"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

144 | aprile 2017

9788894840193

Tre forme di malinconia

Una ricognizione su figure di malinconici, a partire dall’Atlas Mnemosyne

a cura del Seminario Mnemosyne classicA, coordinato da Monica Centanni, Maria Bergamo, Giulia Bordignon, Daniele Pisani, Daniela Sacco, con Sara Agnoletto, Mirco Bimbi, Silvia De Laude, Francesca Filisetti, Anna Fressola, Sofia Magnaguagno, Nicola Luciani, Matias Julian Nativo, Valentina Olivetti, Francesca Petazzini, Alessia Prati, Simone Rossi, Silvia Urbini, Lorenzo Vallon

English abstract

Sommario
I. Pathosformel della malinconia: appunti di metodo
II. Tre forme di malinconia
III. Figure di malinconici: casi di studio
Appendice | Lettura di Marsilio Ficino, De vita longa I, 5

"Poi moverà l’istoria l’animo quando gli uomini ivi dipinti molto porgeranno suo propio movimento d'animo.
Interviene da natura, quale nulla più che lei si truova rapace di cose a sé simile,
che piagniamo con chi piange, e ridiamo con chi ride, e doglianci con chi si duole.
Ma questi movimenti d’animo si conoscono dai movimenti del corpo [...].
Vedrai a chi sia malinconico il fronte premuto, la cervice languida,
al tutto ogni suo membro quasi stracco e negletto cade.
Leon Battista Alberti, Della Pittura

I. Pathosformel della malinconia: appunti di metodo

Percorrendo l’Atlante Mnemosyne si incontrano varie figure in postura malinconica (tutte le immagini di malinconici presenti nel Bilderatlas sono già state raccolte in un galleria commentata: Seminario Mnemosyne 2016c). Figure diverse, femminili e maschili, contraddistinte da una posizione ben definita: la mano al volto, impegnata a sorreggere il peso della testa, quasi che il punto in cui il viso si sostiene sulla mano sia quello su cui più insiste, e quasi precipita, la gravità di un corpo in atto di contrizione o abbandono, sia esso appoggiato a un sostegno o accasciato, semi-disteso o recubante. È la postura dell’enigmatica figura centrale di una delle più note incisioni del Rinascimento – la Melencolia I di Albrecht Dürer, protagonista della Tavola 58 del Bilderatlas.

I.1 Melencolia I di Albrecht Dürer nel saggio di Aby Warburg su Lutero (1920)

Nell’incisione Melancolia I di Albrecht Dürer, Warburg legge un documento della “tragica storia della libertà di pensiero dell’uomo europeo moderno”: un uomo che, come Faust, è in lotta nel tentativo di emanciparsi intellettualmente dai demoni astrali e dalla magia, cercando “di conquistare al proprio pensiero lo spazio fra se stesso e l’oggetto per una contemplazione spassionata” (Warburg [1920] 1966, 364; sull’incisione düreriana vedi ora l’importante volume Bertozzi, Pinotti 2016). È la lotta contro quei monstra cosmici – nello specifico l’influsso astrale, remoto ma sordo e potente, di Saturno – che a partire della tarda antichità avevano esercitato un potere religioso nell’Europa cristiana fino all’età della Riforma, tenendo l’uomo sospeso in una oscillazione tra riflessione astratta e mitica causalità religiosa: i “punti di svolta di uno stato d’animo primigenio, unitario, di ampia capacità di vibrazione” (Warburg [1920] 1966, 315). È la sospensione tra:

la logica che, mediante una definizione concettualmente distintiva, crea lo spazio fra uomo e oggetto che il pensiero percorre; e la magia che di nuovo distrugge appunto questo spazio mediante la concatenazione, ideale o pratica, di uomo e oggetto e superstiziosamente li riavvicina (Warburg [1920] 1966, 315).

Nell’epoca della Riforma, secondo Warburg, il dio che era il bestiale “divoratore di fanciulli” subisce in Dürer una “metamorfosi umanizzante [nella] incarnazione plastica dell’uomo lavoratore che pensa” (Warburg [1920] 1966, 357); perciò Melencolia I si può considerare come una sorta di manifesto della humanitas emancipata dal ricatto dei demoni, un “foglio di conforto umanistico contro il timor di Saturno” (Warburg [1920] 1966, 357). Ciononostante, l’opera di Dürer risente della lotta, sempre attuale, per l’emancipazione razionale dai monstra.

La “malinconia alata” siede, come uno “spirito di umana pensosità” (Warburg [1920] 1966, 359), con in mano un compasso e circondata da strumenti utili a misurare la terra e il cosmo; ma alla parete è ancora appeso il quadrato magico di Giove che fino a tutta l’età umanistica (dall’antichità ellenistica, passando per Marsilio Ficino) era considerato un talismano che aveva il potere di opporsi alle influenze negative di Saturno. In cima alla testa, porta una ghirlanda di teutricon, la pianta medicinale che cura la melanconia. Nell’incisione – aggiunge Warburg in una nota al saggio su Lutero – il potere degli astri e dei pianeti viene recuperato dall’antica tradizione e convertito a una nuova energia umanistica e razionale e, in quel contesto, si recupera anche la formula patetica dell’attitudine malinconica. La stessa postura dell’alata pensatrice fa eco a quella della raffigurazione del dio fluviale che giace con il volto sorretto dalla mano – e che cade sotto il segno dei Pesci, segno che è retto proprio da Saturno:

Vorrei rilevare che nella Melencolia I echeggia anche da un punto di vista puramente ‘formale una tradizione antica. La cosa risulta dal simbolo astrale di un decano dei Pesci nel lapidario di Alfonso (Lapidario del Rey D. Alfonso X, Madrid 1883, fol. 99). Questa raffigurazione decanale è per forma e contenuto la figura trasposta di un dio fluviale che giace con il capo sostenuto dalla mano il quale, appunto come ‘Eridanos’, astro che sorge allo stesso momento, fa parte del segno dei pesci, acquei, retti da Saturno […]. In questo modo possiamo ravvisare nella Melencolia sia per la materia sia per la forma il simbolo del Rinascimento umanistico. Essa rianima la posa di un antico dio fluviale in uno spirito ellenistico, dietro al quale albeggia però il nuovo ideale dell’energia consapevole, liberatrice dell’uomo operoso (Warburg [1920] 1966, 358-359, n.3).

Ancora una volta Warburg ci indica come al recupero di una formula iconografica corrisponda puntualmente il recupero concettuale ed estetico del valore di un determinato pathos: senso, forma e allegoria precipitano nell’incisione di Dürer in un angelo pensoso che, grave, avverte tutto il peso della corporeità. È infatti una “tragedia della corporeizzazione” quella che vede la figura simbolo dell’uomo melanconico lottare nel tentativo di trattenere a sé e controllare, grazie al filtro del pensiero logico e astratto, le immagini, che mantengono comunque la loro carica demoniaca, e così cercare di evitare che i monstra che ispirano energia a quelle stesse immagini si trasformino in entità reali, potenti ed efficaci sulla nostra vita. C’è però un rischio, sempre immanente:

[Insito] in ogni contenuto interiore che la Melencolia I, curvandosi su se stessa, cerca inutilmente di trattenere a sé e che si materializza, invece, prepotentemente al suo esterno. Nel loro farsi immagine, presenza autonoma e determinata, i pensieri su cui la figura è china minacciano infatti di divenirle estranei, di sfuggirle [...]. Eppure, secondo il celebre motto warburghiano, il “buon Dio” non “abita” nei recessi dell'interiorità, ma “nel dettaglio”: non è che al di fuori di sé, nel non-io che ‘incorpora’ e in cui ‘prende corpo’, che l’io può cogliersi. È alla ‘tragedia della corporeizzazione’ che Saturno, dio delle seminagioni e della malinconia, rinvia (Barale 2009, 1-2).

I.2 Il tema della malinconia nel Warburgkreis (1923-1964)

L’incisione düreriana è al centro anche degli interessi dei giovani studiosi della cerchia del Warburgkreis. Nel 1923, su impulso di Warburg che si era appassionato agli studi di Karl Giehlow sul tema (Giehlow 1903-1904), i giovani Erwin Panofsky e Fritz Saxl pubblicano La Melencolia I di Albrecht Dürer, nella collana delle Studien della Biblioteca Warburg (Panofsky, Saxl 1923; sulla genesi di questo importante testo, in relazione al pensiero di Warburg e alle successive ricerche degli autori sul tema, vedi Wedepohl 2016). Questa ricerca confluirà, con ampliamenti e integrazioni importanti, nel volume Saturn and Melancholy. Studies in the History of Natural Philosophy, Religion and Art, che, dopo accidentate peripezie editorali, sarà pubblicato a Londra soltanto nel 1964, a firma dei due autori e di Raymond Klibansky (Klibansky, Panofsky, Saxl [1964] 1983).

Com’è noto, secondo le fonti antiche, l’affezione malinconica è causata dall’eccesso di umor nero, che in alcuni individui è presente in misura predominante rispetto agli altri umori corporei (sulla teoria fisiologica antica, in relazione al temperamento malinconico, vedi la sintesi proposta in Seminario Mnemosyne 2016c, par. 2). Dalle ricerche del primo Warburgkreis, che recuperano la rivoluzionaria lettura rinascimentale sugli effetti della malinconia, emerge come l’eccesso di umor nero possa esplicarsi secondo una polarità antitetica rispetto alla più comune forma di introversione depressiva. Se infatti la prima forma di malinconia ha la sua deriva in uno stato patologico con sintomi di abbattimento psicofisico, quali la depressione, il disinteresse, l’apatia, l’aridità di affetti e improduttività nelle azioni, una diversa declinazione riconosce una melanconia “generosa” o “malinconia poetica”, riflessiva e contemplativa. Sulla scorta del recupero del testo pseudo-Aristotelico sul rapporto tra genio e melanconia, l’eccesso di umor nero è considerato dunque come il presupposto fisiologico di ogni stato creativo proprio di artisti e intellettuali “nati sotto Saturno” (Panofsky, Saxl 1923; Klibansky, Panofsky, Saxl [1964] 1983, in particolare il III capitolo Melancolia poetica e Melancholia generosa, 205-257; v. anche R. Wittkover, M. Wittkover [1963] 1968).

In quegli stessi anni, Ludwig Binswanger, che aveva avuto in cura Warburg a Kreuzlingen, dando struttura filosofica alla sindrome maniaco-depressiva descritta sotto il profilo clinico da Kraepelin, riconosceva le diverse, e spesso compresenti, pulsioni alla mania/malinconia (Binswanger [1960] 1977; una sintesi della ricerca su mania e melanconia di Binswanger è in Seminario Mnemosyne 2016c, par. 3). Il primo lavoro sulla malinconia di Panofsly e Saxl del 1923, nel ribaltamento di segno dalla malinconia accidiosa a una forma di malinconia positiva e creativa, risente fortemente della lezione di Aby Warburg e del sua personale interesse per quel tema. Si tratta anche in questo caso di una tensione all’espressione di emozioni al grado superlativo, che finiscono per esprimersi in forme apparentemente antitetiche, con una “inversione energetica” di una pulsione nel suo opposto (ed è proprio il caso di depressione/creatività).

II. Tre forme di malinconia

La polarità individuata da Panofsky e Saxl fin dall’importante saggio del 1923, interrogata e declinata più analiticamene attraverso le figure di malinconici presenti nell’Atlante (v., ancora, la ricognizione in Seminario 2016c), induce a problematizzare ulteriormente il dualismo accidia vs poesia, facendo emergere una terza forma di malinconia – la contrizione dolorosa nel teatro del lutto.

L’inclinazione malinconica che caratterizza alcuni individui, a contatto con stimoli diversi e in situazioni diverse, può produrre dunque come esito tre diverse attitudini psicologiche:

1. una disaffezione depressiva che isola il soggetto rispetto agli eventi circostanti: predomina la predisposizione all’inerzia, che comporta la totale inoperosità fino all’abbandono e all’apatia;
2. un ripiegamento meditativo che produce esiti creativi;
3. una reazione contrita e introflessa all’emozione dolorosa per un lutto o una perdita.

In una ricerca seminariale proposta già 15 anni fa, nell’ambito della costruzione di una Tavola de melancholia (Seminario Mnemosyne 2002c), proponevamo come tracciato ermeneutico le definizioni di queste tre forme di malinconia:

– malinconia ex acedia;
– malinconia ex otio;
– malinconia ex maerore.

Nell’Atlante Mnemosyne, sono individuabili i prototipi delle tre articolazioni tematico-formali qui proposte: la malinconia accidiosa ha il suo prototipo nella figura di Acedia (Forma 1); la malinconia riflessivo-creativa è riferibile al tipo della Musa pensosa (Forma 2); la malinconia dell’afflizione è riconducibile al tipo del Plorante afflitto nel teatro del compianto (Forma 3).

FORMA 1. Occasio, Kairos, Acedia | Bilderatlas, Tavola 48.6: Occasio, Kairos, Acedia, Venezia, Isola di Torcello.
FORMA 2. Musa pensosa | Bilderatlas, Tavola 2.8: Sarcofago romano con Muse, 160-170 d.C., Le nove Muse (fronte), Paris, Musée du Louvre.
FORMA 3. Malinconici nel teatro del lutto | Bilderatlas Tavola 5.19: Meleagro morente viene portato a casa disegno dal bassorilievo su sarcofago romano perduto, già in Palazzo Barberini, 180-190 d.C.

II.1 Malinconia ex acedia

L’accidia – etimologicamente l’a-kedia: il non prendersi cura di sé e degli altri – nel pensiero teologico e nell’iconografia medievale è annoverata tra i Sette vizi capitali. Nel quinto girone dell’Inferno di Dante, il vizio si incarna nella visione (in realtà una non-visione) dei dannati conficcati nel limo della palude dello Stige, sommersi dal fango che avvolge i loro corpi e abitati “dentro” dall’“accidioso fummo” che avvolge i loro pensieri. Gli accidiosi che dicono di sé “Tristi fummo / nell’aere dolce che dal sol s’allegra” (Inferno, VII, 122) sono afflitti da un ispessimento degli organi di ricezione estetica che preclude loro il godimento e una relazione costruttiva con il mondo. Misoneisti, carenti di interesse e di cura per il presente, esclusi da qualsiasi sentimento attivo e positivo, gli accidiosi sono prigionieri di un continuo risentimento, evidente nel loro abbrutimento fisico e spirituale. Afflitti da vane ossessioni, da deliri retentivi di rimpianto, nostalgia, rancore, la noia di sé e del mondo causa loro una progressiva mancanza di energia e un totale obnubilamento dell’orizzonte del desiderio.

Questa inclinazione della malinconia, non trovando forme di espressione e di sfogo, sedimenta in autoreferenzialità assoluta, che porta a un autoavvelenamento da umor nero. L’“accidioso fummo” porta come sintomi patologici una ridotta capacità di pensiero e di concentrazione e, al limite, alla paralisi fisica e mentale: e infine all’impedimento per qualsiasi forma non solo di vita activa, ma anche di vita speculativa e contemplativa.

Dobbiamo a Petrarca il primo riscatto della malinconia in versione creativa, nella sua conversione dalla forma di tristitia depressiva e incapacitante. Se Sant’Agostino, incontrato in sogno nel Secretum ancora mette in guardia Francesco dal peccato capitale, che è insieme vizio e aegritudo, il poeta riscopre nell’isolamento la dimensione più adatta alla creatività poetica (Klibansky, Panoksky, Saxl, [1964]1990, p. 235 nota 18).

II.2 Malinconia ex otio

ὃς δ᾽ ἂν ἄνευ μανίας Μουσῶν ἐπὶ ποιητικὰς θύρας ἀφίκηται, πεισθεὶς ὡς ἄρα ἐκ τέχνης
ἱκανὸς ποιητὴς ἐσόμενος, ἀτελὴς αὐτός τε καὶ ἡ ποίησις
ὑπὸ τῆς τῶν μαινομένων ἡ τοῦ σωφρονοῦντος ἠφανίσθη.
Platone, Fedro 245a

Poeticas fores frustra absque furore pulsari
Marsilio Ficino, De vita longa I,5

Il momento di svolta è la riscoperta alla metà del XV secolo della natura creativamente positiva della melanconia. Nel De vita longa (I.5), Marsilio Ficino recupera, sulla scorta degli autori antichi, l’intuizione della necessità che lega il carattere malinconico all’azione intellettuale (per una lettura approfondita del testo di Ficino, v. infra, Appendice).

Se dal cielo è Saturno (ratio coelestis), nella pratica intellettuale è lo studium che rende il genio necessariamente malinconico (ratio humana). Ma c’è anche una terza dimensione – una terza ‘diagnosi’ della malinconia: ed è quella medico-fisiologica, ovvero ‘scientifica’, in quanto deriva direttamente dall’esame degli umori che caratterizzano le varie personalità degli individui. Marsilio, andando a fondo della questione fisiologica, nota che tanti e vari sono gli effetti negativi dell’umor nero. Da evitare assolutamente l’eccesso di atra bile prodotto da surriscaldamento, che provoca prima iperagitazione e vano furore e poi, all’estinguersi dell’accensione, lascia come residuo solo fuliggine, sul cuore, sull’animo, sui sensi. Ma anche la malinconia ‘naturale’ – ovvero quella fisiologica – può comportare effetti negativi. Se è l’umore assolutamente prevalente, densa e nera com’è offusca desideri e pensieri: la mente è ottusa, indolente, torpida e l’effetto ultimo e finale è il congelamento massimo di intelligenza, sentimenti e passioni. Se dunque è troppo abbondante, ci schiaccia con la sua densità e intorpidisce ogni stimolo; ma se è troppo scarsa, sangue e bile prevalgono, compromettendo equilibrio e memoria.

C’è però una variante benefica, una possibilità per il carattere melanconico: coltivare una malinconia “sottile”, ben miscelata con gli umori caldi – sangue e bile. In questa combinazione, la tenacia dell’umor nero si rivolta in una potenza positiva e vantaggiosa.

L’effetto migliore che possa produrre la predisposizione all’eccesso di umor nero è dunque – nei testi antichi recuperati nella rivoluzione estetica e ideologica del Rinascimento – la malinconia dell’intellettuale che si esercita nell’otium, il tempo liberato dagli affanni materiali e dalle cure contingenti: uno spazio vuoto che si riempie di pensiero. Otium come motore di meditazione e di poesia.

Da questa tipologia discende la melancholia per concentrazione meditante e ispirata del santo sapiente come Girolamo, che poi, passando dall’eremitaggio della caverna nel deserto allo studiolo, diverrà figura archetipale dell’Umanista, che sa isolarsi nel mondo per immergersi nel suo, saturnino, eccesso di sapere.

La Musa pensosa, prototipo ‘classico’ dell’intellettuale malinconico, passa la sua postura per contagio al poeta o all’intellettuale ispirato: in primis era Polinnia, la Musa della poesia divina, figura del raccoglimento, della concentrazione introspettiva.

“Auch sie führt zum Gedicht: Melancholie”, così Gottfried Benn, che Ferruccio Masini traduce: “Malinconia, che alla poesia conduce”.

II.3 Malinconia ex maerore

La prima, e forse più fisiologica, esasperazione dell’umore melanconico trova una definizione nella malinconia ex maerore: soprattutto in questa tipologia si pone il problema del limite tra lo stato ‘normale’ – o, per meglio dire, caratteriologico – e quello patologico. La malinconia ex maerore ha una causa scatenante oggettiva – il dolore per una perdita, per un lutto – che, in concomitanza con l’attitudine umorale del melanconico, viene vissuta in forma di chiusura: una reazione contrita e contenuta, anziché esplosiva, della sofferenza. In questo caso, il gesto della mano al volto, segno di una disperazione o di un’angoscia che non trova sfogo nel pianto e nell’esagitazione gestuale, è sintomo di una chiusura meditativa nel dolore, di una riflessione sulla morte. È il caso della postura ricorrente di Giovanni nelle scene del compianto su Cristo morto, ad esempio in Cosmè Tura e in Niccolò dell’Arca.

III. Figure di malinconici: casi di studio

Tre forme di malinconia, dunque: malinconia ex acedia; malinconia ex otio; malinconia ex maerore. Qui di seguito una selezione di casi di studio riferibili alle tre tipizzazioni che saranno da intendere non come categorie assolute, ma come dispositivi ermeneutici plastici e permeabili l’uno all’altro: molti sono gli incroci tra accidia, pensiero e dolore che interferiscono nelle figure melanconiche, tanto che nessuna di esse si lascia inquadrare perfettamente in categorie predefinite. La sequenza di immagini che proponiamo come casi di studio, attraverso l’evidenziazione delle parentele e delle connessioni nervose tra di esse, se da un lato offre la conferma dell’opportunità di una loro tripartizione, dall’altro, per le molte e varie sovrapposizioni, mette in crisi lo stesso schema.

Quanto ai materiali, sulle tracce dello schema tripartito e a seguito dell’analisi su tutte le figure della Malinconia presenti nel Bilderatlas (v. Seminario Mnemosyne 2016c), il repertorio si è ampliato: la stessa macchina Atlante, infatti, provoca a convocare nella serie altre immagini, non presenti nella selezione di Warburg e collaboratori.

Nella selezione delle opere qui di seguito analizzate secondo lo schema “tre forme di malinconia” ci siamo attenuti comunque ai limiti cronologici del “primo Rinascimento” così come è circoscritto nella periodizzazione, molto selettiva, proposta da Warburg (sulla cronologia del “Rinascimento” secondo Warburg, v. Centanni 2014): da Albrecht Dürer a Giulio Romano, dunque, con un anticipo nel Sogno di Costantino di Piero, passando per il Sogno di Orsola di Carpaccio, fino al melanconico innamorato di Giorgione. In questo “primo Rinascimento” rientra, non per cronologia assoluta ma per data della scoperta e inizio della sua fortuna, anche l’Arianna vaticana (1507-1512); e sulla seducente postura della bella fanciulla addormentata, che esprime insieme il dolore dell’abbandono e l’estasi della prossima rinascita dionisiaca, si chiude questa prima rassegna di “casi di malinconia”.

III.1 Albrecht Dürer, “Uomo di 93 anni” e San Girolamo nello studio: malinconia senile e intellettuale (ex acedia; ex otio)

Dalla metà del XV secolo, accanto all’iconografia che raffigura San Girolamo in un contesto desertico, vestito di stracci o di pelli di animali e in postura ascetica, si afferma un’altra iconografia che propone un nuovo ritratto del santo, chiuso in uno studiolo, paludato in ricche vesti (sovente anche con un anacronistico cappello cardinalizio) e tutto intento alla sua opera: l’impresa titanica di tradurre le Sacre Scritture. Girolamo diventa così l’alter ego del sapiente umanista di cui in molti ritratti assume i tratti fisiognomici e l’ambientazione.

Albrecht Dürer si confronta con entrambe le versioni del soggetto e rappresenta Girolamo sia in chiave penitente e anacoretica (vedi la tavola San Girolamo penitente, 1496), sia in veste di umanista all’interno del suo studiolo (vedi le incisioni San Girolamo e il leone, 1492; San Girolamo nello studio, 1511; San Girolamo nella cella, 1514).

Albrecht Dürer, San Girolamo penitente, olio su tavola, 1496, London, National Gallery.
Albrecht Dürer, San Girolamo e il leone, xilografia, frontespizio per le Lettere di San Girolamo, ed. Nikolaus Kessler, 1492, Basel, Kupferstichkabinett, Öffentliche Kunstsammlung.
Albrecht Dürer, San Girolamo nello studio, incisione, 1511, Milano, Biblioteca Ambrosiana.
Albrecht Dürer, San Girolamo nella cella, incisione a bulino, 1514, Karlsruhe, Staatliche Kunsthalle.

Albrecht Dürer, “Uomo di 93 anni”, disegno, 1511, Wien, Albertina.
Albrecht Dürer, San Girolamo nello studio, olio su tela 1521, Lisboa, Museu Nacional de Arte Antiga.

Nel dipinto del 1521 San Girolamo nello studio, Albrecht Dürer riprende il soggetto delle incisioni precedenti attuando un avvicinamento prospettico che pone in primo piano il santo. Restano gli attributi caratteristici dell’ambientazione, quali il crocifisso appeso, il leggio con i libri e il teschio. Così ritratto, San Girolamo è rappresentato in posa meditativa e riflessiva, seduto allo scrittoio, lontano dagli affanni mondani, con il volto appoggiato alla mano.

Per la sua opera, l’artista prende a modello un suo precedente ritratto di un uomo di Anversa, così descritto in una nota autografa:

Der man was altt 93 jor und noch gesunt und fermuglich zw antorff [sic!]
(L’uomo aveva 93 anni ed era ancora in salute).

Il vecchio è colto in atteggiamento apatico, con lo sguardo rivolto verso il basso, gli occhi socchiusi. La mano sostiene il volto, ma la postura non esprime né turbamenti né passioni, solo una senile spossatezza: il vecchio “è in buona salute” ma è come intorpidito dalla vecchiaia in una quieta rassegnazione.

Il soggetto di San Girolamo nello studio attinge tratti posturali e atteggiamento dal disegno eseguito da Dürer precedentemente, non necessariamente come testo preparatorio del dipinto a olio di dieci anni posteriore. Tuttavia, un elemento muta: lo sguardo del personaggio ritratto: a differenza del “vecchio” del disegno dell’Albertina, infatti, l’anziano Girolamo è raffigurato con gli occhi aperti, con un intenso sguardo che pare interrogare attivamente lo spettatore, ma contemporaneamente vaga, curioso e vigile, all’intorno. Uno sguardo interrogativo, in qualche modo collegabile al gesto con il quale Girolamo con l’indice della mano sinistra tocca il teschio appoggiato sul suo scrittoio – simbolo di vanitas, coscienza della caducità della vita e della transitorietà di tutte le cose mondane. Quel gesto, simbolicamente così potente, non sembra però essere premeditato, bensì compiuto senza un preciso intento: quasi fosse una mossa involontaria, compiuta sovrappensiero dall’abisso di riflessione in cui il Santo è sprofondato.

Le due forme di malinconia ex acedia – distacco dalle cose della vita; disincanto; apatia; rassegnazione – e maliconia ex otio – creatività che produce concreti esiti poietici, nell’opera intellettuale – trovano un’espressione dialettica in questo dittico düreriano che nel suo insieme si propone come giuntura tra l’apatico disinteresse della senilità, gli occhi chiusi a ogni vicenda del mondo, e la meditazione attiva e produttiva; tra il pensiero passivo che ruota a vuoto su se stesso e lo spazio di esercizio di un pensiero attivo e fecondo.

III.2 Giorgione, Doppio ritratto: malinconia d’amore (ex otio; ex maerore)

Giorgione, Doppio ritratto, olio su tela, ca. 1502, Roma, Museo di Palazzo Venezia.

Un melanconico mal d’amore pervade il giorgionesco Ritratto Ludovisi (o Doppio ritratto): un giovane dolcemente assorto sorregge il peso del volto pensoso con la mano destra e, con la languida energia residua, stringe nell’altra mano un piccolo pomo.

Anche la fenomenologia dell’amore può trovare espressione nella posa della malinconia. Le pene d’amore sono al centro della riflessione letteraria ed estetica del primo Cinquecento:

Sono le rinnovazioni degli amori passati perigliose e gravi, in quanto più le seconde febbri sogliono sopravenendo offendere i ricaduti infermi, che le primiere; sono le rimembranze de’ dolci tempi perduti acerbissime, e di somma infelicità è maniera l’essere stato felice.

Negli Asolani di Pietro Bembo (ed. 1505) è così descritta la malinconia d’amore, un sentimento di nostalgia – non Eros ma Pothos, piuttosto, ovvero rimembranza di amor perduto. Gli effetti del mal d’amore sono “le seconde febbri”, molto più pericolose e “immobilizzanti” delle “primiere”. Il male descritto da Bembo gioca sui contrasti: dolce vs amaro; felicità vs infelicità; promessa del futuro, che sopravviene e si rinnova, vs passato, dato per perduto. Estenuanti sbalzi umorali, tutti nel segno della malinconia, che non si risolvono in un’inversione energetica positiva, ma che fanno indugiare l’innamorato nell’auto-compiacimento del suo male.

Questo sentimento trionfa anche nel Doppio ritratto di Giorgione: in secondo piano, in stretta relazione spaziale con una solida colonna, un giovane impone il profilo dei suoi tratti sanguigni e il suo cipiglio forte e volitivo; in primo piano, invece, il bell’uomo, dal volto più fine, sofferto e intelligente, ha il capo inclinato a gravare sulla mano, smentendo la centralità assiale della ferma colonna, e pare sdilinquirsi nel suo nostalgico amore. Il frutto che tiene in mano è un melangolo, agrume dal sapore dulcamaro, posto simbolicamente a metà tra la zona di luce e quella d’ombra (Zamperini 2009, scheda 44).

Il mal d’amore ha una tradizione molto antica: Saffo, il primo poeta malato d’amore a mettere in versi quel pathos, lasciò una traccia dei suoi patimenti fisici in un famosissimo frammento:

τό μ’ ἦ μὰν
καρδίαν ἐν στήθεσιν ἐπτόαισεν.
ὠς γὰρ ἔς σ’ ἴδω βρόχε’ ὤς με φώναι-
σ’ οὐδ’ ἒν ἔτ’ εἴκει,
ἀλλὰ κὰμ μὲν γλῶσσα ἔαγε, λέπτον
δ’ αὔτικα χρῷ πῦρ ὐπαδεδρόμηκεν,
ὀππάτεσσι δ’ οὐδ’ ἒν ὄρημμ’, ἐπιρρόμ-
βεισι δ’ ἄκουαι,
ἔκ δέ μ’ ἴδρως κακχέεται, τρόμος δὲ
παῖσαν ἄγρει, χλωροτέρα δὲ ποίας
ἔμμι, τεθνάκην δ’ ὀλίγω ‘πιδεύης
φαίνομ’ ἔμ’ αὔτᾳ.

Questo / il cuore nel petto mi fa palpitare. / Non appena ti vedo mi si spezza la voce / non esce alcun suono / la lingua si spezza ed ecco, sottile / un fuoco che subito scorre sotto la pelle, / non vedo più niente con gli occhi, mi ronzano / le orecchie, / un sudore freddo stilla da me, un tremito / mi prende tutta, più verde dell’erba / sono, di esser morta / mi pare o poco mi manca (Saffo, fr. 31 West)

Saffo descriveva il suo male come il fiotto di un umore velenoso che dall’interno, dal petto, dal cuore, si diffonde in superficie, provocando la defaillance della voce, il fuoco che brucia sotto pelle, l’obnubilamento della vista e la compromissione delll’udito, fino a farsi tremito, sudore che stilla, verde pallore. Il collasso dei sensi assomiglia alla morte.

I sintomi di questo amore – dall’antichità a Giorgione – non sono gli effetti benefici del “dio della vita”, ma piuttosto una sindrome patologica che isola l’uomo in un’ossessione alimentata dalla perdita dell’oggetto d’amore, dalla mancanza e dal desiderio impotente, che preclude qualsiasi forma di vita activa.

III.3 Giulio Romano, Madonna della Gatta e Madonna della Quercia: malinconia della meditazione e della preveggenza (ex otio; ex maerore)

Giulio Romano (su invenzione di Raffaello), Madonna della Gatta, 1522-1523, Napoli Museo Nazionale di Capodimonte.

L’opera ripropone lo schema in quattro figure della Madonna della Perla (1518-1519, Madrid Museo del Prado – anch’essa su disegno di Raffaello e terminata da Giulio Romano). Nel gruppo, che nell’opera precedente era composto da Maria, Elisabetta, Gesù e Giovannino, a Elisabetta si sostituisce Anna e si aggiuge la figura, lontana sullo sfondo, di San Giuseppe. Recenti analisi riflettografiche hanno permesso di avanzare l’ipotesi di un’iniziale formulazione dell’opera da parte di Raffaello, con una composizione improntata a una maggiore semplicità; Giulio Romano sembra aver aggiunto vari dettagli, fra i quali spiccano gli animali (in particolare la gatta, in agguato) e la stessa figura di Giuseppe.

Le dramatis personae che entrano nel teatro domestico primario composto da Maria con il bambino – siano Elisabetta o, come in quest’opera, Anna e Giuseppe – sono anche un esito delle dispute teologiche, che a più riprese, con uno snodo importante tra XV e XVI secolo, interessano la figura mariana. Nella sceneggiatura di questo dipinto Giuseppe appare relegato sullo sfondo della scena, in piedi sulla soglia di una porta, che avanza da un’altra zona della casa nella stanza in cui si svolge la scenetta domestica. Una stretta interconnessione lega, invece, i personaggi in primo piano. L’abbraccio con cui Maria tiene stretti il figlioletto e Anna, l’anziana madre, genera uno schema compositivo piramidale concluso sul lato sinistro dal vivace Giovannino che entra nella scena interloquendo con postura e sguardo con Gesù, porgendogli una ciliegia (simbolo della futura passione); il piccolo Gesù, irrequieto, pare voler scivolar via dal grembo della madre e risponde al cuginetto tendendogli le braccia. L’affettuoso colloquio gestuale fra i quattro personaggi in primo piano concorre a sottolineare ulteriormente la distanza di Giuseppe. Escluso dalla tenerezza famigliare perfusa nella scena principale, l’uomo non partecipa se non in maniera indiretta alla vicenda; la sua figura, in penombra e sullo sfondo, ha i connotati della malinconia propria dell’escluso e del solitario. Ma la riabilitazione della figura di Giuseppe tra XV e XVI secolo come custos della Chiesa e primo spettatore del mistero della Fede consente di riconoscere nella sua figura un profilo più marcato e significativo in senso teologico: Giuseppe è proposto infatti come il primo e ultimo anello di congiunzione tra mondo terreno e ultraterreno (Pasti 2012, in particolare le pp. 38, 40-41): non un escluso, dunque, ma la figura prima dell’uomo sulla terra che, ancora sul limes, non partecipe delle glorie divine, medita di fronte all’esplicarsi del Mistero. Non proprio a caso quindi, Giuseppe, nella composizione della Madonna della Gatta, viene collocato esattamente sopra la figura di Anna, ritratta nella posa della malinconia della meditazione: direttamente coinvolta nel mistero della divina concezione, Anna è posta in primo piano, e dalla sua figura (che coinvolge anche Giuseppe retrostante) si sviluppa in verticale un asse ‘malinconico’ che propone, per gradazioni, diverse forme di malinconia.

Nell’opera, la figura in risalto, caricata di una postura e di un pathos malinconici immediatamente comprensibili, è infatti Anna. La madre di Maria, posta di fianco alla figlia, che svetta al vertice più alto dello schema piramidale della composizione, appoggia il volto alla mano, colta in un atteggiamento grave e pensieroso, che stona rispetto all’ingenua, luminosa, allegria della Madonna e dei due bimbetti. Pesantezza delle membra e cromatismo più scuro concorrono a confermare decisamente la natura malinconica di Anna, di cui la Pathosformel del volto poggiato sulla mano è chiaro sintomo. Il legame tra madre e figlia proprio in quegli anni viene ribadito e rilanciato, anche sotto il profilo teologico, nel trattato De laudibus sanctissimae matris Annae dell’abate Giovanni Trithemius di Sponheim (1494). Nonostante che Maria sia intenta ad osservare divertita i bambini, tra la figlia e la madre scorre un flusso di pathos che produce una forma di proiezione psicologica dell’apprensione dell’una sull’altra, e anche sul piano figurativo assistiamo una sorta di ‘transfert posturale’. Così, riflessioni e preoccupazioni sul destino riservato al Figlio – già presenti fin dall’iconografia orientale nel tipo iconico della Pathousa e più volte rilanciate nel dolore assoluto e inconsolabile di tante Madonne con Bambino belliniane – si proiettano ora non già sulla madre, ma sulla nonna del Bambino-dio, e purtuttavia irragionevolmente destinato alla morte. Anche gli elementi simbolici presenti nell’opera – la culla-sarcofago; la grisaille con vite e uva; la ciliegia che il piccolo Giovanni offre a Gesù – suggeriscono altre allusioni alla morte che attende inesorabile entrambi gli infanti. La malinconia di cui Anna si fa carico al posto della figlia è dunque tristezza, ma anche preveggente riflessione.

Giulio Romano (su invenzione di Raffaello), Madonna della Quercia, 1518, Madrid, Museo del Prado.

Nella Madonna della Quercia, datata 1518, allo schema che prevede in scena Maria, Gesù e Giovannino viene ad aggiungersi, in sostituzione di Elisabetta o di Anna, la figura di Giuseppe.

La scena, questa volta in esterno, presenta, come nel caso precedentemente analizzato, una situazione famigliare a prima vista felice e spensierata. Il clima, tenero e giocoso, è però inquietato dalla presenza della culla-sarcofago e dall’atteggiamento di Giuseppe, che da vecchio relegato sullo sfondo della scena nella Madonna della Gatta, conquista qui una posizione più avanzata e intrattiene con la figura centrale di Maria una relazione diretta e intima, come indica la posa complice e affettuosa di Maria che appoggia il braccio sulla stessa rovina archeologica su cui è appoggiato Giuseppe, quasi cercando un contatto fisico con lo sposo.

San Giovannino tiene fra le mani un cartiglio in cui si legge ECCE AGNUS DEI; il piccolo Gesù, sporto dal grembo della madre, sembra richiamare l’attenzione di Maria sulla scritta, senza alcuna apprensione per il senso del tremendo messaggio profetico, ma con la gioia tenera e ingenua del bimbo che vuol fare vedere alla mamma quanto è bravo.

Rispetto al dolce gioco di gesti e di sguardi tra la Madre e i bambini intenti a giocare con il cartiglio, Giuseppe si tiene in disparte. Giuseppe vede, capisce, sa. Il suo dubbio circa il proprio ruolo nella storia sacra lo isola e gli preclude una partecipazione attiva alla scena.

Nell’attitudine malinconica, dunque, Giuseppe esprime il dubbio e la tristezza della preveggenza, ma anche il senso di una profonda contemplazione e meditazione sul mistero del destino di Cristo.

III.4 Piero della Francesca, Il sogno di Costantino e Carpaccio, Sogno di Sant'Orsola: malinconia profetica (ex otio)

Vittore Carpaccio, Il sogno di Orsola, Gallerie dell’Accademia, Venezia.
Piero della Francesca, Sogno di Costantino. Chiesa di San Francesco, cappella Bacci, Arezzo.

Figure in atteggiamento pensoso, con il volto appoggiato alla mano, ricorrono anche in contesti miracolosi; figure sognanti, preveggenti, profetiche e comunque, anch’esse, in certo senso, malinconiche. Rispetto ai casi di Girolamo nello studio, e di Elisabetta, Anna o Giuseppe convocati a portare il peso della riflessione nelle scene di leggera letizia domestica che vedono protagonisti Maria, Gesù e San Giovannino, diversi sono i ruoli di questi miracolati (miracolandi) o ‘visionari’, coloro attraverso i quali la Grazia si compie o troverà compimento: è il caso di Sant’Orsola nell’opera di Carpaccio, colta nel sonno dal raggio della luce divina. Ma nelle scene di sogno profetico, la postura della mano al volto a volte caratterizza anche figure marginali che assistono inconsapevolmente al miracolo o alla visione.

Il sogno profetico, fin dall’antichità, è proprio della figura regale o sacerdotale – il re, la regina, il veggente, il santo – e per il suo carattere visionario è spesso associata alla dimensione malinconica-contemplativa. Una delle posture a disposizione degli artisti per visualizzare episodi di sogno profetico è infatti la posa, che contraddistingue i soggetti variamente ‘malinconici’, della mano al volto. Come esempio portiamo qui il telero con il Sogno di Orsola di Carpaccio (Gallerie dell’Accademia; v. Nepi Scirè 2000, 178-180) e La visione di Costantino, affrescata da Piero della Francesca tra le Storie della Vera Croce nella cappella maggiore della Basilica di San Francesco ad Arezzo (sul quale, v. Angelini 2014, 189-191).

Orsola è distesa nel letto, nella quiete della sua stanza: la posa della riflessione malinconia coincide con la visione dell’angelo nel momento in cui la santa prevede la strage del suo popolo per mano degli Unni. Il sogno è dunque un momento di apprendimento e di visione, ma anche di meditazione che prelude al martirio che Orsola e il suo popolo dovranno affrontare.

Analogo il caso di Costantino. Nella Legenda Aurea, Jacopo da Varagine raccoglie la tradizione, testimoniata già da fonti contemporanee all’evento, secondo cui, prima della Battaglia di Ponte Milvio, Costantino avrebbe avuto un sogno (Lattanzio, De mortibus persecutorum 44) o una visione (Eusebio di Cesarea, Vita Constantini I, 28) che lo indusse a imporre sullo scudo dei suoi soldati il cristogramma, garantendogli la vittoria contro Massenzio.

Nell’affresco di Piero, tuttavia, non è Costantino a essere ritratto con la mano al volto. Il segnale posturale del sogno profetico investe invece il soldato di guardia alla tenda: posto tra Costantino dormiente e l’angelo annunciante in arrivo in picchiata dal cielo, il personaggio secondario si carica di una sorta di ‘transfert posturale’ e funge così da figura-cerniera, anticipando con la sua posa la visione rivelatrice dell’imperatore.

III. 5 I compianti di Niccolò dell’Arca e di Cosmè Tura: polarizzazione dialettica della figura malinconica, nel teatro delle passioni (ex maerore)

Niccolò dell’Arca, Compianto sul Cristo morto, ca. 1480, terracotta dipinta, Bologna, Chiesa di Santa Maria della Vita.
Cosmè Tura, Pietà, 1470-1474, olio e tempera su tavola, lunetta del Polittico Roverella in San Giorgio a Ferrara, Paris, Musée du Louvre (Bilderatlas, Tavola 42.5)

Nello schema del compianto su Cristo morto che si impone nella seconda metà del Quattrocento, sette personaggi compongono convenzionalmente il gruppo dei ploranti sul corpo di Cristo deposto dalla croce. Le figure sono variamente identificate ma solitamente sono caratterizzate come quattro personaggi femminili – Maria, Maria Maddalena e altre due Marie – e tre maschili – Nicodemo, Giuseppe d’Arimatea e Giovanni, l’apostolo prediletto (sulla formazione del gruppo del compianto, v. Lollini 2013). Nel compianto di Niccolò dell’Arca le figure dei ploranti sono in tutto 6: manca una delle tre figure maschili, che è andata perduta ma che sappiamo però essere stata originariamente presente, a confermare lo schema completo delle 7 figure intorno al corpo del morto.

Com’è noto il tema del compianto intorno a Cristo morto trova nei testi evangelici una fonte men che esile: di fatto, si tratta di una vera e propria invenzione prima devozionale (risalente alle pratica medievale delle sacre rappresentazioni della passione, morte e deposizione di Cristo) e poi iconografica. Già ampiamente argomentata è l’ipotesi che, alla base dello schema iconografico che si impone a partire dalla metà del XV secolo, vi sia il modello archeologico dei sarcofagi romani e in particolare lo schema del trasporto del corpo di Meleagro (per una recente messa a punto della questione, v. Catoni, Ginzburg, Giuliani, Settis 2013; sul tema, vedi anche Mnemosyne Atlas Tavola 42, con la lettura Seminario Mnemosyne 2000b).

Intorno al paradosso del corpo morto dell’Uomo-Dio va in scena un vero e proprio teatro delle passioni, nelle diverse declinazioni di intensità e di qualità di pathos che il coro di personaggi esprime. Una scena teatrale, dunque, nella quale si attiva un dialogo di gesti e sentimenti: a personaggi mesti e raccolti, sopraffatti dal dolore e sprofondati nella gravità della contrizione, si giustappongono figure che esprimono un dolore ‘urlato’, che si esprime in una gestualità enfatica, eccitata, ipercinetica. Disperazione muta e introflessa vs esagitazione iperespressiva del pathos: ancora una volta, melanconia vs mania. In questa polarità, la caratterizzazione dei personaggi, la distribuzione dei ruoli, la loro collocazione nello spazio e il tacito dialogo che li coinvolge rispondono perfettamente alle regole di una esemplare scrittura drammaturgica: il principio della polarità semantica e dell’equilibrio sospeso tra forze dialetticamente opposte danno forma a una scrittura scenica articolata in una visione d’insieme che si materializza nella scena aoristica del compianto.

Proprio di fronte all’evidenza corporea del lutto, le fisiologiche manifestazioni del dolore assumono la piega espressiva propria dei diversi caratteri dei ploranti, secondo le loro diverse attitudini umorali, in un range che scorre per sfumature, dall’espressione maniacale alla contrizione depressiva. Un teatro veramente tale, proprio in quanto “teatro dialettico”, laddove è la polarizzazione il dispositivo drammaturgico che dà senso alla sintassi d’insieme.

Nella sceneggiatura delle diverse manifestazioni del dolore, una delle possibili reazioni, sul versante antitetico rispetto all’esplosione incontenibile della passione, è la Pathosformel del volto appoggiato alla mano. La posa – nel contesto, sintomo di una fisiologica malinconia ex maerore – diventa la postura iconografica che caratterizza Giovanni. Nell’intensa figura stante del compianto di Niccolò dell’Arca, che quasi si sottrae alla dinamica del pianto corale, così come nel viso acuto e interrogante di Cosmè Tura, Giovanni risponde alla retorica del dolore espressa dalle Marie con la sua, tutta particolare e contingente, malinconia.

Vero è peraltro che, nel gruppo del compianto, le figure maschili generalmente esprimono una forma di pathos più sobria e contenuta rispetto alle figure femminili, convenzionalmente più mosse e commosse dalla passione, fino al profilo limite della “menade sotto la Croce” per la quale il dolore si traduce in una sorprendente danza estatica (Wind, Antal [1937] 2016).

Da notare che la teatralità che polarizza dialetticamente diverse posture dei personaggi non è legata soltanto alla drammaturgia dei compianti, in cui si giocano le coloriture della contrizione malinconica vs la retorica dell’enfasi. Sono anche altri i contesti in cui la postura malinconica si definisce per polarità: si veda ad esempio il carattere polare che oppone la Musa pensosa alle sorelle, alcune delle quali decisamente più allegre e festose, proprio perché tutte impegnate nell’esibizione dei loro attributi: v. supra, immagine del Sarcofago delle Muse del Louvre): così è anche per la polarizzazione delle posture delle allegorie dell’occasione presa e persa (v. supra, immagine di Occasio/Kairos/Acedia, nel rilievo di Torcello).

III.6 Arianna: malinconia dell’abbandono e dell’estasi (ex maerore; ex acedia; ex otio)

Arianna Vaticana, Musei Vaticani, copia romana del II sec. d.C., da un originale ellenistico, scuola di Pergamo, II sec. a.C., Galleria delle Statue del Museo Pio Clementino [l’istallazione sopra a un letto di finte rocce e quindi sopra a un sarcofago (sostituito nel XVIII secolo con il sarcofago con l’attuale Gigantomachia) è già attestata dal XVI secolo].

La figura femminile è immersa in un sonno lieve eppure profondo; la mano sinistra sostiene il volto mentre il braccio destro è volto all’indietro in un gesto di abbandono languido, totale, inconsapevolmente seduttivo. Una morbida tunica drappeggiata avvolge il suo corpo e scivola sensualmente sul seno sinistro, scoprendolo.

Tra le molte fonti antiche che raccontano la storia dell’abbandono di Arianna, alcune sembrano avere più precisi punti di tangenza con il marmo vaticano. Ovidio, nella lettera che nella finzione delle Heroides Arianna scrive al suo Teseo, mette in bocca all’abbandonata parole in cui, nel descrivere la sua disperazione, la fanciulla prevede, inconsapevolmente, la sua prossima ressurrezione dionisiaca e nel contempo si sente “pietrificare” dal dolore:

Aut ego diffusis erravi sola capillis,
qualis ab Ogygio concita Baccha deo,
aut mare prospiciens in saxo frigida sedi,
quamque lapis sedes, tam lapis ipsa fui.

Sola io, con i capelli sciolti, sola a vagare
come fossi una Baccante, invasata dall’antico dio:
e poi a guardare il mare, al freddo, seduta su una roccia:
su quel seggio di pietra, fatta pietra io stessa (Ovidio, Her. XX)

Un’altra fonte che si può chiamare in causa per l’iconografia della statua vaticana, è costituita dalle Eikones di Filostrato, in cui nella galleria – vera o immaginaria – proposta nel testo troviamo questa descrizione di un dipinto:

ἔρχεται παρὰ τὴν Ἀριάδνην ὁ Διόνυσος, μεθύων ἔρωτι, [...] ὅρα καὶ τὴν Ἀριάδνην, μᾶλλον δὲ τὸν ὕπνον. γυμνὰ μὲν ἐς ὀμφαλὸν τὰ στέρνα ταῦτα, δέρη δὲ ὑπτία καὶ ἁπαλὴ φάρυγξ, μασχάλη δὲ ἡ δεξιὰ φανερὰ πᾶσα, ἡ δὲ ἑτέρα χεὶρ ἐπίκειται τῇ χλαίνῃ, μὴ αἰσχύνῃ τι ὁ ἄνεμος. οἷον, ὦ Διόνυσε, καὶ ὡς ἡδὺ τὸ ἆσθμα, εἰ δὲ μήλων ἢ βοτρύων ἀπόζει, φιλήσας ἐρεῖς.

“Si accosta ad Arianna Dioniso, ebbro d’amore [...]; ma tu, guarda Arianna, o piuttosto, guarda il suo sonno; nudo il petto fino all’ombelico, il collo piegato mostra una morbida gola; tutta scoperta la spalla destra e la mano sinistra trattiene la veste, perché il vento non la svergogni. Dioniso, quant'è dolce l’odore del tuo fiato, profuma di miele e di uva – baciala e ce lo dirai!”
(Filostrato, Imagines I, 15).

Nel quadro descritto di Filostrato, la posa di Arianna nel sonno – il collo piegato che svela la gola delicata; la veste aperta a scoprire il seno destro – è accostabile a quella dell’Arianna vaticana. Diverso è però il movimento delle braccia, e in particolare la mano sinistra, anziché essere poggiata malinconicamente al volto, è impegnata a tener ferma pudicamente la veste, ché il vento non la sollevi.

Ma è proprio il doppio movimento delle braccia che rende così intensa ed espressiva l’iconografia del marmo vaticano, riuscendo a condensare due episodi del mito di Arianna: l’abbandono da parte di Teseo sull’isola di Nasso e il successivo incontro della principessa cretese con Dioniso. Posa ambivalente questa di Arianna, ritratta in una Pathosformel complessa che esprime un doppio sentimento: sia il suo essere abbandonata, sia il suo abbandonarsi al languore della disperazione. Una malinconia ex maerore, dunque, originata dalla perdita dell’amato e dalla disperazione; ma la mano destra poggiata malinconicamente al volto, a dire la desolazione della fanciulla, si confonde con la mano al volto della ‘malinconia profetica’. Arianna è (come ci racconta Ovidio) “fatta pietra”, quasi morta dal dolore, ma pare che già stia sognando la sua propria rinascita. Con il braccio sinistro languidamente piegato dietro il capo, Arianna ci dice che, insieme alla postura del dolore e della nostalgia, sta mettendo in scena anche la posa dell’abbandono estatico propria della ninfa che sarà presto risvegliata alla vita e all’amore da Dioniso.

Arianna, protomartire della Pathosformel della malinconia dolorosa, ci promette anche, con la bellezza del suo corpo svelato e con la postura estatica del braccio piegato, la prossima beatitudine dionisiaca.

Riferimenti bibliografici

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Appendice | Lettura di Marsilio Ficino, De vita longa I, 5

Monica Centanni

Αὐγὴ ξηρὴ ψυχὴ σοφωτάτη, καὶ ἀρίστη
Eraclito, DK 22 B 118

Lux sicca anima sapientissima
Marsilio Ficino, De vita Longa I, 5

Nel De vita longa (I, 5), Marsilio Ficino così argomenta sulla scorta degli autori antichi:

Quod Musarum sacerdotes melancholici vel sint ab initio vel studio fiant, rationibus primo coelestibus, secundo naturalibus, tertio humanis ostendisse sufficiat. Quod quidem confirmat in libro Problematum Aristoteles, ‘omnes enim inquit viros in quavis facultate praestantes melancholicos extitisse’. Qua in re Platonicum illud quod in libro De scientia scribitur confirmavit ‘ingeniosos videlicet plurimum concitatos furiososque esse solere’. Democritus quoque 'nullos, inquit, viros ingenio magnos, praeter illos qui furore quodam perciti sunt, esse unquam posse'. Quod quidem Plato noster in Phaedro probare videtur, dicens ‘poeticas fores frustra absque furore pulsari’. Etsi divinum furorem hic forte intelligi vult, tamen neque furor eiusmodi apud physicos aliis unquam ullis praeterquam melancholicis incitatur.

Abbiamo ben mostrato che gli intellettuali, sacerdoti delle Muse, sono malinconici o lo diventano nel loro studio, per ragioni prima di tutto celesti, in secondo luogo naturali e infine culturali. Così Aristotele nei suoi Problemata: ‘tutti gli uomini – scrive – che eccellono in qualsivoglia campo, sono malinconici’, e conferma così quanto Platone scrive nel De scientia: ‘gli uomini d’ingegno di solito sono iperagitati e in preda al furore’. Anche Democrito dice che ‘non possono essere uomini di grande ingegno, quelli che non sono scossi dal furore’. Anche il nostro Platone, nel Fedro, è d’accordo quando dice che ‘invano si bussa alle porte della poesia, se non c’è furore’. Anche se qui probabilmente Platone fa riferimento al furore divino, tuttavia per i medici nessun altro, se non i melanconici, è mosso da un furore di quel tipo.

La lezione aristotelica raccolta dai Problemata descrive dunque la necessità del carattere malinconico per l’azione intellettuale. E, a conforto della diagnosi aristotelica, Marsilio invoca anche il precedente dell’intuizione platonica del Fedro su quel furor che, solo, può far aprire le porte della poesia. Troppo attento e sottile è comunque Marsilio per non marcare la differenza tra l’ispirazione divina del furore poetico giusta Platone, e la materialità fisica del furore che ispira il genio secondo Aristotele (ma anche secondo Democrito, non innocentemente tirato in gioco). “Rationibus primo coelestibus, secundo naturalibus, tertio humanis”: c’è un celeste influsso, sì, sul genio, ma è celeste in quanto influsso planetario; il resto è disposizione naturale del carattere, e poi ragione humana – ovvero squisitamente culturale. Se dunque dal cielo è Saturno (ratio coelestis), nella pratica intellettuale è lo studium che rende il genio necessariamente malinconico (ratio humana). C’è anche, però, una terza dimensione – una terza ‘diagnosi’ della malinconia: ed è quella, medico-fisiologica (ratio naturalis), ovvero ‘scientifica’ in quanto deriva direttamente dall’esame degli umori che caratterizzano le varie personalità degli individui.

Prosegue Marsilio, andando a fondo della questione fisiologica (con l’esatta avvertenza del figlio di un medico):

Deinceps vero assignandae a nobis rationes sunt, quare Democritus et Plato et Aristoteles asserant melancholicos nonnullos interdum adeo ingenio cunctos excellere, ut non humani sed divini potius videantur [...]. Melancholia, id est atra bilis, est duplex: altera quidem naturalis a medicis appellatur, altera vero adustione contingit. Naturalis illa nihil est aliud quam densior quaedam sicciorque pars sanguinis. [...] Quaecunque adustione nascitur iudicio et sapientiae nocet. Nempe dum humor ille accenditur atque ardet, concitatos furentesque facere solet, quam Graeci maniam nuncupant, nos vero furorem. At quando iam extinguitur, subtilioribus clarioribusque partibus resolutis solaque restante fuligine tetra, stolidos reddit et stupidos. Quem habitum melancholiam proprie et amentiam vecordiamque appellant. Sola igitur atra bilis illa quam diximus naturalem ad iudicium nobis sapientiamque conducit, neque tamen semper. Sane si sola sit, atra nimium densaque mole obfuscat spiritus, terret animum, obtundit ingenium. Si vero pituitae simplici misceatur, cum frigidus obstiterit circum praecordia sanguis, crassa quadam frigiditate segnitiem adducit atque torporem; atque ut densissimae cuiusque materiae natura est, quando eiusmodi melancholia frigescit, ad summum frigiditatis intenditur. Quo in statu nihil speratur, timentur omnia, taedet coeli convexa tueri. [...] Ubi nimis exuberat, sive sola sit sive coniuncta pituitae, spiritus crassiores facit atque frigidiores, continuo animum afficit taedio, mentis aciem hebetat, neque salit Arcadico circum praecordia sanguis. Oportet autem atram bilem neque tam paucam esse, ut sanguis, bilis, spiritus quasi freno careant, unde instabile ingenium labilemque memoriam esse contingat; neque tam multam, ut nimio pondere praegravati dormitare atque egere calcaribus videamur.

A questo punto dovremo argomentare per qual motivo Democrito, Platone e Aristotele affermino che alcuni melanconici superano in genio tutti gli altri uomini, al punto da sembrare non umani ma divini. [...] La malinconia, melencholia ovvero ‘bile nera’, è di due tipi: la prima i medici la definiscono naturale, la seconda accade per surriscaldamento. La malinconia ‘naturale’ altro non è che una parte del sangue più secca e densa del resto. [...] Quella generata da surriscaldamento ha effetti sulla ragione e sul l’intelligenza. Mentre infatti quell’umore si accende e arde, rende i soggetti agitati e furiosi – ed è quella che i Greci chiamano ‘mania’, e noi ‘furore’. Ma quando l’ardore si estingue, perché le parti più sottili e luminose si sono consumate, resta sola una nera fuliggine che rende stolti e instupiditi. Questo è il carattere che chiamiamo comunemente melanconia, demenza e stolidità. Dunque solo la malinconia che abbiamo chiamato ‘naturale’ ci porta verso l’intelligenza e la sapienza – e neppure accade sempre. Certo, se è un elemento isolato, con la sua massa nera e densa, offusca gli spiriti, abbatte l’animo, ottunde l’ingegno. E se si mescola alle secrezioni, quando il sangue freddo circonda il cuore, con la sua frigida densità porta indolenza e torpore; e poi, conformemente alla natura delle materie dense, quando la melanconia di questo tipo si raffredda, tende al massimo del freddo. Ed è questa la condizione in cui non si spera niente, si ha paura di tutto, da fastidio persino guardare la volta del cielo. [...] Dunque, quando la bile nera è in eccesso, sia da sola o mescolata alle secrezioni, rende gli spiriti più spessi e più freddi, affligge l’animo con un tedio continuo, inebetisce l’acume della mente, e il sangue non sale ‘al cuore degli Arcadi’ [cfr. Virgilio, Eneide X, 452, al momento dell’avanzare sul campo, contro Turno, del fiero Pallante: frigidus Arcadibus coit in praecordia sanguis]. Bisogna poi che l’umor nero non sia troppo scarso ché il sangue, la bile, gli spiriti non siano regolati e l’intelligenza diventi altalenante e la memoria labile; né che sia in eccesso, di modo che aggravati da un peso troppo grande, diventiamo sonnolenti, carenti di stimoli.

Tanti e vari sono gli effetti negativi dell’umor nero. Da evitare assolutamente l’eccesso di atra bile prodotto da surriscaldamento, che provoca prima iperagitazione e vano furore e poi, all’estinguersi dell’accensione, lascia come residuo solo fuliggine, sul cuore, sull’animo, sui sensi. Ma anche la malinconia ‘naturale’ – ovvero quella fisiologica – può comportare effetti negativi. Se è l’umore assolutamente prevalente, densa e nera com’è offusca desideri e pensieri: la mente è ottusa, indolente, torpida e l’effetto ultimo e finale è il congelamento massimo di intelligenza, sentimenti e passioni. Se dunque è troppo abbondante, ci schiaccia con la sua densità e intorpidisce ogni stimolo; ma se è troppo scarsa, sangue e bile prevalgono, compromettendo equilibrio e memoria. C’è però una variante benefica dell’umor nero, quando è ‘sottile’ e giustamente temperato/temperante rispetto agli altri umori:

Proinde necessarium est omnino eam esse, quoad eius natura patitur, subtilissimam. […] Abundet igitur atra bilis, sed tenuissima […] Non careat humore subtilioris pituitae circumfuso, ne arescat prorsus durissimaque evadat. Non tamen misceatur omnino pituitae, praesertim vel frigidiori vel multae, ne frigescat.bili sanguinique adeo misceatur, ut corpus unum conficiatur ex tribus, dupla sanguinis ad reliqua duo proportione compositum […]. Accendatur aliquantum a duobus illis atra bilis, accensaque fulgeat, non uratur, ne quemadmodum solet materia durior, dum fervet nimium, vehementius urat et concitet; dum vero refrigescit, similiter frigescat ad summum. Bilis enim atra ferri instar, quando multum ad frigus intenditur, friget ad summum; quando contra ad calidum valde declinat, calet ad summum. Neque mirum videri debet atram bilem accendi posse facile atque accensam vehementius urere […]. Tantam ad utrunque extremum melancholia vim habet unitate quadam stabilis fixaeque naturae. Quae quidem extremitas ceteris humoribus non contingit. Summe quidem calens summam praestat audaciam, immo ferocitatem; extremo vero frigens timorem ignaviamque extremam. […] Igitur opportune temperata sit atra bilis oportet. Quae cum ita moderata est, ut diximus, et bili sanguinique permixta, quia et natura sicca est et conditione quantum ipsius natura patitur tenuissima, facile ab illis accenditur; quia solida est atque tenacissima, accensa semel diutissime flagrat; quia tenacissimae siccitatis unitate potentissima est, vehementius incalescit. Quemadmodum lignum paleis si utraque accendantur, magis diutiusque calet et lucet. Atqui a diuturno vehementique calore fulgor ingens motusque vehemens et diuturnus proficiscuntur. Huc tendit illud Heracliti: ‘Lux sicca, anima sapientissima’.

È dunque necessario che l’umor nero sia, per quanto lo consente la sua natura, sottilissimo. […] In quel caso può essere pure abbondante, purché sia molto sottile […] E si mescoli anche alle secrezioni per non disseccarsi e diventare troppo dura. Ma tuttavia non si mescoli solo alle secrezioni, soprattutto quando sono freddo e abbondante, per non raffreddarsi ulteriormente, ma alla bile e al sangue, cosicché da questi tre umori ne risulti un solo elemento, composto da due porzioni di sangue e una per gli altri due. E si infiammi, l’umor nero, per effetto degli altri due umori, e acceso risplenda, senza bruciarsi, come capita di solito alle materie troppo dure che più violentemente bruciano e si consumano e, analogamente, se si raffreddano arrivano a congelare. Come il ferro, così è l’umor nero, che raffreddato diventa gelido, riscaldato brucia al sommo grado. Non c’è da meravigliarsi che l’umor nero possa accendersi e poi, una volta acceso, bruciare violentemente […]. Così grande è la forza con cui la malinconia tende agli estremi opposti, proprio per quella sua natura così fissa e stabile. E questa tendenza agli estremi non investe allo stesso modo gli altri umori. Perciò quando la malinconia è riscaldata procura la massima audacia, fino alla temerarietà; quando invece si raffredda, porta viltà e il colmo dell'ignavia. […] Sarà opportuno pertanto che l’umor nero sia temperato, proprio perché ha una natura molto solida e tenace. E quando è temperato, come abbiamo detto, miscelato con bile e sangue, dato che è secca e, quando possibile per la sua natura, è sottilissima, facilmente si fa accendere dagli altri due umori. Solida e tenacissima, una volta accesa arde molto a lungo. E per il fatto che per la combinazione di secchezza e densità ha molta potenza, tanto più intensamente si accende. Come il legno e la paglia che, quanto più si accendono l’uno con l’altra, tanto più riscaldano e riplendono. Proprio da quel prolungato e intenso calore, insorge un grande fulgore e un moto intenso e duraturo. A questo allude il detto di Eraclito: ‘Luce secca, anima sapientissima’.

C’è dunque una possibilità per il carattere melanconico: coltivare una malinconia “sottile”, ben miscelata con gli umori caldi – sangue e bile: in questa combinazione, la tenacia dell’umor nero si converte in potenza positiva, in energia ardente e duratura. Massima tensione verso gli opposti estremi, sempre: ma dall’altro capo rispetto all’eccesso di frigidità saturnina, c’è il ferro che si arroventa di passione e che brilla poi della luce secca e perfetta, malinconica e fulgida, dell’intelligenza creativa.

Lux sicca, anima sapientissima; ovvero: αὐγὴ ξηρὴ ψυχὴ σοφωτάτη καὶ ἀρίστη (DK 22 B 118, ex Stob. Flor. V, 8). Meravigliosa, e precocissima, citazione da Eraclito che Marsilio mette come clausola della sua – più democritea e aristotelica che platonica – analisi fisiologica della malinconia intellettuale.

English abstract

This reasoned survey of melancholy images contained in the Atlas is followed by an in-depth analysis on the theme of “Three forms of melancholy: an interpretation, from the Bilderatlas and other images”. In fact, the figures with the hand-to-face posture that you encounter in the Atlas may be divided into three groups that we have distinguished in order to map out a diagram of the analysis: Melancholy I. ex acedia; Melancholy II. ex otio; Melancholy III ex maerore. The precariousness and permeability among these typings are highlighted by the overlay of the three inclinations − sloth, thought, pain – that are present in almost all melancholic figures, especially in figures that do not allow themselves to be framed in one of the predefined categories. The sequence of images, through the highlighting of kindred relationships and of ‘nerve connections’, then offers possible further articulations – further overlays – of the tripartite scheme. The examples are taken from images that are displayed in the Atlas as well as other sources, which the Atlas-machine comes to summon.

keywords | Melancholy; Acedia; Otiium; Maeror; Atlas Mnemosyne; Warburg; Dürer; Giorgione; Giulio Romano; Vittore Carpaccio; Arianna.

To cite this article: Seminario Mnemosyne, Tre forme di malinconia. Una ricognizione su figure di malinconici, a partire dall’Atlas Mnemosyne, “La Rivista di Engramma” n. 144, aprile 2017, pp. 4-35 | PDF of the article 

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2017.144.0001