"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

159 | ottobre 2018

9788894840544

“L’anima mia è pietra fra le pietre”

Topografia estetica di Dimitris Pikionis

Monica Centanni

English abstract
Frammenti di pietra come proiettili

Scrive Dimitris Pikionis:

“Quando Odysseas Androutsos stava assediando i Turchi che occupavano l’Acropoli [il riferimento è alla Guerra di Indipendenza del 1825], all’improvviso si udirono rumori di pezzi di marmo che venivano spezzati: i Turchi erano a corto di piombo e rompevano i marmi per procurarselo dai chiodi delle giunture. Androutsos mandò quattro giovani coraggiosi a informarsi della ragione per cui i Turchi spaccassero i marmi. E quando tornarono e riferirono al comandante il motivo, lui stesso mandò ai Turchi alcuni sacchi di proiettili” (DP, 344).

La storia leggendaria del glorioso Androutsos che, piuttosto che sopportare l’oltraggio alle pietre dell’Acropoli, preferisce fornire proiettili al nemico, è una buona traccia per capire l’inclinazione dell’educazione sentimentale di Dimitris Pikionis: la cifra è la pietas per le pietre antiche, viste come materiale di costruzione che la storia ha consegnato alla nostra cura.

Parigi, inizi del 1912: nelle sue Note autobiografiche Pikionis ci consegna una preziosa testimonianza della metanoia che lo porta ad abbandonare la sua prima vocazione. Il racconto di Pikionis sulla sua formazione è il racconto di una perdita e di una conversione. Vocato alla pittura, dopo aver convinto la famiglia a finanziargli gli studi ed essere stato a scuola di pittura a Monaco e poi a cercar fortuna a Parigi, a un certo momento Pikionis capisce che non è quella la strada che può dargli da vivere e abbandona la sua vocazione, convertendosi all’architettura: ci racconta – racconta a se stesso nel suo scritto autobiografico – di essere “diventato architetto” per necessità, per calcolo.

Come il tempo passava, iniziavo ad essere inquieto. La via che avevo intrapreso, lo sapevo, era lunga, più lunga delle mie scarse possibilità economiche. Le scadenze che avrei dovuto affrontare al mio ritorno erano molto pesanti... Costretto da questa ineluttabile necessità, presi la dura decisione di dedicarmi per il resto della mia vita allo studio dell’architettura. Comprai i libri necessari e un giorno presi la strada che portava a uno studio di architettura. Non mi vergogno a raccontare tutto questo, che dimostra come nella mia natura l’architettura non era il vero centro delle mie inclinazioni (NA, 32).

È in questo momento, di crisi esistenziale al bivio tra pittura e architettura, in cui Pikionis è in procinto di tornare ad Atene rinunciando alla sua prima vocazione, che incontra, del tutto accidentalmente, un vecchio amico – Giorgio De Chirico:

Si avvicinava il tempo del ritorno (inizio del 1912) e l’ultimo mese del mio soggiorno a Parigi capitò un fatto che ebbe per me una grande importanza [...]. Viaggiavo in autobus da Place de la Concorde al mio albergo, nel Quartiere Latino – era il mese precedente al mio ritorno in Grecia – quando una persona salì e si sedette proprio di fronte a me: era Giorgio De Chirico. Ci salutammo calorosamente e subito lui cominciò a parlarmi dell’importanza che dava a incontri di questo tipo: un’importanza di senso metafisico, identica a quella che gli antichi davano ai presagi (NA, 32).

De Chirico e Pikionis erano stati quasi compagni di scuola nel 1904, quando Pikionis frequentava il Politecnico di Atene e De Chirico la “Scuola di Belle Arti”, all’altro capo della strada. All’epoca Pikionis aveva diciassette anni, De Chirico sedici e di quel periodo Pikionis ricorda che erano stretti da un forte legame: “passavamo insieme lunghe ore sotto i portici del Politecnico parlando di pittura e dei nostri progetti futuri” (NA, 31); anche De Chirico, in una pagina autobiografica, ricorda Pikionis come “una delle persone più intelligenti e sapienti che avesse mai conosciuto”. Reincontrandosi del tutto casualmente Parigi i due giovani riprendono il filo delle loro conversazioni da ragazzi: Giorgio racconta a Dimitris della sua scoperta di Nietzsche e della pittura di Böcklin e della consonanza tra quelle ‘scoperte’ e la lettura dei frammenti di Eraclito, invita l’amico a casa sua e gli mostra il suo Autoritratto con il motto Quid Amabo Nisi Quod Aenigma Est. Sotto il segno di Hermes, il dio che aveva propiziato il loro incontro, anche la pittura di De Chirico si muove tutta nella dimensione dell’enigma:

Anche nelle altre opere, la linea sottile che separa la luce dall’ombra, sul terreno inumidito dalla pioggia, costituiva il limite del mistero. Su un edificio un orologio indicava l’ora; sempre, comunque quel cielo limpido d’autunno. In un’altra opera la vela di una nave che si intravede, indica il segreto della partenza e dell’esilio. Enigmi profondi delle partenze e dei ritorni, velati dalla pesante ombra del destino che su di essi incombe... Enigmi gli archi di quei portici... enigma la statua di Ariadne su cui cade la luce dell’autunno... (NA, 33).

Nota Pikionis che la “teoria di De Chirico” getta sull’esistenza una luce “metafisica”, ed è questa la prima attestazione dell’aggettivo, destinato ad avere tanta fortuna nella storia dell’arte del Novecento: ma (come ho già avuto modo di segnalare, cfr. Centanni 2001; v. anche De Chirico [1912] 1994; Apollinaire [1913] 1981) il termine è pronunciato per la prima volta in una conversazione che avviene in greco, tra greci lontani dalla loro patria, e di questo fatto bisognerà tenere conto per comprendere la naturalezza e insieme la stratificata profondità di quella definizione.

L’incontro “profetico” con l’amico pittore convince definitivamente Pikionis a misurare i limiti della sua vocazione pittorica, che resterà comunque sempre segnata dalla lezione “metafisica” dechirichiana (sulla relazione Pikionis/De Chirico, v. Santoro 2010, Santoro 2011).

Dimitris Pikionis, Arianna; Guerriero sotto l'Acropoli; disegni a china. Benaki Museum, Athenai.

La realtà della sua propria pittura, alla luce dell’opera, poetica e artistica, dell’amico, pare a Pikionis “insignificante e volgare”. E alla fine “scoccò anche per noi l’ora enigmatica della separazione. Il giorno dopo partii per la Grecia” (NA, 33).

Topografia estetica: imparare la geo-grafia

In Occidente, ci racconta Pikionis, si impara a contare, ma anche a fare i conti con la vita. La nascita dell’architetto è dunque, nell’auto-narrazione, l’esito di una rinuncia: il calcolo materiale, la necessità di procacciarsi un mestiere, decide la via dell’architettura. E tale decisione avviene nella dimensione del nostos, nel tempo della lontananza dalla Grecia.

Abbandono, calcolo, lontananza: la trama di parole su cui Pikionis costruisce il racconto della sua vita indica puntualmente la cifra estetica della sua poetica. Le coordinate entro cui si muoverà il fare di Pikionis resteranno per sempre queste: perdita e ritorno, distanze da recuperare e vuoti da colmare.

Proprio in quanto iniziato all’estetica della distanza, il nostos, il tempo della distanza e poi del ritorno, inaugura un nuovo sguardo. E la prima cosa su cui si posa tale sguardo, la prima luce che Pikionis incontra al suo sbarco è il riflesso luminoso di una lastra di marmo: un bianco particolare che è un lampo di luce fredda nel fango.

Quando la nave arrivò a Patrasso, i miei occhi furono colpiti dal biancore freddo e fulgido di un marmo che giaceva sul suolo fangoso, e subito mi dissi: “Devo riconsiderare tutto quanto ho imparato”: tanto forte era il contrasto tra il freddo e il bianco di quel marmo e ciò che gli stava intorno. Un giorno al Pireo, tornando alla casa paterna, mi accorsi che il sole bruciava la mia pelle, ma andando all’ombra, rabbrividii per il freddo. Capii, per analogia, che questi contrasti climatici violenti, che affrontiamo da secoli, potrebbero essere le cause dei contrasti di temperamento che si trovano nella nostra razza (NA, 33).

Per il giovane neo-architetto il ritorno in Grecia comporta uno sforzo fisico, una fatica di riambientamento: l’occhio si deve riabituare alla potenza abbacinante della luce greca, la pelle al calore del sole troppo nitido, come pure al freddo dell’ombra, che in Grecia arriva ad essere più fredda di quanto non sia nel cuore freddo dell’Europa. Ma l’architetto, da tali contrasti fisici – crudi sbalzi di temperatura e insieme chiaroscuri cromatici – “impara” il greco. E impara soprattutto la luce greca che prima, ottuso per troppa familiarità, non sapeva vedere: luce netta e fredda, che definisce i contorni di forme assolute.

L’attrazione per l’architettura scaturisce anche, primariamente, da un’istanza estetica, dall’“osservazione dello spazio e della composizione plastica, il cui limite ideale è il compimento di un ritmo-simbolo”; inizialmente Pikionis sente di tradire se stesso perché avverte una distanza dallo “studio compositivo e teorico degli edifici, la scienza dei materiali e delle costruzioni e la pratica che deve acquistare un architetto”. Ma scegliere la via dell’architettura consiste piuttosto con il mettersi sulle orme di una “periegesi estetica” in quanto il giovane Dimitris è consapevole che il suo amore per le pietre nasce da una consonanza profonda – la sensazione che la sua anima è “pietra fra le pietre”:

A volte percepivo che nelle fondamenta che penetravano in profondità nella terra, nei volumi delle mura e delle volte, la mia anima era una pietra fra le tante, murata nella massa anonima delle altre pietre (NA, 32).

La Grecia, in pietre e in parole, è un grande testo che va ristudiato e poi riscritto. La prima fonte testuale è il repertorio geografico: la natura greca, la sua terra, la qualità della sua luce. Imparare la terra significa sentirla fisicamente, sotto i piedi, come un bassorilievo stratificato, composto di materiali e di segni lasciati dal tempo, di rughe che disegnano il tracciato della memoria. La conoscenza dei materiali del passato passa per una vera esperienza estetica, soggettivamente percepita, che Pikionis avverte perché iscritta nel suo proprio codice genetico. La prima scuola di formazione per “imparare la Grecia” è per Pikionis bambino camminare sul suolo greco, portato a mano dalla nonna:

Laggiù, tra le rocce del Phreattys dove ogni giorno mia nonna portava mia sorella e me, tra queste aspre rocce dove la brezza dolce fa ondeggiare gli steli dell’erba che spunta tra le crepe delle rocce; su questo suolo divino, cosparso di cocci di vasi, fra pozzi spalancati che mi parlavano degli antichi abitatori di questa terra, formavo la coscienza della mia terra, plasmavo la consapevolezza della sua storia... Ancora durante i miei studi ginnasiali, facevo spesso passeggiate per esplorare il paesaggio attico. Da Moscato, attraversando l’uliveto, arrivavo alle rocce del Philopappos e all’Acropoli, oppure, seguendo le rive del Cefiso, arrivavo alla Via Sacra. E camminare in mezzo ad un uliveto sacro. E poi queste pendici di Atene, le pendici e le rupi. E le grotte nei dirupi intorno alla rupe di Pallade, e il suo tempio nobilissimo (NA, 30).

Soltanto posando i piedi sul suolo greco, infilando i passi uno dietro l’altro, si forma “la coscienza della terra, la consapevolezza della storia”: da qui si deve partire per intendere a fondo l’ispirazione e la cifra di quello che sarà l’opus magnum di Pikionis – i sentieri per l’Acropoli. Si “impara il greco” imparando a camminare sulla terra greca, come un bambino consapevole dello spazio, “dell’alternarsi di rottura e composizione che è il camminare”:

Camminando su questa terra, il nostro cuore gioisce della gioia primaria che proviamo da bambini muovendoci nello spazio del creato: la gioia di quell’alternarsi di rottura e ricomposizione dell’equilibrio che è il camminare. Rodin, analizzando il camminare dell’uomo, conclude con ammirazione: ‘L'uomo è un tempio che cammina’ (TE, 329).

Si tratta della gioia di sentire che il corpo insiste con il suo peso, poggia sul suolo come “sulla striscia di un bassorilievo”:

Il nostro spirito si rallegra di trovare infinite combinazioni delle tre dimensioni dello spazio, che variano ad ogni nostro passo e che anche il passaggio di una nuvola in alto nel cielo basta a mutare. Scavalchiamo, accanto a questa roccia, il tronco di un albero, oppure passiamo sotto le frasche frondose. Saliamo, scendiamo, seguendo il profilo del terreno, su per i rialzi, le colline, le montagne, o giù nelle valli. Poi godiamo della larga, piatta distesa della pianura, e misuriamo la consistenza della terra con la fatica del nostro corpo (TE, 329).

Misurare la consistenza della terra con la fatica fisica che il passo ci impone, e si tratta di un “sentiero infinitamente superiore a qualsiasi viale di una metropoli”:

[...] perché in ogni sua piega, in ogni curva, in ogni impercettibile cambiamento di prospettiva che si presenta, ci insegna la divina consistenza del particolare, vincolato dall’armonia del Tutto. Studiamo con cura lo spirito che promana dai luoghi. La natura della materia riporta alla chimica che è governata, come tutte le cose, dal Numero. Qui il suolo è duro, petroso, scosceso e il terreno è secco; lì la terra è piana e sgorgano fonti in mezzo ai muschi. Qui le brezze, l’altitudine e la conformazione del suolo ci annunciano la vicinanza del mare. Là invece fiorisce una vegetazione abbondante, ed è il compimento estremo della plasticità formale del suolo, che sa accordare il suo vestito al ritmo delle stagioni. Qui sono le forze naturali, la geometria della terra, la qualità della luce e dell’aria, ad aver stabilito che in questo luogo fosse la culla della civiltà (TE, 329).

Tracce essenziali, impronte iconiche della grecità, sono dunque la conformazione geologica del suolo greco, le scanalature della colonna dorica, ma anche le pieghe che segnano il volto antico di una contadina, oppure, coralmente, la vitale mobilità di una folla greca, come il popolo in festa al Monastero del Panormita in cui Pikionis vede immediatamente la radice, ritrova il “codice non scritto delle celebrazioni sacre” che si tramanda per vie carsiche dal tiaso dionisiaco alla festa folklorica odierna (IS, 343).

La prassi poetica di Pikionis si alimenterà sempre di questo recupero di elementi primari, materiali e tracce che, come engrammi, restano impresse nei corpi e nelle movenze dei Greci. E l’emozione di chi sa cogliere questa dimensione è come una “scossa mistica – come un rabdomante quando si accorge dell’invisibile presenza di una sorgente sotterranea”.

Prima di tutto si tratta, dunque, di trarre insegnamento dalla natura, dal paesaggio, dai volti e dalle movenze, da tutti i materiali che costituiscono il profilo naturale e antropico del territorio greco. Ma senza l’arte e l’architettura la Grecia della natura non sarebbe altro che un luminosissimo deserto. Lo stadio successivo dell’educazione estetica alla Grecia è la ricerca del numero e delle proporzioni.

Ritmo dorico: imparare la geo-metria

Il secondo testo da consultare per ‘parlar greco’ è la geo-metria, perché il contatto con la natura implica anche, indissolubilmente, il contatto con le pietre lavorate dall’uomo, parte essenziale del paesaggio greco. È dunque, sì, la colonna dorica, con la quale Pikionis intrattiene un dialogo come fosse una persona viva:

È in questa particolare ora della giornata che mi si svela il tuo segreto, o colonna dorica. Ora comprendo. Quando sei tesa, in tutta la tua ‘tensione’, non è solo perché porti a compimento e perfezione le leggi statiche, che prolungano i sensi della natura nella forma dell’arte. Le cavità delle tue scanalature non hanno solo la funzione di spartire isometricamente la luce: esse portano luce nell’ombra e ombra nella luce, cosicché il tuo tono si connette con il tono del cielo sopra di te e con quello di questa roccia su cui ti innalzi (TE, 330).

Portare luce all’ombra e ombra alla luce: è una strategia del movimento, una prosodia mai rigida ma, piuttosto, curvilinea:

La geometria apparentemente rettilinea dell’architettura è in realtà una geometria curvilinea. La determinazione teoretica delle entasi e delle equazioni di tali curve e la loro realizzazione materiale è l’oggetto di una raffinatissima sensibilità artistica (TE, 330).

La colonna è un essere animato, ogni scanalatura è uno sguardo, un varco che dà la possibilità di scartare rispetto all’andatura univoca del tempo:

Davanti a me colonna ti stagli come fossi solamente un essere animato: assetata di connessioni giri intorno al tuo asse e le tue scanalature sono come sguardi che vogliono attirare e trattenere nelle loro cavità – in questa roteazione – ciò che è passato, e sono impazienti di contemplare ciò che sta per arrivare. [...] Ti ho capita in questo modo, quando – era un giorno di primavera – ti ho visto dietro la polvere d’oro che sollevavano le ruote delle vetture, illuminata dai raggi obliqui del sole pomeridiano (TE, 330).

In questa visione la colonna – che rivela appieno la sua essenza tra la polvere dorata alzata dalle automobili – è un oggetto aoristico che fa connessione tra la dimensione del passato e l’urgenza del presente. Ma insieme, pur essendo opera artificiale per eccellenza, è anche, paradossalmente, l’elemento di connessione tra geografia e geometria, tra arte e natura:

Una relazione imperscrutabile connette queste pietre e l’erba amara, quest’ombra verde, le voci che fendono l’aria, il soffio di Noto e gli orli frammentati delle nubi: tutto questo mistero tragico, composto di contrasti discordi, con l’isometria delle tue scanalature... Non è anche la forma tua composta di armonie di inconciliabili contrasti? Il freddo del marmo, il rigore della sezione e delle tue parallele non si sono forse mescolati con il caldo del sole e con l'impareggiabile capacità percettiva di questo spirito? [...] Si accende una luce ogni qual volta il numero istituisce una recondita armonia tra l’istante e la tua forma (TE, 330).

Ritmo e armonia rigorosi, composti su misure matematiche ma purtuttavia liberi, non “teocratici”, tutti umani. Così Pikionis parlando ancora alla ‘sua’ colonna:

È formidabile il rigore l’acutezza e la sensibilità della tua sezione, composta sull’armonia di una formula matematica... Il rigore dello stile greco è di tutt’altra natura rispetto al rigore teocratico che si trova, ad esempio, nello stile egiziano: in quel caso si tratta infatti di una sorta di sottomissione alle loro divinità. Nello stile greco il rigore viene come frutto di uno spirito rigoroso, ma libero e tutto umano (TE, 331).

‘Grecia’ dunque è un modo di dire il raccordo radicale dell’arte con la natura, che salva l’arte dall’assolutezza, che impedisce alle colonne di essere imprigionate nei musei. Ma anche, viceversa, il pensare greco – l’estetica topografica che Pikionis insegna e pratica – apre alla possibilità di leggere l’impronta artistica nello stesso profilo materiale del paesaggio. In questa temperatura luminosa, gli stessi elementi della natura si trasmutano in oggetti d’arte, e viceversa:

I ciottoli del fiume Cladeo mi sembrano teste di eroi e le statue sui frontoni mi sembrano montagne. La chioma di Zeus mi appare come dirupi, e questo monte polimorfico, dove girovagando ricompongo l’armonia dei suoi tracciati, è per me come una statua greca... Questa veste di contadina è segnata da pieghe: le stesse che, così come pendono sulle sue caviglie, disegnano sul terreno le forme delle montagne. E la tessitura del decoro, là, risalta come un fregio. […] Come un colonnato si sviluppa il ritmo della danza: e all’udire la canzone e il flauto, si scuotono le cime dei monti, e le acque iniziano a scorrere... Il ritmo di questa andatura, delle pieghe che cadono liberamente attorno al corpo, il disegno di questa tempia o di quel braccio, l’ondeggiare della chioma, sono descrizioni del paesaggio. Tu, roccia, hai la conformazione della fronte austera di Eschilo. Il tuo stilobate riproduce eco musicali... Lo stesso riccio di mare ricorda un testo antico. L’austero assetto della lingua è come quello delle statue. Degli dei... (TE, 330).

È una sinfonia assordante per quanto è perfetta, una “armonia discorde”, di timbro eracliteo, tra sassi e cocci di vaso, voci di bambini e versi di animali, pozzi come maschere tragiche con la bocca spalancata, pellami dorati di animale e marmi ingialliti:

E cosa raccontano questi sassi ruvidi, candidi alcuni, altri azzurri o rosa, e i cocci di vaso di cui è cosparsa l’erba? Nell’etere rarefatto e sottile riecheggiano misteriose le voci dei bambini che giocano e il canto del gallo. Stanno aperti, spalancati come bocche di maschere tragiche, i pozzi seccati e rendono più intensa la percezione dello spazio. La pelle si rilassa al caldo dei raggi del sole; si contrae all’aria fredda dell’ombra. Dolci giocano le brezze con le canne dell’erba, con i gambi degli asfodeli, nutriti da una linfa verde e amara. Un segreto misterioso lega questo attimo e la sua luce al pelame dorato di una fiera, alle corna curve, alla lana che riveste le pecore che ha il colore del marmo ingiallito dagli anni; oppure è nero come l’ombra di una roccia cupa (TE, 330).

Misura, bellezza, unità armonica tra arte e natura – ma niente sarebbe percepibile se non fosse immerso nella luce greca, vero e proprio materiale da costruzione di questa meraviglia: la luce che “ha plasmato questo mondo, [...] che lo conserva, lo rende fertile e [...] lo rende visibile ai nostri occhi materiali” – artifex lux. È l’“assoluta omoritmia tra luce, aria e geometria” (TE, 331 n. 6).

Monologo con una pietra

La relazione con la natura avviene sul bordo della forma: è l’impatto della luce sul profilo superficiale dell’opera (dell’uomo o della natura) che fa riverberare gli atomi, luce formale che “pare si propaghi, irradiandosi e mescolandosi con la luce intorno” (PF, 334). Proprio per quella vibrazione del contorno che rende percepibile la forma, troviamo Pikionis intento a dialogare con la ‘sua’ colonna; ma, allo stesso modo, anche un ciottolo, un piccolo pezzo di calcare, può diventare soggetto di un’intensa interlocuzione.

Mi chino e prendo una pietra. La carezzo con lo sguardo, la carezzo con la mano. È una pietra calcarea, grigia. Il fuoco ha foggiato la sua forma divina, l’acqua l’ha scolpita, e l’ha arricchita di questa sottile patina di argilla, qua e là bianca, qua e là rossastra di ruggine. La rigiro nelle mie mani, studio l’armonia del suo contorno (TE, 329).

Osservando la pietra, Pikionis vede il segreto della forma nella sua patente materialità:

Gioisco dell’equilibrio delle prominenze e delle cavità, del bilanciamento di luce e d’ombra sulla sua superficie. Gioisco del fatto che in questa pietra si compiono le leggi universali che, come diceva Goethe, ci sarebbero rimaste ignote se il poeta o l’artista non ne avessero avuta rivelazione, grazie alla percezione della bellezza (TE, 329).

Certo, il poeta e l’artista, grazie alla loro ipersensibilità alla bellezza, sono rabdomanti di forme, capaci di tradurle in una lingua comprensibile ai più, al punto che senza le parole della poesia e dell’arte, forse la forma stessa non sarebbe neppure percepibile. Ma su quella – anche sulla più semplice, di un ciottolo di pietra – l’architetto è capace di interrogarsi, ovvero di farsi filosofo. La domanda prima è sul presupposto di un unico algoritmo che impronti le variegate forme della natura e che, insieme, dia ragione della loro particolarità:

In verità io mi domando, pietra di calcare, se dal momento in cui la massa incandescente della terra che calpestiamo balzò giù dall’Astro Solare, girandogli intorno come un anello; dal momento in cui poi essa cominciò a solidificarsi nella nostra sfera di terra, io mi domando se la conformazione che prese la massa terrestre non possa essere stata casuale, e non sia stata l’Armonia del Tutto a deciderne la forma. Quella stessa Armonia che stabilì l’inclinazione del suo asse, la stessa che promise che questo luogo fosse la tua sede, pietra di calcare [...]. Ma la danza dei tuoi atomi, che il Numero governa, plasma le tue particelle secondo la Legge della tua Individualità. Tu operi, dunque, entro questa doppia Legge: la legge dell’Armonia cosmica e quella dell’armonia individuale (TE, 329-330).

Non si tratta di un monologo, ma di un vero e proprio dialogo, di intensità leopardiana, perché il pezzo di pietra non è un minerale inerte, ma, vivo nel suo aspetto pregnante, risponde all’uomo. La replica della pietra alle parole dell’architetto è la sua stessa forma, che corrisponde al precipitato materico di un’essenza. L’uomo risponde con la commozione del contatto, con uno stupore tutto filosofico per la concrezione iconica. In questo senso l’umile ciottolo acquista una “straordinaria importanza” perché nel piccolo frammento di materia si può leggere per sineddoche la geofisica del paesaggio.

I bordi del tuo profilo diventano le pendici di una collina, le vette di un monte, declivi e precipizi abissali, le tue cavità sono grotte, e dalle loro fenditure della roccia rosata scorre silente l’acqua. Nella Parte nascondi il Tutto. E il Tutto è la Parte (TE, 330).

O forse è la pietra stessa, concreta in quella particolare forma grazie alla singolarissima danza dei suoi atomi, a tracciare i diagrammi del paesaggio; oppure, a sua volta, è la risultante delle forze della natura che concorrono a configurare l’unicità della sua figura:

Tu, pietra, tracci i diagrammi di un paesaggio. Sei tu il paesaggio stesso. [...] Perché cos’altro accade se non nel vincolo di quella doppia legge, cui tu, pietra, obbedisci? Non è anche questo, prima di tutto, spiegazione “dell’architettura del tutto?” I rapporti di equilibrio delle tue masse non sono come quelli delle colline, della vegetazione e delle creature viventi? Alla tua conformazione concorrono tutte le forze della natura intorno a te. Quest’aria leggera, questa luce aspra; il colore del cielo, le nuvole lassù, e la cima di quella montagna, i sassi sparsi attorno al suo basamento, i fili d’erba che crescono nelle tue fessure (TE, 330).

Dipende dunque dall’architetto ritrovare, nel ciottolo come nel coccio, nella povera pietra come nel frammento di marmo, “la lingua segreta della forma” che si tradurrà in una “forma specifica che sarà insieme la forma della profonda essenza della tua tradizione ma anche il simbolo del momento storico in cui stai vivendo” (PF, 339).

Sarà quel che Pikionis farà montando, pezzo per pezzo, i suoi sentieri per l’Acropoli. E montando anche, contemporaneamente, i frammenti del suo “diario estetico”:

Voltando lo sguardo a quanto ho raccontato qui della mia vita, vedo che – come Kavafis – anch’io “ho letto le iscrizioni su una pietra antica, con le lettere rovinate” (NA, 35).

Perché quelle “lettere rovinate” non andavano tanto riparate, quanto piuttosto restituite a una nuova intelleggibilità: ed è propriamente questa l’opera smagliante che Pikionis compie nel suo grande palinsesto sull’Acropoli. Perciò può sigillare le pagine della sua autobiografia con un aforisma che ci insegna il coraggio e l’orgoglio della poiesis intellettuale: “Forse un giorno saremo perdonati perché non siamo stati capaci di fare ciò che volevamo; ma non accadrà mai che avvenga perché non abbiamo tentato” (NA, 35).

Note

*Questo saggio si basa sugli scritti di Dimitris Pikionis, tradotti da chi scrive per il volume pubblicato nel 1999 da Electa, a cura di Alberto Ferlenga (Ferlenga 1999). Alcuni spunti, in un diverso inquadramento, sono tratti dal contributo pubblicato in quella stessa monografia (Centanni 1999).

Scritti di Dimitris Pikionis
  • TE
    Συναισθηματικὴ Τοπογραφία [1935], in Δημήτρη Πικιώνη, Κείμενα, Αθήνα 1987, 73-81; trad. it. di M. Centanni, Topografia estetica, in Dimitris Pikionis, a cura di A. Ferlenga, Milano 1999, 329-331.
  • PF
    Τὸ πρόβλημα τῆς μορφῆς [1950], in Δημήτρη Πικιώνη, Κείμενα, Αθήνα 1987, 204-246; trad. it. di M. Centanni, Il problema della forma, in Dimitris Pikionis, a cura di A. Ferlenga, Milano 1999, 332-342.
  • IS
    ῾Η ἐνόραση τοῦ θεατῆ [1953], in Δημήτρη Πικιώνη, Κείμενα, Αθήνα 1987, 117-120; trad. it. di M. Centanni, Intuizione dello spettatore, in Dimitris Pikionis, a cura di A. Ferlenga, Milano 1999, 343-344.
  • DP
    'Ομιλιὰ γιὰ τὸ τοπἰο [1958], in Δημήτρη Πικιώνη, Κείμενα, Αθήνα 1987, 134῎136; trad. it. di M. Centanni: Discorso in difesa del paesaggio, in Dimitris Pikionis, a cura di A. Ferlenga, Milano 1999, 344.
  • NA
    Αὐτοβιογραφικὰ σημειώματα [1958], in Δημήτρη Πικιώνη, Κείμενα, Αθήνα 1987, 23-35; traduzione italiana di M. Centanni: Note autobiografiche, in Dimitris Pikionis, a cura di A. Ferlenga, Milano 1999, 29-35.
Riferimenti bibliografici
English abstract

Through the words taken from Dimitris Pikionis’ writings, a reconstruction of his biography and poetics is proposed. Pikionis' features as an intellectual, an architect, an artist, are sketched on the tracks of an aesthetic topography that has in Greece and in its - natural and artistic - landscape its reference text. "Stone” is a keyword and a recurring image, both in a concrete and metaphorical sense, in Pikionis’ work. “My soul” – he wrote – “is a stone amongst other stones”.

Keywords | Pikionis; Acropolis; Landscape Architecture.

Per citare questo articolo/ To cite this article: Monica Centanni, “L’anima mia è pietra fra le pietre”. Topografia estetica di Dimitris Pikionis, “La Rivista di Engramma” n. 159, ottobre 2018, pp. 23-38 | PDF.

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2018.159.0000