"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

158 | settembre 2018

9788894840537

A distanza ravvicinata. L‘arte di Mario Martone*

presentazione di volume di Bruno Roberti

English abstract

*il contributo è un estratto da Bruno Roberti, A distanza ravvicinata. L'arte di Mario Martone, Pellegrini, Cosenza 2018.

Miracolo sull’isola

Vorrei accompagnare questo estratto dal mio volume con una breve nota scritta alla luce della visione del nuovo film di Martone Capri-Revolution, in uscita il 13 dicembre prossimo distribuito dalla 01. Non è peregrino osservare che quel giorno si festeggia Santa Lucia, singolare figura di santa fanciulla, archetipicamente legata alla luce, al ciclo sparizione-apparizione della luce. La protagonista del film, una umile e istintiva capraia, ha nome appunto Lucia. Tutto nel film sembra assumere un valore simbolico e a un tempo concretissimo, fisico, anzi “elementale”. Attinente a un sentimento della natura ancestrale che racchiude in sé la potenza mitologica degli elementi. Capri è una sorta di isola magica, intrisa di magnetismo, un pezzo di dolomiti scagliato nel mediterraneo. È il coacervo di presenze intense che si sprigionano, tra cielo e acque, tra fuoco vulcanico e concrezione rocciosa della terra, ed è custode “immaginale”, dimora di numinosità dionisiache come apollinee, ma soprattutto di scatenamento “estatico” e ninfico di potenze archetipali legate al femminile, a cominciare da Artemide (che a un certo punto, in una sorta di “tiaso” notturno, viene “evocata” nel film). Lucia siracusana è “survivance” di tali potenze, è epifania luminosa ma anche libera fanciulla che si oppone all’autorità del potere maschile e paterno, e vicina alla sororalità verginea della Diana lunare, abitante dei boschi, signora degli animali. La Lucia del film presiede a questo “miracolo”, a una epifania che letteralmente sul suo corpo nudo, entrando in contatto sottile con la roccia, il mare e il cielo e con il sostrato ancestrale dell’isola, si incarna spingendola a una rivelazione, a un risveglio, anche a una “malattia sacra”, a una trasformazione che è pure “romanzo di formazione”. E anche questo “cammino” terrestre-celeste è simbolico.

Simbolo di una “genealogia” che trasporta l’antico verso il moderno. È appunto una “genealogia del moderno” ciò cui attinge Martone in quella che con questo film si configura come una “quadrilogia” anche sull’identità polimorfica dell’Italia (secondo un procedere “anacronico”, una “risalita” alle fonti e una prefigurazione dell’a-venire, un processo di “reviviscenza” dischiudentesi lungo coordinate che decostruiscono il tempo e fanno riemergere dal passato sotto altre forme e intensità immaginali, come ci ha mostrato Warburg e come Didi-Huberman viene indagando nei suoi studi).

Una serie di film – da L’odore del sangue (che incrocia gli anni 70 con il disagio contemporaneo) attraverso il Risorgimento obliquo e non riconciliato di Noi credevamo, il corpo poetico-eticopolitico di Leopardi in Il giovane favoloso, fino al nesso natura-utopia di Capri-Revolution viene a comporre un polittico “mnemosinico” che fa intercorrere nessi, emergenze, riflessioni ma anche miracoli e apparizioni. La visionarietà e la lucida geometria spazio-temporale si accompagnano in questo modo in tali film, configurando quello che io definisco uno “sguardo in viaggio” nel mio volume. Sguardo che è singolare-plurale e che ripercuote ogni volta il rapporto individuo-comunità. Sguardo che si riversa con nessi sotterranei ma insieme illuminanti nei lavori teatrali di Martone (basti pensare allo splendido Morte di Danton, alla trascrizione drammaturgica delle Operette morali, agli allestimenti lirici di Verdi e Rossini fino all'Andrea Chenier di Giordano per il Teatro alla Scala).

Qui la comunità è al centro di un tale “sprigionamento” genealogico. La Capri del 1913 alla vigilia della prima guerra mondiale, all’ “accendersi” del secolo dell’ “elettricità”, fu (con i paesi della costiera amalfitana e sorrentina, con la Napoli futurista e novecentista…) il crocevia di comunità che fondarono la tensione “rivoluzionaria” del 900: gli esuli russi con Gorki e Lenin, i viaggiatori colti e gli artisti (da Cocteau a Massine, da Picasso a Clavel), le “enclave” degli inglesi, degli svedesi e dei tedeschi, da Ewers a Wilde, da Von Gloeden a Fersen, fino ad Axel Munthe e a un pittore visionario come Karl-Wilhelm Diefenbach, che muore a Capri nel 1913 e dai cui dipinti conservati alla Certosa di Capri trae il primo spunto questo film, e su un cui quadro che ritrae la conformazione quasi in rilievo dell’isola scorrono i titoli di testa. Diefenbach, nudista e pacifista, neopagano e naturista aveva fondato a Vienna una comune prima di trasferirsi a Capri negli ultimi anni, e da questa comune furono gettati i semi di quel gruppo utopista che si trasferì in un’altra terra magnetica, Monte Verità ad Ascona nella Svizzera italiana, e che vide tra i suoi componenti Hermann Hesse, Paul Klee, Otto Gross, Mary Wigman, Isadora Duncan, Karl Kautsky, Hugo Ball, El Lissitzky, D.H. Lawrence, Hans Richter, Hans Harp, Else Lasker-Schüler, Kropotkin, pare anche Trotsky e Lenin (“Il comunismo è il socialismo più l’elettricità”, diceva Lenin). A questo flusso di “energie” fondative è ispirata l’immaginaria comunità che abita una casa diruta su un picco roccioso di Capri, nel film, e che vive e lavora insieme coniugando una evoluzione-rivoluzione dell’umanità che riattinge alle fonti antiche, mitologiche e archetipiche, revulsionandole lungo un crinale e un volo diretto al futuro, un futuro rigenerativo di trasformazione. Lucia, simbolo di luce, che vive portando al pascolo le sue dionisiache capre, con due fratelli e un padre malato e una madre dolce e remissiva, ha come una rivelazione guardando da lontano su un costone di scoglio lambito dalle onde i giovani corpi nudi di uomini e donne; di fronte a quella visione istintivamente si spoglia e si lascia inondare dal sole. È una epifania, un miracolo che avviene attraverso i sensi interiori ed esteriori, tramite il corpo e l’anima, le vibrazioni che la investono.

L’apertura folgorante del film è questa “mirabile visione” che induce una metamorfosi psicosomatica, fa sbocciare in lei la luce gnosticamente custodita nel suo essere. Ed è anche un ricordo di un episodio del film di Roberto Rossellini (cineasta imprescindibile per Martone): L’amore. Quel breve episodio che componeva un dittico interpretato da Anna Magnani (l’altro pezzo era una elaborazione di La voix humaine di Cocteau) si intitolava per l'appunto Il miracolo. Anche lì una capraia, un’anima umile e semplice, una santa folle, incontra un uomo vestito di un saio con una bisaccia a tracolla (esattamente come nel film di Martone), sotto il sole cocente sulle pendici di una montagna che domina la costiera sorrentina. La donna è devota a San Giuseppe e quando lo incontra è certa di aver incontrato il Santo in carne ed ossa, lo abbraccia, si prosterna ai suoi piedi come una Maddalena peccatrice. L’uomo (interpretato da un giovane Federico Fellini, allora aiuto e sceneggiatore di Rossellini) la accoglie, le dà da bere dalla bisaccia, e il vino e il sole, il succo vitale dionisiaco risvegliano il corpo e il sangue: i due si uniscono e la donna è convinta di essere stata impregnata da San Giuseppe. Come la Madonna darà alla luce un nuovo Cristo - lo dice e lo grida ai quattro venti col risultato che la comunità retriva e maligna che abita nel paesino la accusa di blasfemia e follia e la lapida. "Dicono che voi siete il diavolo” è la prima frase che Lucia rivolge al pittore vestito di un saio in Capri-Revolution, e il pittore con un gesto e uno sguardo da santo, ma anche da “demone” della natura, la accoglie, la conduce con sé. È l’inizio di una sorta di “illuminazione”, probabilmente reciproca, e anche di un amore, di una scoperta, di un risveglio. Un “miracolo” appunto che viene plasticamente figurato nel film da una scena in cui il pittore "magnetizza” il corpo di Lucia che si abbandona fra le sue braccia e comincia a levitare supina, e a occhi chiusi si libra nel cielo in un “volo magico”, nel ricordo di un film di Manoel de Oliveira Lo strano caso di Angelica, in cui un giovane fotografo si innamora del fantasma di una fanciulla che ha fotografato sul letto di morte e dallo spettro femminile viene portato in volo (come fa il Mefistofele di Murnau nel suo Faust). Si tratta della trasmissione di una energia sottile che proviene dalla natura profonda e che in quel momento prerivoluzionario sta per essere sprigionata, nel bene e nel male, dalla scienza e dalla politica, l’irrazionale fa cortocircuito con il razionale. Come il pittore esplicita nel confronto con il giovane medico marxista e razionalista in un dialogo dove è contenuta l’allusione a un’opera, e al pensiero artistico intriso di antroposofia e teosofia, di un artista del tardo Novecento come Joseph Beuys, alla cui opera Capri-Batterie si ispira, anacronicamente, il film. “La rivoluzione siamo noi” conclude il pittore con una frase che Beuys apponeva alle sue “azioni” magnetiche e artistiche. Un limone, frutto caprese, cui è conficcata una lampadina che per induzione si accende sprigionando la sua solare luce gialla che squarcia il buio (fu Beuys a regalare questa opera al grande gallerista Lucio Amelio, il quale durante le riprese del documentario che Martone gli dedicò, Lucio Amelio-Terrae Motus lo regalò al cineasta). Appunto una “trasmissione di energia”.

Nel film questa metafora “elettrica” è fondante, in una scena si assiste all’illuminazione elettrica in una sorta di festa pubblica a Capri, e l’energia “luminosa-numinosa” è il fulcro dell’incontro tra la giovane capraia, il medico razionalista, marxista e interventista e il pittore capo della “comune” utopica, mistagogo che risveglia dal fondo interiore le forze liberatrici e le convoglia su sentieri neopagani, naturisti, ma anche “avanguardistici”, nel senso di una nuova concezione dell’arte, dalla pittura alla danza in un coacervo sinestetico, che sta alle radici di tutta la pulsione segreta e sotterranea delle rivoluzioni artistiche del Novecento. Il destino di Lucia sarà quello di lasciare l’isola, e la comunità, dal momento in cui il suo essere libero e il suo sguardo consapevole dell’antico e del futuro la spinge a varcare il mare, su un barcone (dove viaggia un personaggio strano e altrettanto simbolico che Martone ha posto in ognuno dei tre film su questa genealogia otto-novecentesca: un umile sarto che porta con sé sempre una gabbietta con un “cardellino”, un cardillo ortesiano, innamorato-addolorato). Su quel barcone c’è, a inaugurare il secolo e a varcare l’oceano, un’altra comunità possibile-impossibile. Sono i migranti. Migranti nutriti dell’utopia concreta di una nuova terra, di un porto che si apra al loro arrivo, che li accolga, che scambi con loro l’energia per far evolvere questo piccolo pianeta.

Natura ed Utopia: dal Giovane favoloso verso Capri-Revolution

Il giovane favoloso si chiude con una visione e insieme si apre su un mondo altrove che solca lontananze e distanze infinite e le riproietta sui destini futuri del progresso in dissonanza con il riemergere potente dell’impersonale assoluto naturale. È un dissidio tra il rifare un mondo, la scommessa di una fabbricazione umana-troppo-umana e il suo farsi naturale. È un finale particolarmente ispirato perché risponde a un’attitudine dello sguardo di Martone, del suo modo di intendere il cinema e il teatro come la coltivazione di un campo di visione che procede da una luce e viene accompagnata nel suo farsi. Questo procedere naturale si rapporta sempre con l’utopia aperta e concreta di un progetto comune, da condurre tanto con i compagni di viaggio quanto con gli spettatori. Se il cinema di Martone è un cinema filosofico, morale, un itinerario visivo di conoscenza, lo è al di là delle tesi (che spesso impacciano certo nuovo cinema italiano neoesistenziale o neocivile), per cui il film non parla di ma semplicemente parla, e soprattutto guarda, interpellando interrogativamente lo spettatore in un corpo a corpo tra la verità e il mistero, in un rapporto con il reale rossellinianamente inteso come capacità di far emergere dalle immagini l’epifania invisibile inscritta nel visibile. Ciò è rintracciabile in un’attenzione rigorosa al valore morale e significante dello sguardo, senza semplificarne l’intrinseca polivalenza, ma assumendone semplicemente la problematicità. È un equilibrio difficile tra abbandono e controllo che dà corpo all’attenzione dello sguardo nel cinema di Martone. Il progetto sarebbe dunque, attualizzando un mondo possibile, accentuare nello spettatore l’effetto di istantaneità, l’illusione di essere là e di vedere le cose accadere. In questo modo, come ricordava Bazin, ogni film, anche di finzione, è vedibile come documentario sugli attori che lo interpretano, sui luoghi, sugli oggetti che vi compaiono, e il rapporto verità-mistero nei film di Martone restituisce appunto l’implicazione reciproca tra il possibile del film e il necessario del vero.

Il mistero della figurazione, staremmo per dire l’infilmabile, il miracolo dell’apparizione nonostante l’impossibilità di vedere, è ciò che, con semplicità e insieme con un’alta visionarietà, Martone filma nel cortometraggio Antonio Mastronunzio, pittore sannita, girato nel 1994 per il trittico Miracoli (insieme ai corti di Silvio Soldini e Paolo Rosa). Un pittore che vive tra i fiumi, i ruscelli e le montagne del Sannio e che, come già Ligabue, “proietta” sulla tela le interferenze quasi magiche, sciamaniche, tra la propria immaginazione e le vibrazioni sottili della natura, viene invitato da un collezionista a “rifare” un quadro, a ripetere quell’atto magico che lo ha condotto a figurare non tanto dei fiori, quanto la loro “apparizione”, la loro visione miracolosa, la loro verità invisibile.

Il pittore si trova nell’impossibilità di ripetere quell’atto, e il film racconta questa impossibilità con cristallina e attonita capacità, con uno sguardo che, mentre aderisce totalmente alle intermittenze dell’anima e dell’atto creativo, si pone anche in un punto quasi metafisico della vista, interrogando il corpo dell’artista nei suoi accordi come nelle sue stupefazioni e nei suoi soprassalti, con un paesaggio naturale sentito nella sua eternità e sintesi, quasi al limite zen della sua sparizione nel nulla, del processo di riassorbimento dell’atto creativo nel flusso invisibile. Allora la sparizione, l’annullamento stesso della figurazione, quel riempire la tela di rosso e quel gettarla nelle acque del fiume da parte di Mastronunzio, si inscrivono in una specie di apologo eracliteo: il flusso della sparizione è anche il miracolo della apparizione. Il quadro rosso scivola sulle onde leggere del ruscello, si incaglia tra le alghe, tra i rami e tra l’erba, e sulla sua superficie riappare la figurazione, si compone magicamente la ghirlanda: è una visione che in sé contiene perfettamente l’invisibile, come in una composizione zen o in una sequenza di Kurosawa.

Agli occhi del mondo, implicati nella sparizione e nel disfacimento di qualcosa che assomiglia sempre di più a un dopo-storia e a una post-realtà, in cui la sensazione di essere obnubilati dipende forse da un’altra storia e da un’altra realtà che stanno avvenendo, come se si fosse sospinti dalle ali controvento dell’Angelo di Paul Klee di cui parla Benjamin, gli occhi fissi dell’attenzione capaci insieme di essere mobili nel viaggio, appaiono gli imperdonabili. I volti che guardano in macchina nella sala d’attesa della stazione ferroviaria che aprono Morte di un matematico, il volto assorto che guarda con il capo leggermente inclinato della Madonna in Rasoi, gli occhi sinceri e un po’ ubriachi di Angela Luce nell’Amore molesto, sono i soli in cui lo sguardo imperdonabile, lo sguardo in viaggio tra sogno e attenzione (nei sogni come nei viaggi il nostro sguardo è tanto più attento quanto più è mobile) riesce a specchiarsi, proprio perché provengono da una sorta di visione ancestrale che amalgama il tempo della favola a quello della realtà. Sono volti che emergono dalle pieghe del reale, che insorgono da un immemoriale, incidendovi gli archetipi fiabeschi: animali soccorrevoli, fate, maghe.

Probabilmente nel cinema di Martone questa attenzione al sembiante fiabesco che diventa, pasolinianamente, lingua della realtà è il tono più segreto. Un tono che si libera nella sua evidenza visionaria che ha la forma di un apologo, ancor più che di una parabola, perché rimanda a un cammino mistico, in Antonio Mastronunzio. Il fluire di un fiume simbolico e concreto scorre come in una fiaba, che come tutte le fiabe è l’avventura di un cammino iniziatico, ha a che fare con un rito di morte e rinascita. Il processo creativo, il farsi naturale e impersonale della figura perfetta si compone in parabola, in fiaba. Eppure il pittore vive davanti allo sguardo la sintesi di un travaglio, che di nuovo è quello della rammemorazione, di nuovo è quello di una divergenza nel tempo. Ciò che gli viene chiesto è di ripetere un dipinto, visto per una volta, in un altro tempo, e ora perduto. Il gesto del rifare, come quello del rivedere, è impossibile, se non davanti all’occhio della natura. Il pittore, ripreso dalla camera in ellissi che si accumulano accordandosi agli strati di colore che sempre più intensamente ricoprono la tela fino ad annegare in un rosso che cancella la figurazione (e in questo trascorrere semplice ed ellittico c’è tutto un secolo di riflessione sul rapporto tra forma e gesto artistico, da Le chef-d’oeuvre inconnu di Balzac fino alla pittura di Yves Klein), si sottrae al recitare l’istante in cui si coglie quella forma, quella ghirlanda di fiori (così puramente illuminante come nella sapienza orientale). Allora il pittore sannita affida alle acque eraclitee di un fiume la sua tela: questa viene trasportata dalla corrente, si impiglia in un ramo fiorito, trascina con sé erbe acquatiche, il rosso si dilava e insieme si compatta, davanti allo sguardo vuoto, nel rumore-musica della natura, e il quadro si ricompone da sé: perfetto, come una concrezione millennaria nella luce densa e limpida della fotografia di Pasquale Mari, riprende forma e colori davanti ai nostri occhi stupefatti, noi attenti a non far rumore nella sala buia per non disturbare quel miracolo. Viene così restituita una epifania visiva, che fa pensare appunto a Proust o a un haiku giapponese.

Già in quel film del 1994 il corpo della poesia, della pittura, della natura e, in continuità, del cinema costituiva una voce (la sonorità del film avviene con una fisica pregnanza) che si dissemina pluralmente nel mondo, a partire da un piccolo angolo naturale dell’Italia, dove, nascosto agli occhi dei più, i morantiani “pochi felici” possono traguardare verità e mistero, risalendo a un arcano fondo italico. Sentimento “cosmico” ben presente a Leopardi e al suo amore per la classicità, come alla sua meditazione etica sul carattere italiano. Le voci plurali di un “polittico” etico-estetico sull’Italia si ritrovano infatti nella trasposizione in “lingua scenica” delle Operette morali leopardiane. Il regista considera che le Operette morali hanno una lingua a cui giova essere detta, sono una curiosissima cosmogonia in cui convivono spiriti e uomini, e procede con Ippolita di Majo a trarne una drammaturgia, incrociando le parole leopardiane in una sorta di “combustione” del suo procedere dialogico, inventando uno spazio simile a una Wunderkammer, in cui si ritrova non solo la riflessione filosofica, la visione metafisica, il sentimento cosmico del nulla, il dialogo possibile-impossibile con la Natura, ma anche quanto di grottesco, spettrale, carnevalesco (Luciano, Rabelais, Cyrano) sfocia nella scrittura del poeta, ricavandone tanto personaggi mitologici quanto persone, maschere teatrali.

Del resto Leopardi delle Operette morali aveva detto (e ne Il giovane favoloso la battuta viene pronunciata al consesso del Viesseux): “Bruciarlo è il meglio. Non lo volendo bruciare, serbarlo come un libro di sogni poetici, d’invenzioni e di capricci malinconici…”. Il luogo ottocentesco e assembleare di un teatro da camera viene figurato nello spettacolo: il Gobetti a Torino (e poi i saloni del Palazzo Serra di Cassano, sede a Napoli dell’Istituto di Studi Filosofici), ma anche il Teatro Argentina che viene “fasciato” in verticale, inerpicandosi sui palchi, dalle sagome totemiche di Mimmo Paladino, diventano un’area comune dove il pubblico trova posto come abitando le pagine di un enorme libro fantastico. A Torino, lo spazio centrale della platea è cosparso di terra lavica. Lo spettatore si ritrova su file disposte intorno alle pareti che fanno pensare alla Biblioteca recanatese di casa Leopardi. La scena arcana e stupenda, ma anche sottilmente commedica, delle Operette morali viene disposta da Martone come prolungando in un sogno un ambiente vissuto. Come osservato da Ippolita di Majo nel libretto di sala dello spettacolo presso il Teatro Stabile di Torino,

Lo spazio reale è quello della biblioteca del padre Monaldo, a Recanati; è quella la scena in cui prendono corpo i fantasmi che accompagnano i giorni e le notti di Leopardi [...]. Sono dèi, spiriti, uomini d’ingegno, filosofi antichi e moderni, figure larvali e fantasmatiche in cui Leopardi riversa il suo molteplice ingegno, in cui si riflette la potenza creativa delle contraddizioni che animano il suo pensiero dando corpo a una folgorante ironia.

Nello spettacolo di Martone accade come se si ritrovassero dei fili che hanno cominciato a dipanarsi nei primissimi lavori, dove lo spazio e la percezione dello spettatore venivano inscritti in una totalità di sguardo che incastrava le immagini, le proiezioni, le traiettorie di luce come in un polittico. Anche qui il progetto visionario restituisce una tensione utopica, la ricerca di un luogo delle immagini. Nei primi lavori (come in Segni di vita alla Galleria Lucio Amelio nel 1979) il progetto visuale e auditivo assorbiva il paesaggio urbano e mediale e ne faceva sprigionare danze di corpi e oggetti, scarti di movimento, posture, e tendeva al tempo stesso a fuoriuscire, a superare l’avanguardia (del resto era di “postavanguardia” che si parlava allora per la pratica di questi gruppi) e ad aprire un orizzonte dove potesse manifestarsi un’altra natura, dove lo sguardo potesse recuperare, disteso in uno schermo immaginario, la potenza e l’energia naturale. Accadeva come se si ripercorresse quel dissidio fertile tra macchina, energia, secolo dell’elettrificazione, e ritorno reviviscente alla Natura intesa come scatenamento di energie, apertura comunitaria verso una trasformazione dell’uomo in accordo con il cosmo. Spinta utopica che mette in comunicazione il mistero degli elementi naturali e la capacità della tecnica di amplificare la visione, di vedere l’invisibile, di immettere lo spettatore al centro del magma creativo, del nesso realtà-virtualità. Anche se Martone recentemente è andato in cerca delle radici nel moderno otto-novecentesco di una nuova sensibilità, il suo sguardo ha ben presente come oggi il digitale, la realtà virtuale, la tridimensionalità nella costruzione delle immagini appaiano il portato di una nuova gnosi, di una “tecnognosi”, di una “new age” percorsa da una sorta di “sciamanismo” tecnologico, in cui la scommessa faustiana di “ricreare” vita e natura si ripresenta con tutte le sue aporie. Già all’epoca della postavanguardia il viaggio virtuale delle immagini veniva agito da Martone con una precisione analitica e un'attitudine sentimentale. In questo senso un “ur-spettacolo” del 1977 come la sua prima allo Spazio Libero di Vittorio Lucariello a Napoli con un gruppo denominato “Il battello ebbro”, e cioè Faust e la quadratura del cerchio, disponeva già questi elementi in una specie di “evocazione” magica di ciò che si può vedere dietro le immagini. Le Storie di Sant’Orsola di Carpaccio, ciclo già quasi cinematografico nella “processionalità” dello svolgersi pittorico, venivano estratte nelle posture analitiche degli attori immobili e riflessi, duplicati, rovesciati da uno specchio, mentre il tragitto nel buio di un globo planetario solcava per tutta la profondità dello spazio il luogo dello spettatore per congiungerlo con il luogo scenico, e la durata sonora e visiva dell’azione si distendeva in uno spazio totale, predisponendo ciò che sarà una caratteristica martoniana: concepire il lavoro sui linguaggi come “opera d’arte totale”, così come rintracciato da Massimo Fusillo.

L’elemento che richiama di più la categoria di opera d’arte totale in questo teatro non narrativo, fatto di frammenti accumulati vertiginosamente, è la sua capacità di sviluppare una nuova drammaturgia dell’immagine: non si limitava infatti a una semplice utilizzazione di media differenti, ma li teatralizzava per creare nuove suggestioni percettive, per giungere all’effetto di un ambiente immaginario, a una “onnicomprensività derealizzante”, come ha scritto uno dei primi critici a studiare il teatro di Martone, Rino Mele, coniando la categoria di mediateatro. Fin da questa prima fase hanno giocato un ruolo importante gli incontri: con lo scenografo Lino Fiorito, autore di una “scrittura pittorica per il teatro”, e con il gallerista Lucio Amelio, che ha lanciato il gruppo nel circuito internazionale dell’arte contemporanea […]. Nel finale del bel documentario dedicato anni dopo ad Amelio, Terrae Motus, troviamo uno degli esempi più netti di fusione fra i linguaggi, di opera d’arte totale: un intreccio intenso fra verbale, visivo e sonoro; mentre la voce fuori campo del gallerista rievoca la sua vita e il suo rapporto con l’arte, sfilano immagini di opere di tutto il Novecento, al ritmo epico e dissonante della musica di Béla Bartók, contaminandosi con gli inserti di cinema sperimentale scelti da Mario Franco.

Dal globo che viaggia sospeso nel buio di Faust si giunge a una delle immagini più suggestive di Operette morali, quella cosmica in cui nel vuoto galleggia un grande pianeta, così come dallo spettacolo si trasferisce al film su Leopardi il “colosso” di terra della Madre-Natura, che nella compagine scenica era una statua totemica di Paladino, con grosso incavo al centro del corpo. Nello spettacolo la lingua di Leopardi torna a vivere come suscitata da un abisso: è lingua umana, lingua divina e lingua dei morti disseminata in un cavo anatomico dove i mondi s’incontrano e si scontrano (così nella scena del Coro dei Morti, con le Teche delle Mummie, o in quella dove una candela accesa illumina Ruysch, anatomista in camicione bianco, come nell’illustrazione di una storia di fantasmi di Dickens). Questa solidarietà tra vivi e morti, tra visibile e invisibile, eternità della Natura e transeunte senso di vanità umana, questo incanto di favola e insieme concretizzazione terrigena di corpi transitanti nell’umano, rimanda anche all’amato Pasolini. La meta a cui aspita Martone consiste nel “riaccendere”, riscrivere su una carta infuocata, con cifre della realtà, una crittografia luminosa, che “profetizza” i destini dell’utopia umana dentro e dietro il “velo” di Maja della Natura. A proposito della lingua leopardiana il regista ha più volte insistito sulla forza irriducibile di una lingua-corpo della poesia che accomuna Leopardi a Pasolini, sulla loro funzione profetica rispetto ai destini italiani, e ha definito “due luci” i due poeti.

I versi “inceneriti” (Le ceneri di Gramsci), in cui Pasolini (il cinema si scrive “su carta che brucia”, diceva), definendosi “più moderno d’ogni moderno”, invocando che “solo nella tradizione è il mio amore”, tornano in mente alla visione di due piccoli film, “perle preziose” per comprendere un senso profondo e nascosto del lavoro di Martone. Si tratta di Teatro sommerso, realizzato per la Triennale di Milano nel 2008, e di Pastorale cilentana, realizzato per l’Expo nel 2016. Lungi dall’essere film “d’occasione” sono due lavori che “postillano” in modo ispirato un nesso cruciale: quello che unisce il fare arte, il fare cinema, il fare teatro con il nucleo di vita racchiuso nel binomio Natura-Utopia. Nel primo si preleva una sequenza straordinaria tratta dal Fellini di Roma (il viaggio sotterraneo degli addetti allo scavo della Metropolitana), in cui le viscere della terra “rivelano”, estraggono, fanno rinascere da quel buio millenario e ventrale, i volti e le posture di antichi affreschi romani e, consegnandoli alla luce e all’aria, al tempo stesso li sgretolano e li fanno sparire in un pulviscolo, una polvere e cenere che si spande come anima ancestrale. Martone compie un lavoro ardito: usare come “tappeto” quella sequenza ma sostituire, in una sorta di “rimontaggio anacronico”, di revisione-reviviscenza, gli affreschi del film (che erano “ridipinti”) con riprese ravvicinate e potenti, terse e misteriose, di ombre antiche. Volti di statue e affreschi, soprattutto del Museo Archeologico Nazionale di Napoli (e qui il ritorno al “set” rosselliniano di Viaggio in Italia, e al traumatizzante scambio di sguardi tra la Bergman e quelle concrete parvenze secolari, è evidente). Maschere teatrali antiche, bocche d’ombra spalancate, occhi iridescenti di sculture bronzee, gesti arcani, sistri, passi magici, voli animici, ninfe e satiri, metamorfosi divine irrompono con sguardi in macchina che ci interpellano dal fondo dei secoli e riemergono dal terriccio e dalle acque sotterranee, ritornano a vivere, nella panoplia di un warburghiano Nachleben, come una “seconda natura”. Martone s'incammina ancora una volta sulle orme della catabasi felliniana e usa il veicolo del cinema, come macchina del vero, per affondare in una antichità nilotica, partenopea-isiaca. Genialmente, questo “scavo filmico” procede ad enucleare il racconto perduto e ritrovato di una possibile origine del teatro (sulla scorta di Tito Livio), un teatro sommerso, ma dentro noi stessi e il nostro appartenere allo scorrere eterno della vita. Il testo scritto e letto da Emanuele Trevi mette in rapporto, artaudianamente, peste e teatro. La sua voce parla di “un rumore diverso da ogni altro perché dotato di una forza demiurgica cosmogonica dentro uno spazio [che] creava un altro spazio, un luogo dotato di una geometria sconosciuta, impossibile ma infallibile, un carnevale si era incuneato nella pestilenza”, mentre racconta l’irruzione di istrioni etruschi ad esorcizzare la pestilenza con la diffusione del teatro. Quella invenzione del teatro, quella congettura borgesiana dell’epifania dell’attore viene suscitata ed evocata ai nostri occhi, implicando il nostro sguardo a una “distanza ravvicinata” così pregnante che si fa quasi tattile. Una sonorità di risate squillanti e chiocce, di frammenti in latino, di spire di vento, intersecate con le note magiche di Rota, sono gli “strumenti” dell’evocazione. Il sognato e il fantasmatico si concretizzano con una forza inaudita, si fanno presenti, vivi, mentre su una visione della Roma umbertina all’imbrunire la voce riflette: “Lo spettacolo etrusco non era altro che una maschera dell’epidemia, la sua rivelazione suprema. Era questa la salvezza della città. Perché la vita, non meno del teatro e dell’epidemia, è pur sempre qualcosa di impossibile”.

Con Pastorale cilentana sembrerebbe di assistere a una sorta di anello di congiunzione tra il dittico Noi credevamo/Il giovane favoloso e il film che il cineasta ha, nel momento in cui scriviamo, in lavorazione, Capri-Revolution. In tal senso il binomio Natura-Utopia si staglia con una evidenza di luce, colore e spazio straordinaria. Il film è precipuamente uno sguardo in viaggio: quello di un bambino nel paesaggio, nelle luci, nelle ombre, nei gesti, nell’aria di una Natura (il Cilento contadino) che, se è posta apparentemente fuori dal tempo, è solo nell’apprensione visiva del tempo della visione che diventa viva, che parla un linguaggio silenzioso (il film è muto e senza musica) ma assolutamente pregno della sonorità profonda del lavoro umile, del dialogo tra le generazioni, del linguaggio naturale, dei ritmi quotidiani. Ciò è ottenuto da Martone con la scelta di un “superscope” e di campi larghi, lunghissimi, piani sequenza e panoramiche che fluiscono tanto quanto l’ambiente naturale filmato, sotto lo sguardo di una vita giovanissima che sembra scoprire il mondo nell’atto stesso e nel momento stesso in cui viene rivelato dalla macchina da presa. Lo spettatore, quasi come in una installazione, ha modo di disporsi rispetto all’enorme schermo, di attraversare lo spazio di visione dove si colloca il film in accordo con l’attraversamento lento e maestoso della vita umana e animale che trascorre. In una sequenza in campo lunghissimo un paesaggio è tagliato da un fiume e le due sponde attraversate con semplicità solenne da uomini e animali e lo spettatore, come risucchiato dalla visione, attraversa egli stesso lo spazio per percorrere l’immagine con lo sguardo, al “passo reale” del cinema. Allora la visione “panottica” dell’opera totale, lo screen che per Martone è un segno primigenio di creatività, la luce che trascorre verso il buio (nella cifra incisa e cristallina della fotografia di Renato Berta) qui si riassumono in una specie di poesia virgiliana, di scorrere eraclitèo, di rosselliniano accordo con il manifestarsi del vero, di epifania “divinoumana” parmenidea (i luoghi del film sono gli stessi della filosofia presocratica). Si ha accesso alla “presa” dell’aura, e al suo lento accadere nell’immediato, che, “qui e ora”, come in un altrove dove il mondo è nel suo farsi e apprendersi, sembra concretizzare ogni utopia di tridimensionalità, di “realtà virtuale”, con la semplice, incommensurabile puntualità di uno sguardo. Per cui, contro ogni apparenza, nulla c’è di arcadico e nostalgico, ma un rendere presente l’avvento sincronico e anacronico del tempo (passato-presente-futuro).

Su ciò sembrerebbe interrogarsi Martone con il film in lavorazione Capri-Revolution. Sulle scaturigini di una “modernità più moderna del moderno” e di “un vero più vero del vero”, risalendo nelle pieghe dell’origine primonovecentesca di una sensibilità più che mai contemporanea. La Capri del 1913, quando sull’isola sembrava compiersi il crocevia tra Natura e Tecnica, tra ancestrali ritorni e incipienti avventi rivoluzionari, sociali, scientifici, artistici. La Capri pagana e mistica, di futuristi ed esoteristi, di rivoluzionari e utopisti, di spiritualisti e materialisti, di Gorki e Picasso, di Fersen e Diefenbach, di Clavel e Depero, di Rilke e Gide, di Douglas e Wilde, di Ewers e Mackenzie, di Maugham e Munthe, e del Lenin che profetava: “Il comunismo è il socialismo più l’elettricità”. Ma anche la Capri di Beuys. Un artista, il maestro tedesco, che Martone ha incontrato quando giovanissimo frequentava la galleria di Lucio Amelio e dalla cui opera CapriBatterie trae una delle ispirazioni per il film. Si tratta di un’opera dell’artista consistente in una lampadina che prende energia e luce dorata da un limone, lavoro alchemico di trasformazione e trasmissione che Beuys realizzò per Lucio Amelio e che lo stesso gallerista (come si vede in un punto straordinario del documentario girato da Martone nel 1993 Lucio Amelio/Terrae Motus) mostra al regista, facendogliene dono come un viatico, come il segno dell’inesauribile forza della vita e della metamorfica presenza continua della Natura che incontra l’utopia di uno sguardo. Qui (nel film che ancora deve essere visto da me e dal pubblico al momento in cui scrivo) si incroceranno le comunità della vita e della storia. La comunità degli utopisti stranieri che attraversavano nel loro progetto un altro incrocio, tra Natura e Progresso, e la comunità di coloro, contadini e pastori, [che] continuavano a parlare con gli dèi che si nascondono negli elementi naturali, nonostante un destino incipiente di esclusione e cancellazione del dato umano e naturale perpetrato dal lato oscuro della tecnica. Tale incrocio magnetico parrebbe concentrare in una focalizzazione esemplare il tema della comunità possibile-impossibile, dell’incedere della Storia e dello sguardo memoriale delle singolarità, così come la porosità ancestrale napoletana, i suoi misteri reviviscenti. Certo è che in questo racconto, dove pare che il sogno e la favola da un lato, e il vero e la Storia dall’altro, possono camminare di pari passo, riemerge un lato in ombra, ma persistente e fondante, del nostro Novecento, un XX secolo segreto, affacciato su un futuribile nuovo millennio. Infatti l’esperienza della comunità utopica di Monte Verità ad Ascona pare sia uno dei riferimenti sottili del film. Quella “Città del Sole” (La “Città del Sole” campanelliana era la filigrana ermetica dell’impianto “utopico” di Ritorno ad Alphaville, e non ci sembra un caso se qui ritorna un nome, che accomuna i protagonisti di quello spettacolo-emblema e di questo nuovo film: Seybu) praticata come utopia concreta all’inizio del secolo scorso parrebbe riflettersi nella “comune” di nordeuropei che trova a Capri un intervallo eterno, l’attimo futuro in cui immaginare (alla vigilia della carneficina della guerra) un ulteriore mondo possibile. Se si pensa che il binomio Natura-Progresso, la meditazione sui destini umani e naturali, il senso profondo dell’intersecarsi di Storia e Mito, sono racchiusi nella tensione poetica da cui scaturisce La ginestra leopardiana, e che i versi del poeta risuonavano nel film di Martone come scaturendo dallo sguardo di Leopardi seduto sulla terrazza di fronte al Vesuvio e al golfo, e ai cieli “iperuranici” del fluire dei tempi cosmici, potremmo indovinare che Capri-Revolution rilancia da lì, da quella visione “anacronica”, un altro sguardo sul secolo della modernità e parabolicamente su ciò che dell’“aura” novecentesca muove tuttora il nuovo millennio. Come proclama il risvolto di copertina del libro Sul Monte Verità di Edgardo Franzosini:

Secolo di orrori occidentali e di scienze in rapida espansione, il Novecento è ruotato attorno a un centro misterioso, da cui ha preso vita tutto: l’ideologia verde che sarebbe mutata geneticamente in un certo nazismo, l’importazione delle religioni orientali, la Rivoluzione d’ottobre in Russia, il magnetismo e la psicologia del profondo, la premessa al movimento hippie. Questo luogo da cui si diparte il secolo si trova in Svizzera: è il Monte Verità ed è stato la meta per eccellenza di comunità utopistiche, gimnosofisti e asceti, naturisti e teosofi, architetti esoterici e occultisti vegetariani. Il Monte Verità è l’Atlantide emersa all’origine della modernità.

Ci sembra di poter divinare come Capri-Revolution si agganci in una ideale trilogia ai due film sull’Ottocento, sfociando in modo naturale nei destini del nuovo secolo, e illuminando da lì, ancora una volta genealogicamente, il nostro presente. Reviviscenze anacroniche che, da lontano, ci appaiono più che mai vicine. A distanza ravvicinata.

English abstract

Among the contemporary artists of the screen and the scene, Mario Martone is the one that most, and with rare stylistic and moral coherence, collects and re-launches the great Italian lesson of Rossellini, Pasolini and Visconti. The relationship with the idea of ​​and city and community (Naples over all), tracing back to the roots of the tragic, the reactivation of the melodramma, the ability to make active and alive the national historical past within the urgency of the present (as in the Risorgimento age of Noi credevamo and Leopardi's time of Il giovane favoloso) are some of the poetic and thematic threads that go through his work.

keywords | Mario Martone, theatre, city, community, Naples, melodramma, tragic. 

Per citare questo articolo/ To cite this article: B. Roberti, A distanza ravvicinata. L’arte di Mario Martone, ”La rivista di Engamma” n.158, settembre 2018, pp. 119-134 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2018.158.0008