"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

92 | agosto 2011

9788898260379

Fortuna nel Rinascimento

Una lettura di Tavola 48 del Bilderatlas Mnemosyne

a cura del Seminario Mnemosyne, coordinato da Giulia Bordignon, Monica Centanni, Silvia Urbini con Alice Barale, Antonella Sbrilli, Laura Squillaro

English abstractEnglish full version

In una lettera indirizzata nel 1927 a Edwin Seligman, professore di economia politica alla Columbia University, Aby Warburg scrive:

Credo che dopo trentadue anni che sono trascorsi dal mio primo viaggio in America, la storia dell’arte si sia sviluppata a tal punto che vale la pena per entrambe le sponde di far conoscere in America il nuovo indirizzo della scienza della cultura […]. In questo senso cerchiamo di interpretare ad esempio, alla luce di una nuova “estetica energetica”, la creazione della figura della Fortuna, come appare in primo luogo nella Fortuna con Ruota, in secondo luogo nella Fortuna con ciuffo, e in terzo luogo nella Fortuna con timone e vela: in queste tre figure si rispecchiano tre tipiche fasi dell’uomo in lotta per la propria esistenza. [vedi il testo integrale della lettera pubblicato in questo numero di Engramma]

Queste considerazioni, che datano a un periodo in cui le suggestioni e le ricerche attorno a Mnemosyne si stanno intensificando e stanno assumendo contorni sempre più precisi, precipitano e si condensano infine, all’interno dell’Atlante, in Tavola 48. Nel pannello vengono infatti analizzati i tre tipi di personificazione della Fortuna, come “simbolo contrastante dell’uomo che libera se stesso (il mercante)” giusta gli appunti warburghiani per l’Atlante [“Fortuna. Auseinandersetzungssymbol des sich befreienden Menschen (Kaufmann)”].

Già dal 1907, nel saggio sul mercante fiorentino Francesco Sassetti, Warburg aveva cercato di configurare un “tentativo, certo problematico, di una sinossi di senso della vita e di stile artistico” (Warburg [1907] 1966, p. 246). La figura del mercante si proponeva come exemplum per eccellenza per la prefigurazione di un nuovo metodo di studio – quello della Kulturwissenschaft – di contro a una valutazione tutta estetizzante e ‘monolitica’ del Rinascimento: “dalla inesauribile ricchezza dell’archivio fiorentino delle cose umane lo sfondo dell’epoca è ricostruibile abbastanza chiaramente perché si possa correggere storicamente una considerazione unilateralmente estetica” (Warburg [1907] 1966, p. 246). Nella struttura dell’Atlante, Tavola 48 si pone come un explicit del ragionamento warburghiano sulla Firenze medicea e sull’arte del Ghirlandaio, che si svolge nei pannelli precedenti (a partire da Tavola 37, e in modo più serrato da Tavola 43), in cui Firenze si presenta come lo speciale milieu storico e culturale di un’epoca di transizione, oltre che come ‘luogo’ di irruzione delle forme e del temperamento antico: una conclusione, quella di Tavola 48, che nelle intenzioni di Warburg (intenzioni chiare fin dallo studio del 1907) doveva dimostrarsi capace di superare “quella concezione dell’esteticismo moderno [che] desidera godere nella civiltà del Rinascimento o un’ingenuità primitiva o il gesto eroico della rivoluzione compiuta” (Warburg [1907] 1966, p. 246).

La personificazione di Fortuna, considerata nei suoi vari aspetti tra XV e XVI secolo, rappresenta per Warburg la “formulazione figurativa del compromesso fra la ‘medievale’ fiducia in Dio e la fiducia in se stesso dell’uomo rinascimentale” (Warburg [1907] 1966, p. 238); questo felice “compromesso” è rappresentato, come mostra Tavola 48, dall’iconografia di ‘Fortuna con vela’, che il tipo antropologico del mercante di età umanistica, secondo Warburg, fa propria. Ma accanto a questa figura, ai poli opposti, stanno la ‘Fortuna con ruota’ e la ‘Fortuna con ciuffo’: tre rappresentazioni che corrispondono ad altrettante posture esistenziali, non univocamente collegate a diversi periodi storici, quanto piuttosto a precisi habitus mentali che l’uomo può assumere rispetto al destino e all’incidenza della sorte nella sua vita. Tutte le immagini presenti in Tavola 48, tranne poche e ben motivate eccezioni, sono databili infatti al XV e XVI secolo. Scrive ancora Warburg a Seligman:

Nella Fortuna con Ruota l’uomo è un oggetto passivo, collocato sulla ruota come un tempo veniva legato l’assassino; in un ribaltamento per lui incomprensibile e imprevedibile, raggiunge dal basso il sommo, per poi ricadere giù in fondo. Nella Fortuna con ciuffo – che ha trovato nell’Occasio del Rinascimento (vedi Machiavelli) [v. i poemetti dedicati da Machiavelli a Occasione e Fortuna ne I Capitoli] la sua coniazione, derivante da una rappresentazione antica , è al contrario l’uomo che cerca di afferrare il destino per il ciuffo e di appropriarsi saldamente della sua testa come preda, come fa il boia con la testa della vittima. Tra le due risalta la Fortuna con vela. Anche questa deriva da un’antica rappresentazione, poiché anche presso i Romani la dea della Fortuna è al timone, e come ‘Isis euploia’, con la vela spiegata, è la dea della buona navigazione. Ma il primo Rinascimento ha trasformato, in modo tutto suo proprio, la dea con la vela nel simbolo di un uomo che ingaggia una lotta attivo-passiva con il proprio destino. Fortuna sta al centro della nave, come l’albero a cui è fissata la vela spiegata, ed è padrona della nave ma non completamente, perché al timone siede l’uomo e, nel parallelogramma delle forze, quanto meno concorre a determinare la diagonale [vedi il testo originale della lettera pubblicato in questo numero di Engramma]

Così, se l’attributo della ruota indica la dea secondo una concezione che trova diffusione in età medievale, non si deve scordare che la ruota accompagnava Fortuna già in epoca romana, e che persiste come attributo che caratterizza Fortuna fino all’età della Rinascita e oltre. Parimenti, ‘Fortuna con ciuffo’ altro non è che una nuova figura di Occasio, personificazione antica dell’occasione propizia e sfuggente, che, con sembianze maschili, nasce già in ambito greco (Kairòs). Infine, ‘Fortuna con vela’ – che, come Warburg specifica anche nel saggio su Sassetti, già compariva nell’iconografia romana (Warburg [1907] 1966, p. 236, n. 1) – si impone accanto alle altre due figure quando la vela non vale più solo quale simbolo astratto e allegorico, ma richiama un ben preciso oggetto – la vela della nave – di cui si serve quotidianamente il mercante rinascimentale nella sua attività commerciale (Squillaro 2002; in generale sull'iconografia di Fortuna tra antico e moderno v. Rossi, Rossoni, Urbini 2010; in particolare per le epifanie di Fortuna nel contemporaneo cfr. Gordon 2010, e dello stesso autore v. il contributo Modern Luck and the Survivor in questo numero di Engramma).

Le tre figure che Warburg individua comprendono quasi tutte le illustrazioni presenti nel pannello, e descrivono tre differenti percorsi ermeneutici del discorso che si sviluppa nel pannello. Le immagini di ‘Fortuna con ruota’ e ‘Fortuna con ciuffo’ occupano rispettivamente il lato sinistro e quello destro della tavola, mentre il tipo ‘Fortuna con vela’ occupa la posizione centrale del pannello.

La tavola si apre con tre immagini incipitarie collocate orizzontalmente, in alto a sinistra.

1. Ruota della Fortuna, miniatura da L'Epistre d'Othéa di Christine de Pizan, 1405-1410, Ms. Harley 4431, fol. 129r (London, The British Library)

La prima immagine (1; la numerazione delle immagini qui proposta segue quella dell'edizione 2002 del Bilderatlas) è tratta da una pagina di manoscritto dell’Epistre d’Othea di Christine de Pizan, databile tra il 1405 e il 1410, e rappresenta il primo tipo, la ‘Fortuna con ruota’: Fortuna, personificata in vesti di dama cortese, ha l’attributo della ruota sulla cui circonferenza sono collocati sei personaggi, ciascuno in rappresentanza di un gradino della piramide sociale, dal sovrano, al sommo della ruota, al miserabile, nella posizione più bassa. L’inserimento in tavola di questa immagine si può forse collegare anche al dato – molto probabilmente noto a Warburg – che Christine de Pizan, figlia dell’astrologo di corte di Carlo V, è autrice di un’opera filosofico-allegorica dal titolo Livre de la Mutacion de Fortune, in cui la stessa Christine compie un viaggio in nave, diretta al regno di Fortuna (v. Griffin 2009, Transforming Fortune).

2. Hans Holbein il Giovane, "Stultis fortuna favet", disegno a penna, primo terzo del sec. XVI, da Erasmi Roterodami Encomium moriae, Basilea 1515 (Basel, Kunstmuseum, Kupferstichkabinett)

La seconda immagine che compare in testa alla tavola (2) ci fa compiere un balzo cronologico in avanti: si passa agli inizi del XVI secolo, e a un’edizione dell’Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam, comparsa a Basilea nel 1515, illustrata a margine per mano di Hans Holbein il Giovane. Qui Fortuna è intenta a gettare in grembo a uno stolto alcune monete d’oro, e viene rappresentata nuda, su di una sfera galleggiante sull’acqua e con la chioma portata in avanti, a mo’ di ciuffo, dal vento che increspa la superficie marina. Si tratta di una immagine che ben si adatta a chi – meritevole o meno – è capace di acciuffare e padroneggiare il momento propizio: una virtù che non necessariamente si coniuga con la sapienza o con la moralità. Scrive infatti Erasmo:

Ama la Fortuna gli imprudenti, ama i più audaci e quelli a cui piace il motto ‘il dado è tratto’. Invece la saggezza, rende un po’ timidi e rinunciatari; li potete ben vedere questi sapienti ovunque impegnati a combattere con la povertà, con la fame, con il fumo; eccoli vivere dimenticati, senza gloria, invisi a tutti; e vedete invece gli stolti che continuano a riempirsi di denaro, che raggiungono le alte cariche dello stato e insomma, in breve, prosperare in tutti i sensi”. [Amat Fortuna parum cordatos, amat audaciores, et quibus illud placet pas erriphthô kubos. At Sapientia timidulos reddit, ideoque vulgo videtis sapientibus istis cum paupertate, cum fame, cum fumo rem esse, neglectos, inglorios, invisos vivere: Stultos affluere nummis, admoveri reipublicæ gubernaculis, breviter, florere modis omnibus.] Erasmo da Rotterdam, Moriae Encomium, LXI

9. Bernardo Rossellino (su progetto di Leon Battista Alberti), Facciata del Palazzo Rucellai, 1446-1451 (Firenze)

La terza immagine incipitaria conduce infine nel cuore di Tavola 48: si tratta della facciata di Palazzo Rucellai, ideato da Leon Battista Alberti e realizzato da Bernardo Rossellino alla metà del XV secolo, per la facoltosa famiglia di mercanti fiorentini sostenitori dei Medici (9). La riproduzione fotografica – come spesso accade nei procedimenti dimostrativi che Warburg adotta nei suoi teoremi – non riporta alcuna immagine che si colleghi immediatamente all’iconografia di Fortuna: il prospetto di Palazzo Rucellai ci introduce – con una momentanea sospensione del ragionamento sul tema principale della tavola – soltanto all’ambiente in cui sorge il “simbolo dell’uomo che libera se stesso”, e nel primo marcapiano dell’edificio, visibile nella fotografia, si riconosce l’impresa dei Medici mutuata dai Rucellai per consorteria e per parentela: l’anello con tre penne, corpo dell’impresa medicea ‘Semper - Diamante in Penis’. La presenza dell’emblema mediceo è tuttavia un segnale importante che introduce a uno dei temi che lega numerose figure presenti nel montaggio: il tema dell’impresa rinascimentale – immagine con motto, “corpo e anima”, che come diranno i trattatisti cinquecenteschi, è figura di un progetto esistenziale o professionale.

I. Fortuna con ruota

3. Ruota della Fortuna, miniatura dal Liber de consolatione philosophiae di Boezio, sec. XIII, cod. 2642, fol. 11r (Wien, Österreichische Nationalbibliothek)

Nella tavola, nelle prime due file di immagini dall’alto, è occupato da varie raffigurazioni della ‘Fortuna con ruota’. Sotto all’immagine incipitaria tratta dal testo di Christine de Pizan, troviamo l’illustrazione per una versione volgarizzata del Liber de Consolatione Philosophiae di Boezio, ascrivibile al XIII secolo (3). Così si legge in un passaggio del testo di Boezio:

Tu ti sei affidato al governo di Fortuna: occorre che tu obbedisca alla natura della tua padrona. Tu invece tenti di trattenere l’impeto della ruota che gira? Sei il più stolto tra tutti i mortali! Perché se comincia a star ferma, cessa di essere Fortuna. [Fortunae te regendum dedisti; dominae moribus oportet obtemperes. Tu vero volventis rotae impetum retinere conaris? At, omnium mortalium stolidissime, si manere incipit, fors esse desistit] Boet., De cons. ph., II, I, 12-15

Warburg riconosce dunque nel testo di Boezio, che dalla tarda antichità e per tutta l’età di mezzo ebbe una grande circolazione, la principale fonte della diffusione della tipologia iconografica della Fortuna accompagnata dall’attributo della ruota in età medievale “se per Medioevo s’intende un tradizionalismo antiquato opposto alla superumanità egocentrica, togata all’antica, del Rinascimento” (Warburg [1907] 1966, p. 230). Fortuna con ruota è perciò una figura ‘medievale’ laddove però il Medioevo, ribadisce anche in questo caso Warburg, non è un’era confinata nei termini storiografici convenzionali, ma indica piuttosto una postura antropologica e intellettuale che si contrappone all’antropocentrismo (da Warburg qui definito perentoriamente ‘egocentrismo’) dell’uomo rinascimentale. Nella composizione warburghiana l’evocazione della fonte antica ha la funzione di siglare un atteggiamento di soggezione passiva dell’uomo rispetto alla sorte e alle potenze oltremondane (tema già sinteticamente anticipato da Warburg in Tavola B; cfr. anche Tavola 22le tavole ‘planetarie’ seguenti). Nel testo di Boezio, così parla infatti la Fortuna personificata:

Questa è la nostra forza, è questo il gioco che continuamente giochiamo: giriamo la ruota rivoltandone l’orbita e godiamo di cambiar posto a ciò che sta più in basso con ciò che sta più in alto, e viceversa. Sali pure, se ti piace, ma a condizione che non abbia in alcun caso a considerare come ingiustizia il tuo discendere, ogniqualvolta non lo richiederà il senso del mio gioco [Haec nostra vis est, hunc continuum ludus ludimus; rotam volubili orbe versamus, infima summis, summa infimis mutare gaudemus. Ascende si placet, sed ea lege ne utique cum ludicri mei ratio poscet, descendere iniuriam putes.] Boet., De cons. ph., II, II, 7-11

Nell’illustrazione, la ruota stessa include la personificazione di Fortuna bendata con i lembi della propria veste e seduta sul trono a governare le sorti dei personaggi posti in bilico sulla circonferenza.

4. Ruota della Fortuna, miniatura da Imagines secundum diverses doctores, 1424, Cod. Palat. 1066, fol. 239v (Roma, Biblioteca Vaticana)

L’immagine successiva (4) rappresenta un’altra variante, risalente già al XV secolo, del tipo ‘Fortuna con ruota’: si tratta di un foglio delle Imagines secundum diversos doctores conservato presso la Biblioteca Vaticana a Roma, databile al 1424. Qui Fortuna è rappresentata con un vultus duplex, sia benigno sia malevolo, nell’atto di imprimere il moto alla ruota a cui sono legati, impotenti, diversi personaggi (Squillaro 2002). Il testo a cui si accompagna l'immagine – un commentario inglese del XIV sec. a Boezio – ben sottolinea l'irrazionale mutevolezza della sorte:

Da notare che Boezio chiama la fortuna tenebrosa, cioè oscura e cieca: infatti anticamente la fortuna era raffigurata cieca, perché imprevedibilmente si avvicina e si allontana. Oppure perché rende l'uomo cieco, innalzandolo nella prosperità, e poi abbattendolo nelle avversità. Da notare che Boezio dice che la fortuna un giorno gli aveva voltato l'ingannevole faccia, nel senso che la fortuna una volta era raffigurata con un doppio aspetto: davanti bianca, dietro nera. Con il bianco si raffigurava la prosperità, con il nero l'avversità. La Fortuna dunque aveva mutato per Boezio la faccia ingannevole della prosperità, mostrandogli infine il volto dell'avversità. [Notandum quod Boethius appellat fortunam nubilam, idest obscuram sive caecam: depingebatur enim antiquitus fortuna caeca, quia ex improuiso accedit et recedit. Vel quia caecum reddit hominem, extollendo eum in prosperis et reprimendo in aduersis. Notandum quod Boethius dicit fortunam olim circa se mutasse fallacem vultum, quia fortuna olim depingebatur duplici facie: anteriori alba, posteriori autem parte nigra. Per albam designabatur prosperitas, per nigram adversitas. Mutavit ergo fortuna circa Boethium fallacem vultum prosperitatis; postea ostendit ei vultum aduersitatis.] William of Wetheley, Expositio in Boetii De consolatione philosophiae, I, 1.

Le quattro immagini seguenti (5, 6, 7, 8) sono tutte illustrazioni di testi che riprendono il tema di una ‘visione allegorica’ di Fortuna personificata, visione già evocata nel testo di Boezio. Due illustrazioni raffigurano propriamente la Fortuna con ruota, e possono essere esaminate congiuntamente in quanto riproducono, entrambe, la visione di Fortuna nel De casibus illustrium virorum et mulierum di Boccaccio, opera che per altro tratta proprio delle fortune e delle sfortune (casus) di personaggi illustri dell’antichità. 

5. Ruota della Fortuna, miniatura da Des Cas des nobles hommes et femmes di Boccaccio (Libro VI), manoscritto francese, 1450 ca., ms. 35321, fol. 170r (London, The British Library)
8. Ruota della Fortuna, xilografia da De casibus virorum illustrium di Boccaccio, Bruges 1483

La prima immagine (5) è tratta da un manoscritto che contiene una volgarizzazione francese dell’opera (Cas des nobles hommes et femmes), databile al 1450 e conservato a Londra. La seconda (8) è una xilografia tratta da un’edizione latina stampata a Bruges nel 1483. Nella miniatura una dama in abiti cortesi – la Fortuna munita di ruota: oggetto dal quale però, rispetto alle immagini precedenti, il personaggio mantiene una certa distanza – è a colloquio con lo stesso Boccaccio, e così rimprovera il poeta che non tiene nella debita considerazione la sua azione:

Sono all’opera e perciò sono sempre inquieta, ora a portare ciò che sta in basso a livello di ciò che sta in alto, ora ciò che sta in alto al livello di ciò che sta in basso, e arrivo sempre dappertutto, ora clemente ora minacciosa; e perciò non entro soltanto nelle residenze regali o nei sacri palazzi dei sovrani, di cui tu tanto scrivi, ma visito le baracche dei servi e dei poveri, i tuguri dei pastori e le capanne dei pescatori [… ad opus, circa quod inquieta semper, et nunc sublimia imis et nunc ima sublimibus equando, ubique nunc blanda nunc minax, venio; et inde, non tantum regias edes aut sacra imperatorum palatia, que tu rimaris plurimum, ineo, sed et pauperum gurgustiola, pastorum tuguria et piscatorum mappalia perscrutor.] Boccaccio, De casibus, VI, 1

Nella xilografia il poeta è presentato con la mano al volto, nella posa malinconico-meditativa (si vedano in Engramma la Tavola tematica sulle figure della malinconia e la Tavola ex-novo sulla Pathosformel del dolore e della meditazione), mentre l’immagine di Fortuna corrisponde più puntualmente alla descrizione del testo, in cui la dea appare connotata ancora come un monstrum allegorico medievale; così infatti la descrive Boccaccio:

O buon Dio, che grande statura, che fattezze stupefacenti! Non lo immaginavo ed ebbi paura a guardarla: i suoi occhi erano ardenti e minacciosi, il viso torvo, i capelli, sparsi, le ricadevano sul volto; aveva, credo, cento mani e altrettante braccia; insolite le sue vesti e la voce metallica. E sebbene camminasse non riuscivo a scorgerle i piedi. E mentre stavo spaventato in attesa di sapere cosa volesse, lei mi disse, fissandomi con i suoi occhi luminosi… [Deus bone, quam grandis illi statura, quam admirabilis forma! Non inticiabor, prospiciens timui. Nam ardentes minacesque illi erant oculi, facies torva, capillitium multiplex per ora pendulum, manus, credo, centum et brachia totidem, varia vestis et ferrea vox; quibus tamen incederet pedibus vidisse non potui Et dum quid velit pavescens expecto, hec in me defixis luminibus inquit.] Boccaccio, De casibus VI, 1

6. Maestro delle illustrazioni di Boccaccio, Lotta della Fortuna contro la Povertà, da Livre de la Ruyne des nobles hommes et femmes, Bruges 1476

A queste due immagini di ‘Fortuna con ruota’, in cui come afferma il poeta replicando a Fortuna la sorte non è altro che una ‘ministra di Dio’ il cui volere va accettato con incondizionato timore, si aggiunge ancora un'illustrazione da una terza volgarizzazione da Boccaccio, il Livre de la Ruyne des nobles hommes et femmes, edito sempre a Bruges nel 1476, che raffigura la lotta della Fortuna contro la Povertà (6). Questa immagine pare segnare uno scarto rispetto al totale dominio della Fortuna sull’esistenza umana: mentre sullo sfondo la dama-Fortuna punisce uno sventurato personaggio legato a un albero, in primo piano è la stessa Fortuna ad essere scaraventata a terra e percossa a colpi di bastone (secondo una Pathosformel propria dell’aggressione: si vedano la Tavola 5 e la Tavola 41 del Bilderatlas pubblicata in “Engramma”). Al centro della scena un personaggio maschile – forse lo stesso poeta – in posa meditativa, è volto verso Fortuna che ancora si trova in piedi, abbigliata in abiti contemporanei “alla franzese” (Squillaro 2002). Compare qui la possibilità di un riscatto rispetto ai casi del destino, possibilità vivacemente rappresentata dalla rivincita tutta muscolare dell’uomo sulla Fortuna, o almeno di un confronto paritetico tra l’uomo e la sorte; il tema stesso della ‘lotta’ tra Fortuna e Povertà, inoltre, si inserisce in un’ottica già mercantile, in cui ‘fortuna’ equivale anche a ‘ricchezza’. Con questa edizione di Boccaccio siamo infatti nella Bruges della seconda metà del XV secolo: ma l’accostamento con la xilografia boccacciana del 1483 posta immediatamente al di sopra, in cui Fortuna è raffigurata ancora nelle sue vesti di mostruosa potenza dominatrice, evidenzia sinotticamente la pressoché totale compresenza delle due ‘posizioni’ – attiva e passiva – dell’uomo rispetto alla sorte.

7. Papa Pio II (Enea Silvio Piccolomini) nel regno della Fortuna, xilografia tedesca, sec. XV

Accanto alle tre immagini tratte da Boccaccio, una quarta illustrazione rappresenta una ‘visione’ della dea personificata: si tratta di una xilografia di ambito tedesco del XV secolo, raffigurante papa Pio II nel “Regno della Fortuna” (7), in cui viene visivamente restituita la descrizione che Enea Silvio Piccolomini riporta nel suo Somnium de Fortuna: è il racconto di un sogno, nel quale lo stesso autore viene accolto nel regno della dea. Nel testo, contenuto in una lunga lettera datata 26 giugno 1444 e indirizzata a Procopius di Rabstein, Enea Silvio – dopo aver presentato la Fortuna quale dispensatrice di ricchezze così come di povertà, di felicità così come di sciagure – inizia così a descrivere il suo sogno:

Ebbi questa visione: ero giunto in un luogo ameno e verdeggiante; c’era un campo coltivato in mezzo a un giardino, il giardino di Fortuna, circondato da un fiume e da un muro su cui si aprivano due porte, una di corno, l’altra splendente di bianco avorio. I muri erano altissimi, fatti di diamante, il fiume di abissale profondità. Sulle rive del fiume che si distendevano dalla zona delle porte, stava riunita una grande massa di uomini e donne [...]. Giunsi di fronte alla porta di corno, sulla sommità della quale stava la seguente iscrizione con caratteri antichi: ‘Ammetto pochi e sono ancor meno coloro che servo” [Visionem hanc habui: in locos letos et amena vireta deveni, gramineus campus in medio fortunati nemoris erat, rivo cinctus et muro, due illic porte, altera cornea, altera candenti nitens elephanto. muri altissimi ex adamante constructi, rivus immense profunditatis. […] in ripis e regione portarum existentibus ingens virorum ac feminarum turba consedebant, […] veni ad corneam portam, in cujus summo hec litteris antiquis inscripta conspexi: paucos admitto, servo pauciores]. Enea Silvio Piccolomini (Pio II)

Fortuna è la dea che conosce, ma non rivela, ciò che riserva il futuro: è la potenza che presiede al destino della folla di uomini e donne che si assiepano alle sue porte. Più oltre nel testo, Pio II a colloquio con l’umanista Maffeo Vegio, assiste tra l’altro a una scena – di sicuro significato politico-allegorico – in cui il re Alfonso d’Aragona cerca di afferrare una sfuggente Fortuna:

Vidi un uomo di piccola statura, scuro di faccia e gli occhi vivaci che aveva messo le mani sui capelli di Fortuna, l’aveva afferrata per la chioma e le diceva: ‘Fermati, alfine, signora, e guardami: perché sono ormai dodici anni che mi sfuggi? Ora ti ho catturata, che tu lo voglia o no. E ora devi guardarmi: mi sei stata avversa quanto basta. Ora credo che mi mostrerai un altro tuo volto. O sarai benevola con me o ti strapperò tutti i capelli. Perché sfuggi me, il Magnanimo, e perseguiti i pusillanimi? E la Fortuna gli rispose così: “Ammetto che hai vinto: non mi avrai più avversa”. Allora io: “Chi è, o Vegio, colui che fa violenza a Fortuna?”. “Alfonso d’Aragona – rispose – che, dopo Ponza, dopo essere stato catturato e consegnato assieme ai fratelli a Filippo, duca di Milano, si rigettò di nuovo nelle battaglie, inseguendo la signora che gli era avversa ma tanto fece resistendo e perseverando che vinta nel suo pudore ricondusse Fortuna al suo favore. [Video parva statura virum, nigro vultu, letis oculis, qui manus in capillos fortune conjecerat arreptaque coma, sta tandem, domina, meque respice, dicebat. quo me fugis jam annis duodecim? capta es, sive velis sive nolis, ut me respicias oportet, satis mihi adversa fuisti. nunc alium vultum prebebis reor. aut mihi blanda eris, aut omnes tibi crines evellam. Cur me fugis magnanimum pusillanimesque sectaris? Fortune quoque in eum vox erat: vicisti fateor, nec me amplius experieris adversam. tum ego, quia hic est, inquam, Vegi, qui Fortune vim facit? Alfonsus, refert ille, rex Aragonum, qui cum fratribus apud Ponzam captus, Philippoque duci Mediolanensium datus, dimissus denique novis se preliis immiscuit, adversamque dominam insecutus, tantum instando perseverandoque fecit, ut victam pudore Fortunam jam in suum favorem revocaverit.] Pio II, Somnium de Fortuna, c. 6v

Questo brano pur nel contesto ancora ‘medievale’ delle visioni allegoriche debitrici all’opera di Boezio, introduce un'importante anticipazione di quella che sarà la riapparizione della ‘Fortuna con ciuffo’ domabile, frenabile e controllabile. E infatti Warburg (sulla scorta delle indicazioni di Afred Doren: v. la lettera di Saxl a Warburg pubblicata in questo numero di “Engramma”) individua in questo brano di Enea Silvio Piccolomini e in particolare nella battuta che Alfonso indirizza a Fortuna (“sive velis sive nolis”) la fonte testuale di ispirazione del motto VELIS NOLISVE che si trova nel verso di una medaglia, presente nel lato destro di Tavola 48, inclusa tra i media figurativi che riportano il tipo iconografico della ‘Fortuna con ciuffo’ (24) (Squillaro 2002; cfr. Warburg [1907] 1966, pp. 237-238 n. 2 e Renewal of Pagan Antiquity 1999, p. 452). Significativamente, tuttavia, l’immagine che correda il testo del pontefice umanista è collocata in tavola ‘fuori posto’, ovvero nel gruppo delle immagini della ‘Fortuna con ruota’: in discordanza con il testo, infatti, nell'illustrazione la dea non è rappresentata come una Occasio dotata di ciuffo o di capelli al vento che l’uomo può afferrare, ma si presenta con un aspetto totalmente cortese. Sebbene quindi l’evoluzione concettuale dell’idea di Fortuna alla metà del XV secolo possa dirsi già pienamente compiuta con il recupero di Kairòs/Occasio con ciuffo, e poi con l’immagine della ‘vela della Fortuna’, l’illustrazione del Somnium de Fortuna di Enea Silvio Piccolomini testimonia dell’attardamento iconografico: nel testo Fortuna è una figura fugiens, afferrata per i capelli sciolti, nell’immagine che quel testo dovrebbe illustrare Fortuna è in figura di dama che si intrattiene cortesemente a colloquio con l’umanista.

15. San Giovanni a Patmos, XV sec., dipinto, portoghese (?)

Non immediatamente leggibile sotto il profilo ermeneutico risulta invece l’inserimento in tavola dell’immagine collocata al di sotto della ‘serie’ boccacciana: un dipinto di scuola portoghese raffigurante l’evangelista Giovanni nell’isola di Patmos (15). Il senso dell’inserzione può forse essere desunto da un passaggio del saggio su Francesco Sassetti, in cui Warburg riporta una lettera che Marsilio Ficino indirizza a Giovanni Rucellai, nella quale si rinviene la citazione di un passo tratto dal Vangelo di Giovanni che recita: “Non haberes hanc potestatem nisi data esset desuper” (Giovanni 19, 11) (Warburg [1907] 1966, p. 235, n. 2). Ciò a significare, così come Ficino sostiene, che l’uomo può sicuramente opporre resistenza al potere della Fortuna, a patto che l’energia umana sia disposta da una volontà superiore.

Ma la collocazione dell’immagine di san Giovanni a Patmos sembra essere dettata anche da spunti di tipo formale-espressivo: come Giovanni, anche i personaggi delle immagini precedenti – Boccaccio ed Enea Silvio – sono protagonisti di una visione ‘estatica’, che ha per oggetto però una dea pagana anziché la Donna dell’Apocalisse simbolo di Maria-Ecclesia. Giovanni, come Boccaccio nella xilografia, è colto infatti nella postura della meditazione, con la mano al volto.

Nel dipinto di scuola portoghese, inoltre, l’evangelista si volge alla sua visione, ma è rivolto anche verso le grandi imbarcazioni che a vele spiegate si avvicinano alla riva: quasi una raffigurazione allusiva di quelle caravelle che – negli stessi anni in cui viene realizzato il dipinto – proprio dal Portogallo giungono fortunosamente e audacemente nelle Americhe. Il dettaglio sullo sfondo della tela potrebbe costituire dunque una sorta di anticipazione e collegamento rispetto alla tipologia della ‘Fortuna con vela’, nel cuore di Tavola 48.

II. Fortuna con ciuffo

Il motto ‘VELIS NOLISVE’ (un palindromo sillabico, leggibile nei due versi) la cui fonte è forse il Somnium de Fortuna di Pio II, ci conduce direttamente, come abbiamo visto, a considerare la tipologia della ‘Fortuna con ciuffo’: questo tipo iconografico occupa il lato destro della tavola, e introduce un approccio alla sorte dell’uomo rinascimentale radicalmente diverso rispetto alla passività dell’uomo soggetto della volubile ruota di Fortuna. Se infatti, come scrive Warburg nel saggio su Sassetti, “avventurarsi nella lotta per l’esistenza significava per Rucellai occupare sulla nave il posto del timoniere” – e dunque appropriata al tipo-mercante è la ‘Fortuna con vela’ – “un condottiero poteva ben immaginare di afferrare la fortuna pei capelli come facile preda del suo pugno ostentatamente aggressivo, [mentre] la mano del mercante doveva afferrare il timone”. La giusta prudenza nei confronti di Fortuna, consigliata dagli autori medievali e dallo stesso Ficino a quanti, come Rucellai, “aspiravano istintivamente e consapevolmente, con una speranza ancora imperturbata, a raggiungere uno stato nuovo, medio di salvezza, a egual distanza dalla ascesi monastica rifuggente dal mondo, come da una millanteria di questo affermatrice” (Warburg [1907] 1966, p. 238), sfugge a quanti affrontano la sorte con un atteggiamento di violenza e con una velleitaria, muscolare, intenzione di padronanza. A costoro non si addice l’immagine ‘passiva’ della Fortuna con ruota, ma nemmeno la imago media di ‘Fortuna con vela’. Sarà invece l’antica figura di Kairòs/Occasio la più adatta a fornire un valido “incoraggiamento al valore intrepidamente attivo”. Nel 1923, Warburg scrive ad Alfred Doren:

Vorrei poi chiederti se hai fatto rientrare nell'ambito della tua trattazione il Kairos, la divinità greca della Fortuna, come appare su un rilievo di Torcello. Nel rilievo tiene, se non erro, un rasoio in una mano, sta in piedi su una ruota e ha in ogni caso la nuca rasata; gli è rimasto solo il ciuffo della fortuna, che gli cade ondulato sulla fronte. Afferrare il ciuffo della Fortuna è proprio l’atto che si contrappone nel modo più deciso all’atteggiamento passivo nei confronti del Fato, e proprio per il Rinascimento (per es. Petrarca, De remediis utriusque fortunae e, credo, anche Boccaccio) fino a Machiavelli: questa Occasio è la concorrente più decisa della Fortuna con la ruota e con la vela [vedi il testo integrale della lettera pubblicato in questo numero di “Engramma”].

22. Kairos (Occasio), lastra a bassorilievo dal Duomo di Torcello, sec. XI (Venezia, Torcello)

Il rilievo del pulpito della Basilica di Torcello, databile alla metà dell’XI secolo, a cui fa riferimento Warburg nella lettera, è in effetti presente in tavola in una posizione eminente, in alto a destra, come principale riferimento iconografico (tardo)antico per questa ultima tipologia di ‘Fortuna’ (22). Ma la fonte principale per la reinvenzione di Occasio/Kairòs in età umanistica è forse una fonte di tipo letterario, un epigramma di Ausonio che riporta l’ekphrasis di un’opera che rappresentava Occasio e Poenitentia attribuita addirittura a Fidia:

Di chi sei opera? – Di Fidia: lo stesso che fece la statua di Pallade,
lo stesso che fece la statua di Giove, e io sono la sua terza gloria.
Io sono una dea rara, a pochi nota con il nome di Occasio.
– E perché ti ostini a girare sulla ruota? – Non posso stare ferma in un luogo
– E perché hai le ali? – Sono volatile. Mercurio
usa far avere la fortuna che vuole, io mi attardo quando voglio.
­– Ti copri il volto con i capelli? – Non voglio essere riconosciuta.
– Sei calva sulla nuca? Se fuggo non sarò trattenuta.
– Chi è colei che a te si accompagna? –Te lo dirò. – Dimmi: chi sei?
– Io sono la dea a cui nemmeno Cicerone poté dare un nome.
Sono la dea che esige le pene degli atti e dei non atti.
Sono la dea che fa penare. Così sono chiamata Metanoia.
– Ma – dimmi – che fai? – quando mai io sottraggo qualcosa
questa rimane e la tengono in pugno coloro che io risparmio.
E anche ora mentre tu ti interroghi, mentre indugi a meditare,
dirai che ti sono sfuggita dalle mani.

[Cuius opus? Phidiae, qui signum Pallados, eius,
quique Iovem fecit, tertia palma ego sum.
Sum dea quae rara et paucis Occasio nota.
Quid rotulae insistis? Stare loco nequeo.
Quid talaria habes? Volucris sum. Mercurius quae
fortunare solet, tardo ego, cum volui.
Crine tegis faciem? Cognosci nolo. Sed heus tu
occipiti calvo es? Ne tenear fugiens.
Quae tibi iuncta comes? Dicat tibi. Dic rogo quae sis.
Sum dea, cui nomen nec Cicero ipse dedit.
Sum dea, quae facti non factique exigo poenas,
nempe ut paeniteat: sic Metanoea vocor.
Tu modo dic, quid agat tecum. Quandoque volavi,
haec manet: hanc retinent quos ego praeterii.
Tu quoque dum rogitas, dum percontando moraris,
elapsam dices me tibi de manibus.
]
Aus., Epigr. XXXIII, In simulachrum Occasionis et Poenitentiae

Nel rilievo di Torcello vediamo sulla destra la figura di Penitenza/Pentimento (Metanoia) che, con la mano al volto, si volge all’indietro in un atteggiamento di afflizione; Occasio, al centro del rilievo, da un lato viene acciuffata prontamente per i capelli da un personaggio che le sta di fronte, mentre dall’altro lato sfugge a una seconda figura che tende inutilmente le braccia alle sue spalle.

Nel Rinascimento la riemersione dell’antico – nella figura della Fortuna con ciuffo, ma anche nella Fortuna con vela – trova un mezzo di espressione e di diffusione particolarmente efficace soprattutto nel genere delle ‘imprese’. Scrive Warburg nel saggio su Sassetti:

Perché il Rinascimento chieda e ottenga proprio nel simbolo di questa dea pagana ridestata a vita la sua parte nella formazione stilistica dell’energia volta alle cose del mondo, si spiega mediante l’importante posto che essa occupa nell’arte dell’impresa […] un termine intermedio fra segno e immagine per illustrare simbolicamente la vita intima dell’individuo. (Warburg [1907] 1966, p. 232)

Nel montaggio di Tavola 48 numerose sono infatti le immagini che a diverso titolo si inseriscono nel genere dell’impresa: dalle medaglie con emblemi individuali (11, 23, 24, 25), ai logotipi editoriali (27), alle stampe allegoriche con significato morale o amoroso (17, 12), alle ‘divise’ inserite nell’ornamentazione architettonica (9, 18).

24a, 24b. Giovan Battista Bonini, medaglia di Camillo Agrippa, 1580 ca. (London, The British Museum),
in alto: il verso raffigurante Fortuna-Occasio, con il motto "Velis nolisve";
in basso: il recto con il profilo del committente, Camillo Agrippa

E ritroviamo anche la scena principale della lastra di Torcello proprio in una medaglia-impresa rinascimentale, collocata in tavola subito al di sotto del rilievo antico: anche qui Occasio – dotata di vela e dunque connotata anche come Fortuna in senso più ampio, e non solo come momento propizio – viene energicamente trattenuta per i capelli da un personaggio maschile (Squillaro 2002). Nella tavola, questa medaglia compare per due volte, in due immagini distinte seppur poste a breve distanza (24a, 24b). L’immagine con la riproduzione in gesso del recto e del verso (24b) intende sottolineare, con tutta probabilità, la figura del committente: Camillo Agrippa, matematico e ingegnere-architetto amico di Michelangelo, ma soprattutto celebre uomo d’arme, teorico e innovatore dell’arte della scherma, quale Idealtypus di “uomo intrepidamente attivo” del Rinascimento. L’inserimento ripetuto del verso della medaglia (24a) – posta accanto a una seconda medaglia dal soggetto analogo – oltre a dimostrare (come Warburg non dimentica mai di sottolineare nei suoi montaggi) la diffusione del tipo iconografico anche mediante un supporto maneggevole come le monete celebrative), mette anche in connessione i motti delle due imprese. In merito alla medaglia di Camillo Agrippa, così scrive Warburg ad Alfred Doren:

La medaglia del Rinascimento, che tu dovresti ricevere, e della quale io ti ho già scritto, mostra con un simbolismo particolarmente felice, la mentalità dell’uomo rinascimentale. Un uomo armato afferra la Fortuna con vela per il ciuffo della buona sorte, con sotto scritto: ‘velis nolisve’; dunque con l’arguto e spiritoso gioco di parole ‘velis - con le vele’, oppure: ‘che tu voglia o no’, ma anche ‘le tue vele non ti servono a nulla’. [vedi il testo originale della lettera pubblicato in questo numero di “Engramma”]

Si tratta, come abbiamo visto, del motto tratto dal Somnium de Fortuna di Enea Silvio Piccolomini, che aveva anticipato – nel testo ma non nell’immagine – la comparsa della Fortuna con ciuffo. Nella medaglia di Camillo Agrippa Fortuna ricompare con il suo ciuffo, e nonostante sia dotata di vela soccombe all’uomo che la cattura. Nelle pagine conclusive del Principe di Niccolò Machiavelli possiamo leggere un passaggio che è quasi un commento all’immagine della medaglia di Agrippa, la figura una Fortuna fugiens che il principe deve prendere e domare con ferocia e audacia, fino quasi a violentarla:

Fortuna […] dimonstra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle […] Io iudico bene questo, che sia meglio essere impetuoso che respettivo; perché la fortuna è donna, et è necessario, volendola tenere sotto, batterla et urtarla. E si vede che la si lascia più vincere da questi, che da quelli che freddamente procedano. E però sempre, come donna, è amica de' giovani, perché sono meno respettivi, più feroci e con più audacia la comandano. (Niccolò Machiavelli, Il Principe, XXV)

23. Verso della medaglia del conte Pier Maria Rossi con il motto "Aut te capiam aut moriar", Parma, seconda metà del sec. XV

L’assoluta certezza di dominio sulla Fortuna espressa da Agrippa nella sua medaglia, è affiancata in tavola da un’altra impresa, appartenente al conte e condottiero Pier Maria Rossi (23). Nella moneta, coniata a Parma nel secondo quarto del XV secolo, è rappresentata sul verso una Fortuna/Occasio nuda, con un lungo ciuffo sul davanti, mentre dietro di lei si sta affrettando, con il braccio destro teso ad afferrarla, una figura maschile. Il motto dell’impresa – “Aut Te Capiat aut Moriar” (“O coglierti o morire”) – pone in termini radicali l’aut aut dell’uomo rinascimentale che si ritiene ora pienamente faber fortunae suae e intende governare attivamente la propria esistenza, fino a mettere a repentaglio la propria vita nella battaglia ingaggiata con la sorte.

28. Bottega di Andrea Mantegna, Occasio e Paenitentia, 1500-1505, affresco (Mantova, Palazzo Ducale)

L’immagine forse più nota di Occasio è però un affresco conservato nel Palazzo Ducale di Mantova, databile ai primi anni del ‘500, di scuola mantegnesca (28). Esso raffigura Fortuna/Occasio che incede rapida, le ali ai piedi, su una sfera; la figura è abbigliata con una veste mossa ‘all’antica’, ed è caratterizzata dall’ormai immancabile ciuffo, che ricade sulla fronte mentre si volge all’indietro a osservare un giovane che la insegue; quest’ultimo viene trattenuto nell’inseguimento da una terza figura, stante e collocata su un solido basamento. Il soggetto era conosciuto da Mario Equicola, che ne parla in una lettera a Francesco Gonzaga (Pisani 2006, Kolsky 1991): si tratta di un invito alla gioventù – la stessa gioventù “feroce” a cui si rivolge Machiavelli (del quale si vedano i poemetti dedicati a Occasione e Fortuna ne I Capitoli) – a non lasciarsi sedurre dalle lusinghe della instabile fortuna, ma a trattenere la propria audacia con l’aiuto della virtù, personificata dalla donna che frena il giovane nell’affresco mantegnesco. Scrive Baldassare Castiglione, che frequenta in quegli stessi anni le corti dei Gonzaga e dei duchi di Urbino: “La fortuna, come sempre fu, così è ancor oggidì contraria alla virtù” (Cortegiano, Dedica, 1). A questo monito si può però giustapporre la figura che combina in sé le qualità di prudenza e di fortuna: la ‘giusta fortuna’, ovvero la Nemesi düreriana – dotata di briglie e morso, a dare freno all’agire umano – posta in tavola esattamente al di sopra del dipinto mantovano (26). La grande Nemesi che governa il mondo mostra che Fortuna può anche essere ‘giusta’ quando, temperata dalla prudenza, riconosce e premia la virtù. A proposito della inserzione dell’opera di Dürer si ricordi che Warburg dedica il saggio del 1905 Dürer e l’antichità italiana proprio al rapporto dell’artista nordico con Mantegna, la cui opera è per altro protagonista delle due tavole seguenti nel Bilderatlas: Tavola 49 e Tavola 50/51).

31. Cornelis Anthonisz Thenissen (attr.), Allegoria della Sfortuna/Accidia, disegno a penna, 1530 ca. (London, The British Museum, Department of Prints and Drawings)

Nel Rinascimento l'Accidia è la negazione della virtuosa, intraprendente, attività che si esercita nella vita activa, sia essa quella del mercante, del condottiero o del principe. All’accidia corrisponde Sfortuna, ovvero l’incapacità di essere pronti a cogliere il momento opportuno: pare essere questo il messaggio di un disegno attribuito a Cornelis Anthonisz, del 1530 circa, Allegoria della Sfortuna e insieme Allegoria della Accidia, e posto significativamente quale penultima figura nel montaggio, in basso a destra.

La figura femminile porta una mano al volto, con fare insieme svogliato e civettuolo, mentre con l’altra mano tiene una remora, mitico serpentello capace, secondo i bestiari medievali, di arrestare le navi. Accidia/Sfortuna è attorniata da un paesaggio di rovine, di città in fiamme, di bestiame morente, mentre una nave con le vele ammainate, sullo sfondo, non è in grado di prendere il vento, che pure fa garrire le bandiere sui pennoni. 

30. Agnolo Bronzino, Allegoria della Fortuna, dipinto a olio, 1567 ca. (Firenze, Galleria degli Uffizi)

In chiusura della tavola, giustapposta alla personificazione di Sfortuna-Accidia, una immagine tutta positiva: l’Allegoria della Fortuna di Angelo Bronzino, conservata agli Uffizi, del 1567 circa (30). Realizzata in occasione del matrimonio fra Francesco I de’ Medici e Giovanna d’Austria, come testimonia la presenza dell’amorino al centro della scena, l’opera si potrebbe più correttamente intitolare ‘Allegoria della Felicitas publica’ (Geremicca 2010). La protagonista del dipinto è celebrata da Gloria e Fama in volo, mentre al suo fianco si riconoscono Prudenza (con vultus duplex, remora al braccio e globo terracqueo tra le mani) e Giustizia (con spada e bilancia). Le due Virtù schiacciano i Vizi, tra i quali si riconoscono Follia e Invidia. In ginocchio, anche Tempo (con il globo celeste) e Fortuna (con ciuffo e ruota) assistono la Felicità Pubblica, caratterizzata da caduceo e cornucopia (cfr. Cesare Ripa, Iconologia, s.v. Felicità pubblica). Questi due attributi identificano anche l’impresa della “Fortuna compagna di Virtù” (cfr. Alciati, Emblemata, CXVIII), che rappresenta la negazione di quella disgiunzione tra qualità morali e favore della sorte che abbiamo visto caratterizzare il concetto di Fortuna sin dall’Elogio della Follia di Erasmo, nella seconda immagine incipitaria della tavola. Anche l’attributo della Fortuna nella sua facies più instabile, imprevedibile e dominatrice assoluta dei casi umani – la ruota – torna in questa immagine tarda, come attributo di Occasio con il ciuffo: il tempo momentaneo e propizio che, se dotati di virtù, può essere acciuffato e fermato significativamente è raffigurato come sollecito e costante attendente – posto di fronte al Tempo-Eternità – della Felicità Pubblica garantita dalla famiglia Medici. Tra Tempo e Fortuna-Occasio, è riverso, tra i Vizi, un giovane nudo con in mano una lama: è forse l’antico Kairòs, ancora fuggevole e imprendibile, e qui ridotto a metafora di tempi sfavorevoli, ormai passati dall’attuale, salda, Felicità pubblica. Al di là della specifica identificazione di ciascun personaggio, comunque, l’immagine che chiude la tavola dà conto della libertà con cui il tema delle figure di Fortuna viene trattato nel Rinascimento maturo, con una proliferazione che, in forza di una ormai assoluta licenza iconografica, che moltiplica e mescola personificazioni e attributi: nel dipinto di Bronzino i tratti della dea pagana, pur derivati dall’iconografia e dalle fonti antiche, hanno ormai perduto quell’aura demonica e vitale che nel primo Rinascimento li aveva fatti riemergere come efficace “simbolo del conflitto dell’uomo che si libera” dal suo destino.

III. Fortuna con vela

10. Isis pelagia, riproduzione da una moneta dell'imperatore Adriano, II sec. d.C.

È però nel tipo iconografico di ‘Fortuna con vela’, collocato nella zona centrale del montaggio, che Warburg legge la piena funzione espressiva del simbolo della liberazione dell’uomo dalla prepotenza del destino, il proprium della sua pregnanza semantica. Anche questo tipo mutua una iconografia già antica, di cui in tavola è indicato un archetipo: in alto accanto alla terza immagine incipitaria del pannello (Palazzo Rucellai), vediamo infatti il disegno di una moneta dell’imperatore Adriano del II secolo d.C. (10), con una figura femminile in piedi su un’imbarcazione. Avvolta in panni mossi da un vento imperioso, la figura regge con entrambe le mani una vela, anch’essa gonfiata dal vento. Si tratta dell’immagine di Iside: il culto della divinità egiziana era molto diffuso nel mondo ellenistico e in particolare in ambito romano, dall’età imperiale in avanti, nei culti sincretici che accostano e amalgamano le divinità orientali a quelle romane, nella figura di Venere; Iside era venerata anche con gli epiteti di pharia, euploia, pelagia, ovvero dea ‘del mare’, ‘dei flutti’ e quindi ‘del vento’. Nel montaggio la moneta adrianea sta ad indicare un precedente iconografico antico, indispensabile per comprendere la diffusione in età rinascimentale dell’attributo della vela associato a Fortuna: lo schema iconografico era accessibile nel XV secolo per il tramite delle monete imperiali che circolavano in gran numero, direttamente negli esemplari collezionati dagli umanisti ma anche grazie, per l’appunto, al medium del disegno dall’antico, di cui nel pannello vediamo un esempio.

11. Riproduzione del verso della medaglia di Alexander Caymus (1556-1570) con il motto "Optanda navigatio", Milano, seconda metà del sec. XVI

Subito al di sotto della riproduzione della moneta antica si trova un altro disegno del verso di una medaglia, questa volta moderna: si tratta dell’impresa del giurista milanese Alessandro Caimo, risalente alla seconda metà del XVI secolo (11), in cui la vela della nave è retta da un personaggio maschile nudo. Il motto inciso sulla moneta recita "Optanda navigatio", ovvero la "Navigazione da desiderare", ovvero "Navigare è desiderabile", in contrappunto con la sentenza "Navigare necesse, vivere non necesse" tratta dalle parole con cui Pompeo (secondo Plutarco, Vita di Pompeo, 50, 2) avrebbe esortato i suoi marinai ad affrontare il mare nonostante la tempesta: l’auspicio espresso dall’impresa evidentemente è che per il committente, padrone della propria rotta esistenziale, la desiderabile navigazione proceda ‘a gonfie vele’.

  

25. Bernhard Strigel, Massimiliano I e la sua famiglia, dipinto, 1515 (Wien, Kunsthistorisches Museum)

14. Nicoletto da Modena, Fortuna, acquaforte su rame, 1506 ca. (Berlin, Staatliche Museen, Kupferstichkabinett)
25. Bernhard Strigel, Massimiliano I e la sua famiglia, dipinto, 1515 (Wien, Kunsthistorisches Museum), dettaglio dell'impresa con Fortuna sulla berretta di Carlo V

Ancora nell’ambito della medaglia-impresa, il montaggio vede la collocazione, subito al di sotto, di un dipinto di Bernhard Strigel, del 1515, conservato a Vienna, raffigurante l’imperatore Massimiliano I d’Austria con la propria famiglia (25). Nel ritratto di gruppo Carlo V, la figura centrale del dipinto, porta sulla propria berretta un’impresa-emblema raffigurante una Fortuna tutta all’antica: nuda, con vela rigonfia, sospesa su una sfera (e per incidens si ricordi che fra le imprese di Carlo V forse la più nota è quella in cui le colonne d’Ercole sono accompagnate dal motto "Plus ultra", in memoria dell’audace e fortunata impresa di esplorazione e conquista che apre all’espansione dell’impero spagnolo sul mare, oltre i confini del ‘vecchio’ mondo).

Nell’impresa di Carlo V, rispetto alle rappresentazioni ‘alla franzese’ che illustrano i testi allegorici proto-umanistici, Fortuna ha riguadagnato l’aspetto originario della divinità pagana. L’aspetto anticheggiante è garantito dagli accessori in movimento – i panneggi e i capelli mossi dal vento – come nel caso delle allegorie mitologiche di ambito mediceo che Warburg aveva indagato nelle tavole precedenti dell’Atlante (si veda in particolare Tavola 39), e che ritroviamo nella tavola, exempli gratia, nell’immagine di una Venere-Fortuna-Verità che si fa vela del proprio panneggio, mentre governa con il suo timone il globo, facendosi trasportare sulle acque grazie a un Vento-Eros-Kairos tutto propizio, in una preziosa incisione di Nicoletto da Modena (14).

13. Paolo Mannucci (da un disegno preparatorio di Bernardino Pinturicchio), Fortuna e Virtù, 1504 (Siena, Duomo, pavimento)

Oppure, ancora, nel pavimento del Duomo di Siena, opera di Paolo Mannucci a partire da un disegno di Pinturicchio, del 1504-1506 (13), in cui una instabile Fortuna dalle sembianze tutte botticelliane, posta su una sfera e su una nave dall’albero spezzato, volge recisamente le spalle all’erta ‘via della virtù’ percorsa dagli antichi sapienti, e purtuttavia riceve inconsapevolmente le ricchezze disprezzate da Cratete sopra di lei: una scena che pare quasi riprendere il dettato erasmiano dell’Elogio della Follia che abbiamo visto nella seconda immagine incipitaria in tavola (riferita però alla Fortuna con ciuffo).

Un posto tutto particolare nell’argomentazione warburghiana sulle imprese spetta alla focalizzazione sulla committenza Rucellai, che come abbiamo visto compare come protagonista della terza immagine incipitaria della tavola, in riferimento alla comparsa di ‘Fortuna con vela’. Scrive Warburg nel saggio su Sassetti:

Rispetto al cavaliere che schiera il suo clan intorno alla bandiera familiare per l’estrema difesa [nella lotta per l’esistenza], il mercante del rinascimento fiorentino conferisce quasi come stendardo appunto quella dea del vento, Fortuna, che egli ha dinnanzi agli occhi in forma così corporea come potenza che decide della sua sorte […] Indaghiamo in che modo questa Fortuna, come simbolo anticheggiante dell’energia, nacque nell’ambito delle idee personali di un contemporaneo del Sassetti, Giovanni Rucellai. (Warburg [1907] 1966, p. 232)

Nello stesso saggio, Warburg sottolinea anche i diversi significati del termine ‘fortuna’ nel contesto delle potenti famiglie di mercanti del Rinascimento, qual è quello della famiglia Rucellai:

La parola latina ‘fortuna’ significava allora, come ancor oggi, nell’uso italiano non soltanto ‘caso’ e ‘patrimonio’, bensì anche ‘vento tempestoso’. In tal modo per il mercante che solcava i mari, questi tre concetti separati designavano per contro solo proprietà differenti di quell’unica fortuna-tempesta, la cui mutabilità terrificante e misteriosa da demone della distruzione in dea elargitrice di ricchezze, provocava la restaurazione della sua personalità mitica, naturalmente unitaria, sotto l’influenza di un avito modo di pensare antropomorfico. (Warburg [1907] 1966, p. 235)

18. Fortuna con vela, decorazione sull'elmo dello stemma di Giovanni Rucellai, bassorilievo, 1460 ca. (Firenze, Palazzo Rucellai)

L’impresa Rucellai con ‘Fortuna con Vela’, che compare nella parte interna delle mura del palazzo (18), risponde dunque all’intenzione di recuperare un’allegoria che bene esprimesse le aspirazioni al successo sociale ed economico del committente che, anche sul piano concreto, con vele, imbarcazioni aveva a che fare per i suoi commerci. Scrive Warburg:

Troviamo riuniti [nello stemma Rucellai] sentimenti popolarmente pagani, fantasia artistica anticheggiante e umanesimo teologico intenti a svolgere da triplice viluppo concettuale la divinità tuttora viva della ‘Fortuna Audax’, schiettamente pagana nell’idea e nell’aspetto […] quella stessa vela della Fortuna ornava, unita in maniera significativa alle imprese dei Medici, con la medesima coerenza di stile, la facciata del suo palazzo, questo monumento classicheggiante della gratitudine di chi gioiva delle cose terrene; a buon diritto, infatti, egli considerava l’associazione con i Medici fra i doni più cospicui della sua ‘buona fortuna’. (Warburg [1907] 1966, p. 235).

La scelta di raffigurare la dea antica stante, nuda e fiera nel proprio atteggiamento, reggente la vela gonfiata al vento, secondo un gusto “per il grazioso anticheggiante negli accessori esternamente mossi” (Warburg [1907] 1966, p. 323), è un portato dell’adozione di stilemi concettuali e formali ‘pagani’ di contro allo schema iconografico (e ideologico) della dea-dama che con il moto della sua ruota invera il superiore dettato divino.

All’interno di una visione virtuoso-eroica, lo stesso Leon Battista Alberti – ideatore di Palazzo Rucellai e dunque a diretto contatto con le ricche famiglie fiorentine che vedono prosperare o sfiorire i propri patrimoni con gran rapidità – attribuisce all’uomo che abbia la volontà e possegga le giuste armi, capacità di previsione e di azione tali per cui è in grado di ottenere quella ‘fortuna’ (anche come sinonimo di ‘benessere patrimoniale’) cui aspira (Squillaro 2002). Proprio al rapporto tra destino e fortuna Leon Battista Alberti dedica per altro il testo più solenne delle sue Intercenales, intitolato appunto Fatum e Fortuna (Bacchelli, d’Ascia 2003). In questa operetta Alberti abbandona pressoché totalmente la forma dialogica propria degli altri testi delle Intercenales, per narrare invece una visione, rifacendosi alla tradizione del sogno filosofico: l’autore descrive il comportamento dei diversi tipi di anime che simboleggiano i generi di vita – vere e proprie ‘imprese’ – che lottano per sopravvivere nel fiume vorticoso dell’esistenza. Alberti evidenzia il rapporto fra ordine cosmico – Fatum – e iniziativa umana – Fortuna, intensa anche nel senso di Occasio, opportunità più o meno favorevole di agire, secondo le risorse oggettivamente disponibili. La questione che interessa Alberti, e gli stessi banchieri fiorentini del XV secolo – così come a quelli dell’Amburgo del XX secolo, del cui milieu Warburg fa parte – è in primis di ordine pratico che si collega però alla relazione tra vita activa e vita contemplativa, un tema che sta particolarmente a cuore agli intellettuale del tempo. Per sviluppare il suo ragionamento su Fato e Fortuna, Alberti ricorre a una metafora navale e fluviale ispirata all’allegoria dei fiumi della Fortuna attraversati da Virtù e Mercurio nel De Nuptiis di Marziano Capella (I, 14-16). Si tratta della stessa introduzione del De Nuptiis che è stata chiamata in causa anche come fonte di ispirazione per la Primavera di Botticelli: ed è per questa strada, forse, che nella Firenze del secondo Quattrocento Ninfa e Fortuna si prendono per mano (si vedano i pannelli immediatamente precedenti nell’Atlante: Tavola 46 e Tavola 47).

Quello del confronto – tutto immanente, senza più alcun rimando metafisico – tra l’uomo e la sorte, è dunque un interrogativo filosofico-esistenziale cruciale tra XV e XVI secolo, significativamente affrontato, su richiesta dello stesso Francesco Rucellai, anche da Marsilio Ficino. Scrive Warburg:

All’importante domanda, che egli stesso [Francesco Rucellai] si poneva, “se la ragione umana e la saggezza pratica possano qualcosa contro i casi del destino, della Fortuna” […] ottenne una lunga lettera da Marsilio Ficino, nella quale quest’ultimo, alla sua domanda in quale modo l’uomo potesse agire contro le cose future, soprattutto quelle cosiddette casuali, o prevenirle, diede un parere che […] culmina nella seguente istruzione per la lotta con la Fortuna. “Buono è combattere colla fortuna coll’armi della prudenzia, pazienza e magnanimità. Meglio è ritirarsi e fugire tal guerra, della quale pochissimi hanno vittoria, et quelli pochi con intellettuale [intollerabile] fatica et extremo sudore. Optimo è fare collei o pace o triega, conformando la voluntà nostra colla sua, ed andare volentieri dov’ella accenna, acciocchè ella per forza non tiri. Tutto questo faremo, se s’accorda in noi potenzia, sapienza et voluntà”. (Warburg [1907] 1966, p. 233)

L’uomo – non più totalmente soggetto al destino (la postura passiva e medievale della soggezione al dettato di Dio che Fortuna con ruota invera), ma non ancora audacemente padrone della sua sorte (il piglio prepotente del ‘conquistador’, simboleggiato dalla cattura di Fortuna con ciuffo) – è impegnato a ingaggiare una lotta alla pari con Fortuna: questo esplicitamente asseriscono gli intellettuali più aggiornati dell’età umanistica (cioè più in sintonia con il pensiero ‘all’antica’), e proprio in questo confronto si configura il campo agonale in cui l’Idealtypus dell’uomo rinascimentale può dar prova di virtù auree che temperano l’impulso del coraggio con il freno della saggezza, quali “prudenzia, pazienza e magnanimità” oltre che “potenzia, sapienza et voluntà”. Scrive ancora Warburg:

Nell’uso metaforico di figure antiche, tanto Sassetti che Rucellai rivelano infatti come, in quell’epoca di transizione dell’atteggiamento soggettivo, essi aspirino ad uno stato di equilibrio nuovo fra energie diverse. Nella conciliabilità ancora imperturbata fra culto di memorie cristiano-ascetiche e memorie anticheggianti-eroiche, essi contrappongono al mondo un’intensificata fiducia in se stessi, pur essendo consapevoli del conflitto fra la forza della personalità individuale e la potenza della sorte enigmaticamente casuale. (Warburg [1907] 1966, p. 232)

12. Bernardo Rucellai e Nannina de' Medici sulla nave della Fortuna, acquaforte su rame, seconda metà del sec. XV (Berlin, Staatliche Museen, Kupferstichkabinett)

Ancora collegata alla famiglia Rucellai è l’incisione di una ‘impresa amorosa’ (12) raffigurante – secondo la lettura critica proposta da Warburg nel 1907 (che oggi è almeno in parte superata) – il figlio di Giovanni, Bernardo, che assume personalmente il ruolo di Fortuna con la vela (come già il personaggio raffigurato nella medaglia di Canino), ed è accompagnato da una dama dai tratti ancora cortesi posta al timone dell’imbarcazione, travestimento allegorico di Nannina de’ Medici andata in sposa allo stesso Bernardo nel 1466. La didascalia della stampa recita:’I[o] mj las[ci]o portare alla fortuna sperando alfin daver buona ventura’, in riferimento, secondo Warburg, al fortunato connubio con casa Medici, sancito dal matrimonio con la sorella di Lorenzo:

In un’ora buona egli [Francesco Rucellai] era infine ‘salito sulla nave della Fortuna’ dei Medici dando a suo figlio Bernardo in sposa Nannina, figlia di Piero. A questo mi sembra alluda chiaramente, con intelligente uso dell’impresa, un’incisione dell’epoca […] Su questo foglio augurale, nato come ‘Impresa Amorosa’ nelle contente giornate di desideri esauditi e di un patrimonio accresciuto, la Fortuna cela amabilmente il suo vero carattere di ‘Impresa militare’ […] il vero e proprio accento fondamentale di questo simbolo di forze potenziali era pur sempre l’incoraggiamento al valore intrepidamente attivo. (Warburg [1907] 1966, p. 237)

17. Fortuna, illustrazione da Theodor De Bry, Emblemata Nobilitatis, Frankfurt 1593

La tipologia della Fortuna con vela, nel suo aspetto di dea pagana, si diffonde ben presto anche Oltralpe: ne è una testimonianza la già citata medaglia-impresa di Carlo V (25), ma anche, ancora a decenni di distanza, un emblema tratto da una di quelle opere di sistematizzazione del ‘genere’ che andranno di moda a partire dalla fine del XVI secolo, gli Emblemata nobilitate et vulgo di Theodor de Bry, nella prima edizione stampata a Francoforte nel 1593 (17). Il motto, riprodotto in basso ai piedi della dea rappresentata come una Venere Euploia, con conchiglia e su sfera poggiata sulle onde, recita: "His Fortuna parens, illis iniusta noverca est". Ai personaggi raffigurati alla sua destra la Fortuna si rivolge quale benevola madre (‘parens’), donando prosperità e una felice navigazione, a quelli alla sua sinistra appare invece quale ingiusta matrigna (‘iniusta noverca’) che fa affondare la loro nave e bruciare la loro città (Squillaro 2002).

26. Albrecht Dürer, Nemesis (La grande fortuna), acquaforte su rame, 1502-1503

Dall’ambito nordico proviene un’altra, celeberrima, raffigurazione di Fortuna: l’incisione su rame ad opera di Albrecht Dürer del 1502 (forse 1503) nota come la Grande Fortuna (26). In questa immagine della dea – che con una mano promette ricchezze, contenute in una coppa, e con l’altra tiene a freno gli uomini, mediante l’attributo iconografico delle briglie – l’instabilità si trasfigura però in ristabilimento di Giustizia: è infatti corretto identificare la figura come Fortuna-Nemesi (cfr. Vincenzo Cartari, Imagini de gli dei de gli Antichi, Venezia 1624). Pur in equilibrio su una sfera, la dea ha però ‘perduto’ l’attributo della vela, per guadagnare quello delle grandi ali mediante le quali può librarsi sul mondo, riguadagnando così il predominio panoptico sull’esistenza degli uomini che già era proprio della Fortuna con ruota.

27. Fortuna, marchio di stampa dell'editore basileese Andreas Cratander, da una edizione dei Ciceroni Opera, Basel 1528, vol. III

Un’ultima Fortuna-Venere di ambito nordico, con una lunga chioma fluttuante e con le ali ai piedi che poggiano su una sfera, è presente in tavola nell’impresa del logotipo editoriale di Andreas Cratander, utilizzato per un’edizione delle opere di Cicerone stampata a Basilea nel 1528 (27). I caratteri di questa figura – priva di vela ma stante su una sfera come la Nemesi düreriana, e con la chioma mossa dal vento – si intrecciano con l’iconografia della ‘Fortuna con ciuffo’ (forse mediante l’opera di Mantegna e della sua cerchia – cfr. l’adiacente immagine di Occasio (28) – che veicola le immagini della rinata antichità verso Nord (cfr. Warburg 1905).

16. Francesco di Giorgio Martini, Ippona, disegno, 1470-1475 (Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi)

Altre immagini legate alla Fortuna con vela e alla nave della Fortuna sono infine presenti nel montaggio della tavola nella sezione inferiore sinistra. In un disegno di Francesco di Giorgio Martini conservato presso gli Uffizi (16) (Chapman 2011, pp. 172-173), vediamo una figura femminile messa in fuga dalla vista di una prua nemica, sulla quale si agita audace una vela gonfiata dal vento: si tratta di Ippona, eroina greca annoverata tra gli exempla castitatis dallo stesso Boccaccio perché “nullis adverse fortune tenebris lux possit obfuscari virtutis” (“la chiarezza della virtù non si può oscurare per alcuna avversità di fortuna”, De mulieribus claris LIII).

L’immagine sta forse qui anche a evidenziare ulteriormente la mutabilità di Fortuna “da demone della distruzione in dea elargitrice di ricchezze” (Warburg [1907] 1966, p. 235) e viceversa, come testimonia per altro la figura della ‘parens/iniusta noverca’ nell’immagine posta subito a fianco, sulla destra. Per traslato Ippona, l’eroina antica minacciata nella sua virtù dai pirati, è anch’essa figura del mercante rinascimentaleche spesso "percosso dalla fortuna" avvertiva la sua ira allorché per esempio i corsari gli infliggevano sensibili perdite (Warburg [1907] 1966, p. 236).

21. Leonardo da Vinci, Allegoria dei rapporti tra il re di Francia e il Papa, disegno, 1516 (Windsor, Royal Collection)

Ancora nella fascia bassa del montaggio, nella ‘vignetta’ politica di mano di Leonardo databile al 1516, raffigurante l’Allegoria dell’accordo fra il Re di Francia e il Papa (21), compaiono il mare, la nave e la vela rigonfia, ma anche altri elementi simbolici che fanno parte del lessico delle imprese e che – sebbene il significato preciso dell’allegoria non sia pienamente chiaro – con tutta probabilità alludono alla speranza nella stabilizzazione della tempestosa situazione politica internazionale del tempo, mediante la pace – l’albero di ulivo – cui pare saldamente indirizzato, con vela propizia, il governo papale nei confronti della Francia.

Nei due disegni – quello di Leonardo e quello di Francesco di Giorgio – la sola presenza dell’attributo iconografico è sufficiente per richiamare con immediatezza il concetto di Fortuna, senza che sia più necessario rappresentarlo in figura – secondo un “avito modo di pensare antropomorfico” nelle parole di Warburg ([1907] 1966, p. 235) con le fattezze dell’antica divinità Euploia.

In tavola è presente però anche un’ultima immagine di ‘Fortuna con vela’, in una incisione dal Triompho di Fortuna del ferrarese Sigismondo Fanti, stampato a Venezia nel 1527 (20; si veda un estratto dal Prologo dell’opera). In realtà in questa pagina sono illustrate ben quattro ‘Fortune’, il cui disegno è ispirato agli affreschi di Baldassarre Peruzzi nella Sala delle Prospettive della Farnesina. Nel libro di Fanti ciascuna Fortuna è retta da un diverso vento (‘di Volturno’, ‘De Argesto’, ‘De Libico’ e ‘De Borea’); i capelli delle figure, tesi dal vento dinnanzi al volto, incrociano ancora una volta l’iconografia della ‘Fortuna con ciuffo’.

   

19. Frontespizio dal Libro delle sorti di Lorenzo Spirito, Perugia 1482
20. Fortune con vela, illustrazioni dal Triompho di Fortuna di Sigismondo Fanti, Venezia 1527

Questa immagine, insieme a quella posta nel montaggio subito alla sua sinistra – il frontespizio del Libro delle Sorti di Lorenzo Spirito, stampato a Perugia nel 1482 (19; si veda un estratto dal Prologo dell’opera) – apre infine a un diverso capitolo sul tema della concezione della Fortuna in età rinascimentale: quello della padronanza della sorte mediante il serio ludere dei ‘libri di sorte’ (si vedano i contributi di Silvia Urbini e di Antonella Sbrilli in questo numero di “Engramma”), un sistema di ‘interrogazione figurata’ per conoscere il futuro ampiamente diffuso all’epoca per profezie bibliomantiche di vario genere. Con la collocazione nella tavola della Fortuna dell’incisione di Fanti e del frontespizio di Spirito Warburg mette in evidenza documenti che rivelano un attitudine tipico della mentalità rinascimentale (il Libro delle Sorti è già presente in Tavola 23A: cfr. il contributo di Silvia Urbini in questo numero di “Engramma”), che coniuga il sapere astrologico umanistico, fatto di domini planetari e sfere cosmiche, con elementi biblici e naturalistici, e con la consultazione stocastica del lancio dei dadi, in una progressione di puntate che conducono all’obiettivo ultimo del responso profetico. In particolare per quanto riguarda l’opera di Lorenzo Spirito, Warburg scrive in un appunto conservato presso il WIA:

Si deve ritenere l’opera come un documento della storia del libro che, tanto per il suo contenuto letterario quanto per la forma artistica della sua veste tipografica, ha diritto a un’accurata […] considerazione dal punto di vista della storia della cultura. Il ‘Libro delle Sorti’ appartiene, come il Calendario [di Steffen Arndes] del 1519, alla famiglia delle pratiche astrologiche. Ma mentre il lunario snatura il sapere astrologico degli Antichi trasformandolo, al modo delle scienze naturali arabe del Medioevo,in semplici regole di salute, nel ‘Libro delle Sorti’ ci è conservata un’antica, autentica tecnica oracolare, anche se l’autore – Lorenzo Guerrieri [sic! vere: Gualtieri] detto Spirito che nella Perugia fremente di passioni dell’epoca dei Baglioni, svolgeva le più tranquille mansioni di un apprezzato e colto poeta di corte – volle con grande accortezza assicurarsi che il suo libro di divinazione pagano avesse il carattere di un innocente passatempo sociale. Solo le ricerche degli ultimi anni ci hanno mostrato chiaramente che nei libri di sorte, pienamente diffusi nel Medioevo a livello internazionale, dobbiamo riconoscere l’eredità, se pure a tratti degenerata, di un’antica tecnica di divinazione orientale, che sino ai nostri giorni, con il peso della tenace stratificazione a cui per natura è associata ogni misteriosa superstizione, influenza le azioni dell’umanità timorosa del futuro. [vedi il testo originale pubblicato in questo numero di “Engramma”]

Ancora una volta l’attenzione di Warburg è attirata da quei materiali e supporti liminari, che si collocano tra sapere scientifico e superstizione, tra gioco di corte e quesito esistenziale, tra forme medievali e rinascita dell’antico.

29. Guido Reni, Fortuna, dipinto, 1623 (Roma, Pinacoteca Vaticana)

L’ultima immagine, da un punto di vista cronologico, inserita in tavola – un dipinto di Guido Reni del 1623, noto con il titolo di ‘Fortuna’ (29) – è ancora un segno della complessità e dell’intreccio di prospettive su cui Warburg imposta il tema della tavola 48 di Mnemosyne.

L’immagine rappresenta infatti, certamente una figura di Fortuna che domina il mondo su cui sorvola, e che può conferire all’uomo gloria e potere, come indicano la palma e la corona che tiene con le mani; ma è anche, insieme, una allegoria della ‘fortuna amorosa’ – una Venere nuda che lascia liberi al vento panneggio e chioma, mentre un piccolo Amore alato la insegue e la cattura. La compostezza dell’arte di Guido Reni, che a volte tende a raggelarsi in stilemi precocemente neoclassici, in quest’opera pare felicemente turbata e mossa da quel vento caldo e inquieto che, centocinquant’anni prima, aveva preso a soffiare nella tempesta estetica e rivoluzionaria del Rinascimento italiano. E così Fortuna, né domina prepotente né foemina da maltrattare, compare a sigla della tavola come una splendida nympha fugiens che solo Eros può trattenere, prendendola – ma dolcemente, con grazia – per i capelli.

Riferimenti bibliografici
Fonti citate
Boccaccio, De mulieribus claris (l’opera integrale è accessibile on line)

LIII. De Hyppone greca muliere

Hyppo greca fuit mulier, ut ex codicibus veterum satis percipitur; quam vix credam unico tantum optimo valuisse opere, cum ad altiora conscendamus gradibus, eo quod nemo summus repente fiat. Sed postquam vetustatis malignitate et genus et patria ac cetera eius facinora sublata sunt, quod ad nos usque venit ne pereat, aut illi meritum subtrahatur decus, in medium deducere mens est.

Accepimus igitur Hypponem hanc casu a nautis hostibus captam. Que cum forte forma valeret sentiretque predonum in se pudicitiamque suam teneri consilium, tanti castitatis decus existimavit, ut cum, nisi per mortem servari posse cerneret, non expectata violentia, in undas se dedit precipitem; a quibus sublata vita et pudicitia servata est.

Quis tam severum mulieris consilium non laudet? Paucis quidem annis, quibus forsan vita protendi poterat, castitatem redemit et immatura morte sibi perenne decus quesivit. Quod virtutis opus procellosum nequivit mare contegere nec desertum auferre litus quin literarum perpetuis monimentis suo cum honore servaretur in luce. Corpus autem postquam ab undis aliquandiu ludibrii more volutatum est, ab eisdem in eritreum litus inpulsum, a litoranis naufragi ritu sepultum est. Tandem cum ferret ab hostibus exorta fama quenam foret et mortis causam, ab Eritreis summa cum veneratione sepulcri locus in litore ingenti tumulo atque diu mansuro, in servati decoris testimonium, exornatus est, ut noscamus quoniam nullis adverse fortune tenebris lux possit obfuscari virtutis.

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Sigismondo Fanti, Triompho di Fortuna, Venezia 1527

Estratto dal Prologo

[Dio] havendogli [scil. all’uomo] anchora dato il libero arbitrio, et la conoscenza delle cose con la perfettione dell’intelletto lo quale il buon calle dal rio chiaramente potesse discernere, acciocchè, egli l’uno de gli dui qual più gli fosse in grado prendere, addotollo alla chiarezza di diversi mali accidenti et casi che ogni giorno vediamo intervenire, i quali sono innumerabili, come il libro presente detto TRIOMPHO DI FORTUNA, apertamente manifestarà, et per le virtudi di quelle et conoscimento potessero venire a laudabile frutto et perfettione, si come le grandi, et altre scritture meravigliosamente parlano, Io Sigismondo Fante (Beatissimo Padre) [...] indegno mathematico in quanto che nostro sapere nulla veramente essere istime in rispetto et in comparatione dello intendere gli alti et profundissimi secreti della natura [...] proposi, Deo concedente, di comporre multi volumi li quali di diverse scienze lucidissimamente attratare havessino [...], et fra gli detti volumi compilare proponessemo questa presente opera intitulata non senza cagione TRIOMPHO DI FORTUNA, imperho che tal nome messo a studio, sì come anchora l’opera e fatta ad arte, della quale nella primiera faccia, vostra BEATITUDINE non puoco si prendera di maraviglia, conciosia cosa che quella essa leggendo non altro vedere che la verita col falso mescolata: et questo feci, considerando che ciascuna cosa tiene il suo opposito, cosa in questo secolo forse più che in alcun’altro sopra noi stato bisognevole da sapere, il che leggiadramente il nostro LIBRO dimostra”. “Perciò che egli sarà Triompho chiarissimo a dimostrare agli tenebrosi animi di qua giuso che fuggire et seguire per loro si debbe, conciò sia cosa che lui [...] governato da dodici fortune del mondo appropriate a dodici diverse vesti [...] con la diseretione, et natura de tutti gli animali, così terrestri come acquatici, et cosi aerei come del Sovrano elemento insieme con tutte l’immagini celesti fisse del firmamento, et insiememente con le vaganti stelle, egli duo gran lumi che la notte et il giorno della lor vita adornano, et appreso con la natura, et significatione delle mille e venti due stelle fisse degli Astrologhi antichi diligentemente nottate. [...] Le quai cose monstrano diversi casi, et accidenti di questo secolo attribuite, et appropriate, secondo le diverse materie delle quali diversamente molti alti e sottilissimi ingegni hanno favellato, le quali cose che a questo inferiore mondo s’appartengono, come la Tavola del detto Triompho di Fortuna apertamente manifesto, per la lettione del quale trovera ciascuno intelletto, quel tanto che da la natura desiderar si puote, con varie interrogationi, altrimenti, Domande, et Elettioni, et Nativitadi con altre innumerabili questioni tutte per ragioni naturali, e accidentali et per arte calculatorie e diligentemente ritrovate, con le sue celesti figure a variare passioni appropriate, come più apieno qua la Tavola vedere si puo lucidamente. [...] Volendo adunque alchuno quesito et domanda ritrovare la quale fosse a te stata proposta, overo da te considerata et per accidente accaduta, prima entrerai nella Tavola del Triompho di Fortuna cercando fra le domande del quesito che sapere desideri et di sotto da quella domanda atroverai imediate il scritto che ad una delle dodici Fortune ti manderà alla lettera rossa per Alphabeto disignato, la quale posta da manu destra indiretto de la quale il scritto troverai il quale a una delle dodici case ti manderà della bella et Vittoriosa Italia: alla lettera rossa per Alphabeto discritto indireto di la quale el scritto vederai il quale ti mandera a una delle Rote del mondo al tale animate, o rationale, o vero bruta a carte tante per numero assignate. Di soto di la quale imediate entrerai nella Sphera di l’Horologio trovando l’hora e il tempo de lo dimandato. Quesito sopra al quale atroverai il scritto che ti manderà a una delle sphere del mondo a una diputata terra overo Citate; cercherai a punto quella che nelle Rote trovasti, di sotto della quale il scritto assumerai che ti manderà ad uno de gli Settanta doi Astrologhi e una delle ventidua figure al Oroscopo con gli suoi seguenti domicili, con la collocatione delli Pianeti et suoi aspetti con altre varie passioni. [c. 2v, c. 3v]

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Lorenzo Spirito, Libro delle Sorti, Perugia 1482

Estratto dal Prologo

Qui comenza el libro della ventura over de la Sorte perché se trova le infrascritte rasone per li dadi che sono scritto in la presente roda chiamate roda della ventura. E se lomo non sapesse in che modo se trova le infrascritte presente tu trovera vinti modi de rasone tu debia andare a circhare altra e sapi che sono anche vinti profeti con le sue scritture che parlano de le dite venture. E habiando trovato el dito Re e lo te insegnera ali segni de la Sorte de dadi e li trage con tre dadi e toli li trati ponti e circha in lo presente segno le quantitade deli trati ponti li site insegnera a la specie de li pianeti a trovare lo presente fiume. E sapi che sono dei circoli uno defora da la spera e uno in mezo della spera in lo quale sono molti nomi de fiumi de aque e li te insegnera lo nome del profeta e lo numero dei soi versi che parlano dela circhata causa. [c. 1v]

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English abstract

This essay analyses Panel 48 of the Bilderatlas Mnemosyne, dedicated to Fortune. The images included in the panel are read against contemporary sources, as well as Warburg’s correspondence. 

keywords | Aby Warburg; Bilderatlas Mnemosyne; Mnemosyne Panel 38; Fortune; devices. 

Per citare questo articolo / To cite this article: Seminario Mnemosyne (a cura di), Fortuna nel Rinascimento. Una lettura di Tavola 48 del Bilderatlas Mnemosyne, “La Rivista di Engramma” n. 92, agosto 2011, pp. 5-39. | PDF  

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2011.92.0010