"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

Martin Warnke (1937-2019)
Vita dopo la vita in un ritratto per immagini

Michael Diers, traduzione italiana a cura del Seminario Mnemosyne*

English abstract

1 | Philipp Hympendahl, ritratto di Martin Warnke, 2006. ©Gerda Henkel Stiftung, Düsseldorf.

Tra i ritratti fotografici pubblici – non certo numerosi – di Martin Warnke che circolano sulla stampa o sul web ne spicca uno in particolare, datato 2006 [Fig. 1]. È una fotografia che si può definire senza riserve eccellente, in quanto è un ritratto perfettamente riuscito dell’importante storico dell’arte di Amburgo, morto il 1 dicembre dell’anno scorso (2019), all’età di 82 anni. Così scrive Warnke a proposito dell’importanza del ritratto per ricostruire l’immagine di uno studioso:

Tutto ciò che la storia dell’arte può provare a dire sull’immagine dello studioso nel XVII secolo, si può ricavare da un quadro che Peter Paul Rubens dipinse nel 1611-1612 (Warnke 1987, 1).

Il ritratto fotografico in oggetto è un’opera su commissione, e pertanto si propone come una sorta di ritratto ufficiale dello studioso: la foto fu eseguita dal fotografo di Düsseldorf, Philipp Hympendahl su commissione della Gerda Henkel-Stiftung, in occasione del Gerda Henkel-Preis istituito per la prima volta proprio nel 2006 per celebrare il trentesimo anniversario della Fondazione, e assegnato quell’anno a Warnke.

Il soggetto è seduto dietro a un tavolo ed è ritratto a mezzo busto. Seguendo, presumibilmente, le minime indicazioni di regia che il fotografo gli aveva dato, Warnke si mise in posa: girato leggermente verso destra, con la testa appena inclinata di lato e la mano sinistra poggiata sul tavolo, con un sorriso affabile, è intento a non guardare direttamente l’obiettivo della macchina fotografica, ma ha lo sguardo rivolto in direzione dello spettatore. Il set è una sala conferenze nell’edificio della Fondazione Henkel in Düsseldorfer Malkastenstraße 15; la data è un giorno dell’agosto 2006, il mese successivo alla decisione della giuria. La cerimonia di premiazione si svolse in seguito il 6 novembre; il titolo dell’orazione che Warnke pronunciò in quell’occasione (Gerda Henkel Vorlesung) è elegantemente, e incisivamente, provocatorio: Könige als Künstler [Il re come artista] (Warnke 2006).

Il fotografo Philipp Hympendahl, che al tempo lavorava già da alcuni anni per la Henkel AG, ricorda ancora abbastanza bene le circostanze dello scatto: alla ricerca di un luogo riservato e tranquillo all’interno dell’edificio della Gerda-Henkel-Stiftung, che era tra l’altro tutta occupata per le celebrazioni del trentesimo anniversario della fondazione, alla fine optarono per la sala conferenze che era vuota e dava sul giardino, illuminata da una buona luce naturale ed era sgombra da scrivanie e da librerie. Il tempo a disposizione era poco e tutto doveva essere fatto molto rapidamente, ma l’ospite d’onore era molto collaborativo. Non servirono molte parole: solo la luce doveva essere quella giusta. Non è stato possibile appurare se le fotografie siano state scattate in formato analogico o digitale; pare comunque che sia bastato un unico scatto (ringrazio Philipp Hympendahl per le cortesi informazioni che mi ha dato al telefono, in data 13 gennaio 2020).

Il ritratto è in formato verticale e il piano in mogano lucido del tavolo occupa il terzo inferiore dell’inquadratura. Perciò, la mano e la parte superiore del corpo risultano in ombra: è come un diaframma, una sorta di parapetto [in italiano nel testo], che crea una distanza tra il soggetto del ritratto e lo spettatore. La parete dietro è neutra, di colore bianco – a eccezione del dettaglio di una stampa che risalta sullo sfondo: una figura antica con panneggio. Del resto, il fuoco dell’immagine è sul ritratto del soggetto, incorniciato in primo piano dalla superficie del tavolo e, dietro, dalla fotografia di cui sopra.

La composizione è impostata su una sottile diagonale, che tira dal basso a sinistra verso l’alto a destra, e la divide in due sezioni triangolari. Al centro, il soggetto indossa una giacca di un blu intenso e una sobria cravatta fantasia di colore azzurro, che si intona perfettamente alla camicia bianca. Protagonisti dell’immagine sono comunque la testa e la mano, e la tonalità dell’incarnato, che catalizzano decisamente l’attenzione. La fonte di luce da sinistra contribuisce a far risaltare le membra del corpo – il volto, la mano – che ne risultano bene illuminate e plasticamente scolpite. Il personaggio ritratto fa la sua parte, con il suo sguardo sereno. Sulla sua bocca, un leggero sorriso, gentile e amichevole, e allo stesso tempo un po’ timido. È l’immagine di una persona che sembra essere in pace con sé e con il mondo, non da ultimo anche perché il suo lavoro ha appena ricevuto un altissimo riconoscimento. Dopo il Premio Leibniz della Deutschen Forschungsgemeinschaft, conferitogli nel 1991, il premio della Fondazione Henkel era infatti per lui un riconoscimento altrettanto straordinario, e in questo caso era stato dato non solo allo studioso ma anche all’uomo Martin Warnke – o quanto meno, come gli capitava di sottolineare nelle sue conversazioni, così lui lo considerava: all’epoca era già professore emerito da alcuni anni e aveva appena festeggiato il suo sessantanovesimo compleanno.

2 | Niobide Chiaramonti, copia romana di un originale greco, marmo, Roma, Musei Vaticani-Museo Gregorio Profano, dettaglio. ©Musei Vaticani, Roma.

Il ritratto mostra un uomo di circa settant’anni e al suo fianco una figura femminile che appare come un fantasma, come un’immagine dentro l’immagine: è visibile solo un frammento, ma può essere facilmente identificata come una statua antica. La gamba sinistra che incede, chiaramente visibile sotto il leggero chitone, fa sembrare che la figura galleggi immaterialmente nello spazio. Ma dato che la scena è alle sue spalle, la persona seduta non pare accorgersi di questo ospite silenzioso. Non è difficile identificare la statua antica riprodotta in quell’immagine, grazie ad alcune caratteristiche, tra cui il sontuoso gioco del panneggio. Per la postura in movimento si potrebbe pensare a una Nike, a una Atena, a una menade, o una danzatrice: si tratta invece di una delle figlie di Niobe, nella versione ellenistica della Niobide Chiaramonti del II secolo a.C., ora conservata ai Musei Vaticani (sul mito e la rappresentazione di Niobe v. Wiemann 1986) [Fig. 2].

Secondo il mito, si tratta di una delle figlie di Niobe, la seconda, che cerca di sfuggire agli attacchi mortali delle frecce di Apollo e Artemide, insieme ai suoi numerosi fratelli, ma alla fine, con gli altri membri della famiglia, cade vittima dell’inesorabile vendetta degli dei. Sua madre, Niobe, si era resa colpevole di hybris e aveva attratto su di sé la maledizione della sua stirpe, i Tantalidi. Poi, per il dolore, la stessa Niobe si fece pietra, ma, secondo le Metamorfosi di Ovidio, anche quando si trasformò in una roccia avrebbe continuato a versare le lacrime del suo lutto per la perdita dei quattordici figli:

È una roccia ora, pietrificata in cima al monte, ma si scioglie in pianto e le pietre continuano a stillare lacrime [Ibi fixa cacumine montis liquitur, et lacrimas etiam nunc marmora manent, Ovidio, Met. VI, 311-312].

Con tutta probabilità, il fotografo ha scelto con cura l’inquadratura nella stanza e quello speciale sfondo per il suo scatto. La stampa della statua antica sulla parete era un riferimento a uno dei progetti finanziati all’epoca dalla Fondazione; anche per questo, probabilmente, gli era parso che fosse lo scenario adatto per il ritratto di uno storico dell’arte. E comunque, evidentemente, non voleva lasciare il fondale del tutto bianco e spoglio. Così facendo, ha creato un ritratto eloquente nei dettagli, i cui tratti caratteristici sono da un lato il gioco del volto e della mano, dall’altro la connessione tra la sua dottrine di storico dell’arte e l’antico – due soggetti così ricchi di tradizione che ci riconducono fino al Rinascimento.

Der Kopf in der Hand [La testa nella mano] è il titolo di un saggio di Martin Warnke, sul famoso autoritratto a specchio convesso del giovane Parmigianino del 1527 (Warnke 1997). Il modo in cui il pittore, in quel singolare dipinto, distorce la sua mano d’artista, mettendola in scena in primo piano, è insolito, e denuncia una grande coscienza di sé. Nel suo saggio, Warnke lo interpreta come il segno di un’epoca in cui gli artisti cominciano a nobilitare e considerare intellettuale non solo il lavoro delle loro mani, ma anche le loro stesse mani, come strumenti essenziali dell’opera d’arte. La mano come strumento classico della creazione artistica è ora considerata dotata di abilità mentale, di un’intelligenza propria. Da qui la straordinaria cultura sul tema della ‘dotta’ mano che si coltiva in molti autoritratti del Rinascimento. Il lavoro manuale è lavoro intellettuale e viceversa. Questo vale sia per l’artista che per l’intellettuale dotto. Anche qui il gioco di sponda tra le due parti del corpo è essenziale, e la mano è più che uno strumento subordinato che esegue solo comandi: nel migliore dei casi, è un organo di pensiero che favorisce la messa in forma delle idee, così come si presenta nel linguaggio e nella scrittura attraverso gesti e segni.

Una mano “pensante” di questo tipo è anche nel ritratto fotografico in esame (per il termine “mano pensante” v. Bredekamp 2005; v. inoltre Diers 2016, 216 sgg). È una mano quieta, non impegnata a parlare a gesti, o a maneggiare qualcosa; è posata con delicatezza sul tavolo e la superficie lucida la riflette, in pratica raddoppiandola, insieme all’orologio da polso. Mentre la mano destra è nascosta dietro il tavolo, la mano sinistra, che di solito è in secondo piano, fa qui il suo ingresso trionfale. Il valore della sinistra in generale, e di conseguenza anche della mano sinistra, è di solito in subordine rispetto alla destra che è la ‘mano buona’, la ‘mano bella’, la ‘mano dritta’. La storia culturale e linguistica è piena di esempi che demonizzano la mano sinistra come la mano mancina, difettosa, cattiva; in tedesco ‘linken’ significa ingannare qualcuno [da link, sinistra: cfr. un analogo significato negativo nell’italiano, ‘sinistro’]. Lo stesso Parmigianino sembra aggirare la questione mano destra/mano sinistra, provocando e confondendo le relazioni tra le due parti del corpo con la sua immagine speculare. Ma solo molto più tardi, a partire dall’epoca della macchina da scrivere e della tastiera elettronica, entrambe le mani sono comunemente utilizzate come buone per scrivere. Dunque, nella nuova era la mano destra – che in tedesco si direbbe Schreibhand, ovvero ‘la mano per scrivere’ – ha dovuto rinunciare completamente al suo primato. Pertanto, come nel ritratto fotografico di cui stiamo trattando, la mano sinistra può anche rappresentare la mano destra e viceversa. Soprattutto perché la sinistra, come dice il detto popolare tedesco, a correggere e smentire tutti i pregiudizi e le superstizioni, è la ‘mano del cuore’, sta dalla parte del cuore.

Nel nostro caso il soggetto sa bene, lo sa di per sé e lo sa grazie ai suoi numerosi studi, che in un ritratto, effettivamente, si dovrebbero mostrare entrambe le mani in un gioco di interazione eloquente. Ma quale gesto dovrebbe fare per caratterizzare la sua attività? Quale il gesto caratteristico dello storico dell’arte che, come afferma Warnke, “passa di fatto metà della sua vita al buio” (dichiarazione di Warnke, trasmessa da Petra Roettig, Amburgo)? Come si fa lo ‘storico dell’arte’ nel gioco dei mestieri muti? Si fa come si fa di solito, ovvero tenendo tra le mani un libro come attributo iconografico? Si sta seduti a una scrivania? O di fronte a uno scaffale o a un leggio? Qui però i convenzionali attrezzi e oggetti di scena non erano disponibili (v. Diers 2007). Quindi che fare? Semplicemente rimanere se stessi, mettere la mano sul tavolo con sicurezza e buttare sul piatto della bilancia la propria persona.

3 | Enno Kaufhold, ritratto di Martin Warnke, 1990 circa. ©DuMont-Verlag, Köln (da M. Warnke, Nah und fern, Köln 1997, interno della copertina).

4 | Ritratto di Martin Warnke, anni ’60, fotografia privata. ©Diaphanes Verlag, Zürich.

Ritratti precedenti mostrano Martin Warnke nel più comune gesto meditativo e malinconico, oppure in una posa da pensatore. Così, ad esempio è in una fotografia dei primi anni ’90 [Fig. 3].

Risalendo ancora più indietro, un ritratto negli anni ’60 mostra il giovane storico dell’arte che segue il corso dei propri pensieri, senza curarsi affatto dello spettatore: la mano è utilizzata come poggiatesta, lo studente porta un maglione con scollo a V e una camicia a quadri ed è intento a rimuginare su un libro aperto di fronte a lui [Fig. 4].

Considerandola nel contesto delle immagini della generazione del ’68, la foto si presenta come il ritratto di un giovane intellettuale di sinistra. Ma entrambe le formule della postura della mano – sia quella degli anni ’90 che quella degli anni ’60 – altro non sono che citazioni di topoi tradizionali. Al contrario, nel ritratto del 2006 l’intellettuale, ora decisamente più vecchio, si presenta nella combinazione del “bisogno di ritirarsi in se stesso” e, insieme, di un – giusto e necessario – “bisogno di comunicazione” (Warnke 1987, 11).

Secondo Warnke, i dotti già a partire dal XVI secolo hanno imparato a sorridere in modo affabile e accattivante. E, dal punto di vista storico, sono arrivati prima che i preti e soprattutto i politici si intestassero il sorriso affabile e accattivante e iniziassero a sfruttarlo a fini di pubblicità o di propaganda (Warnke 1987, 10; Warnke 1981, 141).

Da notare, poi che nella relazione mimico-gestuale ed espressiva del ritratto di Warnke del 2006, l’elemento che gioca un ruolo importante è, soprattutto, la mano distesa. Si potrebbe parlare di una posizione di quiete, di uno stato zero o iniziale. E forse non è esagerato parlare di una invenzione gestuale di Warnke, perché la proposta di una posa espressiva decisamente stoica, così poco pretenziosa e insieme così esibita, nel contesto del ritratto non si dà; più precisamente, non si registra quasi mai.

Per dirla in altro modo, nel caso della fotografia di Düsseldorf c’è però anche una “allegoria di cornice”, come Warnke chiamava l’elemento erudito inserito nella scenografia dei ritratti della prima età moderna (Warnke 1987, 9). Al soggetto ritratto è stato aggiunto un elemento antico, posto sullo sfondo come immagine nell’immagine, e nel guardarlo non si può evitare di mettere in relazione il personaggio con la statua. Al proposito, si tratta di una pratica molto in uso nella pittura rinascimentale, in quanto le antichità usate come accessori erano chiamate a sottolineare la reputazione e lo status del protagonista come collezionista e homo doctus. E questo particolare apre un’altra strada ermeneutica, per la possibilità dell’identificazione della professione del soggetto ritratto, verso l’ambito della ricerca e della storia dell’arte.

Non risulta che Martin Warnke si sia occupato direttamente e specificamente di arte antica. Tuttavia, c’è un bivio che conduce, e non per una via secondaria, alla storia mitica di Niobe e alla sua rappresentazione artistica. Questo détour si chiama, ovviamente Aby Warburg, sulla cui opera e sulla cui eredità Warnke si è impegnato intensamente nel corso della sua vita. Il motivo di Niobe compare in diversi punti del Mnemosyne Atlas, di cui Warnke ha curato l’edizione insieme a Claudia Brink, si vedano ad esempio la Tavola 5 e la Tavola 76 (Warnke, Brink [2000] 20032, 23 e 127; v. in Engramma Tavola 5 e Tavola 76). La stessa figlia di Niobe della scultura che compare in riproduzione nel ritratto, è presente – in particolare nell’esemplare del gruppo dei Niobidi conservato a Firenze – in riferimento alle parole-chiave di Warburg: “Niobe; Fuga e orrore; Madre assassina; Madre furiosa (donna offesa)”.

Il panneggio fortemente mosso dei Niobidi, e i loro gesti espressivi – bene evidenti nel torso delle statue – si traducono nel concetto che Warburg definisce sul piano storico-culturale come Pathosformel. E il fatto che la loro vita postuma, secondo il Bilderatlas Mnemosyne, conduca fino a Peter van Borcht e a Rembrandt, li fa apparire quasi moderni. Tanto più che la statua a grandezza naturale è stata ritrovata verso la metà del XVI secolo vicino a Villa Adriana su mandato del cardinale Ippolito, il committente di Villa d’Este a Tivoli. La stessa giocatrice di golf, quella Erika Sellschopp di Amburgo che Warburg inserisce in Tavola 77 di Mnemosyne dalla foto di un giornale della fine degli anni ’20, ha in sé ancora qualcosa della torsione dinamica del corpo della Niobide (Warnke, Brink [2000] 20032, 129).

Il ponte tra il primo piano e il fondale della foto-ritratto, quindi, via Warburg, è facile da ricostruire. Per altro, la stessa questione dell’iconografia politica che è centrale nella ricerca di Warnke si manifesta anche in forma mitologica, dato che anche la Niobide fugge da un massacro e dal terrore degli dei.

Il soffio immaginario dell’antico, d’altra parte, non può nuocere alla rappresentazione. Rimane là, ferma a un determinato momento che l’orologio da polso fissa con precisione, inosservata dal soggetto e visibile solo all’occhio del fotografo (e in seguito dello spettatore). Dove corrano i pensieri di Warnke al momento dello scatto non è dato immaginare – sembra, per così dire, tranquillo e sereno. Ma anche se pare vano, pensa alle leggi di una bella figura, più correttamente una bella maniera: e perciò qui nell’immagine è in gioco, in primo piano, soprattutto la mano – bella in modo assoluto.

*Il Seminario Mnemosyne presenta la traduzione italiana del contributo di Michael Diers, Martin Warnke im (Nach/leben-) Bild, Face News, L.I.S.A. Wissenschaftsportal Gerda Henkel Stiftung, 6. Februar 2020, a cui si rimanda per l’edizione originale in tedesco. Ringraziamo l’autore per averci concesso cortesemente di pubblicare il suo saggio.

Bibliografia
  • Bredekamp 2005
    H. Bredekamp, Denkende Hände. Überlegung zur Bildkunst der Naturwissenschaften, in Ausst.-Kat. „Räume der Zeichnung“, Hrsg. von A. Lammert, C. Meister, J.-P. Frühsorge und A. Schalhorn, Akademie der Künste Berlin, Nürnberg 2005, 12-24.
  • Diers 2007
    M. Diers, Der Autor ist im Bilde, in Jahrbuch der Deutschen Schillergesellschaft, Bd. LI, Göttingen 2007, 551-586.
  • Diers 2016
    M. Diers, „Jeder Griff muß sitzen“. Eine Handreichung in Sachen Joseph Beuys, in ders., Vor aller Augen. Studien zu Kunst, Bild und Politik, Paderborn 2016, 211-226.
  • Warnke 1981
    M. Warnke, Goyas Gesten, in W. Hofmann, E. Helman und M. Warnke, Goya – „Alle werden fallen“, Frankfurt/M. 1981, 115-141.
  • Warnke 1987
    M. Warnke, Das Bild des Gelehrten im 17. Jahrhundert, in S. Neumeister und C. Wiedemann (Hrsg.), Res Publica Litteraria. Die Institution der Gelehrsamkeit in der frühen Neuzeit, Wiesbaden 1987, 1-31.
  • Warnke 1997
    M. Warnke, Der Kopf in der Hand, in Nah und fern zum Bilde. Beiträge zu Kunst und Kunsttheorie, hrsg. von M. Diers, Köln 1997, 108-120.
  • Warnke 2006
    M. Warnke, Könige als Künstler, in G. Henkel Stiftung (Hrsg.), 30-jähriges Stiftungsjubiläum und Verleihung des Gerda Henkel Preises 2006, Münster 2007, 43-77.
  • Warnke, Brink [2000] 20032
    M. Warnke unter Mitarbeit von C. Brink (Hrsg.), Aby Warburg: Der Bilderatlas MNEMOSYNE, Berlin [2000] 20032.
  • Wiemann 1986
    E. Wiemann, Der Mythos von Niobe und ihren Kindern. Studien zur Darstellung und Rezeption, Worms 1986.
English abstract

In 2006, the photographer Philipp Hympendahl produced a photographic portrait of Martin Warnke (1937-2019), which was commissioned by Gerda Henkel-Stiftung on the occasion of the Gerda Henkel-Preis, which was established for the first time that same year to celebrate the thirtieth anniversary of the Foundation, and awarded to Warnke. The contribution proposes an iconographic and iconological reading of the portrait, which places the picture in relation to Warnke’s studies, and compares it with other previous, and more conventional, photographic poses. What emerges is the invention of a “stoic” pose previously unknown when compared with the convention of the ‘portrait of the intellectual’, which manages to express at one and the same time the need to withdraw into the self and the appeal for communication with the world, which saves the intellectual from the risk of isolation. The Antique appears behind Warnke in the form of a phantasmatic fragment – a photographic reproduction that works as a painting within the painting – evoking, through the detail of the ventilated dress and the Pathosformel of one of the daughters of Niobe, his relationship with the Warburg’s legacy and with Mnemosyne.

keywords | Martin Warnke; Art Historian; Photographic Portrait; Iconography; Aby Warburg; Gerda Henkel-Stiftung

To cite this article: M. Diers, Martin Warnke (1937-2019). Vita dopo la vita in un ritratto per immagini, “La Rivista di Engramma” n. 171, gennaio-febbraio 2020, pp. 41-51 | PDF of the article 

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2020.171.0023