"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

161 | dicembre 2018

9788894840568

“Alice vola, Alice è nell’aria”

Su Gianni Celati, Alice disambientata e dintorni

Silvia De Laude

English abstract

Alice vola, Alice è nell’aria. Non è un simbolo, è una figura di movimento.
Alice disambientata, discussione del 1977

Nessun libro finisce; i libri non sono lunghi, sono larghi.
Giorgio Manganelli, Pinocchio: un libro parallelo, 1977

Uno dei saggi più belli dell’Atlante della letteratura italiana Einaudi è di Daniele Giglioli ed è scritto alla seconda persona singolare: “Dicembre 1976. Sei studente all’Università di Bologna iscritto a lettere e filosofia, ma bazzichi anche il Dams e un po’ tutti i corsi che ti interessano” (Giglioli 2012, 939). L’immaginario studente di Giglioli sta seguendo per la seconda volta il corso di Umberto Eco, ed è disorientato. L’anno prima il professore aveva esposto la sua teoria della semiotica, confluita nel Trattato di semiotica generale (Eco 1975). Non facile, ma tutto sommato abbordabile, con un po’ di impegno. Quest’anno invece il corso è su Sylvie di Gérard de Nerval (una traccia in Nerval, Eco 1999). Dove vuole arrivare Eco con l’analisi serrata di quel racconto di un autore francese dell’Ottocento morto pazzo e suicida? A cosa può portare seguirlo nello smontaggio e nel rimontaggio di un testo che programmaticamente persegue la confusione, segue le traiettorie di desideri che non arrivano a destinazione, mescola piani temporali, sovrappone spazi, mina la realtà con l’allucinazione?

Vero è che i pazzi in questo momento sono di moda: Foucault, L’Antiedipo di Deleuze e Guattari, Basaglia, Laing e l’antipsichiatria li citano tutti. Ma nell’aria c’è qualcosa di più: “Non una rottura di superficie ma un vasto e profondo smottamento”, una generale pulsione a scompaginare ogni cosa, “una gran voglia di infanzia, di innocenza, di spaesamento, ottenuto però, ti sembra, scambiando i desideri, anzi Il Desiderio con la realtà: più maschera che denudamento, più travestimento che rivoluzione” (Giglioli 2012, 939).

Eppure. Eppure quel qualcosa aveva investito tutto e tutti. Senza pensare alle droghe e alla kermesse milanese del Parco Lambro (la ‘Woodstock italiana’), sono gli stessi professori dell’Università a portare in primo piano l’abbattimento della frontiera fra reale e fittizio. Le autorità accademiche, “i tuoi professori”. Quello di teatro, Giuliano Scabia, progetta di costruire con gli allievi del suo corso mongolfiere e di portarle in giro per la città. Quello di letteratura italiana, Piero Camporesi, ha appena pubblicato da Einaudi La maschera di Bertoldo. G.C. Croce e la letteratura carnevalesca, dedicato alla figura dell’idiota saggio, del semplice che dice la verità al potere e lo fa tremare con il riso invece che con la violenza (Camporesi 1976). Quello di storia, Carlo Ginzburg, ha da poco pubblicato il resoconto di un seminario scritto a due mani con Adriano Prosperi su uno dei testi religiosi più discussi del Cinquecento italiano, il Beneficio di Cristo (Ginzburg, Prosperi 1975): “Un avvincente succedersi di ipotesi, verifiche, smentite, la ricerca in atto, non solo i risultati ma il processo per arrivarci, i tentennamenti, gli esiti parziali, i vicoli ciechi, come in certi film di Godard” (Giglioli 2012). Adesso di Ginzburg è uscita addirittura la storia di un mugnaio friulano finito nelle mani dell’Inquisizione, scritta in forma di biografia, combinando certo e presunto, fattuale e congetturale (Ginzburg 1976). O meglio: “i dati su cui si fonda la ricostruzione sono autentici, ma la loro messa in intreccio è tutta responsabilità dell’autore” (Giglioli 2012, 939). “È la struttura del libro che ti turba”, il suo passo narrativo. Non dovrebbe, lo storico, cercare solo la certezza, l’evidenza, la prova? “Che differenza c’è tra questo saggio e i romanzi che leggevi a quindici anni?”

Per non dire di quello che succede al Dams, dove il professore di letteratura inglese, Gianni Celati, che è anche uno scrittore, tiene un seminario su Alice nel Paese delle meraviglie di Lewis Carroll e la letteratura nonsense di età vittoriana: ancora (non fosse bastata Sylvie) un Ottocento riletto in modo sovversivo, uno scrittore del passato usato per capire il presente, con in più infanzia e mondi paralleli, e un deragliamento che dalla materia trattata si era trasmesso per contagio fin dalle prime riunioni alla struttura stessa del seminario, più che un corso universitario un happening dove ognuno diceva la sua.

Lasciamo lo studente immaginato da Giglioli al suo spaesamento. A quel seminario, forse, avrà solo messo il naso, per decidere poi di non frequentarlo. Ma c’erano, a seguirlo, il fumettista Andrea Pazienza (Paz), Freak Antoni, leader degli Skiantos, il futuro scrittore Enrico Palandri, autore pochi anni dopo di Boccalone (1979), Pier Vittorio Tondelli e molti altri, fissi una trentina, più alcuni “dispersi, fuggiti, o di cui comunque si sono perse le tracce”. “Le mie lezioni”, ha raccontato Celati, “erano abbastanza frequentate. Molti le seguivano per passatempo, come andare a un numero di varietà; altri invece venivano per giudicare quello che dicevo secondo i canoni dell’indottrinamento politico”.

Il professore di letteratura inglese si era già occupato di letteratura nonsense e comiche del ‘muto’ come quelle di Laurel & Hardy e dei fratelli Marx. Il primo abbozzo di Finzioni occidentali, intitolato provvisoriamente Avventure della linearità, e sottoposto a Einaudi nel 1972, comprendeva fra l’altro il saggio La farmacia di Humpty Dumpty (Palmieri 2017, XCIV). Il suo libro d’esordio, del resto, era stato Comiche, uscito da Einaudi nel 1971, dopo che Italo Calvino già nel 1967 ne aveva letto un anticipo nella rivista napoletana “Uomini e idee”, e lo aveva esortato a proseguire il lavoro (firmerà, Calvino, la quarta di copertina, occupata da una sola frase, in pieno mood Alice: “Questa è l’ossessione d’un mondo dove tutti giocano a correggerti”, v. la nota di Nunzia Palmieri a Celati [1971] 2012). Aveva già in mente, già allora, di curare una collana di testi comici cinematografici, che non si farà mai, ma è la testimonianza di un interesse che Celati si è portato avanti negli anni. Nel 1976 il risvolto di copertina dell’einaudiana Banda dei sospiri annuncia come imminente la pubblicazione di un saggio dal titolo Harpo’s Bazar. Teatro comico dei fratelli Marx. Un residuo del progetto saggistico è apparso sul “Verri” di Luciano Anceschi (Celati 1976). “Harpo’s Bazar” sarà anche il nome di una società di produzione discografica e cinematografica underground, nata in coincidenza del “Convegno contro repressione” del settembre 1977 “come cooperativa per riprendere con una telecamera quel convegno, un modo per documentare un momento importante”, nelle parole del fondatore Oderso Rubini (Gilardino 2017, 320-321).

All’inizio dell’anno accademico, per il corso, Celati aveva raccolto materiali da far circolare fra gli studenti. Aveva trascritto i loro interventi, anche i più estemporanei. Registrato, a volte commentandole, le loro discussioni. Da qui, comunque, nasce lo straordinario libro (o ‘non-libro’) che è Alice disambientata: un patchwork testuale, o la cronaca di un seminario dadaista, rimontata in ordine tematico e non cronologico, pubblicata per la prima volta col sottotitolo Materiali collettivi (su Alice) per un manuale di sopravvivenza da L’Erba Voglio, la casa editrice dello psicanalista Elvio Fachinelli, grafica di Enzo Mari [Fig. 1], e ripubblicata trent’anni dopo con una nuova introduzione di Celati e una postfazione di Andrea Cortellessa (Celati 1977 e 2007; Cortellessa 2007).

Nel frontespizio, come autore dell’opera figura un “Gruppo A/Dams”, nome che riprende (forse parodiandolo) quello della “testata leader fra le mille dell’esoeditoria di quegli anni e anzi di quei mesi, il “collettivo A/traverso”, il ‘giornale PER l’autonomia’ informalmente diretto da Bifo, al secolo Franco Berardi” (così Cortellessa 2007, 131; per l’attività di “A/traverso”, v. Bifo 2002a, 10-11; Chiuruchiù 2017), ma contiene anche un riferimento ad Alice. La sigla “A/Dams” è sciolta nella nota iniziale (riportata qui più avanti) come “Alice/Dams”. A come Alice, fra l’altro, era il titolo di un mitico spettacolo di Giancarlo Nanni con Manuela Kustermann, andato in scena per la prima volta nel 1970). Possibile anche un’eco, nel clima irriverente e autoironico del seminario, dei personaggi della famiglia Addams, che a partire dagli anni Sessanta avevano ispirato serie televisive, cartoni animati e lungometraggi.

Celati si riserva il ruolo di curatore, ossia di ‘montatore’, ‘regista’. Un ruolo simile a quello svolto da Mario Mieli, scrittore, saggista, performer, co-fondatore del FUORI! e dei Collettivi Omosessuali Milanesi (COM), nel pubblicare – sempre per L’Erba Voglio e sempre nel 1977, in febbraio, prima dell’Alice, il testo teatrale La Traviata Norma ovvero: vaffanculo…ebbene sì! Anche lì, all’origine del testo, che comprende scritti eterogenei sulla genesi dello spettacolo, un servizio fotografico di Guia Sambonet (ma anche immagini scattate da Luciana Mulas e Paolo Zappaterra; v. Mieli 1977a), era un rutilante spettacolo collettivo, che aveva debuttato a Milano nel 1976 e si basava su un’idea molto semplice e molto efficace: un mondo di drag che si presenta a uno spettacolo eterosessuale underground, mettendo in scena una specie di irresistibile mondo alla rovescia, o Wonderland. E anche lì, il tentativo di dare una forma scritta alla gesticolante e imprevedibile oralità di un soggetto collettivo (gli interventi e le improvvisazioni sulla scena del Collettivo “Nostra Signora dei Fiori”).

Ancora più deciso, Mieli, nel nascondersi. Lui aveva fondato il collettivo teatrale, ideato la performance, e poi realizzato il montaggio del libro (grafica, ancora, magnifica, di Enzo Mari), ma il suo nome si trova citato solo nell’elenco di coloro che “hanno collaborato alla realizzazione dello spettacolo”; e nell’indice finale, per l’incluso racconto breve Les petites causes d’amour, racconto che è un micro-incunabolo del Risveglio dei faraoni, il romanzo che Mieli, morto suicida nel 1982, avrebbe dovuto pubblicare da Einaudi, e che nel corpo del testo si trova attribuito a un suo pseudonimo-senhal, “la Casta Diva”, con ovvio rimando alla Norma di Bellini [Fig. 3]; a chiudere la micro-sezione, una foto dell’autore [Fig. 4]. L’Anorma, come risulta dalla corrispondenza conservata all’Archivio Einaudi in deposito presso l’Archivio di Stato di Torino, avrebbe dovuto intitolarsi il saggio ricavato dalla sua tesi di laurea, che Giulio Einaudi aveva avuto l’intelligenza e il coraggio di pubblicare, con il titolo più tranquillo e libresco Elementi di critica omosessuale (Mieli 1977b; v. De Laude 2016).

1 | Gruppo A/Dams, Alice disambientata, Edizioni L’Erba Voglio, Milano 1977.
2 | Collettivo “Nostra Signora dei Fiori”, La Traviata Norma ovvero: vaffanculo… ebbene sì, a cura dei circoli omosessuali milanesi, Edizioni L’Erba Voglio, Milano 1977.
3 | Les petites causes d’amour, in La Traviata Norma, indice finale.
4 | La Traviata Norma. Ritratto di Mario Mieli che chiude Les petites causes d’amour.

In Alice disambientata la nota iniziale, in corsivo, suona così:

Questo libro è composto da interventi e discussioni sviluppati durante gli incontri del gruppo Alice/DAMS (Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Bologna) tra il novembre 1976 e il novembre 1977. I materiali raccolti (interventi scritti, registrazioni, schede, appunti, biglietti e frasi sparse) sono stati messi in una macchina di scrittura, che ha montato, ampliato o contratto i vari discorsi venuti fuori (Celati 2007, 4).

Maggiori dettagli sulla “scena” del libro e il funzionamento della “macchina di scrittura” sono nella nuova introduzione:

La scena di questo libro è Bologna nell’anno 1976/77. Il sottoscritto curatore del libro insegnava allora all’Università di Bologna, e nel novembre 1976 ha iniziato un corso di letteratura che andava secondo i suoi umori del momento. L’ho iniziato leggendo in classe i testi d’una letteratura vittoriana minore, chiamata del nonsense, che è come dire libri di sciocchezze o insensatezze. Leggevo le strofette comiche del Book of Nonsense di Edward Lear e i due libri fantasiosi di Lewis Carroll su Alice: Alice in Wonderland e Alice through the Looking Glass (Celati 2007, 4).

In primavera, la Facoltà era stata occupata, le lezioni sospese, ma il “corso di letteratura che andava secondo i suoi umori del momento” non si era interrotto:

A me dispiaceva interrompere il mio corso. Per poterlo continuare durante l’occupazione ho dovuto trattare con le autorità, firmare una carta in cui mi assumevo la responsabilità di eventuali devastazioni. Avevo raccolto una serie di libri sui costumi, la morale, le riforme, la vita familiare, la letteratura e le abitudini sessuali dell’epoca vittoriana. Li distribuivo ai volonterosi perché ne ricavassero schede da far circolare tra gli altri studenti. Le schede hanno circolato e a un certo punto quasi tutti avevano voglia di scrivere, ognuno divagando per i fatti suoi. Quel sistema di scrittura sulle cose lette o sui discorsi fatti in classe dava la confortante illusione di sapere di cosa si stava parlando; e il perno di tutto era il richiamo della figura di Alice (Celati 2007, 8).

La forma del libro riflette il modo in cui è stato composto, “assemblando schede, appunti, foglietti stropicciati, registrazioni e interventi che riassumevano discorsi svolti per un anno”:

Per questo la sua prosa ha il carattere dell’annotazione veloce, con frasi a singhiozzo, molte ripetizioni, il tutto frammentario e sparso. Il sottoscritto è responsabile del montaggio, fatto inizialmente per tenere una traccia delle cose dette, poi diventato un libro su richiesta d’un amico che aveva appena fondato una piccola casa editrice (Celati 2007, 9-10).

L’amico che aveva sollecitato la ‘trascrizione’ del seminario è Elvio Fachinelli, a cui l’esperimento interessava proprio “perché questo insieme di discorsi arruffati non aveva nessuna rete protettiva, e semmai un’aria pagliaccesca proprio là dove si tentavano discorsi seri”:

Nato in un clima di euforia per ciò che è esterno, per il puro accadere dei fatti e degli incontri, il libro non nasconde il suo carattere un po’ posticcio: come uno che si metta una maschera da sapiente, ma si stanchi subito di portarla e la butti alle ortiche, tra scherzi e lazzi (Celati 2007, 10).

Come Alice, anche l’idea di Carnevale girava nell’aria, complici Bachtin e (siamo pur sempre a Bologna) Camporesi. Nel bilancio di Celati, trent’anni dopo, l’“euforia per ciò che è esterno”, insieme alla dimensione carnevalesca della “maschera da sapiente” buttata alle ortiche, “tra frizzi e lazzi”, sono gli elementi che col sovrappiù di “ritorni di fiamma d’una allegria speciale, allegria per nessuna ragione, tranne quella dell’incontro con gli altri”, rendono “ancora leggibile” il libro risultato dal tentativo di dare una forma scritta al parlato e alla bagarre conversativa del seminario (“Ugh: l’ho detto”; “L’uomo dimezzato: gulp!”; “Lolita un cazzo”), inglobando estemporanei testi scritti variamente prodotti dal gruppo (anche la lettera inviata da un partecipante del seminario un giorno in cui non aveva potuto essere alla riunione):

L’allegria che ha cercato di farsi strada nel nostro libro deve sempre rinunciare all’idea del sapere come stato di coscienza, il sapere stagno da professionista patentato. E deve accettare questo modo slegato, pagliaccesco, con alti e bassi secondo i momenti. Perché la positività è sempre questione di momenti; è l’atmosfera, l’intonazione del momento esaltante o angoscioso, in cui si annuncia un’apertura mentale. L’adesione al momento trascende ogni tipo di sapere, ogni forma di interiorità, perché ci rimanda a un avvenire al di là di noi; e mentre sospende le ansie competitive, aiuta a pensare a una comunità possibile, senza “messaggi” (Celati 2007, 10).

L’argomento del corso non era stato scelto per caso:

Il nome di Alice era stato messo in giro dalla controcultura americana, ed era diventato una parola d’ordine per riferirsi a quel tipo di aggregazione sparsa e senza gerarchie che è stato chiamato “movimento”. Nel libro di Lewis Carroll, grazie al fungo magico, Alice ingrandisce e rimpicciolisce di continuo fino a perdere il senso della propria identità; per questo la sua figura era associata a esperienze d’instabilità come quella dell’acido lisergico. Ma dietro la sua sagoma bambinesca si profilava anche l’idea d’un individuo nuovo, per lo più destabilizzato, coinvolto in continue mutazioni, ma liberato dai precetti del “come si deve essere”, e più avvertito sull’importanza del “come ci si sente” (Celati 2007, 8-9).

E ancora:

Tutto questo faceva parte dello spirito del tempo, come un implicito che circola nell’aria e nelle parole, a cui si aderisce senza sapere ancora bene cosa sia. E l’aria del tempo entrava in ognuno dei discorsi fatti in classe, durante il mio corso, dove c’entrava di tutto: l’amore, la psicanalisi, la politica, la musica rock, il cinema tedesco, i nuovi modi di scrivere e pensare. Per un anno o poco più, Bologna è stata un laboratorio all’aperto, dove le idee e le opinioni circolavano a grande velocità, con letture frettolose o echi del sentito dire, e subito superate da altre. Poi è finita: è iniziata l’era di una nuova dogmatica economica, con una domesticazione ancora più faticosa dell’animale umano (Celati 2007, 10).

Sull’importanza (anche per Alice) dell’esperienza americana, Celati torna in una testimonianza scritta per il catalogo della mostra Annisettanta. Il decennio lungo del secolo breve (2007), dov’è rievocato il suo trasferimento nel 1971 negli Stati Uniti, “ingaggiato come mezzala per il dipartimento d’italiano” alla Cornell University:

Tra gli studenti della casa dove abitavo, uno era appassionato di Arlo Guthrie, un altro ascoltava il disco di Grace Slick e Jefferson Airplane, un altro parlava in gergo da hippie, e uno mi consigliava di leggere Trout Fishing in America di Richard Brautigan – autore di libri stravaganti come le canzoni di Captain Beefhart. Tra i moltissimi fermenti d’epoca c’era questa moda d’una stravaganza “creativa” […]; ed era una stravaganza programmatica, dove si annidava il miraggio d’un modo di vivere liberato dalle rigidezze dell’establishment e del conservatorismo familiare […]. A quei tempi, il ruolo di oppositori alle tribù della controcultura era assegnato agli “uomini quadrati” (square), gli uomini d’ordine […] (cit. in Palmieri 2016, XCIII).

Titolo della testimonianza, Alice. Che era diventato una specie di nome-valigia, per dire un tipo di aggregazione random, di “stravaganza programmatica” ma anche un “paradigma fondato sull’interrogare i rapporti fra realtà e rappresentazione” a tutto vantaggio della rappresentazione, “egemone nelle scienze umane” fra gli anni Sessanta e gli anni Settanta (Giglioli 2012, 941).

Impossibile, e anche inutile, visto che di Alice disambientata esiste un’ottima nuova edizione, riassumere i discorsi che nell’aula del Dams “circolavano a grande velocità”, e andavano un po’ da tutte le parti. L’indice finale, in forma di sommario, cerca di tirare le fila degli argomenti trattati (Celati 2007, 154-155), che qui elenco indicando il numero della pagina in cui ne inizia la trattazione, o da cui proviene il passo citato. Il primo punto è programmatico:

Alice è disambientata. La bambina che passa a lato dei grandi sistemi. Soprattutto del sistema centrale fallico. L’ambientazione del pene in famiglia. Molti hanno tentato di riambientare Alice e questo non ci piace (Celati 2007, 13)

Seguono considerazioni sulla natura del personaggio di Alice come “figura” e non come “simbolo” (su queste torneremo); sulla natura schizofrenica di Alice, che “è stata dimezzata”, “metà dentro un carcere (quello degli adulti), metà dentro l’altro (quello dell’infanzia)”; su Alice che “nasce nel regno dei Biechi Blu e degli assassini d’anime” (per i “biechi blu”, il riferimento è ai Blue Meanies del film d’animazione Yellow Submarine, del 1968, protagonisti i Beatles). La letteratura per l’infanzia, poi, è tramite di fuga o di stordimento? Sintetizza Celati, cercando di dare voce a tutti:

La letteratura per l’infanzia insegna a dire un no difensivo anche a chi ha voglia di andare a spasso sotto la pioggia, le macchine paranoiche di Schreber padre assomigliano ai censori di Alice. Servono a raddrizzare i bambini. (Celati 2007, 34).

Segue una divagazione di grande interesse sui metodi pedagogici di Schreber père, medico e pedagogista, e la rievocazione degli stessi con la lucidità della pazzia da parte di Schreber fils, nelle sue memorie (Schreber [1903] 1974): mille teatrini della punizione, in forma a volte di “macchine paranoiche” da applicare al corpo dei bambini (perché a letto non si masturbino, perché stiano dritti quando scrive, e così via): cinghie, tiranti, scapolari, un vero campionario degli orrori. Colpisce il seminario l’ammonimento del figlio, a dovere pazzificato dal sistema educativo paterno: “Attenti agli assassini d’anime!” (Mario Mieli, negli stessi anni, parlava di “educastrazione”). Qualcuno naturalmente cita Foucault:

L’arte di raddrizzare cioè addomesticare i bambini, come dice Michel Foucault in Sorvegliare e punire. Da qui alle poesiole didattiche, con tutti quei bambini morti per piccole mancanze disciplinari, ed esposti in figurine esemplari da regalare ai bambini buoni, c’è un filo diretto. È il regno dei Biechi Blu, dove i succhiatori di pollici sono trasformati in figure grigie e unidimensionali dai libri per l’infanzia (Celati 2007, 38).

Quindi, un dotto excursus su “Alice e l’industria editoriale”, che “il corpo”, a volte, lo lascia per strada (ma il sommario, un po’, s’inciampa):

Alice e l’industria editoriale. Sull’editoria per l’infanzia e i giochi dei bambini. Dall’oralità alla scrittura c’è di mezzo il corpo. Si distingue il senso dal nonsenso per via dell’imperialismo della lettera e le lingue nazionali scolastiche (Celati 2007, 41).

Una parentesi politica. Ma la socialdemocrazia che ci sta a fare?

Alice e le riforme. C’è socialdemocrazia quando le lotte rivoluzionarie diventano giochi di economia politica. Le riforme e la classe media. Il bambino è la figura della separatezza di tutti. Le masse di individui soli e lo stato moderno (Celati 2007, 49).

Ecco, poi, i “bizzarri”:

Alice non è una favola tradizionale. I bambini sono innocenti perché devono essere separati dagli adulti e isolati anche in seno alla famiglia. I bambini moderni sono soggetti espropriati della loro cultura come i proletari, disadattati a questa quotidianità, come i “bizzarri” (Celati 2007, 54).

E Alice-flipper, che sembra disegnare la linea di un movimento impazzito ma non riesce a scollegarsi dal teatrino della “crudeltà familiare”:

Alice è una macchina che dà risposte automatiche, come i personaggi di Lear. Alice è un flipper. Il nonsense è un flipper collegato con il teatro della crudeltà familiare. Dubbi sulla tolleranza borghese verso i bizzarri (Celati 2007, 59).

Anche se il séguito è in parte una correzione (Celati 2007, 73). La “perdita della giusta misura” potrebbe non essere “un dramma come dicono”. Lasciamo da parte i “libri per bambini buoni”. Le “intermittenze rilanciano l’intensità dell’avventura”. Esiste una “positività dell’avventura come processo di trasformazione continua”.

È la volta, poi, di “Alice e i suoi interlocutori”, con qualche sorpresa (“Il salotto è uno zoo e la conversazione degli adulti un modo di tenere le distanze. Animali politici da salotto, animali funzionari del discorso, animali accusatori. Il paese dei matti non è il paese dell’immaginazione al potere, ma la società del discorso tribunalesco”; Celati 2007, 79).

Alice e la legge, con ampie digressioni sul presente (“L’elastico della dissociazione teso al massimo produce una letteratura diversa da quella ufficiale. La scrittura collettiva non è prerogativa di un gruppo chiuso. Letteratura rivoluzionaria e manuali di sopravvivenza”; Celati 2007, 79).

Alice e il sesso, dove si riconosce all’unanimità che Carroll non trasgredisce la legge (“perché è educato”), ma che nello stesso tempo la bambina gli scappa di mano (“Gli occhi di Alice e il cinema. La favola fa l’amore con Alice”; Celati 2007, 73).

Su “Alice e l’innamoramento”, invece, ci si divide: “seguire la figura è tutto diverso da seguire un capo”. Ma “c’è chi non è per niente d’accordo” (Celati 2007, 99). Si passa poi a un “nocciolo dell’innamoramento” che si manifesta nell’ottica del “povero Carroll” in “lettere alle bambine”, ma è un “gioco di maschere narcisistiche” (Celati 2007, 105). Dopo divagazioni sull’“uso ingenuo” e “fissante delle foto-ricordo”, una lucida analisi dell’episodio del ditale ad Alice da parte di Dodo (“Il ditale del Dodo era di Alice, il transfert non l’hanno inventato gli psicanalisti”; Celati 2007, 120).

Siamo arrivati intanto a settembre, e al “Convegno sul dissenso a Bologna”. Il seminario ne prende atto, il corso è finito ma la “macchina” di scrittura ancora in azione. Che dire? Il discorso va portato “verso uno spazio aperto”:

Dopo il Convegno sul dissenso a Bologna, fine settembre 77. La scrittura collettiva e il gruppo sessantottesco. Le tribù in movimento. Egemonia e lateralità. Non si vuole concludere ma portare il discorso verso uno spazio aperto (Celati 2007, 155).

I tanti discorsi su Alice sono riusciti a non ‘ambientarla’. Non volevano farlo, a nessun costo. Mi fermerò, qui, solo su alcuni punti, che riguardano i presupposti teorici del seminario, i suoi dintorni e uno degli aspetti di Alice spesso affrontati nella discussione: la sua natura cioè – vedremo in che senso – di “figura” e non di “simbolo”.

Forme di appropriazione del passato, o “i frammenti che ci interessano”

Andare dentro e fuori,
cavare dai libri non discorsi
ma frammenti di discorsi.
Alice disambientata, 1977

Alice è (etimologicamente) il pretesto per discorsi diversi, sensibili agli umori dei partecipanti al seminario e al clima della città. Del romanzo di Carroll è fatto in piena consapevolezza un uso strumentale. Prima di scegliere Alice in Wonderland e la letteratura nonsense dell’epoca vittoriana come argomento del suo corso, Celati aveva già teorizzato in alcuni suoi saggi la legittimità di uno smembramento concettuale ed epistemologico che prevede la libera ricomposizione di ciò che si è scomposto, o ci è giunto dal passato in forma già parziale e frammentaria (v. Cortellessa 2007, con riferimento ai saggi raccolti in Celati 1975: Finzioni occidentali, che a partire dalla seconda edizione, del 1986, include un saggio ancora del 1975 dove la contemporaneità è presentata come “età degli oggetti parziali, degli avanzi e dei residui”, di una “rottura dell’unità del pensiero che oscuramente, avventurosamente, la modernità fa emergere dagli scarti”, reimpiegandoli; titolo dello scritto, Il bazar archeologico).

Il presupposto è che spogliata dalla leziosità e dai cascami childish di tante sue riscritture e traduzioni filmiche, la storia vittoriana di Lewis Carroll ci possa ancora servire. Alice aiuta a capire il presente, anche se si sceglie di analizzare singoli aspetti della figura nata dall’immaginazione del reverendo Dodgson o di farlo con una rivendicata parzialità. Queste, alcune prese di posizione teoriche del seminario:

Noi non leggiamo più i libri per totalità ma per frammenti che ci interessano. Nessuno ci co­stringe a leggere tutto e penetrare tutto un testo, se non c’è soddisfazione a farlo. Andare dentro e fuori, cavare dai libri non discorsi ma frammenti di discorsi. Frammenti di discorsi con tutto un alone di silenzio intorno (Celati 2007, 25).

Le finzioni, i romanzi, le favole etc. non li leggiamo per il loro valore di verità, ma per il loro valore ipotetico: come ipotesi su certi valori che andiamo cercando o che stiamo aspettando di trovare nel mondo (Celati 2007, 101).

Non solo l’intero può avere diritto di parola. Come sul piano esistono “voglie”, o “desideri ancora frammentati, non ricomposti di una linea maggiore che porta verso la paranoia della totalità” – “automatismi sparsi, dispersivi, spinte e scarti sempre troppo deboli o troppo forti rispetto a un fine”.

“Troppo” è una parola cruciale. Non per niente si ragiona nel seminario sul fatto che il metamorfico personaggio inventato da Lewis Carroll sia sempre per qualche motivo in eccesso o in difetto: “le avventure successive di Alice ruotano intorno all’instabili­tà per la perdita della giusta misura, con oscillazioni verso i due estremi: il diventare troppo piccolo e il diventare troppo grande”. Eccedere significa sviare da ogni “giusta misura”, ogni senso comune istituito e istituzionalizzato. Alice è sempre troppo grande o troppo piccola, sta sempre “a lato”. Tutto va ridiscusso in ogni momento, e il vero nemico sul piano concettuale è il senso unico: quello “dove non si può andare contromano senza prendere una multa”.

Di qui, nella scrittura “corporea” e “orale” di Alice disambientata, “dislocazioni improvvise, passaggi non lineari – cioè passaggi non soggetti alla regola logica: ‘se A dunque B’”: “No, qui tutto procede a zig zag, non verso una meta, ma verso la positività dell’accadere”. Una “positività dell’accadere” che richiede di registrare ogni movimento del discorso, anche i salti, gli inciampi e i percorsi interrotti.

Intorno, intanto

Come una contadinella inerme
Mario Mieli, 1977

La figura di Pinocchio sempre in movimento
Alice disambientata, versione del 2007

Ho già ricordato, nella costellazione dell’Alice disambientata, l’opera di Mario Mieli, che proprio a Bologna, nel 1977, aveva dato vita a un siparietto in puro Alice style, scippando il microfono a un paternalistico Dario Fo proprio nel corso di un affollatissimo raduno seguìto al convegno contro la repressione organizzato tra il 22 e il 24 settembre dal movimento studentesco (se ne discute, in Alice disambientata, nell’ultimo capitolo; per riprenderlo, era nata la casa di produzione cinematografica, oltre che discografica, “Harpo’s Bazar”). Erano stati tre giorni di assemblee, happening, spettacoli. Alla fine, dopo un corteo confluito pacificamente in piazza VIII Agosto, Mieli aveva teatralmente contestato Fo e la conclusione prevista per la convention.

Di fronte a 50.000 persone, reduce dalla pubblicazione del saggio einaudiano, Mieli aveva invitato gli astanti a non rimanere “come pecore” in quella piazza a sentire “il solito Fo”, ma a spostarsi nella vicina Piazza Maggiore, che nei giorni precedenti era stata luogo di raduno e festa dei partecipanti, ma nel tardo pomeriggio del 24 era stata loro interdetta da poliziotti in tenuta antisommossa, per permettere al vescovo di celebrare una messa dedicata al Congresso eucaristico in corso a Pescara. Per l’occasione, giocando sull’immagine delle “pecore”, aveva indossato una gonna di raso gialla, un golfino verde e calzette rosse: “come una contadinella inerme”, dirà lui stesso in una lettera aperta apparsa su “Lambda”. Lo avevano contestato, era stato al gioco e sommerso di fischi aveva alzato la gonna mostrando alla folla il fondoschiena, belando (De Laude 2016, 22-23).

Ma proviamo ad allontanarci di più da Bologna, dalla generazione di Celati e da quella dei suoi allievi (più o meno coetanei di Mario Mieli). Ha fatto notare Andrea Cortellessa che percorsi non lontani da quelli di Celati e della sua Alice sono battuti in quegli anni da Giorgio Manganelli, con La letteratura come menzogna, l’Hyperipotesi di A e B, e soprattutto con Pinocchio: un libro parallelo (Manganelli [1977] 2002), che i partecipanti al “dadaseminario” bolognese non avevano potuto discutere, essendo uscito per la prima volta da Einaudi, come risulta dal finito di stampare, nell’ottobre del 1977, quando già il seminario del collettivo “A/Dams” stava mettendo la parola fine all’esperienza affidata da Celati alla sua “macchina di scrittura”.

Il Pinocchio di Manganelli è, per l’appunto, un “libro parallelo”, che si differenzia con la sua ‘chiusura’ da meccanismo di precisione alla spinta centrifuga di Alice disincantata, ma presenta, con il testo prodotto dal seminario bolognese, non pochi punti di contatto: è un altro “commento” divagante a una favola famosissima; un altro testo insieme parassitario e autonomo, “scritto accanto a un altro, già esistente” (Manganelli [1977] 2002, 7); un altro esperimento di scrittura nato dall’inseguimento di un personaggio mosso fin dall’inizio da una vocazione metamorfica e insieme teatrale; un altro discorso sull’infanzia, sulle norme e sulla loro trasgressione, oltre che un'altra ‘teratologica’ esplosione/invera­mento della forma-saggio (Cortellessa 2007, 141).

Non sarà un caso che fra le pochissime aggiunte fatte da Celati alla nuova edizione di Alice disambientata siano i soli due accenni a un testo della letteratura italiana. E che questo testo sia proprio Pinocchio (Cortellessa 2007, 141, e per i due riferimenti aggiunti a Pinocchio, altra figura “in movimento”, Celati 2007, 23 e 79).

Questo per dire che Bologna, soprattutto riguardo ad Alice, è l’epicentro, ma una specie di terremoto fa avvertire le sue scosse dappertutto, o quasi.

“Alice/Dams”, “A/dams”, A come Alice, e una radio

Alice compare ormai dappertutto.
Alice disambientata, 1977

5 | Andrea Pazienza, Le straordinarie avventure di Pentothal, vignetta aggiunta alla prima puntata (16 marzo 1977).

La cultura americana, per Alice, aveva aperto la strada. Ma quella esplosa a Bologna nel ’76-’77 era una vera Alice-mania. Proprio nel ’77, mentre il gruppo del Dams continua le sue riunioni, Oreste Del Buono comincia a pubblicare su “Alterlinus” (poi “alter alter”, la rivista edita dalla Milano Libri di via Verdi, come supplemento di “Linus”) Le straordinarie avventure di Pentothal di Andrea Pazienza, diario onirico della Bologna di quegli anni. Il primo episodio esce sul numero d’aprile. L’11 marzo lo studente Francesco Lorusso, militante di Lotta Continua, era stato ucciso a Bologna da un’arma da fuoco durante uno scontro fra i partecipanti a una manifestazione e i carabinieri. Il 13 sfilavano per la città i tank di Cossiga e Paz fece in tempo, il 16, a sostituire l’ultima tavola: “Una radio Alice vociferante non disperdiamo­ci, troviamoci tutti, la torretta di un’autoblin­do puntata verso il lettore, un brandello di bandiera con Francesco è vivo e lotta insieme a noi” (Cortellessa 2007, 132).

Sì, perché dal seminario di Celati era nata già nel ’76 anche una radio, Radio Alice appunto, che aveva aperto le sue trasmissioni il 9 febbraio, trasmettendo White Rabbit dei Jefferson Airplane, e questo commento: “Radio Alice, dunque, e questi sono i Jefferson Airplane con White Rabbit, bianco-coniglio: ‘va a domandarlo ad Alice, penso che lo sappia / quando logica e proporzione sono cadute fradice e morte, e il bianco cavaliere parla alla rovescia / e la Regina rossa è lontana con la sua testa’”. Cito da Bifo, Gomma 2002, 303; il volume del 2002 riprende un libretto uscito sulla radio in presa diretta, Cappelli, Saviotti 1976, altro volumetto dell’Erba voglio, attribuito al collettivo “A/traverso”, il cui titolo per intero suona Alice è il diavolo. Sulla strada di Majakovskij, testi per una pratica di comunicazione sovversiva (v. più avanti Fig. 11), e dove si legge, per esempio, che “il soggetto cambia. Il nuovo sogget­to è collettivo e non parla. O parla quando pare a lui. Il silenzio: un buco. Lasciamo che i buchi diventino più grossi, non impauriamoci degli orifizi, cadiamo dentro e passiamo dall’altra parte: il paese delle meraviglie” (Cortellessa 2007, 131).

Racconterà le vicende della radio, chiusa da un’irruzione della polizia nei disordini seguiti alla morte di Francesco Lorusso, il film di Guido Chiesa Lavorare con lentezza, sceneggiatura dello stesso Chiesa e del collettivo Wu Ming. Qui, giusto una galleria di immagini, per ricordare il clima di una città in cui Alice, anche come radio, è cifra di scompiglio.

6 | Radio Alice, redazione.
7 | Andrea Pazienza, La ricostruzione dell’omicidio dello studente Francesco Lorusso dai microfoni di Radio Alice.
8 | Manifestazione dopo l’omicidio di Francesco Lorusso.

9 | Volti della città, nel 1977.
10 | Scritta su un muro di Bologna dopo la chiusura di Radio Alice.
11 | Collettivo A/traverso, Alice è il diavolo. Sulla strada di Majakovskij, testi per una pratica di comunicazione sovversiva, Edizioni L’Erba Voglio, Milano 1976.

Difficile, insomma, immaginare un personaggio letterario così caratterizzato, così riconoscibile, e apparentemente così stravolto da un immaginario underground che porta in luce un suo lato oscuro attraverso una ri-mitologizzazione collettiva. Non siamo molto lontani da quella che più tardi proprio i (bolognesi) Wu Ming definiranno “mitopoiesi”: “l’atto di una moltitudine […] che racconta e usa i racconti come armi, per imporre dal basso un immaginario che cambia lo stato delle cose presenti”, e mette in comune storie che si arricchiscono di nuove risonanze, narrazioni “il cui significato sia compreso e condiviso da una comunità (es. un movimento), i cui membri continuino a narrarla e socializzarla” (per questa e altre dichiarazioni di poetica, v. il sito internet www.wumingfoundation.com).

Alice come “figura di movimento”

Una figura non si spiega, si segue
Alice disambientata, 1977

In un appunto del maggio 1977, Alice è definita non un “simbolo”, ma “una figura di movimento”. Questa – ad opera del curatore – la sintesi nel sommario delle tante parole intrecciate nella discussione:

Alice è una figura e non un simbolo. Una figura è un circuito stampato. Non si legge Alice per penetrarla ma per ritrovare il movimento della figura attraverso altri circuiti. Il movimento della figura è come la progressione collettiva cinematografica. Viva il cinema e il movimento (Celati 2007, 154).

Alice – emerge dalla discussione – ha “un altro modo di circolare”, procede di lato. Ha una persecutrice (la terribile ‘Regina Rossa’, piace poco a tutti definirla “di cuori”) che la vorrebbe morta, ma anche parecchie sorelle, che dicono molto anche di lei, e come loro “fa fare dei gran viaggi”:

Alice compare ormai dappertutto. La vediamo nei film, per la strada, nei sogni, nelle manifestazioni di piazza. Durante gli avvenimenti di marzo a Bologna si diceva: Alice vola, Alice è nell’aria. Non è un simbolo, è una figura di movimento. Noi parliamo di figure, che sono cose diverse dai simboli. La bambina ci fa riconoscere un altro gioco possibile, un altro modo di circolare. In mezzo ai grandi sistemi la bambina circola a lato, come un non sistema. A lato dei giochi dei maschi. Circola tra casa, scuola, famiglia e grandi discorsi, sempre a lato dei protagonisti. (Celati- 2007, 13)

Di questo circolare “a lato”, sono dati esempi cinematografici, dalla bambina di Paper Moon di Peter Bogdanovich [Figg. 12-14] a quella scomparsa del Fantasma della libertà di Buñuel, che in realtà è sotto gli occhi di tutti [Fig. 15], e ancora a quella di Wenders, in Alice nelle città [Figg. 16-18].

12-14 | Tatum O’Neill (Addie) nel film di Peter Bogdanovich Paper Moon (1973).

15 | La bambina scomparsa (qui sotto gli occhi del padre) nel film di Luis Buñuel Il fantasma della libertà (1974).
16 | Yella Rottländer (Alice) nel film di Wim Wenders Alice nelle città (1974).
17 | Yella Rottländer e Rüdiger Vogler (Alice e Philip) nella locandina del film di Wim Wenders Alice nelle città (1974).
18 | Yella Rottländer (Alice) nel film di Wim Wenders Alice nelle città (1974).

Manca, chissà perché, tra le bambine che fanno fare “gran viaggi”, quella di Toby Dammit [Figg. 19-21], l’episodio girato da Fellini del film Tre passi nel delirio, che è del 1968, ma non stiamo a chiederci il motivo, quell’inquietante bambina bionda con una palla bianca in mano non sarà venuta in mente a nessuno e basta.

19-20 | Marina Jaru (la bambina-diavolo) in Toby Dammit di Federico Fellini (1968).
21 | Marina Jaru e il protagonista Terence Stamp nella locandina di Toby Dammit di Federico Fellini (1968).

Interessante, comunque, è il tentativo di ricostruire una costellazione anche insospettabile intorno alla ‘figura in movimento’ (o ‘figura di movimento’). O una specie di genealogia che nel clima di libertà del seminario, declinata regressivamente, avrebbe magari potuto coinvolgere, come antenata della bambina di Alice in Wonderland, la “ninfa” di Aby Warburg: figura femminile (ancora) ‘in movimento’, che nella sua occorrenza più celebre irrompe con vitalità irresistibile nella cappella Tornabuoni di Santa Maria Novella, scompaginando l’insieme della rappresentazione [Fig. 22], e che fa fare a sua volta, metaforicamente, grandi viaggi. Basta pensare allo scatenamento fantastico intorno alla figura femminile con le vesti svolazzanti della Cappella Tornabuoni nel carteggio del 1900 tra Warburg e André Jolles (Jolles, Warburg [1900] 2002, su cui v. Contarini, Ghelardi 2002).

22 | Firenze, Santa Croce, Cappella Tornabuoni, affresco di Domenico Ghirlandaio: la “ninfa”.

Come la ninfa di Warburg, Alice può comparire dappertutto, e sempre porta scompiglio. Al seminario, si sintetizza: “Nella cultura moderna tanti rimandi impliciti o espliciti ad Alice mettono sempre in ballo questo tema”. E si tenta, tutti insieme, un elenco di questi rimandi, dalla canzone al cinema.

Tanti rimandi impliciti: Lucy in the Sky with Diamonds dei Beatles; e tutto il film Yellow Submarine, che è pieno di rimandi impliciti ad Alice, al suo modo di cadere nel buco, di rimpicciolirsi e ingrandire attraverso automatismi – la bottiglietta o il fungo di Alice come le leve proibite che Ringo tira. Poi la canzone-film di Arlo Guthrie Alice’s Restaurant: il ristorante di Alice è un luogo di movimento, dove puoi avere tutto quello che vuoi tranne Alice. Alice è imprendibile come Lucy in the Sky dei Beatles; i Beatles sono imprendibili come Lucy, la ragazza con gli occhi a caleidoscopio che compare ed è subito sparita. Altri rimandi impliciti: Che? di Polanski, un film sulla fuga e sul passare a lato di ambienti istituzionali, una favola sul non essere mai a casa propria, con una nuova Alice. Black Moon di Louis Malle è un film dove Alice piomba in mezzo al conflitto sociale, a tutte le lacerazioni, anche tra le figure del suo sesso (vd, in questo stesso numero di Engramma, il saggio di Bruno Roberti): neanche dalla parte delle donne Alice trova la sua parte (Celati 2007, 20-21).

23-24 | Cathrin Garrison (Lily) nel film di Louis Malle Black Moon (1975).

Dopo i “rimandi impliciti”, quelli scoperti, come la canzone White Rabbitt di Grace Slick con i Jefferson Airplane (memorabile l’esecuzione a Woodstock, nel 1969), quella che serve a Gilles Deleuze per parlare di una “filosofia psichedelica”, dove “ogni cosa cambia di ruolo” (vd, in questo stesso numero di Engramma il testo di Deleuze, nella traduzione di Andrea Tisano). Più interessanti, agli occhi del collettivo “A/Dams”, delle dirette trascrizioni cinematografiche dell’opera di Lewis Carroll.

Alice in Wonderland di Norman McLeod, del 1933, con attori famosi come Gary Cooper e Cary Grant, coperti da mascheroni, passa per essere l’Alice più fedele del cinema, ma non è la fedeltà il punto, se “un movimento può essere continuato o ripreso, non fissato”. Guardare al cinema, allora, sì, ma altrove perché Alice è ‘cinematografica’ proprio nel suo movimento di continua trasformazione. Qualcuno cita Walter Benjiamin che paragonava “il movimento del film al collage dadaista (Celati 2007, 22). Tutti sono d’accordo, per una volta, sul fatto che “Alice funziona meglio quando si parla di altre cose, con riferimenti impliciti alla sua figura”. Come, appunto, in Black Moon di Louis Malle (allora appena uscito in Italia, è del 1976) o in Alice nelle città di Wenders (del 1973): “film che non traducono per il cinema l’Alice di Carroll, ma rimandano implicitamente al movimento spiazzante della sua figura”. Perché questo per il gruppo “A/Dams” è un vero incontrovertibile: “Un movimento può essere ripreso e continuato, non fissato. E non è una faccenda artistica, compagni” (Celati 2007, 22).

Alice, e le cristallizzazioni che ne bloccano la “figura in movimento”: “Lolita un cazzo”

Processo di movimento:
tutto deve essere collegato,
altrimenti non funziona.
Alice disambientata (1977)

I partecipanti del “Collettivo A/Dams” hanno in mente un’Alice sovversiva nel suo essere davvero bambina, apparentemente inoffensiva ma refrattaria a ogni autorità. Si perdono, forse nel delineare i contorni del personaggio, ma fa parte del gioco (è, anzi, il gioco). Sanno comunque, i vociferanti allievi di Celati, quello che non vogliono. E come Alice odiano gli stereotipi, il teatrino dei ruoli, le figure castratrici che bloccano ogni movimento. Sarà un caso o un’autentica premonizione che Alice si trovi perfettamente a suo agio al Tè del Cappellaio Matto (“Dear, dear! How queer everything is today!”).

Come esempi del blocco del movimento, sono citate nelle discussioni del seminario le immagini di adolescenti del “fotografo porno-tecnologico” David Hamilton, che “mettono in scena una bambina già riambientata nel sesso” [Fig. 25] e quelle della “fotografa porno-familiare” Irina Ionesco, che restituiscono una bambina “non a lato”, ma “in funzione del simbolismo del sesso” [Fig. 26]:

25 | David Hamilton, pagina di un calendario del 1974.
26 | Irina Ionesco, Eva-à-la plume, 1975.

Non potevano ancora conoscere, i membri del collettivo “A/Dams”, una fotografia celebre e discussa come Candy Cigarette della fotografa americana Sally Mann [Fig. 28], che è del 1989, lo stesso anno di un’altra della stessa fotografa, The New Mothers [Fig. 27], ma l’area, composita, è quella, e disegna un modo di “fissare il movimento della figura di Alice, come hanno fatto quelli che l’hanno interpretata in chiave psicanalitica” (Celati 2007, 22-23).

27 | Sally Mann, The New Mothers , 1989.
28 | Sally Mann, Candy Cigarette, 1989.

Su questo punto il collettivo “A/Dams” non transige. Riporta il ‘lancio’ in copertina di un’edizione economica di Alice (Area Editore): “Una lucida invenzione, la creazione poetica di una Lolita vittoriana”. Per dissentirne: “Lolita un cazzo” (Celati 2007, 23). L’edizione a cui si fa riferimento è La meravigliosa Alice, con traduzione di Marina Valente e ampia prefazione di Oreste Del Buono (Del Buono 1962), dove si cita, in effetti, Lolita ed è avanzato il sospetto che la storia vera dietro ad Alice in Wonderland abbia esercitato la sua suggestione su Nabokov, non per niente traduttore di Lewis Carroll in russo (Del Buono 1963, 9).

Ogni ‘fissazione’ della figura è un impoverimento, e bisogna stare attentissimi. Tema, questo, che nelle discussioni confluite nella “macchina di scrittura” del seminario torna di continuo, e che nel paragrafo Discorsi sulla lettura, aprile 77, si trova formulato così:

La tentazione più pesante è quella di spiegare la figura. Una figura non si spiega, si segue. Come le figure dei tarocchi: la torre attraversata dal fulmine, la ruota della fortuna. Oppure le figure dei libri per l’infanzia, su cui si torna all’infinito. La figura di Pinocchio sempre in movimento (Celati 2007, 23).

Invece di una spiegazione, un’analogia elettrica. L’invito è a immaginare la figura come una serie di linee attraverso le quali transita un impulso; le linee sono come fili elettrici, e fanno passare un “impulso che viene distorto, filtrato, amplificato da un transistor”. La figura è una forma chiusa, ma ha tante diramazioni; può espandersi, attaccarsi ad altri circuiti: “tutto deve essere collegato altrimenti non funziona”. Ma il collegamento non deve essere banale. Per far passare il movimento della figura, bisogna sempre attaccarsi a un altro circuito, a un’altra figurazione. “Cioè parlare d’altro” (Celati 2007, 23).

L’immagine di un quadro elettrico che fa passare impulsi (magari, distorti, amplificati) ricorda quella del “cubo” riferita da Manganelli al Pinocchio di Collodi. Se un libro è un cubo, dunque a tre dimensioni, “esso è percorribile non solo secondo il pensiero delle parole sulla pagina, coatto e grammaticalmente garantito, ma secondo altri itinerari”. Le parole del libro saranno “simili a indizi – tra il criptico e il delittuoso – che il libro si è lasciato alle spalle”; “tracce, annotazioni, […] schegge di parole, silenzi” (Manganelli [1977] 2002, 8). O ancora “indovinelli, burle, fughe”, “innumerevoli prove, non si sa di che”. Sconcertante, l’effetto, ma lo sconcerto è detto essenziale per l’interprete: “Esso gli consente di esercitare la regola aurea del ‘parallelista’, che è: ‘Tutto arbitrario, tutto documentato’” (Manganelli [1977] 2002, 8).

Comunicare "attraverso figure in movimento"

Non penetrare il testo, ma fare
dei collegamenti e degli spostamenti continui
Alice disambientata (1977)

Nel caso dell’Alice disambientata, il “parallelista” non è solitario, l’equilibrismo non sta solo nel confronto con un testo già scritto, ma nel tentativo di portare avanti il confronto dando voce a un soggetto plurimo, che su qualche punto ha le idee chiarissime:

Ficcarsi in testa quello che c’è scritto non ha senso, ha senso ritrovare le figure dappertutto. Non penetrare il testo, ma fare dei collegamenti e degli spostamenti continui; muoversi per spostamenti laterali come nel gioco delle metamorfosi del foglio perduto. Spostare sempre altrove il rapporto col testo. Per l’Alice di Carroll: proponiamo di non andarci dentro per mettere in luce la verità del gioco. Invece, attaccarci altri circuiti, far passare l’impulso in altri spazi; lasciarlo un po’ fluido, tra il ricordo d’infanzia e la rilettura per gioco (Celati 2007, 25).

Su qualche altro, parte per la tangente, con qualche perplessità del responsabile della “macchina di scrittura”. Che interviene in prima persona, per esempio, quando un partecipante del gruppo arrischia un ardito ragionamento sul rapporto tra scrittura e sessualità, e presenta agli altri con evidente soddisfazione uno schema steso da lui stesso che chiama “struttura del libro in traduzione corporea”. Lì, il “responsabile del montaggio” non si trattiene dal dire la sua: lo schema gli pare “una buona parodia”, ma “orgasmica fa un po’ senso, vero?”. “‘Orgasmica’, ma dove l’avete pescata ’sta parola?” (Celati 2007, 24).

Non mancano discussioni che si incagliano, come quando sono in questione la serietà della vita dell’adulto e ricordo delle gioie d’infanzia: “gulp, l’uomo dimezzato!”. Si va un po’ fuori tema, paragonando il saper vivere dell’adulto come prigione (di lì il piacere di tornare al regno dell’infanzia, come utopia di liberazione) e la condizione dei prigionieri politici, per la quale non c’è rimedio. Qualcuno pensa di poterne concludere si tratti di “un dato di natura”. Il “responsabile del montaggio” in questo caso registra, e lascia correre:

Nessuno mette in dubbio che la vita e il saper vivere dell’adulto normale siano in realtà la sua prigione. Nessuno dice: liberiamo i prigionieri politici. Quella è una prigione per cui non ci sono rimedi, un dato di natura. Allora il ritorno all’infanzia funziona come una licenza-premio. Si trasgredisce il linguaggio del vivere adulto per immergersi in un’altra zona separata, un’altra prigione, quella dell’infanzia (libresca) (Celati 2007, 29).

C’è anche chi mette in dubbio (siamo nel luglio del ’77) il progetto di ricavare dal seminario un libro:

Vi avverto che se continuate a dire delle cose così culturalistiche non venderete neanche una copia di questo libro. E poi non sono neanche cose rivoluzionarie, io non le capisco e rimango indifferente. Di che tendenza politica siete voi, fate parte o no d’un partito, oppure siete cani sciolti? A ogni modo il vostro libro non lo compro, perché già stampare un libro secondo me è una contraddizione. Se parlate di lateralità, bisogna essere laterali fino in fondo, non pubblicare libri con editori di moda, come fa Nanni Balestrini che scrive Vogliamo tutto (neanche farina del suo sacco) e poi è un maneggione affarista e basta (Celati 2007, 48).

La “macchina di scrittura” ha una vocazione magnetofonica, non toglie la parola a nessuno, in un testo che tende a riecheggiare una situazione conversazionale e ‘corporea’ (l’“occupazione collettiva e svagata dello spazio”), cercando di muoversi “a lato”. Come Alice, appunto. E come è stabilito, nel seminario, fin dall’inizio:

In sostanza, ci siamo chiesti: come leggere Alice? Tornare all’Alice del testo? È quella l’Alice di cui parliamo o un’altra, un’Alice vagamente ricordata che non ha parte nel libro di Carroll? Bisogna tornare a Lewis Carroll, alla letteratura, ai libri, agli autori, ai commenti? Noi pensavamo piuttosto a un film, che fosse una ricerca di buchi dove cadere come Alice. Un gioco che spostasse il movimento della figura da un’altra parte. Uno di noi ha steso un programma chiamato gioco delle metamorfosi; si trattava di spostarsi, a partire da Alice, attraverso vari movimenti laterali. Purtroppo il foglio col suo programma è andato perduto (Celati 2007, 22-23).

E come ancora ribadisce un breve testo dal titolo programmatico (Un intervento su come scrivere):

Bisognerebbe cercare di scrivere e parlare per ellissi, salti e sincopi; comunicare non attraverso frasari, ma attraverso figure di movimento, in modo che le cose fuggano, sfuggano via. Usare la velocità e il ritmo contro il senso e il sapere del perbenismo scolastico. Cadere nel buco di Alice per un movimento spontaneo, poi seguire quel ritmo, seguire la velocità dei trapassi, e tutti i percorsi del discorso che si perde sottoterra. […] Alice è nata da un movimento del genere, ed è tutta in questo movimento iniziale: la caduta nel buco, il viaggio sotterraneo. Infatti il primo manoscritto si chiamava Alice’s Adventures Under Ground, “Le avventure di Alice sottoterra”. Solo dopo è venuta la confezione del prodotto, il titolo più aderente agli schemi della letteratura per l’infanzia, e la poesiola d’apertura che spiega cosa vuol dire questa fuga (Celati 2007, 68).

L’intervento su come scrivere è datato al dicembre del 1976. Doveva ancora succedere tutto o quasi, e forse nessuno pensava che tante cose (fuori) sarebbero finite così male.

Riferimenti bibliografici
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    E. Palandri, Camminare con Celati, in “doppiozero”, 16 maggio 2013.
  • Palmieri 2017
    N. Palmieri, Cronologia, in G. Celati, Romanzi, cronache e racconti, a cura di M. Belpoliti e N. Palmieri, Milano 2017, LXXIII-CXXIV.
English abstract

During the academic year 1976 to 1977, Gianni Celati, writer and Professor of English Literature, took a class on Lewis Carroll’s Alice in Wonderland and nonsense in Victorian Literature. A few months after the beginning of the lessons, Dams (Disciplines of the Arts, music and spectacle, a graduate course founded in 1971, as part of the Faculty of Letters and Philosphy at Bologna University) was occupied by the students. The course continued, in pure Alice style, and turned into a happening where everybody brought their own Alice, and through Alice, on the moods in the city. This essay is an attempt to revive the many ideas about Alice and the world dealt with under the skilful direction of Gianni Celati during those incredible months of Italian history.

keywords | Gianni Celati, nonsense, Alice in Wonderland, Victorian Literature, dams. 

Per citare questo articolo: Silvia De Laude, “Alice vola, Alice è nell’aria”. Su Gianni Celati, Alice disambientata e dintorni, “La Rivista di Engramma” n. 161, dicembre 2018, pp. 57-86. | PDF dell’articolo

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2019.161.0007