"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

144 | aprile 2017

9788894840193

Contro la malinconia

Dal volume: Venezia vive. Dal presente al futuro e viceversa, Bologna 2017

Angela Vettese

English abstract

Questa città migliora l’aspetto del tempo, abbellisce il futuro
Iosif Brodskij

Se Venezia scomparisse, che male ne verrebbe? Molte città sono diventate dei fossili archeologici e questo è il suo destino, se l’innalzamento dei mari si rivelerà impossibile da combattere. Tuttavia, ci lega a lei un carattere simbolico fortissimo che ci impedisce di lasciarla andare, i cui volti sono multipli e, direi, radicati nell’inconscio collettivo. Altrimenti non si comprenderebbe come la si sia voluta evocare in molti luoghi del mondo, utilizzando la sua architettura come una seduzione che aiuta il turismo o il commercio.

Nel film Chain City (2008) di Elizabeth Diller, Ricardo Scofidio e Charles Renfro, l’obiettivo della cinepresa, posto su di una gondola, guarda dall’acqua Venezia e molti dei suoi cloni nel mondo. L’obiettivo cambia di continente ma resta fisso sul medesimo immaginario: siamo a Las Vegas, Nagoya, Tokyo, Macao, Doha e ritorniamo a Venezia in un loop dove tutto è omogeneo ma non proprio, con variazioni di colore, materiali, proporzioni, funzioni.

Non si può dire che le altre Venezie siano finte, dato che sono solide e abitate, ma si perde la nozione del vero, del luogo, del perché. Sono tutte apparentate dall’idea di mostrarci una meraviglia che vale tanto da volerla ricostruire ovunque. Ma la ripetizione kitsch è un omaggio che si rende soltanto ai miti che sedimentano sentimenti forti. Se sono pullulate delle Venezie gemelle, dunque, si può pensare che la Venezia reale sia percepita come un coacervo irrinunciabile di valori umani: saper creare stupore, superare sfide con la natura, adattarvisi interpretandola, trasformare un luogo con il doppio passo della violenza e del rispetto, combattere, costruire, inventare un codice fatto di cose, parole e usanze che è compatto ma al contempo malleabile. Questa è forse una prima chiave d’accesso allo sguardo sulla città.

Una seconda chiave è l’immensa letteratura che l’ha descritta o inventata o utilizzata come sfondo. Il mondo dell’editoria ha capito che i viaggiatori si dividono in due categorie. Da una parte quelli a cui non interessa dove sono e si annoiano nell’ascoltare l’accompagnatore, spesso attraverso auricolari che danno a tutti un’aria spersa, mentre cercano di trovare un buon posto in quella gerarchia di branco che si crea durante i viaggi organizzati. Dall’altra parte coloro che non vogliono sapere quello che sanno tutti e cercano informazioni differenti rispetto a una Guida Rossa del Touring. Che peraltro nella sua severità è sempre splendida, anche se molte informazioni andrebbero riviste alla luce dei nuovi studi sia sociali sia storico-artistici: redigere un Baedeker è un’arte complessa, che parte dalla conoscenza dei diari di viaggio e dei racconti nati dai Grand Tour degli intellettuali, quando i rampolli delle grandi famiglie e scrittori come Goethe, Stendhal, Byron se li potevano permettere.

Ma soprattutto a Venezia, che è stata studiata e ristudiata più volte, non puoi fidarti di tutte le informazioni che ti vengono date: molte vanno aggiornate secondo nuove prospettive che vengono, soprattutto, dallo sviluppo della storia materiale – per intenderci, quella di Jacques Le Goff e Georges Duby – dalle scoperte fatte restaurando l’architettura, aprendo le calli per installare la banda larga, pulendo i canali e trovandovi evidenze di un passato diverso da quello che si credeva. Solo gli studi sul cinquecentenario del Ghetto, per esempio, hanno condotto ad alcune certezze sulla sua nascita e sulle sue dinamiche (Calabi 2016).

Capire come e cosa guardare in qualsiasi luogo, del resto, è un problema che ha invaso la storia in generale e quella di Venezia in particolare, con la sua arte, la cartografia, le prime camere oscure – tra cui quella posta in piazza San Marco già a metà Cinquecento – il cinema, la fotografia. Quali occhi devi usare per vederla? Osa un poco, disponendo le immagini mentali in una scala antigerarchica e capace di accostare senza scandalo generi assai diversi. I topoi ricorrenti, tanto, tendono a trapassare dalla poesia al cinema e alla pubblicità e il punto, a volte, non è cercare l’informazione originale, ma al contrario un’interpretazione rilevante dell’immaginario banale: è il problema che accomuna Canaletto, Guardi, Bellotto a ciò che non è ancora nei musei o non ci andrà mai.

Non c’è da scandalizzarsi, data la popolarità di Venezia, del ponte che essa crea tra la cultura alta e bassa. In un film d’intrattenimento, Jerry Calà vi transita con la bambina di cui è innamorato trasformando un labirinto decadente in un teatro sereno, così come, nella vicenda, una relazione fuori dal seminato diventa un affetto puro; il fotografo emiliano Luigi Ghirri ne ha riproposto particolari laterali, smentendo con il realismo del quotidiano ogni retorica tesa al meraviglioso; l’architetto Daniel Libeskind ne ha fatto disegni frammentari riuniti in serie, come a testimoniare il senso tutto veneziano per una decorazione che va dal particolare umile su di un muro all’ambizione delle grandi cupole.

L’andirivieni di esempi che si dipanano nel tempo ci porta indietro al console britannico Joseph Smith, che nel 1735 realizzò un nastro di dodici vedute del Canal Grande (Bertozzi 2016), fino alle fotografie delle dive che sceglievano la città malinconica, seducente, misteriosa per sovrapporvi e costruirvi la propria immagine.

Ma ancora, per capire come sono stati visti, interpretati e ripetuti certi scorci, tra luce e buio, ricchezza e povertà, dovresti scandagliare i dagherrotipi della collezione Costantini (1941) e andare su fino alla Venezia libertaria, continuazione di quella libertina, descritta da Silvio Soldini in Pane e tulipani (2000): nel film si preferisce la zona carrabile di Santa Marta al centro pedonale, utilizzando quel quartiere periferico, novecentesco, legato al mare concepito come industria, in quanto simbolo di tolleranza e possibili nuove forme di convivenza. In effetti, il luogo rappresenta un bordo ibrido tra vecchie e nuove forme di solidarietà, nato per le esigenze degli operai e cresciuto tra occupazioni di studenti e proteste di portuali o pescatori di caparossoli, quelle vongole troppo piccole per essere considerate tali dalla legislazione europea.

Seguendo il corso dell’immagine tecnologica arriviamo ai post infiniti che popolano Facebook e altri social, più o meno tutti debitori di modelli che non conoscono, affrancati dall’effetto cartolina grazie al nuovo supporto digitale, ma a quello simili come impostazione. Solo la presenza frequente dello sfuocato e del decentrato parla di una tecnologia più rapida da usare rispetto alla buona fotografia e al vero cinema, della quale si ha quindi meno rispetto. Dietro, però, c’è sempre il vedutismo, quello che ebbe un tale successo in terra inglese da farci rimanere Canaletto e da costituire una base anche per la pittura di Turner.

Nemmeno per i dilettanti di oggi, infatti, anzi tantomeno per loro, è facile guardare Venezia senza cadere nella retorica, con gli occhi di chi non cerca il già visto come consolazione. Tendiamo a fotografare e a ricordare Venezia come prova di ciò che ci aspettiamo da lei, perché ci è stato suggerito da mille sguardi preesistenti e autorevoli, anche se usiamo Instagram. Ma guai a non dare risposte anche prevedibili: come accade nell’interpretazione delle tavole del test di Rorschach, chi offre solo risposte fuori dalla norma desta sospetto, perché dimostra di non capire la norma.

Tuttavia, se vedere significa riconfigurare il campo percettivo, e soprattutto quello cognitivo destrutturando consuetudini sedimentate, capisci che Venezia non è quella del Carnevale, che tra l’altro evoca un Settecento decadente con fantasie pornografiche. Non è un mistero che il mercato delle maschere veneziane si sia impennato dopo la loro apparizione nelle orge di Eyes Wide Shut (1999), il film di Stanley Kubrick tratto dal racconto Doppio Sogno (1926) di Arthur Schnitzler.

Pensa, per esempio, alle due guerre mondiali. Tra i tanti modi di vedere Venezia c’è quello delle fotografie delle protezioni e degli esiti dei bombardamenti. La Grande guerra vide centinaia di ordigni lanciati a più riprese dal cielo e i luoghi colpiti si trovano nella mappa delle "Bombe lanciate su Venezia da aeroplani nemici durante gli anni 1915-1918". Un’altra mappa, con la legenda volutamente cancellata, forse indicava dove stavano le cariche inesplose. Le distruzioni sono testimoniate da fotografie in cui si vedono case senza più tetto, ammassi di pietre secolari scompaginate (Franzini 2014).

Durante la Seconda guerra mondiale si è punteggiata la città di rifugi. Un video di Caterina Erica Shanta, in cui una voce narrante anziana racconta le difficoltà di allora, ci mostra una successione di fotografie d’archivio in cui ne compaiono alcuni, per esempio quello di fronte al Teatro La Fenice: una specie di missile di cemento armato che restò in piedi fino agli anni Cinquanta. Con una scelta che ricorda il modo in cui Mario Merz ha concepito lo spazio abitabile dal corpo umano, i rifugi per le cose erano quadrangolari e quelli per le persone curvilinei. Un anziano potrebbe dire che la Venezia vera, quella che si dovrebbe rappresentare, fu quella delle macerie o quella piena di ricoveri.

Un altro modo inconsueto per vedere passa attraverso i video di una produzione musicale locale, che non ha molto da invidiare al neomelodico partenopeo. Concettualmente però ne è l’opposto: invece di ribadire certi stereotipi, li ribalta. Niente romanticismo, molto realismo, alta dose di ironia, commistione tra ritmi ska, reggae, hip hop, rap; poiché i testi delle canzoni sono in veneziano o in veneto, gruppi anche interessanti come Los Massadores girano solo per le sagre locali. Furio degli Ska-j lo si riconosce dal cocòn di capelli brizzolati e lo si incontra spesso nei bar vicino al Cotonificio; benché nel clip So figo vada in barca a motore, percorre tutti i luoghi comuni del gondoliere presuntuoso, galante ed elegante anche se rasta.

Le visioni che vengono dai musicisti locali sono anche più feroci di quelle dei cantanti più noti. Una giovane Madonna ancora in carne scelse Venezia per ambientarvi il video di Like a Virgin (1984) con la doppia visione esterno-nero-ribellione-decadenza opposta a interno-bianco-tradizione-rinascita; nel 1990 Ligabue ha utilizzato la città come simbolo di libertà, facendovi volare delle gondole nel clip Piccola stella senza cielo.

Non puoi chiedere alla produzione leggera la stessa profondità delle sei storie veneziane che trovi in Sei Venezia, il film girato da Carlo Mazzacurati nel 2010, ma è vero che occorreva rinnovare il repertorio ed è bello che una città sappia prendersi in giro. Lo ha fatto Giorgio Camuffo nella rivista, prodotta quando aveva lo studio in un biscottificio piastrellato, "Venice is not sinking": tra testi e illustrazioni scopriamo che Venezia non sta affondando. Nel suo lavoro di docente ha inventato persino sistemi di segnaletica fatti apposta per perdersi (cfr. Camuffo 2004): la maglietta con lo slogan "I’m lost, It’s ok" è un manifesto che passa dal banale al geniale e dalla riflessione sulla città alle direzioni s/consigliate nell’esistenza.

Una Venezia vista come avventura ha ispirato Hugo Pratt, che viveva a Malamocco guardando un orizzonte larghissimo e ammetteva che in ogni sua storia c’è una traccia del suo essere esotica, alchemica, onirica, musa anche quando non compare direttamente. Il suo eroe, Corto Maltese, è elegante anche nei posti più sperduti del mondo, un po’ germanico nei tratti, come del resto molti suoi conterranei per la prima origine dei veneti, ma anche per il succedersi di un asse Germania- Austria-Venezia che non è mai terminato; difende le culture marginali perché ha imparato a riconoscerle nel cosmopolitismo tollerante della laguna. Nelle sue storie Venezia non è una trappola in cui morire, ma un mondo da cui involarsi. In una citazione famosa, Pratt racconta:

"Ci sono tre luoghi magici e nascosti. Uno in Calle dell’Amore degli Amici; un secondo vicino al ponte delle Meravege; il terzo in Calle dei Marrani nei pressi di San Geremia in Ghetto vecchio. Quando i veneziani sono stanchi delle autorità costituite vanno in questi tre luoghi segreti e, aprendo le porte che stanno in fondo di quelle corti, se ne vanno per sempre in posti bellissimi e in altre storie" (Distefano, Pietragnoli 1999, 73).

Se dimentichi la necrofilia, dunque, puoi guardare Venezia in modo felicemente obliquo e puoi riprenderti una certa dose di incanto, come del resto suggeriscono anche gli economisti della cultura (Sacco 2016). Il suo mostrarsi è plurale, passa dalla miseria alla nobiltà e viceversa, sa di peste e di spezie, di repressione e tortura, ma anche di libertinismo, di glorie militari commiste a una vocazione al denaro che l’ha resa poliglotta, multirazziale, cattolicissima ma aperta a scambi con ortodossi, protestanti, ebrei, mussulmani, indù, mistici di ogni sorta e confuciani, andando a est per la Via della Seta e a nord verso l’altro mare.

La maggior parte delle persone che visitano Venezia, però, la vede e la memorizza ancora come se fosse dentro ai quadri, alle foto, ai film che ne hanno costruito l’immagine corrente. Cambiarla è un’impresa titanica e forse persino offensiva, perché è diventata un topos dell’emotività e quindi un punto di riferimento. Farne a meno è come rinunciare alla rappresentazione ipostatizzante di un santo, diciamo san Giovanni Battista con il cartiglio e la barba incolta, che ritroviamo nella pala d’altare così come nel santino da tasca. è un prodotto della storia della cultura e forse una scorciatoia per parlare di un certo umore. Tanto vale tenersela, purché non la si confonda con la realtà.

Il problema è che non solo il turismo peggiore, rabdomante di luoghi comuni, ma anche molta intellighenzia appoggiano un malinteso senso di conservazione canonica e non di ripensamento. Così, mentre tutto cambia, per la maggioranza dei custodi del tempio tutto dovrebbe restare com’è. Pur di non correre rischi, per esempio, nel 2014 la Soprintendenza ai beni architettonici ha evitato di approvare un progetto di informazioni con QR Code e nuove tecnologie. Tutto ciò che l’ufficio comunale deputato al turismo è riuscito a fare, nel 2015, con zelo ma senza alcun riconoscimento, è stato togliere almeno i cartelli che indicavano itinerari obsoleti.

L’assurdo è che si ritiene intoccabile anche ciò che non appartiene affatto alla tradizione. Nonostante questo la città è piena di segni nuovi come cartelli fatti a mano dai negozianti o cestini per la spazzatura che ospitano poster pubblicitari. Eccetera: esercitati a guardare i muri senza scandalizzarti per qualche graffito. La maggior parte sono vandalismi comuni, ma non tutti.

A testimonianza della vitalità del luogo c’è un itinerario di sticker messi da writer che fanno parte di un circuito nazionale e internazionale. Il vecchio non si smantella e il nuovo avanza, e spesso senza controllo. Lo si toglie dal paesaggio mentale, ma inevitabilmente compare.

Venezia è diversa da se stessa. Cambia continuamente registro: passa dalla prosa degli odori alla poesia dei panni stesi tra due palazzi, sempre ordinati per colore e dimensione, dall’alto di un barocco che s’impenna al basso delle verande di alluminio anodizzato. Il suo codice non comprende la stabilità e tantomeno la coerenza, perché nascosta tra le pieghe della sua cifra c’è la necessità di una manutenzione continua. Questo la porta a essere affastellata, sempre montata e smontata, cresciuta su se stessa a volte secondo linee urbanistiche dettate dall’alto, a volte secondo urgenze puntiformi, plurali, individuali, di buon senso comune.

Venezia è dunque un problema da ribaltare, guardandola nel presente e lasciandoci cadere nel passato quando cerchiamo i suoi perché, ma immaginandone al contempo i futuri possibili. La prospettiva che ci chiede di adottare non è quella che appare dalla rotta automatica Rialto – San Marco – Accademia, ma quella di chi è disposto a condividerne le attività reali, a infilarsi verso il canale che fronteggia le carceri, a guardare certi palazzi di otto piani al Ghetto, a cercare i pescherecci che sostano dietro alla Giudecca.

Si dice che a Venezia non si possa camminare per il caos, eppure c’è sempre un posto, persino in centro, persino in primavera e non solo nella dolcezza di novembre, dove si sta dentro al vuoto e si sente il rumore dei propri passi. Non è vero che i turisti sono sempre troppi, sono solo addensati in un parco tematico. Se vuoi li eviti.

La città sta morendo già da secoli, ma proprio per la sua necessità di stare a galla in maniera ingegnosa, fantasiosa, sperimentale è stata e resta una delle più vitali d’Italia, con ambiti produttivi da rileggere che vanno dal rapporto con il mare alle arti contemporanee, dalle manifatture a tutto quanto è nuova tecnologia.

Resta capace di attirare investitori che vi restaurano Punta della Dogana, il ponte di Rialto, l’Accademia o il Fondaco dei Tedeschi, contestualmente a un brulichio testimoniato dal gonfiarsi dei suoi atenei, dal progressivo riuso dell’Arsenale, dalle decine di associazioni culturali ufficiali o meno, dalle industrie creative che vi trovano un incubatore anche se, per motivi di spazio e di costi, non il luogo del loro sviluppo. Nelle zone meno care della città trovi un dedalo di studi di artisti e di grafici, gallerie e centri culturali, alcuni ricchi e arredati come loft di Manhattan, altri resi abitabili solo con "una man de bianco".

Luoghi come le Fondamente Nove a nord, il retro della Giudecca a sud, la Stazione Marittima a ovest guardano una laguna larga come il mare, che ti offre un giardino di ciminiere o un rimbalzare di isole, come fossero sassi tirati dentro a uno stagno e rimasti là a galleggiare, ciascuna con il suo destino: un cimitero, un manicomio trasformato in albergo, un altro che è diventato centro polivalente, un altro ancora dove si studia archeologia.

La mescolanza continua tra il vecchio e il nuovo, che fa eco a quella tra l’acqua e la terra, è il sale di ciò che vedi. Devi però avere l’apertura di chi non cerca il già visto come consolazione. Dimenticati anche di un’economia della cultura che guarda soprattutto all’heritage, cioè alla conservazione testarda di un’identità. Il problema non è tenere il passato, ma cercare il futuro.

Instabile, fluida ma coerente, che identità dovrebbe preservare, del resto? Quella dei primi insediamenti, del Medioevo rampante, del Cinquecento che vide Venezia veramente regina, del Settecento disperato e gaudente? Quella del Canal Grande o dei campielli, dei nobili o del popolo, dell’Ottocento risorgimentale o di un Novecento industriale? Se Venezia ha una caratteristica che l’ha resa bella nei secoli scorsi, è stata la perdurante capacità di accettare il presente: malgrado alcuni abitanti siano vittima della rigidezza isolana, altri sentono il porto, i traffici, il lontano, l’andirivieni di culture che si riverberano in un abito mentale polimorfo. Per questi, l’acqua non è un confine ma una porta.

Venezia non è abitata solo da orde di turisti e da spettri come vogliono l’opinione comune e alcuni intellettuali (Agamben 2011). Chi abita nella città metropolitana inocula dentro alla Venezia insulare, in cui spesso lavora di giorno, tutti i modi di essere della regione e del paese, che si tratti di veneziani scappati o di veneti che arrivano da paesi dove gli alloggi costano meno; degli immigrati che hanno iniziato a spigolare i resti dell’economia turistica e che, piano piano, soprattutto se asiatici, si stanno rivelando imprenditori.

Forse, come ha affermato Massimo Cacciari, Venezia è un luogo della mente (Cacciari 2009). Ma se è popolata da desideri e pensieri, come è proprio di ogni realtà urbana che abbia una lunga storia dietro di sé, non è vuota di corpi. In nessun altro luogo il calcolo dei residenti è fallace rispetto a chi veramente vi si muove. Basti pensare che la maggior parte dei bambini veneziani nasce a Mestre, per una politica ospedaliera che ha smantellato la tradizione veneziana di una sapiente tutela sanitaria. Eccessiva e peculiare un po’ in tutto, del resto, Venezia è una sineddoche di quello che è stata la grande Europa; il centro urbano che mette in evidenza tutti i maggiori problemi delle città millenarie che hanno dovuto reggere accelerazioni impreviste. Con lucidità e preveggenza lo storico dell’architettura Manfredo Tafuri la definì "il problema dell’Europa" (Marini, Bertagna 2014, 27).

* È da poche settimana in libreria il volume di Angela Vettese, Venezia vive. Dal presente al futuro e viceversa, pubblicato per i tipi del Mulino. Per gentile concessione dell’Autrice e dell’Editore, pubblichiamo qui una parte del capitolo primo: Vedere Venezia. Come guardarla?

Riferimenti bibliografici
  • Agamben 2011
    G. Agamben, Dell’utilità e degli inconvenienti del vivere fra spettri, Venezia 2011.
  • Bertozzi 2016
    M. Bertozzi, Dalla camera oscura al web. Dispositivi del vedere e culture iconiche veneziane, in Lost in Venice. Disguidi veneziani, catalogo della mostra, a cura di M. Bertozzi, A. Vettese, Venezia 2016, 25-39.
  • Cacciari 2009
    M. Cacciari, Metropoli della mente, in M. Biraghi, G. Damiani (a cura di), Le parole dell’architettura, Torino 2009, 446-453.
  • Calabi 2016
    D. Calabi, Venezia e il Ghetto, Torino 2016.
  • Distefano, Pietragnoli 1999
    G. Distefano, L. Pietragnoli (a cura di), Profili di Veneziani del Novecento, Venezia 1999.
  • Franzini 2014
    C. Franzini, Venezia si difende, 1915-18, Venezia 2014.
  • Marini, Bertagna 2014
    S. Marini, A. Bertagna, Venice. A Document, Venezia 2014.
  • Marzo 2004
    VivereVenezia3. In the Labyrinth. Orientamento urbano e segnaletica a Venezia, catalogo della mostra a cura di M. Marzo, Venezia 2004.
  • Sacco 2016
    P. Sacco, Re-incanto, “guerra di posizione”, educazione al futuro: la progettualità culturale in italia, oggi, "Il Giornale delle Fondazioni" (16.9.2016).

English abstract

An extract from the book Venezia Vive. Dal presente al futuro e viceversa, written by Angela Vettese and published by Il Mulino.
 

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Per citare questo articolo / To cite this article: A. Vettese, Contro la malinconia. Dal volume: Venezia vive. Dal presente al futuro e viceversa, Bologna 2017, “La Rivista di Engramma” n. 144, aprile 2017, pp. 96-105 | PDF 

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2017.144.0005