"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

97 | marzo/aprile 2012

9788898260423

Costruzioni e ricostruzioni dell’identità italiana

Presentazione del numero monografico 6-7 della rivista “Opus Incertum”

Gianluca Belli

English abstract

Il concetto di identità nazionale è una nozione complessa, che coinvolge molteplici momenti della vita civile, sociale, artistica, letteraria, religiosa e linguistica di un paese. Tuttavia, nella costruzione e nell’articolazione di questa idea gioca sempre un ruolo decisivo l’uso strategico del passato, letto come un repertorio di materiali e di forme simbolicamente connotati su cui informare i profili del presente. Non necessariamente il passato si identifica con l’idea di ‘Storia’; anzi, non di rado questa idea è affiancata o sostituita da quella di ‘tradizione’, in un processo che si svolge per visioni stratificate e talvolta discontinue. Su questa ambivalente interpretazione del passato e del patrimono culturale di cui è portatore, ruotano i contributi contenuti nel numero monografico 6-7 della rivista Opus Incertum (Costruzioni e ricostruzioni dell’identità italiana, 2011), tutti incentrati sul tema della costruzione di un quadro identitario nazionale a partire dall’Unità d’Italia, e della sua riformulazione a seguito della seconda guerra mondiale.

Preceduti dall’intervento introduttivo di Amerigo Restucci (Identità italiana. Una costruzione stratificata, pp. 7-9), i testi disegnano una sorta di mappa, svolta per casi esemplari, dei meccanismi di definizione e di trasmissione dell’identità italiana attraverso l’architettura. In questo lento e difficile processo giocano un ruolo determinante innanzi tutto i resti del passato, via via intesi nella loro accezione di frammenti, di rovine, di macerie. Attraverso la manipolazione di frammenti visivi provenienti dalle passate vicende culturali del paese, ad esempio, si concorre a costruire l’identità del giovane stato italiano dopo l’Unificazione, utilizzando come collante i riferimenti alle tecniche artistiche, ai modi figurativi, agli stili dei momenti fondanti della storia nazionale. Più tardi, la valorizzazione di frammenti archeologici emancipati dallo stato di rudere e trattati come materiale simbolico è utile a definire una memoria storica ideologicamente connotata, funzionale a stabilire un ponte tra passato e presente. All’opposto, la rimozione delle macerie prodotte dalle distruzioni belliche e il risarcimento mimetico dei danni, dopo la fine del secondo conflitto mondiale, equivale a un’operazione di ripulitura dalla memoria collettiva di un passato ingombrante, a un atto di rimozione psicologica che mira alla ricostruzione di una identità ferita e compromessa, prima ancora che a quella delle architetture e dei brani di città distrutti.

I contributi all’interno del volume analizzano perciò alcune vicende esemplari che corrispondono ad altrettanti passaggi critici nella definizione dell’immagine dell’Italia unificata tra fine del XIX e la prima metà del XX secolo: l’uso del Medioevo e del Rinascimento come valori fondativi dell’identità della nazione nel periodo a cavallo tra Risorgimento e Unità; la ‘modernizzazione’ di Roma attuata da Mussolini attraverso gli interventi urbani nel centro della città e mediante l’uso strumentale del patrimonio archeologico; la distruzione dei centri antichi durante il secondo conflitto mondiale; la loro ricostruzione nel dopoguerra. In tutti i contributi, il punto di osservazione prescelto ha privilegiato monumenti e architetture in cui l’investimento di auto-rappresentazione culturale e simbolica fosse particolarmente evidente. In questo senso, lo sguardo su ambiti disciplinari quali l’archeologia e il restauro, sia nei loro risvolti teorici che in quelli concreti, ha costituito uno strumento congeniale agli scopi. Gli exempla oggetto dei saggi non sono infatti presi in esame come oggetti di studio unidimensionali o mere emergenze, ma come ‘pietre di memoria’ e nodi di un più ampio tessuto culturale e storico-critico.

Da questo punto di vista si rivela di particolare interesse il recupero di una tradizione decorativa, quella della miniatura “alla medievale”, di cui si traccia un quadro tra la metà dell’Ottocento e il primo Novecento, con particolare riferimento alla situazione bolognese, nel saggio di Daniele Guernelli (Ritagli di memoria. Cuttings, collages e miniatura in Italia tra XIX e XX secolo, pp. 31-41). Lo studio di questa forma di revival figurativo, opportunamente orientato, avviene imboccando una strada critica trascurata, quella relativa alla fortuna storica della miniatura nella penisola, la cui produzione giace ancora per larga parte non censita in collezioni pubbliche e private. Questo percorso riverbera, su un tema di micro-histoire, il tema del recupero del passato medievale, che costituisce notoriamente un passaggio cruciale per la costruzione dell’identità nazionale nel XIX secolo in tutti i campi della vicenda culturale italiana, e a tutte le sue scale.

Bologna, Sant’Antonio da Padova, l’interno

A partire da questa stessa riflessione, Fabrizio Lollini (Con le fondamenta nel Medioevo. Sant’Antonio di Padova a Bologna, pp. 43-51) affronta l’analisi di uno dei più interessanti edifici bolognesi ispirati al revival medievale della fine del XIX secolo: la chiesa di Sant’Antonio da Padova dei Minori Osservanti. In questo caso, le vicende storiche legate alla riammissione delle istituzioni religiose precedentemente soppresse inducono l’esigenza di sottolineare la rinnovata presenza dell’ordine minorita attraverso una nuova visibilità, ancorata a valori figurativi tradizionali. L’indagine sui tempi, i modi e le scelte della costruzione riconduce questo episodio, apparentemente marginale, nell’ambito del dibattito europeo contemporaneo sugli ‘stili-guida’, desunti dai monumenti ritenuti più rappresentativi per la cultura di ogni nazione e spesso indagati grazie all’attività di restauro. Non a caso Carlo Barberi, l’architetto del Sant’Antonio bolognese, è anche il principale restauratore di due grandi monumenti del romanico di area emiliana, l’abbazia di Nonantola e il duomo di Modena, e il formulatore di alcuni interssanti giudizi proprio sul tema del completamento dei manufatti artistici medievali e sulla questione del restauro.

Durante il Ventennio fascista i modelli sui quali improntare il concetto di identità nazionale virano progressivamente verso un altro settore della Storia. Il Medioevo è sostituito, per molteplici ragioni, dal culto della Romanità, e l’affermarsi di questo nuovo riferimento ideologico implica un massiccio investimento culturale, indirizzato soprattutto verso il rilancio del patrimonio archeologico italiano. Il caso dell’Ara Pacis Augustae e dei progetti per la sistemazione architettonica e monumentale di piazza Augusto Imperatore a Roma è paradigmatico. L’attualità del passato si concretizza da un lato nell’anastilosi integrale dell’Ara Pacis, ricostruita a partire da sparsi reperti, dall’altro nella costruzione della ‘teca’ ideata da Vittorio Morpurgo per conservare il monumento, e nei tentativi di restituire e mettere in valore il mausoleo di Augusto.

Ara Pacis, quarta proposta progettuale di Vittorio Morpurgo. Vista prospettica dall’interno del Padiglione a livello archeologico, 1937

Rispetto alla questione dell’anastilosi dell’Ara, Simona Dolari (“Multa renascentur”. Ara Pacis Augustae, le storie del monumento nel XX secolo, pp. 53-73) individua diversi nuclei problematici. Le sue ricerche, in particolare, mettono in discussione le interpretazioni, fino ad oggi date per verificate, relative all’originario assetto dell’ornamentum architettonico di questo momumento, e il grado di autenticità dei rilievi che ne ornano la facies attuale. A partire dagli anni della sua ricomposizione, l’Ara infatti non è stata più oggetto di analisi critiche, e questo ha condotto a una stratificazione di ipotesi ermeneutiche che hanno di fatto impedito una visione oggettiva del monumento. Sino agli anni Trenta, dell’Ara non rimaneva nient’altro che una serie di frammenti, in parte ancora da escavare e in parte divisi in contesti museali diversi. L’anastilosi novecentesca riesce a riunire la maggior parte dei disiecta membra dell’altare, ma l’ipotesi ricostruttiva realizzata, che dura ancora oggi, è il frutto di scelte che in parte volutamente accantonano le questioni aperte da un lungo dibattito sulle modalità di interpretazione e di reintegrazione dei resti. La scadenza del Bimillenario Augusteo, nel 1938, impone di ricostruire rapidamente il monumento in una forma quanto più possibile integrale. Per questo si decide di mantenere tutte le aggiunte settecentesche dei rilievi – volti, mani, gambe e piedi in sostituzione di quelli perduti, rimodellati secondo il gusto neoclassico – e di completare larghe zone mancanti con ricostruzioni analogiche. Soluzioni che trasformano l’Ara Pacis in un palinsesto di interventi scultorei, conferendogli tuttavia un aspetto molto più eloquente e funzionale alle politiche fasciste di quanto avrebbero fatto rilievi mutili ed estese lacune. Con la ricomposizione del monumento si reinventa un frammento del passato allo scopo di ridefinire l’identità del presente: l’altare rappresenta il suggello al “ritorno dell’Impero sui colli fatali di Roma”.

Roma, Piazza Augusto Imperatore, la ’teca’ dell’Ara Pacis appena terminata, settembre 1938

Contestualmente al lavoro archeologico sull’Ara, se ne progetta la sistemazione nella nuova piazza Augusto Imperatore, accanto al mausoleo di Augusto. Giacomo Calandra di Roccolino (L’invenzione di un monumento. I progetti di Vittorio Ballio Morpurgo per l’Ara Pacis Augustae, pp. 75-85) chiarisce le dinamiche che conducono alla ‘liberazione’ del mausoleo e alla formazione della piazza, prescelta per ospitare l’altare della Pace in vista delle celebrazioni augustee. Grazie a una serrata analisi dei progetti riguardanti sia la piazza che il museo dell’Ara, Calandra di Roccolino ricostruisce le vicende che conducono alla sistemazione del monumento all’interno del contenitore disegnato da Morpurgo. Analogamente all’altare romano, anche l’edificio che lo contiene è investito di un compito propagandistico: innalzata su un podio e resa trasparente grazie alle ampie superfici vetrate, la teca rende l’Ara ostensibile permettendo di porla a confronto visivo con il mausoleo, con le vicine chiese rinascimentali e con l’architettura in stile Littorio della nuova piazza, a rimarcare la stratificata densità della storia di Roma; inoltre, il compito pacificatore dell’impero – sia di quello romano che di quello fascista, identificati in un corto circuito di messaggi – è affermato tramite la rubricazione, sul basamento, delle Res gestae augustee.

La seconda guerra mondiale è un drammatico banco di prova del valore storico dei monumenti italiani. Le distruzioni provocate dai bombardamenti innescano il dibattito sulle possibili opzioni in materia di ricostruzione e di riconoscibilità delle integrazioni. Monica Centanni (Italia anno zero: lacerazioni e plastificazioni della memoria, pp. 19-29) introduce questo complesso tema, sottolineando lo stato nonostante tutto ancora aurorale degli studi in proposito. I bombardamenti sulle città, effettuati già nel conflitto del 1914-18 – è utile ricordare che il primo atto bellico dell’Austria contro l’Italia, il giorno stesso dell’entrata in guerra del nostro paese, fu il cannoneggiamento di Venezia e di Ancona da parte di unità della flotta austroungarica – spesso non hanno uno scopo strategico, ma piuttosto quello di fiaccare il morale della popolazione nemica, a volte colpendo deliberatamente il tessuto antico delle città più importanti e i loro monumenti. La perdita o il danneggiamento di questi testimoni del passato provoca uno sconcerto psicologico che i belligeranti sanno valutare e sfruttare assai bene. Su questo senso di disagio fa leva la Repubblica Sociale Italiana attraverso un’intensa azione propagandistica, tesa a presentare gli Alleati come i nuovi barbari, distruttori dei simboli della civiltà mediterranea. La chiesa degli Eremitani a Padova, gravemente danneggiata durante il bombardamento sulla città del marzo 1944, risulta a questo proposito un caso emblematico. Attraverso lo studio delle fonti e delle testimonianze coeve, Giulia Bordignon (“Le pietre parleranno”. Distruzione e ricostruzione postbellica della chiesa degli Eremitani a Padova tra storia e propaganda, pp. 157-175) ricostruisce il clima propagandistico dell’ultimo biennio di guerra, e dimostra come la distruzione della chiesa patavina affrescata da Mantegna venga usata dal regime fascista per trasformare il conflitto in uno scontro di civiltà, dove la brutalità materialistica della cultura anglosassone è presentata contrapposta al patrimonio di monumenti architettonici, artistici e storici della nazione, nucleo spirituale della civiltà dell’Occidente. Il messaggio lanciato dal regime contro la “barbarie nemica” è affidato a manifesti, a immagini corredate da icastiche didascalie sulle prime pagine dei quotidiani, a filmati dell’Istituto LUCE, ad apposite pubblicazioni, persino a francobolli. Alessandra Pedersoli (Hostium Rabies Diruit. La serie di francobolii “Monumenti distrutti” (1944-1945), pp. 177-183) presenta appunto la serie di bolli postali della RSI contrassegnata dal motto “Hostium Rabies Diruit”, che recuperando una raffinata tradizione letteraria, sfrutta le immagini di monumenti bombardati per ribaltare l’effetto psicologico delle distruzioni.

Dopo la fine della guerra, il diffuso sentimento di perdita e di disorientamento che ha invaso la popolazione italiana impone soluzioni ricostruttive rapide e che consentano una cicatrizzazione delle ferite senza segni. Al contrario di quanto avviene in Germania, dove gli effetti delle distruzioni rimangono spesso tangibili, in qualche caso in funzione esplicitamente ammonitrice ed espiatoria – basti pensare al rudere della Kaiser-Wilhelm-Gedächtniskirche di Berlino – in Italia una situazione civile e politica diversa, nella quale gioca un ruolo determinante l’epopea resistenziale, fa sì che si cerchi di cancellare perfino la memoria delle distruzioni così come si vogliono obliterare i segni del passato regime, quasi nel tentativo di far girare a ritroso le lancette della Storia. I principali custodi dell’identità nazionale, ossia i monumenti artistici, storici e architettonici, vengono risarciti in alcuni casi “come erano e dove erano”, in molti altri sfruttando le distruzioni per apportare ‘miglioramenti’, correzioni, rimozioni o addirittura per procedere a ricostruzioni complete, ma quasi sempre senza conservare la memoria del trauma bellico, dell’evento distruttivo che ha troncato il filo vitale dell’opera.

La drammatica situazione dell’Italia postbellica, unita alla ferma volontà di cancellare i risultati di una guerra sentita come il prodotto più aberrante del Ventennio fascista, causa la deroga di quei principi del restauro che si erano andati affermando nella cultura italiana fin dalla seconda metà dell’Ottocento. Le teorie e i metodi della conservazione messi a punto dai padri italiani della disciplina – Boito, Beltrami, D’Andrade, Giovannoni – vengono accantonati per rispondere con strumenti eccezionali a una situazione eccezionale. Paradossalmente, tuttavia, le procedure impiegate per il restauro degli edifici monumentali danneggiati non seguono itineres speciali, ma sono assoggettate all’ordinaria spartizione di responsabilità tra i ministeri della Pubblica Istruzione e dei Lavori Pubblici. Una spartizione di responsabilità e di competenze non paritaria, ma che vede prevalere in maniera netta il ruolo degli uffici periferici del secondo dicastero, vale a dire gli uffici del Genio Civile. Cristiano Tessari (Per una storia della ricostruzione dei beni architettonici: il conflitto tra tecnici e le istituzioni, pp. 11-17) ricostruisce il percorso che, nel contesto dell’azione legislativa svolta in ambiti diversi – l’unificazione degli uffici tecnici degli stati preunitari dopo la proclamazione del Regno d’Italia; le iniziative a carattere architettonico e urbanistico per Roma capitale; la definizione delle competenze in materia di tutela del patrimonio artistico; le disposizioni sulla difesa preventiva del patrimonio artistico alla vigilia del secondo conflitto mondiale – vede progressivamente emergere il Genio Civile come protagonista non solo delle nuove costruzioni pubbliche dello stato unitario, ma anche dei risarcimenti al patrimonio storico-architettonico danneggiato dalla seconda guerra mondiale. La dialettica che intercorre in questi interventi tra gli uffici del Genio Civile e quelli delle Soprintendenze ai Monumenti sfocia molto spesso in un conflitto tra mentalità diverse: da un lato quella politico-amministrativa, abituata a considerare l’ambito delle proprie competenze come il territorio della mera efficacia operativa; dall’altro la mentalità prodotta dalla riflessione sul restauro, inteso come campo nel quale la prassi è costantemente e criticamente sottoposta a una verifica dottrinale. Di questo conflitto sono testimonianza, tra i tanti, tre episodi studiati da Federica Pascolutti e Tiziana Armillotta: la ricostruzione del palazzo San Giorgio a Genova (Il palazzo conteso. Il Consorzio Autonomo del Porto, la Soprintendenza e la ricostruzione di palazzo San Giorgio a Genova, pp. 121-129), quella del ponte coperto sul Ticino a Pavia (Distruzione e ricostruzione del ponte Coperto sul Ticino a Pavia, pp. 131-137) e il restauro del tempio Malatestiano a Rimini (Gli attori della ricostruzione del tempio Malatestiano di Rimini, pp. 139-145).

Ma anche dove lo scontro istituzionale non rappresenta il nucleo del problema, la ricostruzione appare procedere in modo difficoltoso a causa dei nodi concettuali che non si riesce a sciogliere, e talvolta neanche ad affrontare. La questione dell’identità culturale torna ancora una volta dominante, in un momento in cui si tratta di ricostruire dalle fondamenta l’edificio della nazione. La ricostituzione dell’immagine dei brani di città distrutti, il risarcimento dei danni alle architetture colpite, la perdita di una serie di monumenti, costituiscono altrettanti dilemmi per i quali si dibatte se sia più opportuno ricostituire l’identità perduta – via via in termini urbani, figurativi, civili, spirituali – o ricercarne, faticosamente, una nuova. Le soluzioni, spesso, sono comunque insoddisfacenti, basandosi su presupposti manchevoli. A Firenze, la ricostruzione delle zone presso le testate di ponte Vecchio, pur accompagnata da un dibattito con riflessi internazionali, avviene senza approfondire la conoscenza dei settori urbani demoliti dalle esplosioni (Gianluca Belli, Il dibattito sulla ricostruzione della Firenze demolita dalla guerra, 1944-1947, pp. 87-99). Assieme alla consistenza fisica del tessuto medievale, sembra perduta anche la sua memoria. Sul ponte a Santa Trinita viene quasi interamente condensato il bisogno di restituire l’antica identità formale alla zona distrutta, mentre il ristabilimento di quella spirituale e civica è affidato alla capacità interpretativa dei progettisti che elaborano proposte. Michelucci, ad esempio, pone l’accento sulla necessità di rinnovare l’ambiente urbano ricostituendo il rapporto vitale tra architettura e società. Nella ricostruzione, tuttavia, la questione dell’identità si riduce per lo più a un problema di linguaggio, o addirittura di stile. Tra i progetti presentati al concorso di ricostruzione del 1946, diversi utilizzano suggestioni storicistiche più o meno esplicite; in tutti gli altri casi ci si affida alla presenza di elementi e caratteri ritenuti tipici dell’architettura toscana. Progettisti di secondo piano, spesso estranei alla cultura fiorentina, disegnano architetture in ambienti cruciali per l’immagine della città, e quasi sempre si dimostrano inadeguati a un compito così delicato.

Firenze, il ponte a Santa Trinita distrutto dalle mine tedesche

Nella ricostruzione del palazzo Acciaioli sull’omonimo lungarno, caso esemplare analizzato da Amedeo Belluzzi (Palazzo Acciaioli a Firenze dalle origini alla ricostruzione, pp. 101-119), l’alternanza di composizioni moderniste e di esplicite citazioni dell’edificio distrutto trasmette una sensazione di smarrimento o di indifferenza. Nei tempi lunghi della ricostruzione (1952-1968) si sussegono infatti numerose versioni del progetto, proposte via via da architetti diversi, nelle quali le reminiscenze storiche presenti nei primi disegni lasciano gradualmente il posto a soluzioni meno ambientate, fino alla scomparsa di ogni allusione alle preesistenze. Il risultato è un edificio anonimo, che sfrutta al massimo i volumi consentiti dal piano di ricostruzione, senza riuscire, esattamente come la restante parte degli edifici ricostruiti, né a restituire l’identità perduta, né a proporne una nuova.

Vicende analoghe si verificano in molte altre città italiane, sia alla scala urbana che a quella architettonica. Roberto Torcoletti (“Memorie di pietra”. La ricostruzione di San Ciriaco di Ancona e del palazzo della Ragione di Fano, pp. 147-155), ad esempio, illustra il caso del palazzo della Ragione di Fano, di cui i Tedeschi in ritirata distruggono la torre settecentesca. Il dibattito sulla sua ricostruzione oppone, classicamente, i fautori della ricostruzione à l’identique ai ‘novatori’, dopo che il campo era stato sgombrato dall’ipotesi di restituire al palazzo la facies medievale, priva della torre. Il monumento verrà alla fine ristabilito costruendo una nuova torre dalle forme ambiguamente semplificate, che appare più in sintonia con l’architettura delle città di fondazione fascista che con il contesto di Fano. Ad Ancona, il restauro della semidistrutta cattedrale di San Ciriaco avviene invece secondo una filosofia di segno del tutto opposto; mutilazioni e ferite inferte dalle bombe vengono cancellate da una ricostruzione integrale della situazione precedente. La scelta è dettata da ragioni che in parte hanno a che fare con una scala di valori all’epoca ancora molto radicata; il messaggio identitario trasmesso dal duomo di Ancona e dalla sua consolidata immagine romanica è ritenuto assai più pregnante di quello della torre tardobarocca di Fano.

L’obiettivo generale del volume, dunque, non consiste solo nell’aggiungere apporti specifici agli studi storiografici, ma anche e soprattutto nel tentativo di scrivere, a più mani e incrociando strumentazioni diverse, un capitolo della storia culturale del nostro paese: quello nel quale si cerca di definire l’identità della nazione attraverso la costruzione, la reinvenzione, il risarcimento o la ricostruzione di alcuni monumenti dell’arte e dell’architettura. Un processo di definizione che, a centocinquanta anni dall’unità d’Italia, può dirsi ancora in corso.

English abstract

The concept of national identity is a complex notion, involving multiple moments of the cultural life of a country. However, in the articulation of this ides the strategic use of the past, seen as a repertoire of materials and forms with symbolic connotations, plays a decisive role. The special issue 6-7 of the journal “Opus Incertum” (Costruzioni e ricostruzioni dell’identità italiana, 2011), deals with this subject from the unification of Italy to World War II. The contributions within the volume analyse some exemplary events defining the image of unified Italy in the late nineteenth and early twentieth century. The case studies concern the use of the Middle Ages and Renaissance values in the period between the Risorgimento and the Unification of Italy; the ‘modernization’ of Rome by Mussolini through interventions in the center of the city and the instrumental use of archaeological heritage; the destruction of monuments during the Second World War; their reconstruction after the war. In all contributions, the point of view favours monuments and architectures where the investment of cultural and symbolic self-representation is particularly evident. Therefore, contributions look towards disciplines such as archeology and restoration;  the exempla are considered not as one-dimensional emergencies, but as knots of a larger cultural fabric.

keywords | National identity; Risorgimento; Second World War; Self-representation.

Per citare questo articolo / To cite this article: G. Belli, Costruzioni e ricostruzioni dell’identità italiana. Presentazione del numero monografico 6-7 della rivista “Opus Incertum”; “La Rivista di Engramma” n. 97, marzo/aprile 2012, pp. 5-15. | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2012.97.0007