Il teatro della morte
Saggio interpretativo di Mnemosyne Atlas, Tavola 42
a cura del Seminario di Mnemosyne, coordinato da Monica Centanni e Katia Mazzucco, con la collaborazione di Sara Agnoletto, Maria Bergamo, Lorenzo Bonoldi, Giulia Bordignon, Claudia Daniotti, Giovanna Pasini, Alessandra Pedersoli, Linda Selmin, Daniela Sacco, Valentina Sinico
English Abstract | English Full Version
Materiali Tavola 42 | appunti di Warburg e collaboratori e didascalie
La Tavola 42 si presenta come lo sviluppo (verticale) di uno dei temi che si annunciano nella Tavola 5: lutto e dolore, oscillanti tra i poli della rabbia/disperazione e della impotenza/distruzione, tema che attraversa (orizzontalmente) tutto l’Atlante.
La Tavola è molto compatta dal punto di vista sia cronologico che tematico: le opere appartengono quasi tutte all’arte religiosa del primo Rinascimento italiano, e il soggetto è unico (la morte e i suoi effetti di dolore e di compianto): figura della morte è, crucialmente, il corpo di Cristo (42.5, 42.13, 42.14, 42.18); figura del dolore è, archetipicamente, la Madre. La scelta temporale e spaziale condiziona lo slittamento in ambito religioso: ma ciò che interessa (e su cui Warburg richiama l’attenzione) non può essere la dicotomia – che il Rinascimento non conosce – tra ‘arte cristiana’ e ‘arte pagana’, quanto piuttosto la persistenza di un linguaggio comune di strutture simboliche e formali (tradotte in gesti) nella memoria della nostra tradizione culturale.
Nella Tavola il soggetto morte/dolore non viene mai astrattamente richiamato per allusioni tematiche, ma si incarna fisicamente in una serie di Pathosformeln tanto prepotenti e incisive da risultare, nelle loro varianti, le vere protagoniste. Pathosformeln che per attrazione formale suggestionano e addirittura risemantizzano temi apparentemente meno pregnanti: l’iracondo guarito da Sant’Antonio (42.1, 42.2), la morte e il compianto nei monumenti funebri di Francesca Tornabuoni (42.6) e Francesco Sassetti (42.12), l’agonia del morente nel monumento funebre Della Torre (42.17).
Nella sintassi delle Pathosformeln emerge un percorso molto preciso che oppone le posture della morte ai gesti del dolore. Si contrappongono: da un lato la progressiva staticità del corpo agonizzante, morente, abbandonato e infine irrigidito nella compostezza del cadavere; dall’altro la progressiva dinamicità del dolore che passa dalla mestizia delle posture della figura dolente, afflitta, contrita, alla rabbia trattenuta, fino a esplodere nella disperazione della figura irruente nella scena con il gesto enfatico delle braccia aperte. A cerchio, il moto del dolore si raggela in una postura di muta chiusura nella figura della velata, in disparte, rispetto alla scena della passione, che per eccesso insopportabile di dolore si sottrae alla visione della morte (42.2, 42.12, 42.14, 42.18).
La morte mette fine al movimento che è vita. I capelli mossi e leggeri, “la ventilata veste" (presente anche qui in 42.9), le braccia agitate nell’aria, sono segni di moto vitale – il pathos che [si] agita [nel]la Ninfa, [nel]la Menade, [nel]la disperazione irruente della Madre. In contrappunto l’arto rilasciato e cadente, le braccia sorrette, raccolte, segnano nel dettaglio significante la gravità del corpo pesante (un peso che sforma il telo del trasporto funebre: 42.3, 42.13, 42.14), perché abbandonato dal soffio vitale. È la “sconvolgente antitesi” tra l’affermazione della vita come reazione violenta e patetica alla necessità della morte e la negazione dell’io nella morte.
La corporeità del cadavere insiste prepotentemente nello scenario della Tavola: ma la sua evidenza si gioca tutta in primo piano. Paradossalmente, lo sguardo è provocato a cercare esattamente quello che si vede meno: non tanto la graduale fissità verso la morte quanto piuttosto la figura dell’irruzione della passione nel quadro della scena funeraria.
Teatro della morte: in un’immagine posta non casualmente al centro in basso, all’incrocio delle linee di gravitazione semantica della Tavola (42.14), vediamo esplodere il dolore della Donna in una sequenza di figure, chiuse fra le quinte costituite dalle due figure maschili che reggono il telo con il corpo del Figlio. La disperazione violenta che scuote la prima figura femminile sulla sinistra – una Menade dai capelli scarmigliati e con le braccia levate in alto – piega le gambe della seconda, che sembra letteralmente crollare con le braccia aperte all’indietro; la terza figura, in piedi, ha riacquistato una certa compostezza, anche se le mani protese e allargate sui fianchi e il busto piegato in avanti, svelano l’intensità dell’emozione. Troppo forte è il peso da sopportare, vano ogni gesto, inutili le parole: la quarta figura si allontana dalla scena chiusa nella sua sofferenza, con il volto tra le mani e il capo velato (la stessa Pathosfomeln è rintracciabile nei testi e nell’iconografia delle tragedie antiche: la Niobe eschilea, la Giocasta e l’Euridice di Sofocle, la Fedra euripidea). Anche le vesti sono espressione degli stadi del pathos: se il velo cela interamente l’ultima dolente (la prima figura da destra, che volta le spalle alla scena), esso scopre il volto e il busto della successiva (leggendo ora la scena da destra a sinistra), mentre il manto scivola dalle spalle della donna centrale, inginocchiata, e una fascia le cinge la veste sotto il seno. Nulla infine può contenere l’agitazione che sconvolge la figura femminile di sinistra: il capo è scoperto, le spalle denudate, le vesti gonfie e scomposte fanno intravedere la forma dei seni. Tre Marie. Qui molte Maria: la stessa figura fatta plurale, ritratta in fotogrammi successivi di disperazione: da sinistra a destra il dolore segue un andamento implosivo, dall’enfasi parossistica all’ipostasi dell’angoscia incomunicabile; di converso, da destra a sinistra l’angoscia sfocia nella gestualità isterica.
La teatralità della morte che questa Tavola mette in scena è ritmata sull’alternanza di moto e stasi: come nella sintassi musicale e nella sintassi tragica il movimento drammatico si ottiene dal gioco di contrappunto, originariamente binario, tra teoria della morte – contemplazione impotente del destino del corpo – e danza della passione fobica, gestualmente potente. Il ritmo binario moto-stasi si rintraccia, in particolare nella Tavola 42, nella struttura compositiva complessiva che si sviluppa sulle tracce del movimento e si chiude con la stasi perfetta del Cristo di Carpaccio, deserto ormai anche di ogni compianto (42.18). Ma lo stesso ritmo si ritrova anche all’interno di ogni singola opera citata, a cominciare dall’incipit (42.1): il teatro del miracolo, in cui le linee della costruzione prospettica sono ribadite dalle linee energetiche che precipitano dinamicamente al centro fermo della composizione, nella figura dell’ossesso, liberato dai demoni e stremato dal delirio.
La polarizzazione tra stasi e moto viene bene impersonata dal contrappunto tra le figure del maschile e del femminile. In questo teatro le interpreti femminili del dolore ricalcano puntualmente le posture e i gesti del pathos dionisiaco, ripresi dai sarcofagi antichi. Gli interpreti maschili mettono in scena variazioni minime rispetto a posture statiche: con l’unica eccezione del monumento di Francesca Tornabuoni, sempre maschile è la figura del morente/morto. Figure maschili stanti assistono alla scena del compianto partecipandovi quasi sempre passivamente (eccettuata la figura del ‘laureato’ in 42.5), senza esternare alcuna sympatheia (il vecchio stante di 42.4; i portatori del morto in 42.3, 42.7, 42.10, 42.13, 42.14). Né maschi né femmine, i putti funerari del rilievo del Bargello (42.11) ambiguamente giocano fra loro ‘a fare il morto’ (il corpo abbandonato, in basso a destra), ma mettono anche in scena il gioco della lotta rabbiosa del puer che si esprime in posture di pathos.
Un ruolo a sé stante è quello di Giovanni in posizione liminare tra la partecipazione femminile al dolore, espressa nei gesti dell’afflizione e della contrizione, e il distacco e la compostezza delle figure maschili (41.5): nella desolazione del quadro di Carpaccio in cui il cadavere rigido di Cristo è vegliato da lontano soltanto da una convenzionale figura di vecchio malinconico, emerge dal silenzio la tonalità singolare e intima del dolore di Giovanni, appartato e chiuso nel mantello come la donna velata di 42.14.
Anche in questo caso nessi profondi legano il montaggio della Yavola 42 alle tavole che la precedono (Tavola 41 e Tavola 41a) e a quella che la segue (Tavola 43).
Proprio nella figura che si isola nella sua contrizione, possiamo trovare uno dei fili che legano la Tavola 42 alla Tavola 43, dedicata alla cappella Sassetti. Il tema funebre del pianto disperato, versato non solo per il Redentore ma anche per i lutti della ‘borghesia fiorentina’ (come nei monumenti dei Tornabuoni e dei Sassetti), trova nel programma iconografico della cappella in Santa Trinita a Firenze (43.3,43.4,43.5) una forma di felice sintesi tra fede, superstizione e culto dell'antico (quest’ultimo relegato come sfondo e modello del contemporaneo, con l’artificio della citazione en grisaille). La teatralità del gesto di compassione si placa nella composta devozione di un pastore, con una mano al petto e l’altra protesa a indicare, questa volta, non un corpo esanime ma quello del Cristo appena nato (43.12). Lo stesso gesto si sublima nel trasporto interiore del Sant’Agostino di Botticelli (43.15), la mano posata sulle scritture (che corrispondono al Verbum Dei); mentre ritroviamo la postura del dolente (la cui melanconia era già stata annunciata dal “lutto depressivo” della figura seduta sotto l’albero in Carpaccio), divenuta posa tipica dell’intellettuale nello studio nel San Girolamo di Botticelli (43.14).
Nella Tavola 41a il pathos della disperazione dinamica – al polo opposto rispetto alla depressione melanconica o alla contrizione – trova il suo precedente nel modello dello strazio di Laocoonte: le braccia levate al cielo (41a.19) e il volto contratto, questa figura diviene nel Ripa proprio l’emblema del dolore (41a.22). Come già nella Tavola 6, la punizione di Laocoonte è accostata al sacrificio di Polissena (Tavola 41), attorno alla quale vediamo cadere i corpi ormai abbandonati di Caco (41.14) e di Orfeo. Nell’infittirsi di una rete di legami intrecciati, Orfeo è nuovamente l’immagine dell’impotenza di un mortale contro il destino (41.8) e nelle posture dei suoi aggressori – le Menadi – si riflettono quelle dei carnefici del Cristo alla colonna di Luca Signorelli (41.19) e del Cristo che sale al Golgota di Ercole de’ Roberti (41.20); intanto, nella parte destra della stessa opera, nella disperazione delle Marie che seguono la Croce si annuncia una scena del teatro della morte.
English Abstract
In Panel 42 of Warburg’s Mnemosyne Atlas, the leading theme is death. Actually, not the ‘true’ one, but the theatral one. This fact is confirmed by the wide-range variety of the pictures inserted by Warburg in the Panel. They go from Carpaccio’s Dead Christ to the (apparently) amiss Saint Anthony cures a irascible man by Donatello. Nevertheless, the dialectic of the Pathosformeln, shows a precise journey through the gestures of death and those of grief, which are in opposition with each other. Indeed, the Panel follows a particular archetypical definition of death (almost always masculine, and precisely embodied by Christ’s figure) and of suffering (usually feminine and epitomised by the Mother or by the Maenad). This central idea can be also perfectly linked to the Latin-Greek art, especially to the Laocoon iconography (collected by Warburg in Panel 41 of Mnemosyne) and to the drama tradition in Ancient Greece.
keywords | Mnemosyne Atlas; Panel 42; Warburg; Theatre of Death.
Per citare questo articolo /To cite this article: Seminario Mnemosyne, Il teatro della morte. Saggio interpretativo di Mnemosyne Atlas, Tavola 42, “La Rivista di Engramma” n. 2, ottobre 2000, pp. 33-37 | PDF