ed europea. Eppure tangibile era la sua devastante presenza negli eventi e nei fantasmi quotidiani, in quegli anni di mostruosità assolutamente demoniache che sembravano travolgere nel "vertige de l'obscur" la fiducia in un futuro della Storia, umanisticamente garantito dalla "sécurité d'un passé lumineux". Il Demoniaco parve esplodere proprio nel cuore dell'umano e dell'umanistico, seducendolo e atterrandolo, con l'orrore totale, al mostruoso superiore a ogni immaginabilità: nullificandolo nell'indistinzione radicale fra umano e non-umano.

Non a caso nell'affrontare i limiti categoriali del Demoniaco Castelli bordeggia e riformula, in chiave di teologia della storia e diesistenzialismo teologico, anche alcuni temi messi a fuoco dalla psichiatria esistenziale e dalla psicopatologia fenomenologica. Ai paradigmi categoriali di quelle discipline e di quelle posizioni filosofiche, innestati in livelli epistemologici diversi e integrativi quali la fenomenologia dell'arte e della religione (in particolare Rudolf Otto, del quale rimedita la categoria di tremendum), riconducono alcuni concetti-cardine de Il demoniaco nell'arte, e poi Simboli e immagini: alienazione, delirio, inautenticità, maniera e manierismo, capriccio e capricciosità, artificio e artificiosità.

Con queste chiavi di lettura complesse, articolate, sarà opportuno affrontare i momenti centrali in questo libro. Così, nella parte I, il capitolo V, La capricciosità e l'orrendo:

Un capriccio non ha seguito, è l'espressione di una solitudine e, nello stesso tempo, l'espressione del possibile. Questo il mostruoso. […]
Nell'esame di una capricciosità si esaurisce subito un'esistenza; cioè vien meno. Si esaurisce perché la capricciosità è la manifestazione di una esistenza effimera, escludente la durata. L'esame di esistenze inattuali (la capricciosità è un aspetto del possibile) mette in luce il mostruoso, se l'inattualità non viene tenuta presente. L'infernale di una vita è il senso del possibile inattuato. […]
Mathias Grünewald, nella pala d'altare di Issenheim, ha dipinto un saggio di possibilità contraddittorie.

Oppure, nella parte II, il capitolo III, Il geroglifico di Bosch (dove si riconoscerà, dalla proposizione del tema-base alle sue variazioni ermeneutiche, fino all'esemplificazione in clausola, una cadenza ritmico-argomentativa identica a quella del brano appena riportato):

La storia dell'uomo è la storia di continue cadute: la disgrazia per l'opposizione alla Grazia. C'è un invito assillante (è questo il significato profondo della storia umana) a prender partito tra due cieli: quello dell'artificio demoniaco e quello che il sacrificio del Redentore ha aperto agli uomini di buona volontà. Sacrificare l'artificio è il prezzo della salvezza. […]
L'arte di Bosch è l'arte della denuncia dell'artificio; la denuncia dell'artificio demoniaco: lo documentano l'Inferno musicale del grande trittico del Prado, la Messa sacrilega del trittico di Lisbona (tragica storia del male nel mondo), i boschi incantati, i pesci volanti, i fiori strani, che sconcertano con i colori e le forme.

L'attenzione di Castelli, oltre che per il pensiero di Husserl e di Heidegger, anche per gli scritti psichiatrici di Karl Jaspers, Ludwig Binswanger, Eugène Minkowski, documentata dalle pagine del diario, sempre fitte di appunti bibliografici, si accende negli anni che precedono e vedono sbozzolarsi il lavoro intorno al Demoniaco. E i loro nomi, i problemi da essi impostati, perfino una certa selezione lessicale e una peculiare modalità stilistica da essi privilegiata, si riverbereranno ne Il demoniaco nell'arte (quasi un condensatore di energie d'investigazione) ed in altri libri di Castelli, e poi, a lungo, nei volumi monografici dell'"Archivio di Filosofia", la ricchissima collezione di atti monografici degli 'incontri dell'Epifania'. Per non dire dei molti giovani, i cui nomi non figurano per iscritto, ma che il seme di quegli incontri avrebbero fatto fruttare nelle loro opere (il già ricordato Eugenio Battisti, Carlo Ossola, e l'allievo destinato a succedergli sulla cattedra romana di Filosofia della religione e nella direzione dell'"Archivio" dopo il 1977, Marco Maria Olivetti).

Dal momento che la bibliografia francese è per Castelli più immediatamente fruibile di quella tedesca, Minkowski, in particolare, lo interessa: vorrà conoscerlo di persona, e riuscirà ad incontrarlo infine a Parigi alla fine del 1954. Fin dal titolo s'intravede la presenza viva di Le temps vécu (1933) nella filigrana delle decennali ricerche sulla fenomenologia del vissuto temporale, talora svolte in una forma diaristico-aforistica che mi sembra almeno in parte ispirata ai moralisti classici (Il tempo esaurito, 1947; Il tempo invertebrato, 1969). Ne I presupposti di una teologia della storia, pubblicato a distanza di poche settimane da Il demoniaco nell'arte, un intero capitolo (Lo "status deviationis") ritrascrive nella sua peculiare dimensione filosofico-teologica alcune fra le categorie tipiche della Daseinsanalyse: "l'incomprensibilità del delirio" come "incomprensibilità dell'estraneità pura", l'"alienazione mentale" come "stato di indigenza, cioè […] stato naturae lapsae".

Al di sotto della specifica ricerca intorno alla fenomenologia storica della categoria-Demoniaco, ovvero al suo prender forma nelle opere di quelli che Castelli si spinge a definire, arditamente, "pittori-teologi", al centro de Il demoniaco nell'arte sta l'orrore assoluto, fascinoso e atterrante, provato di fronte al rischio di annullamento dell'umano. Morbosa, vischiosa è l'acedia del dèmone che invita ad accogliere in sé il "disfacimento", a "lasciarsi andare" interrompendo la veglia ascetica della meditazione e accettando di "abbandonarsi, cioè di non essere più". È al massimo grado "seducente rinunciare allo sforzo di mantenersi nella consistenza" come fa chi, non "perseveran[d]o nell'appello a Dio", ridotta la Grazia a res amissa, rinuncia all'agape per sedersi alle "tavole imbandite, ma imbandite di nulla", simbolo apocalittico del Triumphus Nihili esaltato dagli artisti spirituali di Castelli: Bosch, Bruegel, Lucas van Leyden, Jan de Cock, Peter Huys, Dürer, Cranach...

Il bordo di quel Nulla è costeggiato con avidità capricciosa dai moralisti rinascimentali e barocchi, cacciatori affascinati dalla ricerca (demoniaca) del confine tra micro e macrocosmo, che nella sua incommensurabilità si perdono: "ed è proprio la 'perdita di misura' che il Nulla sottrae alle proporzioni vitruviane del cosmo rinascimentale, una perdita di misura e di centro, che avvierà all'eccedenza ed all'eccentricità l'esperienza barocca". A un Nulla che non perde ma è perduto, che si desidera ma rimane per sempre inconoscibile e perciò punge con l'edenica "spina della nostalgia" ("il contenuto o oggetto di tale nostalgia è la nostalgia stessa") fa cenno, nella sua "ateologica" "caccia al Bene perduto", nel suo cedere alla tentazione (angelica? demoniaca?) di volgersi ad una Grazia "sempre già res amissa, sempre già in appropriabile", la poesia di Caproni:

Il ne anaforico che apre Res amissa ("Non ne trovo traccia") resta per sempre privo del termine anaforizzato che solo potrebbe fornirgli il suo valore denotativo. (Agamben)

6. "Giacere sul fondo"

Anche se si colloca su un piano molto diverso, l'immersione nel "vertige de l'obscur" del Demoniaco condotta con lucida profilassi attraverso lo strumento dell'ermeneutica filosofico-teologica dell'arte sacra dal cattolico Castelli, mi richiama alla mente, quasi per automatismo, le pagine terribili, ferocemente nitide, che l'ebreo Primo Levi dedicò all'"uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso", all'uomo-nessuno spiombato senza speranze nell'inferno puro che è l'esperienza estrema di "giacere sul fondo", divelto dal suo essere nell'abisso di una necessaria quanto impossibile ars oblivionis ("accadeva di ricordare e pensare, ed era meglio non farlo"; "la compagna di tutti i momenti di tregua […]: la pena del ricordarsi, il vecchio feroce struggimento di sentirsi uomo").

Quest'uomo-nessuno, immobile di fronte allo scatenamento del Demoniaco incarnato, ormai derelitto perché senza speranza, si abbarbica alla soglia ultimativa dell'umano: all'idea "che appunto perché il Lager è una gran macchina per ridurci a bestie, noi bestie non dobbiamo diventare; che anche in questo luogo si può sopravvivere, e perciò si deve voler sopravvivere, per raccontare, per portare testimonianza; e che per vivere è importante sforzarci di salvare almeno lo scheletro, l'impalcatura, la forma della civiltà". Non "sopravvivere", ma "soccombere" nella derelizione cedendo all'orrore del Demoniaco, alienandosi rispetto all'umano, lasciandosi trasformare in Demoniaco, "è la cosa più semplice", in "questo complicato mondo infero", in quest'"opera di bestializzazione" messa in opera dal "genio della distruzione, della controcreazione".

Non dissimilmente pensava, nelle folgoranti riflessioni sul male e sulla lotta con il mondo e sulla "costante fiducia in qualcosa di indistruttibile dentro di sé" depositate negli otto Quaderni in ottavo, e per più versi connesse agli aforismi di Zürau, l'ebreo Franz Kafka. "Educato da devoti genitori ch'assidici" ma abbeveratosi alla tradizione del pensiero cabbalistico, "a un pensiero creato nell'esilio e nella solitudine, che poteva dare la forza di guardare un mondo dove esilio e solitudine sono necessari" (Zolla), Kafka conquistò la consapevolezza che conoscere significa concentrarsi nell'astrazione non fino ad annullarsi, ma giungendo a scoprire dietro la seduzione delle cose il "nulla di cui ogni cosa è intrisa e attraversata", e comprendendo, come uno stilita siriaco o un asceta egiziano, che:

La vera via passa per una corda che non è tesa in alto, ma appena al di sopra del suolo. Sembra destinata a far inciampare più che a essere percorsa.

Pur essendo un lettore avveduto del Kafka romanziere, Castelli non ne poté conoscere il pensiero del Demoniaco, dal momento che i Quaderni in ottavo apparvero in Italia solo nel 1960; tale pensiero ci aiuta però a penetrare l'universo di questo difficile, talvolta oscuro ermeneuta dell'arte sacra. È il pensiero del Male come limite dell'umano che l'impassibilità dell'asceta sfida guardando (ma senza poterlo vedere) all'"indistruttibile dentro di sé", e arretrando "con una smorfia", "abbagliato dalla verità". Così negli aforismi annotati in rapida successione nel terzo quaderno, fra il 4 e il 7 dicembre 1917:

Il Messia verrà soltanto quando non ci sarà più bisogno di lui, arriverà solo un giorno dopo il proprio arrivo, non arriverà all'ultimo giorno, ma all'ultimissimo.
Vedere se stessi come una cosa estranea, dimenticare ciò che si è visto, conservare lo sguardo.
Il male è il cielo stellato del bene.
Fu necessaria la mediazione del serpente: il male può sedurre l'uomo, ma non farsi uomo.

7. Incontri fortunati e incontri mancati

Quando Castelli avviò le sue ricerche, né i filosofi né i teologi si occupavano di ermeneutica dell'arte. Né gli studiosi di storia dell'arte o di estetica si curavano di teologia o di filosofia (fatti forse salvi i bizantinisti, cui s'imponeva di affrontare i temi ardui ma necessari della teologia apofatica, della visione dell'invisibile-indicibile, come centro della teologia dell'icona). Anche in questa dimensione, Il demoniaco nell'arte, dopo più di mezzo secolo di assenza dalle librerie (è divenuto ormai una assoluta rarità bibliografica) e dalla discussione intorno all'ermeneutica, appare più che mai un miracolo di intuizione dell'oggetto di studio e di originalità metodologica.

Le ricerche "psicostoriche" di Aby Warburg, che per tanti aspetti anticipano e che avrebbero potuto accompagnare e irrorare l'approfondimento di Castelli, erano quasi inaccessibili per un atteggiamento di esclusività ermetico-esoterica entro il recinto riparato della 'scuola' e dell'Istituto prima amburghese, quindi londinese (dopo il 1933): le difficoltà di circolazione delle idee e degli uomini, e il clima di sospetto e di irrigidimento ideologico, in anni che si fecero con moto rapidissimo aspramente autarchici, impedì fino al dopoguerra una reale circolazione del complesso, originalissimo progetto warburghiano oltre le ancora ristrette frontiere disciplinari della storia dell'arte.

In particolare, nell'Italia crociana o anticrociana non si dava ancora alcuno spazio culturale perché maturassero un atteggiamento interdisciplinare e un'ermeneutica filosofica dell'espressione artistica fondata sulla diretta esplorazione dei documenti. Nell'aprile del 1930 uno spirito vivace e acuto del rango di Giorgio Pasquali aveva pubblicato sulla rivista Pègaso un ampio ritratto di Warburg, appena scomparso (1929), lamentando l'assenza assoluta di attenzione per le opere del grande maestro, il cui nome incominciava ad essere noto solo per la Biblioteca, allora ad Amburgo. Ma non ostante la sua precisa, penetrante e documentata focalizzazione dei principali temi warburghiani, con puntuale sottolineatura dell'attenzione per gli elementi dionisiaci e demoniaci nell'arte del Rinascimento, nessuno colse l'eccezionalità di quell'esperienza culturale. Non la colse Castelli, che non aveva ancora scelto l'ermeneutica della filosofia dell'arte come proprio campo privilegiato. Ma non la colse, si dovrebbe dire incredibilmente (se non si fosse costretti a ipotizzare una rimozione intenzionale per ostilità esplicita verso il metodo warburghiano), neppure un sommo specialista quale Roberto Longhi, che su Schifanoia, i suoi dèmoni e i suoi dèi avrebbe pubblicato, nel 1933, un capolavoro come Officina ferrarese, escludendo dall'esame delle fonti bibliografiche il decisivo contributo di Warburg. Però Castelli non conobbe Longhi, studioso destinato a rimanergli totalmente estraneo, come mostrano i rari e interrogativi accenni nel diario.

L'assenza di fatto dell'opera di Warburg durante gli anni fra i Trenta e i Sessanta del Novecento, non solo nella cultura italiana, ma in quella europea (con rarissime eccezioni: primo fra tutti, Ernst Robert Curtius), escluse dal dibattito scientifico su tutti i livelli epistemologici il suo raffinato pensiero intorno all'iconologia, ma soprattutto le sue ricerche sulle categorie di Pathosformeln e di Dynamogramm (delle quali non possediamo ancora tutti i protocolli e i palinsesti). Della rivoluzione warburghiana Castelli non seppe mai. Essa gli scivolò per così dire accanto, con la sua infinita erudizione iconologica e psicostorica intorno ai dèmoni e agli angeli, alle ninfe orgiastiche e alle possessioni diaboliche, ai mostri e alle tentazioni degli asceti e dei mistici.

Eppure, che straordinaria, epocale affinità problematica e argomentativa, pur nell'antitetica posizione di fondo, si riconosce nella scrittura dei due! Di qua la condanna warburghiana, consegnata al saggio 'terapeutico' sul Rituale del serpente, della "civiltà delle macchine" che "distrugge ciò che la scienza naturale derivata dal mito aveva faticosamente conquistato: lo spazio per la preghiera, poi trasformatosi in spazio per il pensiero", con il codicillo che "Il telegrafo e il telefono distruggono il cosmo. Il pensiero mitico e il pensiero simbolico, nel loro sforzo per spiritualizzare il rapporto fra l'uomo e il mondo circostante, creano lo spazio per la preghiera o per il pensiero, che il contatto elettrico istantaneo uccide". Di là, certe pagine di Castelli sugli "effetti della tecnica che tendono a generare impressioni nuove, cariche di quel mistero che i demoni del XIII secolo avevano per i fedeli", con la conclusione, davvero inattesa in uno studioso ideologicamente tradizionalista: "C'è un mondo luminoso della tecnica che non è meno evocativo (forse più evocativo) del mondo luminoso di luce solare e lunare". Tuttavia l'incontro anche in questo caso fu mancato: le due uniche occorrenze del nome di Warburg nel suo diario si collegano alla scoperta durante un viaggio a Londra, attraverso Frances A. Yates e Gertrud Bing, della Biblioteca e soprattutto dell'immensa raccolta fotografica, alla quale Castelli fece successivamente ampio ricorso per raccogliere le quasi duecento tavole de Il demoniaco nell'arte.

Solo tre anni dopo l'uscita del libro di Castelli (1955) Jurgis Baltrušaitis avrebbe pubblicato il suo libro importantissimo sul Moyen âge fantastique. Ma Castelli aveva già a disposizione, da attraversare e schedare, almeno i preziosi e ormai classici repertori iconografici di Émile Mâle sull'arte religiosa nel Medio Evo francese, e le ricerche di Waldemar Deonna sulla genesi delle figure mostruose nell'iconografia, d'una erudizione raffinata e sensibile alle prospettive dell'antropologia e dell'etnologia. E l'investimento religioso delle figurazioni cristiane, il contenuto intellettuale e il valore semiotico, di segno da illuminare nel suo mascheramento simbolico, dell'iconografia cristiana - la cui grammatica e il cui lessico si distendono come un immenso tappeto testuale su un arco cronologico di ampiezza millenaria - era stato messo in luce in decennali, eruditi approfondimenti dal russo André Grabar, trasferito in Francia, dove avrebbe coronato la carriera al Collège de France.

Castelli non fece ricorso, invece, a La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, capolavoro del suo collega all'Università di Roma Mario Praz, soprattutto perché in quell'oceanica, meravigliosa biblioteca erudita, dove per la prima volta erano stati affrontati i temi dell'oscillazione del gusto e del mal du siècle come malattia spirituale e culturale di una civiltà, venivano repertoriate essenzialmente opere letterarie moderne: e la ricerca di Castelli si concentrò invece sull'arte religiosa dell'umanesimo nel Nord-Europa. Nel diario il nome del grande anglista e comparatista figura sempre per mere occasioni accademiche o mondane. Nei libri di Praz, invece, l'attenta considerazione per Il demoniaco nell'arte (ad esempio per l'interpretazione dell'opera di Bosch attraverso lo studio dei suoi rapporti con la corrente religiosa del Libero Spirito) dà prova di una meditazione che supera il puro ricorso documentario alle fonti raccolte e discusse da Castelli.

Per Castelli l'approssimazione all'opera d'arte non si esauriva nel filtro dell'erudizione, e neppure muoveva da esso, che gli era invece necessario per sostenere con solidità di prove il suo accostamento empatico, la sua ermeneutica teologica. Già dalla prima nota del suo diario in cui è traccia di un progetto di lettura di un'opera d'arte (su cui Enrico Castelli jr. richiama l'attenzione nella Premessa a questo libro), il 26 dicembre 1945, ancora in mezzo ai cascami e ai relitti dell'Europa distrutta, a muovere la parola e lo sguardo indagatore è l'emozione di fronte all'oggetto artistico non come astratto valore estetico, ma come soggetto vitale, colmo di una verità da rivelare, al pari del primitivo con la sua fragile presenza in crisi dinanzi al vento, e il malato con il segreto della sua malattia: come atto di significazione ermeticamente sigillato, e quindi da penetrare in profondo attraverso l'ermeneutica. Il mistero del senso occulto dell'opera d'arte (che è rischio di non-senso), del senso segreto da far uscire, da portare alla luce, si scioglie solo a condizione che l'ermeneutica prenda a riconoscerne la forza di "simbolo", ossia (come spiega questo libro, con una frase notevolissima già ricordata) di "maschera" che, lavorando ritualmente al modo di Hermes, aprendo a una gamma di possibili interpretazioni si offre come "un chiarimento, non un modo di nascondere", giacché con la sua "plurivalenza […] smaschera la direzione unica di un discorso che non vorrebbe lasciare alternative".

Già allora è di filosofia e di ermeneutica che si parla, e di arte come momento autonomo e pieno della manifestazione del pensiero, come discorso filosofico:

La filosofia - si legge nei Diari - deve convincere ricorrendo a molti mezzi […]. Ho acquistato delle riproduzioni dei quadri di Girolamo Bosch. Mi interessa questo fiammingo della fine del XV secolo per le sue fantasie malate. Vuol convincere ricorrendo al mondo intimo della sua sovraeccitata sensibilità. Il discorrere della filosofia ha dei punti di contatto con l'arte di Bosch.

Come per i "pittori-teologi" da lui svelati e interpretati, come per l'innamorato della categoria del barocco Eugenio d'Ors, anche per Enrico Castelli l'"evidencia" è "videncia", e l'"arte de mirar" va riscattata dall'astrazione razionale che la soffoca: "non si comprende senza vedere, tanto meno si ottiene la visione senza la comprensione". Anche per lui filosofare è "pensar con los ojos".

8. L'impassibilità, la Grazia

Fra le diverse dimensioni culturali che il libro di Castelli sintetizza non si dovrà trascurare l'inespressa (ma percepibile a una lettura stratigrafica), dolente considerazione del disastro contemporaneo, della rovina della storia e della nausée che essa genera, invitando all'abbandono, alla demoniaca acedia che non consente più di uscire dallo scoramento.

Gli antichi asceti del deserto i cui scritti sono stati raccolti nella Filocalia (ma che Castelli, se non vedo male, non ricorda) si dedicarono a lunghi e sottili esercizi iniziatici nell'arte di discriminare gli spiriti, concentrandosi, rifiutando il "vagabondaggio mentale" che dissolve il Pensare nella giostra infinitamente ingannevole del "pensiero girovago", e respingendo, immobili, l'assalto del "dèmone dello scoramento, detto il dèmone meridiano", che "è il più opprimente di tutti", perché spoglia della speranza: il più gravoso, ma anche quello che con le sue sfide nel segreto del silenzio interiore, "in compenso, più di ogni altro rende l'anima esperta". L'appello alla Grazia, che per Castelli è l'unica garanzia per non soccombere al Demoniaco, si sostiene solo con l'ininterrotto esercizio spirituale che fonda e rafforza l'impassibilità, forma dell'hesychía come quieta immedesimazione, scelta di habitare secum in vigile repulsa dei loghismoí vagabondi, mosche ronzanti e tentanti, che Giovanni Climaco chiamava "topi spirituali", e dei quali i "pittori-teologi" popolano le tentazioni dei loro santi eremiti.

L'accesso alla Grazia, però, è impervio, penoso: l'immobilità protetta e impassibile viene scheggiata, aggredita dalla nausea che produce la "scissione dell'essere". Ne Il demoniaco nell'arte si cade subito in un baratro di pagine corrusche, taglienti lame di rasoio, fogli di Apocalissi miniate con pennello acceso e violento, che rappresentano anche una leçon de ténèbres dalle luttuose consonanze barocche, una sofferta meditazione sul presente storico e sull'ardua necessità di "resistere", di continuare a "sperare":

Il demonio scatenato attinge l'orrendo. Di fronte all'orribile è possibile resistere? Questo è il problema. Ha significato sperare? […]
Il demoniaco scatenato per conquistare la preda umana sa che la massima seduzione è quella dell'abissale: l'orribile. Abyssus abyssum invocat. Il mostruoso ne è l'aspetto saliente. […]
Seduzione? Sì, sedurre è attrarre. E quando l'unità dell'essere umano è scissa cosicché le parti, se così può dirsi, sono prive di colleganza, i sentimenti aderiscono naturalmente al sentito. L'essere del sentito, oggetto del sentire, non viene più distinto dal senziente, perché il senziente ha perduto la sua unità di essere. L'impeto demoniaco ha scisso. Quindi la seduzione è massima; l'oggetto (il dèmone) ha così sedotto il soggetto umano che questo non conosce più la via per distinguersi dall'oggetto del suo sentire.

L'orrore per la scissione psicopatologica, per l'indistinzione fra umano e non-umano, sembra radere al suolo ogni edificio razionale, e la schiavitù al Demoniaco si confonde con il carcere allegorico di un Io assediato. L'assedio è quello per cui si piange nelle lamentazioni di Geremia ("In tenebrosis collocavit me, quasi mortuos sempiternos; circumaedificavit adversus me, ut non egrediar", Lm 3, 6-7) e di Giobbe il solitario, assediato da tafani materiali e spirituali, derelitto "absque ulla spe", la carne "induta putredine". Chi più assediato dal Demoniaco di questo sepolcro vivente, la cui divisa è "sopportare", cioè "giungere alla conoscenza della realtà della vita", di questa sentinella nell'avamposto dell'esistenza che non smette di gridare contro il cielo: "militia est vita hominis super terram", al limite supremo del conflitto con le tentazioni, nullificato dalla disperazione che gli fa confondere l'uomo e la bestia, il Signore e il Tentatore ("desperavi: nequaquam ultra iam vivam, / parce mihi, nihil enim sunt dies mei", Gb 7, I; 5-6; 16)?

Secoli più tardi, seduto al suo tavolo imbandito non di mostri orripilanti, ma di rigorose geometrie del cogito, l'eroe-fondatore dell'episteme razionalistica moderna, René Descartes, verrà a sua volta tentato dal più radicale dei quesiti metafisici intorno al Demoniaco: "Non potrebbe quel dèmone che mi inganna avermi anche creato?".

9. Demoniaco e mondo magico

Uscita dallo sconquasso della guerra, l'Europa vide sbocciare anche l'antropologia culturale. La cultura italiana resistette: due celebri stroncature di Croce, nel 1948, accompagnarono l'uscita de Il mondo magico di Ernesto de Martino e delle difficilissime Structures élémentaires de la parenté di Claude Lévi-Strauss. Castelli conoscerà Lévi-Strauss solo nel 1957, e sarà quello diaristico-letterario di Tristes tropiques. Nei quattro volumi dei suoi Diari il nome di de Martino appare solo due volte, ma tardivamente, nei primi anni Sessanta. Ed è un vero peccato che un confronto di Castelli con la storia delle religioni e l'antropologia culturale, specie nell'accezione demartiniana, non si sia avviato vent'anni prima.

Oso ipotizzare che quest'incontro mancato avrebbe potuto arricchire ancor più il suo pensiero, dialetticamente, allegando contributi teorici da un punto di vista esterno a quello della filosofia della religione. Mi sembra confermarlo almeno il sintetico, ma acuto appunto del 28 luglio 1963: "De Martino parla del mondo come malattia (e aggiunge: la malattia degli oggetti)". La categoria di "mondo", centrale nel pensiero di de Martino, anzi da lui ipostatizzata come struttura categoriale del reale, è colta da Castelli con mirabile puntualità. Ancora più ampia e approfondita sarebbe stata la sua annotazione se avesse potuto conoscere le carte preparatorie per il grande lavoro demartiniano sulle modalità schizofreniche del "delirio di fine del mondo" come dissociazione ontologica e sulla loro relazione con le "apocalissi culturali" rimasto interrotto alla morte dello studioso (1965) e pubblicato proprio l'anno della scomparsa di Castelli (1977): "summa di tutto il suo pensiero", "drammatica testimonianza di una ricerca del significato della civiltà occidentale e, più in generale ancora, del significato della storia". L'appunto citato si lega, con ogni probabilità, alla lettura di Furore Simbolo Valore, apparso l'anno precedente, che conteneva un'ampia polemica contro le posizioni "irrazionalistiche" del pensiero religioso, ma che fin dal titolo doveva attirare l'attenzione di chi nel 1956 aveva dedicato a Filosofia e Simbolismo un convegno rifluito nell'"Archivio di Filosofia", e dieci anni più tardi avrebbe pubblicato un libro come Simboli e immagini, per tanti versi prossimo a Il demoniaco nell'arte.

Ne Il mondo magico, libro fondativo del pensiero demartiniano, il rilievo della fenomenologia e dell'esistenzialismo non è esplicitato: eppure agisce tangibilmente nella formazione dell'universo teorico, in particolare delle categorie di "presenza" e di "mondo". Le stesse categorie riemergeranno anni dopo, durante le ricerche per La fine del mondo, approfondite con più organica riflessione intorno al livello ontologico della crisi, grazie a un recupero di Husserl e di Heidegger e a una severa disamina di Merleau-Ponty e di Sartre (soprattutto il primo, quello di L'être et le néant, sul quale Castelli meditò intensamente, come attestano i Diari). È quindi ipotizzabile che anche Il mondo magico avrebbe potuto offrire (e forse offrì) a Castelli più di uno spunto per l'impostazione filosofico-teologica della categoria-Demoniaco.

De Martino si collocava su posizioni lontanissime da quelle di Castelli, per molti versi ideologicamente e metodologicamente antitetiche. In Furore Simbolo Valore durissimo è l'attacco alle posizioni favorevoli all'identificazione di un "momento irrazionale del sacro", che miravano cioè a circoscrivere l'"esperienza di un'alterità sacra qualitativamente diversa dall'alterità profana". Con un rifiuto radicale che coinvolgeva non solo le posizioni della fenomenologia e dell'esistenzialismo ancora vigorose nell'Europa dei primi anni Sessanta, ma anche l'intero orizzonte culturale di riferimento entro cui era maturata l'ermeneutica del sacro e dell'arte di Castelli, de Martino concludeva:

Il sacro non costituisce una esigenza permanente della natura umana, ma una grande epoca storica […]; ma per amplissima che sia questa epoca è certo che ne stiamo uscendo, e che il suo tramonto si sta consumando dentro di noi. Il rischio della crisi esistenziale, la esigenza di simbolismi protettivi e reintegratori appartengono certamente alla condizione umana e quindi anche alla civiltà moderna: ma la tecnica dell'orizzonte metastorico è diventata inattuale, onde la civiltà moderna è impegnata ad ordinare una società e una cultura il cui simbolismo esprima il senso della storia e la coscienza umanistica, senza ricorso alla ambigua politica dei due volti […]. L'esigenza che oggi più si avverte è […] la determinazione di come il simboleggiare possa rendersi compatibile con la coscienza umanistica e col senso della storia.

10. Il signore del limite, esploratore dell'oltre, eroe della presenza

Evidentemente le radici delle categorie del 'simbolico' e dell''umanistico', dello 'storico' e del 'metastorico', del 'sacro' e della 'eclissi del sacro' ("o di una sua agonia o addirittura di una sua morte"), cui ricorreva de Martino, affondavano in una humus culturale incommensurabile con quello di Castelli; per non dire delle sue nozioni di simbolo, e di mito "quale funzione simbolica che si innesta tra crisi e valore". Tuttavia, nella considerazione della conquista d'un sistema di valori storici attraverso una mediazione mitico-rituale di carattere simbolico in grado di riscattare il "furore" che periodicamente mette a repentaglio la civiltà, de Martino ammetteva che "chi cerca solo l'umano, lo perde, perché trova invece il sub-umano e l'antiumano; per trovare il mondo, occorre perderlo". Per l'eterogenesi dei fini una formulazione quasi-aforistica di questo tipo poteva giungere a riscuotere l'interesse di Castelli e perfino (fatta salva l'astrale distanza delle posizioni ideologiche) risultare accostabile ad alcune posizioni ermeneutiche de Il demoniaco nell'arte.

Inoltre, a partire da Il mondo magico, de Martino aveva rimesso in questione lo storicismo crociano riformulando, con coraggio e originalità di metodo, le categorie e il lessico fenomenologico ed esistenzialistico, fino a fondare una prospettiva di antropologia del mondo magico come momento della storia dello spirito umano, e ad auspicare un "nostro ritorno al magico" inteso a "mediare il progresso dell'autocoscienza della cultura occidentale". In certa misura, trattando dello stato mentale detto latah dai Malesi, olon dai Tungusi, e riconosciuto presso altre popolazioni etnologiche come una "singolare condizione psichica in cui molto spesso cadono gli indigeni, quasi vi fossero naturalmente disposti", anche de Martino si spingeva a confrontarsi con il Demoniaco come seduzione della scissione dell'essere, anche se la sua ermeneutica antropologica lo determinava immediatamente come categoria storica, non teologica. Nello stato olon de Martino individuava un evento drammatico, l'apocalisse individuale e culturale di "una presenza che abdica senza compenso". Le tematiche di Castelli dell'impassibilità, della preghiera, dell'appello al sovrannaturale, della Grazia, non potevano ovviamente rientrare nella categorizzazione storicistica, se non al livello di strumenti mitico-rituali di riscatto culturale.

Su un orizzonte problematico e operativo, e con una strumentazione concettuale, e perfino lessicale, non lontani da quelli della psichiatria fenomenologico-esistenziale che negli stessi anni sollecitava la meditazione di Castelli, ne Il mondo magico de Martino descrive quella che, più articolatamente, diventerà (soprattutto in libri come Morte e pianto rituale nel mondo antico, 1958, celebrato da un Premio Viareggio per la saggistica; Sud e magia, 1959; La terra del rimorso, 1961; il già rammentato Furore Simbolo Valore, 1962) una categoria fondamentale del suo pensiero: la "perdita di presenza", cui è in grado di reagire, riscattando un orizzonte culturale di valori condivisi, solo la destorificazione e la riplasmazione del dramma attraverso la magia:

Tutto accade come se una presenza fragile, non garantita, labile, non resistesse allo choc determinato da un particolare contenuto emozionante, non trovasse l'energia sufficiente per mantenersi presente ad esso, ricomprendendolo, riconoscendolo e padroneggiandolo come contenuto di una coscienza presente. La coscienza tende a restare polarizzata in un certo contenuto, non riesce ad andare oltre di esso, e perciò scompare e abdica come presenza […]. Nel mondo magico l'anima può essere perduta […], il mondo rischia di inghiottire e di vanificare […]. Necessariamente connesso al rischio magico di perdere l'anima sta l'altro rischio magico di perdere il mondo. Quando […] un certo orizzonte sensibile entra in crisi, il rischio è infatti costituito dal franamento di ogni limite: tutto può diventare tutto, che è quanto dire: il nulla avanza.

L'abdicazione della presenza di fronte alla seduzione dell'orrore, del terrifico come invasione del soggetto da parte di "un particolare contenuto emozionante" e nullificazione dell'Io, sono tratteggiate da de Martino in termini psicologici e antropologici non dissimili da quelli filosofici con cui Castelli affronta (come ho appena ricordato) la "scissione" dell'"unità dell'essere umano" di fronte al tremendum ("l'essere del sentito, oggetto del sentire, non viene più distinto dal senziente, perché il senziente ha perduto la sua unità di essere"). Se il soffio del vento che mugghia contro la fragile identità in stato olon è per la fragile presenza dell'individuo una minaccia atterrante, rischio di annullamento, di confusione-cancellazione, potranno "legger[e] in questo 'oltre' del vento", "identific[are] la forma che travaglia la sua realtà", infine "ristabilir[e] il limite che renda l'esserci presente al mondo" soltanto "i signori del limite, gli esploratori dell'oltre, gli eroi della presenza".

Per quanto possa apparire scandalosa (ma forse necesse est ut veniant scandala, per capire meglio la dinamica collocazione storico-culturale di un'esperienza di pensiero), non mi sembra inammissibile l'equazione, il parallelismo funzionale fra il "mago" studiato da Ernesto de Martino nelle più varie popolazioni di livello etnologico, interprete e dominatore del vento, protettore simbolico del reale dall'apocalisse, e il "pittore-teologo", moderno interprete dell'asceta antico, che Enrico Castelli mette in luce nell'arte umanistica del Nord-Europa, capace di fronteggiare per sé e per noi il Diabolico attraverso il Simbolico, sentinella impassibile, nella sua composta e imprendibile dimora interiore, contro l'irruzione nullificante del Demoniaco. Anche lui è signore del limite, esploratore dell'oltre, eroe della presenza.

11. La luce della Grazia

Però nell'orizzonte claustrofobico e insieme dissolto del Demoniaco letto da Castelli come categoria filosofico-teologica, il Terribile è già avvenuto. L'oltre non si domina, non si riduce né si razionalizza. "Se tutto è intellegibile nulla è comprensibile, perché il comprensibile comprende, cioè prende di più". Ispirato dal dèmone tentatore è ogni intento consolatorio di dar senso all'insensato, di ricondurre a Ragione ciò che avviene, l'Evento. Di fronte alle immagini tracciate dal caos inafferrabile della vita individuale, dalla casuale storia degli individui e delle collettività che subito si cancella in polvere e in dimenticanza, terribile è per l'ermeneuta "il supplizio di resistere a ciò che non ha senso, o che ha senso solo iniziale. Perché quel senso iniziale è veramente demoniaco: ci porta alla soglia della comprensione; là ci lascia e ci spinge a completare ciò che è in completabile". Né si danno alcun possibile riscatto magico-rituale, alcuna prospettiva di riplasmazione storico-culturale del Dasein in crisi.

L'esistenzialismo cristiano di Castelli, a contatto con i feroci "pittori-teologi" dell'umanesimo nord-europeo, si colora di tonalità notturne, assolute, allegoriche, estremistiche, da Settentrione straziato dai conflitti della coscienza. Il cozzo fra i due Nemici ontologici è assordante, da cosmogonia primordiale. E mai lo scontro universale si riduce alla leggiadra psicomachia da teatrino delle coscienze individuali di certa casuistica gesuitica. La metamorfosi intacca due epoche, due mondi, un Nord e un Sud dell'anima e della civiltà. "In una società dove gli uomini incominciavano a perdere la loro individualità per diventare massa", le cadute nella voragine e i salvataggi miracolosi sono insieme individuali e collettivi:

Due crolli possibili: quello satanico (l'inganno eternizzato: la dannazione), e quello angelico (il disinganno, che solo attraverso la Grazia si può conseguire). Due abissi: quello della negazione senza limiti e quello dell'affermazione assoluta. Da qui la lotta e l'opera apologetica che il pittore-teologo intraprende. Le potenze del nulla tramano affinché il fiore non venga colto; tramano per il nulla.

Soltanto il sole della Grazia offre, nell'ermeneutica di Castelli, un mezzo per salvare l'uomo franto dal Demoniaco, smarrito nelle tenebre dell'ambiguità e della fragilità dell'interpretare, irragionevole nel suo ricorso smisurato alla ragione come strumento di misura dell'alterità, il Nessuno la cui esperienza di derelizione esistenziale viene trascritta e sublimata in evento artistico-spirituale nell'arte dei "pittori-teologi":

Il delirium è la conseguenza del tremendum. Comunicare non si sa più. L'attacco infernale dell'orribile ha raggiunto il suo fine. Non ci sono richiami da tentare. La seduzione è completa.Le vie della ragione? Illusorie […].È il momento lucido del delirium dannante. Rientrando in sé per le vie della ragione, l'uomo trova Satana. È ragionevolmente demoniaco. Le vie della ragione pura non conducono che alla pura ragione, che non ha ragione di trovare altro che se stessa.Solo la Grazia medicinalis et elevans salva l'uomo. L'uomo che vuole la Grazia, s'intende, l'uomo che chiama. L'appello è lo strumento principale per la salvezza. Non ci sarebbe salvezza se la luce della Grazia non soccorresse nel momento del pericolo. Il dono della Grazia è una seduzione sovrannaturale che mantiene l'unità della coscienza e del sentimento […]. La tentazione del mostruoso è insuperabile se la si vuole sfidare […]. Gli eremiti, che l'iconografia sacra del medio evo e della Rinascenza ci presenta, lo sanno. Non combattono con i mostri. Sono impassibili. La luce viene dall'alto.

La luce della Grazia contro l'effervescenza dell'immaginazione, contro lo scatenamento della fantasia in fantasticheria. Il pensiero sfrenato nella dissipazione delle forme perde il rapporto con la Grazia: anche perché in lui si dissolve il senso del rapporto tra quelle forme e ciò che, riconoscendola nella cultura manieristica - la cui rivalutazione e interpretazione molto è legata alle ricerche di Castelli - Robert Klein chiamò "l'essence intellegibile de l'œuvre".

La differenza tra fantasticheria e pensiero […] è manifesta; basta il colpo d'occhio su due opposte figure: l'uomo che fantastica seduto in un'anticamera con il piede o la mano che tradiscono nei loro movimenti automatici e nervosi il lavorio dell'immaginazione, e, di contro, l'uomo che medita o contempla, assorto senza alcun gesto o contrazione. (Zolla)

I princìpi posti da una secolare tradizione ascetica addestrata alla distinctio spirituum per proteggere ed esaltare le potenze dell'anima sembrano dissolvere anche la dialettica che oppone ragione e sentimento, intelligenza e abbandono, immaginazione e ispirazione. Si torna così alla considerazione finissima di Simone Weil (studiata a fondo da Castelli nei mesi di messa a punto conclusiva de Il demoniaco nell'arte), la quale alla cosmica sfida fra pesanteur e grâce ha dedicato pagine fra le più intense e sfolgoranti delle sue. In esse, credo recuperando anche la riflessione di Pascal intorno all'"Imagination" come "maîtresse d'erreur et de fausseté", la Weil commina una condanna senza riserve dell'immaginazione, interpretata da una secolare cultura neoplatonica come forza creatrice dello spirito, e da lei ripensata invece come minaccia all'avvento di quella Grazia che potrebbe luminosamente scendere dall'alto attraverso le fessurazioni ontologiche dell'Io: "l'imagination - si legge ne La pesanteur et la grâce - travaille continuellement à boucher toutes les fissures par où passerait la grâce".

12. Le regioni "di mezzo"

Merita meditazione il fatto che gli anni orribili della follia dittatoriale, dell'irragionevolezza razzistica, dell'olocausto, del conflitto mondiale che spazzò l'Europa come un'apocalisse, e poi quelli della faticosa ripresa di un dialogo fra le culture fino a poco prima alleate in un delirio di onnipotenza o invece opposte da un'ostilità altrettanto maniacale, siano gli stessi in cui, mentre si diffondono il pensiero heideggeriano e la fenomenologia e prende forma l'esistenzialismo francese, Enrico Castelli lentamente elaborò la sua Categoria del Demoniaco, e trovò una maniera per sublimarla dal vissuto al pensiero, dalla vita alla parola. Lo fece muovendo da una forte esperienza teologico-filosofica, da una meditazione costante delle grandi correnti dell'umanesimo antico e moderno, e rinunciando a qualsiasi riduzione a una ricostruzione di storia delle idee o delle mentalità, muovendosi nel quadro di un'ermeneutica dell'arte sacra.

Il primo passo obbligato consisteva nel forgiare un lessico e uno stile adeguati a render conto di un complesso pensiero filosofico. Il duello di Castelli con il suo Genius-Dàimon, accostato e schivato, inseguito e confinato, diede vita a un personalissimo, inconfondibile stile del filosofare, coincidente con una maniera del pensiero, e perfino con una maniera stilistica, con uno stile di scrittura.

Per misurare il suo Genius-Demoniaco appropriandosene, per misurarsi con esso senza lasciarsi espropriare di sé, Castelli si fa eremita nel deserto del pensiero, va ad abitare in quelle vertiginose plaghe dello spirito che Kierkegaard, filosofo per lui prezioso e caro, chiamava "categorie del confinium": regioni "di mezzo" dove, scrive Ludovica Koch:

Il pensiero è solo con se stesso, a sperimentare l'estraneità della lingua collettiva e la lontananza dal mondo di tutti. Più che luoghi, queste regioni sono condizioni mentali, crisi, esperienze estreme: dove il soggetto "agisce soffrendo", conosce distaccandosi, negli antichi stati d'animo dell'ironia e della malinconia, nelle nuove avventure psichiche dell'angoscia e della disperazione. "In mezzo" non abitano né fatti, né idee, ma solo "il vortice primigenio" e forme vuote: possibilità e rapporti fra possibilità, istituiti a suo arbitrio dal pensiero, "dieci e venti per volta, in un attimo". Eppure è lì "in mezzo" che l'esperienza concreta, irripetibile del singolo deve rassegnarsi a dimorare.

Prendendo dimora nel confinium, luogo mentale "in mezzo", lontano dalla pura astrazione del pensare filosofico e dalla concreta, puntuale esegesi storico-artistica dei testi pittorici che raccoglie e studia, Castelli fa esperienza del Demoniaco come categorizzazione di una crisi insieme esistenziale e culturale, affrontata construmenti di pensiero espressi in un evento artistico: fin dalla prima frase di questo libro il Demoniaco è il "non-essere che si manifesta come aggressione pura: lo stravolto".

Come ho detto, mentre assume forma e corpo il progetto de Il demoniaco nell'arte, la lezione di Castelli si fa etica e stile di pensiero, e solidalmente stile ed etica di scrittura. Si perfeziona in tal modo l'adesione all'ideale esistenzialistico di una programmaticità asistematica, di un'indagine quotidiana che, immedesimandosi nella ricerca, vi introduca una prospettiva senza alienarsi nell'oggetto (dal momento che questo significherebbe accettare lo stravolgimento del Demoniaco). Secondo il motto di José Ortega y Gasset che Castelli assume, "la prospettiva è uno dei componenti della realtà. Lungi dall'essere la sua deformazione, è la sua organizzazione".

13. L'indagine quotidiana

Rinunciando a quella che con Hegel, Merleau-Ponty, Foucault, potremmo definire 'la prosa del mondo', espressione e garanzia della solidarietà dialettica fra segni e senso, l'ermeneutica di Castelli, guardando in prospettiva al suo oggetto sfuggente, il tremendum, l'orribile, ovvero "la massima seduzione", "quella dell'abissale", vi si immedesima, pur sforzandosi di conservarsi indenne: e così la prosa del mondo si screzia, si frammenta. La tensione allusiva e aforistica, ermetica, della prosa di Castelli, prossima alla concinnitas sapienziale dell'emblematica di età barocca (lo si potrebbe dimostrare analizzando i frequenti giochi di parole fondati sul parallelismo, sul chiasmo, sul tropo), rispecchia l'inquietudine del suo ricercare al limite. Il limite, spesso, quel ricercare lo supera, andando a stanare la Categoria nella disseminazione delle forme, in quell'Oltre che è la regione "in mezzo" dove senza difese dimora, irripetibile, la concreta esperienza del singolo, il kierkegaardiano Qualcuno: che è l'allegorico Ognuno, la "folla" di Ognuno, "preludio al tutti, cioè a nessuno" (giacché se "Ognuno è colpevole, Nessuno è colpevole"). Nessuno, il Santo Nessuno, il Sanct Niemand di Hans Holbein, "responsabile della perdita dei significati delle cose di tutti i giorni": altra figura centrale nell'ermeneutica dell'arte di Castelli.

Lo spirito nessunale ha infranto ormai la levigata prosa del Filosofo. Non si tratta più del frammento romantico, imperfetto e tuttavia completo, scelto come espressione di poetica secondo il principio schlegeliano che "molte opere degli antichi son divenute frammenti", mentre "molte opere dei moderni lo sono al loro nascere". Nel Demoniaco ci troviamo di fronte alla seduzione dell'orrendo, irresistibile. L'ermeneutica, nel misurare l'Oltre, deve equilibrarsi fra Diabolico e Simbolico, fra saldatura e scheggiatura del segno e del senso: qui il tema si riverbera sulla forma, l'oscurità e la spezzatura del pensiero paiono rispecchiare, a sfida, la forma del Deformato.

Non è senza motivo che il nucleo genetico de Il demoniaco nell'arte, e perfino la stesura di getto di alcuni paragrafi destinati a venire, più tardi, innestati organicamente nel corpo del testo, emergano nelle pagine dei Diari fra gli anni Quaranta e Cinquanta, come purissimi diamanti immersi in un oscuro, sterminato deposito memoriale di minute e anche minutissime annotazioni di vita giornaliera, di letture e di incontri, di progetti, di smisurate fatiche organizzative.La ricerca scientifica si trascrive, esistenzialisticamente, in ermeneutica della vita e di quello che le manca, in indagine quotidiana sul Demoniaco che intride nei gesti, nell'alienazione, l'esistenza di Ognuno.

In questa luce, prima e ancor più che come interpretazione dell'Oggetto, l'ermeneutica si dà come 'interpretazione' del Soggetto: come suo 'esercizio spirituale', sguardo critico che insegnando (secondo il motto kafkiano) a"vedere se stessi come una cosa estranea", guarda in primo luogo proprio sé, e così, mentre "misura quel che gli manca", riesce a immedesimarsi. Una volta che ci si immedesima tanto nell'azione interpretativa da giungere a "dimenticare ciò che si è visto", per "conservare essenzialmente lo sguardo" (volendo adibire ancora una volta l'altissima considerazione di Kafka al suo vero oggetto, che è l'interpretare), si svelerà che l'evento centrale dell'ermeneutica coincide con la sorpresa e la scoperta di rientrare in sé per commisurarsi nell'atto della misurazione. Ermeneutica, allora, non significherà più solo capire, ma capirsi; non più solo vedere, ma vedersi vedere, e vedersi vedersi: il paradigma visivo permette di approfondire la riflessione sui "meccanismi regolatori dell'attività mentale e psichica", aprendo a "una più vasta interrogazione circa le procedure della rappresentazione identitaria" (Magrelli).

Dettano a Castelli le prime alte meditazioni intorno a un'ermeneutica spirituale dell'arte le visite ai musei del Nord Europa nei quali si conservano i dipinti di quelli che nel Demoniaco arditamente definisce i "pittori-teologi". Lentamente si fanno luce le dimensioni categoriali filosofico-artistiche che verranno in seguito chiamate in causa e coordinate intorno alla categoria-guida del Demoniaco. Ad Amsterdam, il 14 agosto 1948, dopo aver visto i quadri del museo di Monaco (Bruegel, Memling, Grünewald, Altdorfer, Dürer), compie un passo iniziatico verso l'ascensione spirituale:

Altdorfer mi ha dato la viva sensazione del colore e di quanto può un accostamento di toni nell'evocazione religiosa. […]
L'evocazione religiosa nella forma artistica pittorica difficilmente è disgiungibile da un'esultanza di toni. Se il personaggio è solo, perduto nel suo abito, isolato dall'aureola d'oro se è un Santo, l'esultanza dei colori può compiere il miracolo della elevazione spirituale. […]
Se si meditasse di più sull'incompleto, molte attività sarebbero diversamente impostate. Non c'è motivo serio che ci spinge verso l'arte puramente compiuta, ma non c'è motivo serio che ci impone di rinunciarvi. […]
La posizione dell'artista non si può separare da quella del Santo. Sviluppare il tema.

Così a Colmar, nel febbraio 1949, davanti a Schongauer e a Grünewald, come fleurs du mal maturano interi tratti che confluiranno, tre anni dopo, nei capitoli IV e V della parte I, La seduzione dell'orribile e La capricciosità e l'orrendo. Castelli, con un solo apparente cedimento estetico che potrebbe rammentare certi lievi movimenti di danza di Roberto Longhi, si lascia cullare dall'immedesimazione, riconoscendo un segreto di ritmo e una tramatura musicale nell'accostamento ermeneutico al muto mistero dell'opera:

Coglierla, la linea, questo è importante: è vivere l'esperienza artistica […]. E l'opera si è scomposta. E il segreto delle variazioni di un tema in musica. Scomposta fino all'ossessione: un modo di percepire il Sacro.

Alcune riflessioni sono già sbalzate a tutto tondo, plasmate con l'affilata acuzie e la lucentezza fascinosa che permetterà loro di trapiantarsi quasi senza variazioni nel libro:

Nell'esame di una capricciosità si esaurisce un'esistenza: ogni esaurimento di esistenze inattuali (la capricciosità è il possibile) dà luogo al mostruoso. L'infernale di una vita è il senso del possibile inattuato.

A poco a poco dalla ganga mobile galleggiano e si raffreddano, condensandosi e pietrificandosi, tutti i capitoli, articolati nel dittico di analisi categoriale (parte I) e di fenomenologia ermeneutica, applicata ai grandi pittori fiamminghi (parte II), con l'integrazione dei fondamentali strumenti d'indagine (il prezioso commento alle tavole; i documenti sull'Ars moriendi e sul Codice Antonita di cui copia è conservata alla Laurenziana di Firenze; il regesto delle fonti; riordinate e integrate, le note colme di riflessioni importantissime, scaturite dal frequente colloquio con gli studiosi incontrati per approfondire il problema e con le loro opere). Ci si avvia, finalmente, alla pubblicazione, demoniaco momento di confronto fra l'ipotesi e l'esito, l'ermeneutica e la sua ricezione.

Mentre il libro prende forma, il diario registra notarilmente gli alti e bassi umorali del confronto con i lettori d'elezione. Due appunti successivi (24, 26, 29 novembre 1948) fermano il ricordo del "giudizio entusiasta" di Apollonio sul Demoniaco e della spedizione del manoscritto a Einaudi "per eventuale pubblicazione", della consegna di un'altra copia ad Abbagnano. Ma l'ipotesi dovette venire archiviata da Cesare Pavese, allora direttore editoriale della casa torinese, peraltro attentissimo alla ricerca intorno al simbolico. Negativa, anzi perfino "deprimente" è, nel giugno del '49, la reazione di Ugo Spirito alla lettura del capitolo su Lo strazio. Causa dello scarto è lo stile "molto difficile" di Castelli, la sua ardente ed ermetica prosa, straziata dalla lunga frequentazione del Demoniaco.

14. Il passo imperioso di un lanternarius spirituale

Sottratto alla proceduralità del liquido argomentare dialettico, immerso nel fluire paradossale, contraddittorio della nuda vita, l'enunciato fulmina, si fa diabolica materia di fuoco. La maniera aforistica e spesso anche apodittica dell'espressione, il modo accelerato e scattante, sostituiscono il lento, metodico protocollo tipico della dimostrazione persuasiva. Nella scrittura di chi, come lui, progettava di conquistare "la cultura del silenzio", auspicando di riuscire ad "essere abbastanza colti per tacere", le frasi sbocciano, come ha rilevato finemente Xavier Tilliette, "à l'improviste", proprio come nel dialogo personale esplodevano "ses questions à l'emporte-pièce, par quoi il cherchait, comme la torpille socratique, à paralyser l'interlocuteur" (di questo scacco maieutico all'interlocutore rimane qualche traccia compiaciuta anche nei Diari). Socratico e barocco, filosofo e artista, Castelli conquista una sua maniera stilistica fatta di sprezzatura e di solennità. La sua prosa ha un movimento ardito e bruciante, fatto di slanci emozionanti e di rattenimenti meditativi, di fulminee incursioni oltre la trincea del senso comune. Spesso si prova la sensazione che si tratti di un pensiero davvero scaturito in forma teatrale, di sequenza di battute: proprio come avvenne per il Demoniaco, prima 'messo in scena', poi 'tradotto' in saggio scientifico. Perentorio per non essere predatorio, lo stile della scrittura di Castelli è lo stesso del suo passo, che Tilliette estrae dalla memoria delle frequenti passeggiate in comune, alle quali Castelli, filosofo greco o umanistico nato per caso in Piemonte nell'età moderna, dedicava il tempo e la cura con cui il saggio misura il nascere del pensiero e degli affetti:

Jusqu'à un âge avancé, le comte Enrico Castelli-Gattinara avait conservé, en dépit d'une jambe raide, l'allure et la démarche d'un noble piémontais. Il était de la race des condottieres, ou des rebelles du Risorgimento. Né pour commander, il devait être impérieux.

È il passo agile e deciso, discreto e coraggioso, del Copista fedele che ardisce guardare innanzi come il Profeta, allegorico lampadoforo del pensiero simile a "colui che va di notte, / che porta il lume dietro e sé non giova" (Purg., XXII 67-68), lanternarius spirituale balzato fuori dalle ricerche di Deonna, grazie a Ossola, come un fidato segnavia che illuminando per noi la tradizione la incammina (ci incammina) verso il futuro: il genius che, "lorsque la fête est finie, précède encore et éclaire le pas incertain, sur un sol mal connu, des convives qui rentrent, sans savoir d'où".

La prosa frammentaria e anti-dialettica, de Il demoniaco nell'arte, pur lontanissima nella tradizione dei presupposti teoretici e delle forme linguistiche, mi evoca (per mera affinità: anche perché rimasto ignoto a Castelli) il Benjamin allegoristico, apocalittico, del Dramma barocco tedesco, dei Passagen-Werk. Si rilegga l'Introduzione a Il demoniaco nell'arte:

Nel simbolico l'opera è compiuta e il processo che ha portato alla conclusione espressa dal simbolo non appare; nell'allegorico si illustra invece lo svolgimento. L'allegoria della guerra è, per esempio, la rappresentazione della vicenda (la battaglia); il simbolo: la distruzione.

A differenza del simbolo, l'allegoria tiene conto degli elementi che sono fondamentali per l'azione viziosa. È una descrittiva delle condizioni, non una puntualizzazione dell'essenza finale. Si potrebbe dire: la storia del processo, non la sua conclusione.

E Benjamin, nel celebre luogo del Dramma barocco tedesco in cui ferma la sua teoria dell'allegoria:

Se col dramma entra in scena la storia, essa lo fa in quanto scrittura. In fronte alla natura sta scritto 'storia': nei caratteri della caducità. La fisionomia allegorica della storia-natura, che il dramma porta sul palcoscenico, è realmente presente nella forma della rovina. Con essa, la storia si è tangibilmente ridotta a palcoscenico. Le allegorie sono, nel regno del pensiero, quello che sono le rovine nel regno delle cose. Da ciò il culto barocco della rovina.

Il simbolico Castelli e l'allegorico Benjamin, nel loro meditare sulla Storia e sulle sue irrisarcibili rovine, riconoscono entrambi ed ammirano, impassibili, le caduche astuzie seduttive del Demoniaco.

15. Lo stile Castelli

Così, ondeggiando e stratificandosi e cercando se stesso fra diario e teatro, filosofia e cinema, riflessione sull'arte e romanzo, psichiatria e teologia, ermeneutica e caldo colloquio con gli amici, nasce e matura lo stile Castelli, la sua maniera di pensiero-individuo.

Lo stile Castelli giunge all'apice, facendosi davvero "impérieux", in questo libro che rappresenta il capolavoro di una vita, il momento più alto e intenso di una meditazione intorno al pensiero dell'arte e ad una sua possibile ermeneutica, intesi come riflessione sia intorno all'esperienza spirituale condensata nell'opera artistica, sia intorno all'arte (in particolare l'arte sacra) come maniera del pensiero, modo della sua manifestazione, distinto ma non minore rispetto al pensiero della filosofia e della teologia.

Bibliografia di riferimento

1. Opere di Enrico Castelli

2. Numeri monografici di "Archivio di Filosofia", sotto la direzione di Enrico Castelli

3. Opere collettanee

4. Opere su Enrico Castelli

*Si ringrazia la casa editrice Bollati Boringhieri per la gentile concessione dei diritti per pubblicare questo saggio, introduzione alla riedizione de Il demoniaco nell'arte di Enrico Castelli (2007)

Per citare questo articolo / To cite this article: C. Bologna, Innamorarsi lentamente di una Categoria, “La Rivista di Engramma” n. 64, maggio 2008, pp. 10-42 | PDF di questo articolo