Sono stata invitata a parlare, in questo numero monografico dedicato ad Alice, di uno spettacolo che Fanny & Alexander, la mia compagnia teatrale, creò ben quindici anni fa. Lo spettacolo si chiamava Alice vietato > 18 anni (2003). Prima di tutto, però, vale la pena che io spenda due parole sulla ricorrenza di quello che potrei definire il “mito” di Alice in molti altri tra i nostri spettacoli, anche ove non sia immediatamente evidente, e del suo procedere parallelo e contiguo al più ampio mito (o tema) dell’infanzia nelle sue varie manifestazioni tematiche.
In Ponti in core – un nostro lavoro del 1996 ambientato in un rosso teatrino anatomico irrorato come un muscolo cardiaco – veniva elaborata l’ossessione della forma-cuore attraverso la misteriosa autoesposizione di due corpi, bambini, o più precisamente adolescenti, che ritualizzavano il proprio esporsi a pubblica vista (sotto metafora della pubblica notomia) in una serie quasi liturgica di gesti e sequenze performative. Nello spettacolo venivano evocati alcuni dei personaggi più noti della letteratura infantile, dalla fatina di Pinocchio alla crudele Regina di cuori di Alice, appunto. Così descriveva lo spettacolo Renato Palazzi su “Il Sole 24 ORE”:
Il clima di notevole invenzione dello spettacolo inizia dall’ingegnosa costruzione dello spazio, arena ovale o teatrino anatomico in cui gli spettatori si siedono su alti scranni tutt’attorno, con una strana sensazione di rito non condiviso, mentre in mezzo, in una sorta di bacheca-sepolcro, i due interpreti danno vita a piccole e morbose liturgie tra ironiche e funeree, scandite da un testo per lo più registrato che attinge a Lewis Carroll, a Marina Cvetaeva, a Collodi, a fiabe e leggende dell’immaginario popolare.
Anche qui, come nel precedente lavoro, al centro dell’azione sono due inquietanti bambini, anche qui c’è una specie di casa-sacrario dove è esibita ai visitatori la vicenda di Dorotea e Cipresso: vicenda di cuori estratti dal petto, di ampolle di sangue, di improbabili prodigi intelligentemente evocati per segni allusivi, una macabra tazzina da bambola piena di sinistro tè azzurro, uno specchietto e una spazzola da morticina, e i guantini di pizzo nero, le coltivazioni di fiorellini cimiteriali, fino al folgorante finale in cui grilli dipinti d’oro escono da una scatola e camminano sui cadaverini addormentati dei protagonisti (Palazzi 1996).
Sulla turchinità della fata, uno spettacolo del 1999, prendeva invece le mosse dalla tremenda favola del ghiro raccontata in Alice nel Paese delle meraviglie: tre sorelline precipitano in un pozzo di melassa e sono condannate a vivere di melassa e a morire di melassa, in nome di un magico segreto oscuro, ribattezzato nello spettacolo “turchinità”.
C’erano una volta tre sorelline (…) che si chiamavano Else, Lacie e Tillie; abitavano in fondo a un pozzo… – E che mangiavano? disse Alice, che mostrava sempre un grande interesse per quanto riguardava cibi e bevande. – Si nutrivano di melassa, disse il Ghiro dopo avere riflettuto un minuto o due. – Ma è impossibile, sai, osservò gentilmente Alice – gli avrebbe fatto male. – Infatti, disse il Ghiro, stavano malissimo (Carroll [1865/1871] 1978).
Requiem, e così arriviamo al 2001, annodava il mito di Alice a quello di Amore e Psiche, incrociando le identità delle due eroine a partire dal sogno incubo della protagonista, precipitata in una tana di Bianconiglio, trasfigurata qui in immaginifico Ade.
Infine ecco arrivare il nostro lavoro che direttamente si appella a un’opera di Lewis Carroll (Alice attraverso lo specchio) e alla sua famosa eroina: Alice vietato > 18 anni, che è il primo spettacolo di Fanny & Alexander rivolto, anche a partire dal titolo (in parte provocatorio), a un pubblico di bambini, oltre che al tema dell’infanzia.
Vorrei qui tentare di analizzare le ragioni di questa fitta ricorrenza nel nostro lavoro (che continuò anche gli anni successivi, con gli spettacoli del ciclo dedicato a Il meraviglioso mago di Oz, per i molti parallelismi tra Dorothy e Alice e dunque praticamente fino ad oggi), che fanno di Alice, forse da sempre, uno dei miti fondativi nella poetica di F&A.
È improbabile che Baum, [componendo il passo in cui Dorothy precipita sottoterra], non avesse in mente la celebre scena carrolliana, [in cui Alice precipita nella tana del coniglio], visto anche il suo grande apprezzamento per quell’opera. Nel 1909, in un suo saggio dal titolo Modern Fairy Tales, Baum scriverà: “Il segreto del successo di Alice risiede nel fatto che è una bambina reale, e ogni bambino reale potrebbe immedesimarsi in lei e nelle sue avventure. Alice a ogni momento fa qualcosa, e pure di strano e meraviglioso; cosí i bambini la seguono con rapito entusiasmo”. Anche Dorothy, nei libri di Oz, è sempre concepita come una ‘bambina reale’, in cui ogni piccolo lettore possa facilmente immedesimarsi e, per quanto Ray Bradbury, nella sua famosa, provocatoria prefazione all’edizione centennale di The Wonderful Wizard of Oz (University Press of Kansas), crei un parallelismo fortemente oppositivo tra Alice e Dorothy e i loro due mondi, le due eroine hanno certo non pochi tratti di fondativa somiglianza (Nota al testo di Baum [1900-1920] 2017; per approfondire le parentele tra le due eroine si veda anche l’Introduzione e si consulti l’apparato delle note ai quattordici libri).
Lo psicologo James Hillmann dice che i miti ci si ripropongono in forme variate, sub specie di nodi fondamentali, fintantoché non siamo riusciti ad attraversarli veramente nelle loro ragioni fondamentali e in relazione alla nostra vita, non riuscendo mai del tutto a controllare il modo in cui ritorneranno a noi. Alice, allora, non ha cessato di riaffacciarsi, con sorprendente regolarità, soprattutto nei primi dieci anni del nostro percorso teatrale, in una serie di epifanie misteriose, il cui profondo legame reciproco sarà forse ultile in futuro tentare di analizzare.
Per la prima volta, dicevo, nel 2003 abbiamo però affrontato con Alice vietato > 18 anni il tema dell’infanzia attraverso uno spettacolo destinato a bambini, in quell’universo purtroppo non sempre pieno di meraviglie che è la grande istituzione del teatro infantile in Italia. Abbiamo da subito deciso di prendere del tutto le parti del bambino, tentare di metterci al suo posto, fare dipendere da lui, in soggettiva, l’intero lavoro. Forse, a ripensarci, questo modo di trattare il tema dell’infanzia, fare del bambino il soggetto e non l’oggetto dello spettacolo, ci è proprio dalle origini, anche quando non abbiamo lavorato direttamente con bambini, in scena o in platea. Rodolfo Sacchettini, in un articolo apparso sulla rivista “Lo Straniero”, descriveva dettagliatamente questo lavoro. Mi pare utile riportare qui un passo esteso di quel saggio, perché racconta molto precisamente un lavoro del nostro passato, che oggi non è più nel nostro repertorio, per richiamarlo alla memoria degli spettatori che lo videro allora, oppure per fornirne suggestione a chi invece non l’ha mai visto e, ormai, non lo vedrà più.
Una cameretta in bianco e nero, strutturata a quadrati come fossero le caselle di una scacchiera. All’interno un tavolino e una piccola sedia di gomma e una superficie opaca: il famoso specchio. Ma c’è un altro specchio da attraversare (forse da chi guarda?), quello trasparente che separa tragicamente la stanzetta dei giochi (o dell’infanzia, o aula scolastica) dal pubblico. Che poi sembra funzionare come un filtro, un gelido filtro che rapprende le azioni e i movimenti e proietta le immagini come su una superficie bidimensionale, estraniando e allo stesso tempo concentrando lo sguardo. (…) L’architettura della scena, che è ben altra cosa dalla scenografia, sembra la soglia privilegiata per collocare “noi bambini” direttamente nella storia, una sorta di grado di verità necessario alla finzione. (…) Sulla scena, fuori dalla stanza, appare una figura statuaria, altissima rispetto a noi. Una maestra elementare d’altri tempi con l’abito lungo della regina, inizia con tono severo a presentare la storia, scandendo le parole come un dettato in classe. Dentro la stanza Alice si alza, comincia a passeggiare e, come per dare il via all’avventura (che potrebbe sembrare una recita scolastica), la ragazzina legge sulle mani, a mo’ di libro aperto, la storia di Alice. Mani che poi si mostrano davvero imbrattate dell’inchiostro di lunghe frasi, come suggerimenti durante un esame.
Pare infantile allora la costruzione di uno spettacolo che stupisce e meraviglia, che vede l’oggetto immediatamente trasformarsi e assumere nell’immaginazione un senso completamente nuovo; così il tavolo, cadute all’improvviso le gambe, rimane sospeso in aria divenendo agli occhi di Alice prima un lago e poi una casa. E così anche misteriosamente vengono calati dal soffitto della stanzetta uno specchio, un libro e altri oggetti. Ma se nel nostro immaginario tutto il divenire metamorfico carrolliano assume (colpevole certo anche Walt Disney) i contorni di un mondo spontaneistico e spensierato, F&A colorano lo spazio di tinte bianche e nere, lo riempiono di note metalliche e distorte, non cedendo mai a lenire i contrasti, bensì mostrandoli nella loro crudezza.
La storia è famosissima. Dopo aver attraversato lo specchio Alice incontra una Regina Bianca che le indica il percorso per arrivare all’ottava casella dove anche lei potrà diventare regina. Comincia una corsa impazzita in un viaggio di crescita fatto di obblighi assurdi e doveri indiscutibili. Alice incontra una serie poco rassicurante di adulti e strane presenze: un insetto, un cavaliere, una vecchia che si trasforma da bigliettaia del treno in pecora, una traghettatrice con remi di gomma e infine Humpty Dumpty, prima del conclusivo ritorno della Regina Bianca. E anche se la strada che percorre Alice è tortuosa e riserva mille sorprese, rimane il fatto che sia tragicamente segnata, e gli stessi cartelli indicano ancora una volta un’unica direzione. Casella dopo casella, in una rigida scacchiera educativa con l’obiettivo di arrivare alla mèta prestabilita, che poi sarebbe il conseguimento per Alice della presunta maturità.
F&A leggono il testo in una forte chiave pedagogica, e collocano quindi Alice a fare i conti con una vera e propria scuola (o mondo) di inquietanti adulti (tutti rappresentati da una multiforme Sara Masotti). E osservano, come sul vetrino di un microscopio, il tentativo dei grandi di ingabbiare la vitalità di Alice, in un percorso di crescita mosso esclusivamente dal perpetuare il drammatico scambio di ruoli tra lo scolaro (Alice) e la maestra (la Regina). Perché infatti nell’ottava e ultima casella la Regina si accovaccia sulle ginocchia della piccola Alice e in uno strano ribaltamento-regressione le chiede di cantare una canzone.
Forse Alice ha finito davvero il suo percorso, forse ora, che ha in braccio la regina-bambina, diventerà lei stessa regina, chiudendo così un circolo angosciante. Chi impara un giorno insegnerà, sempre in questa geometrica scuola. A differenza del testo di Carroll che nella dimensione del sogno e del dubbio chiudeva il racconto, F&A spogliano la storia da tutti gli elementi onirici, che forse oggi apparirebbero consolatori, ricollocando l’esperienza di Alice in uno spazio più concreto, irto di ostacoli, tra realtà e immaginazione.
Il mondo dell’infanzia per F&A è un mito, un totem, qualcosa di centrale nel percorso ormai decennale della compagnia ravennate. Alice è apparsa più volte nei lavori precedenti, in maniera forse collaterale o ricordata solo per citazioni, ma c’è sempre stata. E di più c’è stato il suo sguardo che ha intrigato per quell’incredibile curiosità che serve a scardinare e svelare strane realtà. Che è poi lo sguardo dell’infanzia oggi di Alice domani di Ada (di Nabokov), ieri di Psiche e prima ancora di Romeo e Giulietta, di Pinocchio, senza dimenticare i bergmaniani Alexander e Fanny.
Ricco di suggerimenti e di letture, il lavoro dei F&A diventa spazio di indagini sul teatro stesso e non ultima suggestione risulta il linguaggio contorto e assurdo degli adulti, che, fisicizzato attraverso l’uso costante dei microfoni, finisce spesso in cortocircuiti tra significato-significante-referente. La lingua, spiega Humpty Dumpty, segue le logiche inquietanti del potere, chi comanda ne decide il senso, anzi “se vuoi che significhino il doppio, devi pagarle il doppio”. Perdendo la lingua in un groviglio di paradossi non giocosi ma allarmanti, si mette in discussione la stessa possibilità di un tessuto sociale, a cui però si contrappone la ricerca di “sostanza” e di “senso” di Alice, mossa da una costante “Fame” di bergmaniana memoria. Nessuna risposta ma solo altri interrogativi alla domanda gelida posta dal teorema messo in scena dai F&A (Sacchettini 2003).
La nostra scelta dunque fu quella di collocare una ragazzina (Virginia Sofia Casadio, allora dodicenne) in un contenitore rigidamente geometrico: una piccola aula scolastica, dai confini stabiliti, che si affacciava sull’esterno tramite un vetro. Teca da esposizione, di cui ella non aveva coscienza, perché all’interno della stanza il vetro diveniva semplicemente uno specchio, e in assenza di luce esterna i confini delle cose si facevano impercettibili, senza profondità, come inghiottiti dal buio. L’interno non era a colori, ma in bianco e nero, senza alternative, un sì o un no. Dentro vigeva la rigida regola geometrica, la regola degli scacchi. Tra una linea e l'altra era un pavimento di gomma, che cambiava forma in base alla pressione del piede della ragazzina. Anche le pareti erano di gomma. Un microfono, calato dall’alto, a piena vista, captava ogni parola della bambina e l’amplificava all’esterno, come era avvenuto per Alfredino a Vermicino, nel suo famoso pozzo (quell’episodio di cronaca aveva segnato l’immaginazione della nostra generazione). Cosa capita a una bambina, catapultata in una simile stanzetta, e poi esposta a uno sguardo adulto, attrezzato anche tecnologicamente per rapirne millimetricamente i sospiri, i suoni, le incertezze, gli errori possibili?
Il mito di Alice è il mito dell’infanzia per eccellenza. Durante la preparazione teorica dello spettacolo ci siamo imbattuti in due scritti di Jean Jacques Lecercle (Lecercle 1985; Lecercle 2008), anglista e carrolliano, che si sono rivelati fondamentali per la messa a fuoco della drammaturgia. Lecercle, in questi studi, parte dalla constatazione che una bambina, in epoca vittoriana, non andava a scuola, ma riceveva lezioni a casa da parte di una governante; in quanto femmina, cioè, veniva così contemporaneamente anche ‘messa al riparo’, in certo senso, dal mondo maschile, quello degli adulti di fuori: la linea di confine tra l'infanzia e il mondo adulto risultava perciò ancora più marcata per le bambine. In epoca vittoriana progredisce l'istruzione scolastica, ma solo i ragazzi sono considerati fin dalla tenera età piccoli uomini. Le ragazze invece sono protette dal futuro sguardo del desiderio adulto, è per questo che sono ancora più libere, nel recinto di solitudine appositamente disegnato per loro, di attenersi in fondo alle regole dei propri stessi desideri. Rileggendo Alice attraverso queste parole, due visioni molto forti si sono a poco a poco imposte: da un lato l’idea della soggettiva della bambina, in un piccolo luogo di solitudine da cui fosse impossibile guardare al mondo; dall'altro l’onnipresente idea nella storia di Alice del concetto di istruzione, di insegnamento, e anche, perché no, di una sorta di trasfigurata ‘scuola’. Una scuola-gabbia che doveva separarla inevitabilmente dalla realtà.
Nella gabbia che le costruimmo, la nostra giovane attrice, Virginia, era sola, completamente sola, completamente priva di indicazioni psicologiche, di veri insegnanti e insegnamenti (eccetto quella mentita, spaventosa e gigantesca figura sul palco, l’attrice adulta, accanto a lei), priva anche della falsa libertà propria del suo gioco, un gioco sempre modellato sugli schemi adulti, ed esposta ad una storia che non le era nemmeno stata mai raccontata, protagonista suo malgrado di quella storia. Come se si trattasse di un gioco in cui, distribuite le parti, i giocatori reagiscono istintivamente, dimentichi delle rigide regole a cui pure stanno obbedendo.
Nella storia Alice, da quando precipita nel suo cunicolo, non smette mai di trasformarsi, perde la sua identità originaria e scopre che le parole possono essere ribaltate e che, nello strano mondo dov’è finita, senso e nonsenso coesistono abitualmente, fianco a fianco. Scoprire che senso e nonsenso possono convivere, toccare con mano il paradosso, e attraversarlo è per Alice una vera rivoluzione ed è anche il solo modo possibile per lei per risalire alla superficie, che è anche la superficie del linguaggio; per poi scoprire, infine, che la lingua è come il nastro di Möbius: la percorri da una parte all’altra, ma ti ritrovi sempre dallo stesso lato. La bambina prende gusto a questo paradossale gioco del linguaggio e al contempo ne scopre la mentita profondità; mentita è anche la profondità di quel mondo in cui è precipitata, che pur essendo “sottoterra” è governato dalle regole bidimensionali della superficie, le regole dello specchio e degli scacchi.
Anche noi, dunque, siamo partiti dalle parole, dal potenziale reversibile del linguaggio. Le parole, per la nostra piccola Alice, non sono mai state semplici, fin dall’inizio. Alice, il suo personaggio, infatti parlava una lingua terribile, quasi incorrotta: è vero che poteva deformare il linguaggio fino all’inverosimile, ma le parole (e le cose) per lei avevano sempre un ordine perfetto, quasi liturgico. Anche lo spazio che Alice doveva abitare non era semplice: era fatto di divieti, di limiti invisibili tra le cose, come lo sono i lacci della metrica a dividere senso e nonsenso. C’è un legame molto forte che lega parole e spazio fisico, in teatro e anche nella storia di Alice, ed è ancora una volta quello del rovesciamento e del rispecchiamento. La nostra giovane attrice doveva avere una gran fede in se stessa per orientarsi nel caos ordinato che sempre assediava la sua stanza dei giochi durante le prove. Ho un ricordo nitido e ricorrente di quei giorni: Virginia, accucciata a terra, a cercare qualcosa. Aspetta che le parole le si fissino nella mente, fa un grandissimo sforzo per ricordarsi l’ordine preciso e, prima di cominciare ogni sessione dice: “Aspetta, aspetta, lasciami stare qui, adesso incominciamo”. Luigi De Angelis e io abbiamo lavorato così, nelle settimane, improvvisando, un’esperienza quasi inedita per noi, fatta di silenzi, di attese e di esplosioni improvvise, grappoli di parole che fiorivano di colpo sotto la pressione dello sforzo. Non ho scritto un rigo di testo durante quelle lunghe sedute: per tutto il tempo non ho mai sentito il bisogno, che invece mi è sempre così familiare, di fissare quel che succedeva in scrittura. E come si potevano scrivere, del resto, quelle sue parole?
Un giorno ho chiesto a Virginia cosa pensava di tutte le parole che si componevano, a poco a poco, nelle prove e che poi per gioco appuntavamo, scrivendole sul suo corpo, sulle mani, sulle gambe, come fanno i bambini a scuola prima di un’interrogazione, per permetterle di ricordarle, di ripeterle, di recitarle. Lei mi ha risposto:
Le più belle parole per me sono quelle che si scrivono. Io passo le giornate a scrivere degli sms. Scrivere per me significa poter parlare a qualcuno senza guardarlo in faccia. A volte questo non è nemmeno un vantaggio, sai, ma mi fa sentire al sicuro. Ma Alice nello spettacolo non scrive per questo motivo, ne sono certa. Scrive per sottolineare che le parole le sono estranee, scrive quando non le capisce. Ad esempio nella scena in cui incontra Humpty Dumpty, che dice un sacco di cose strane, lei scrive sul muro qualcuna delle sue buffe parole. Scrive per non avere paura.
La bambina nella stanza non ha niente e nessuno. È orfana di tutto. Incontra diverse creature che non sembrano creature di questo mondo. Ogni giorno prova le sue scene tre ore filate con pazienza, precisione, con estrema competenza. È la sua avventura attraverso lo specchio. L’attrice adulta al suo fianco le si propone ogni giorno in una forma nuova, ogni giorno le parla la sua lingua irta e misteriosa, la lingua dello Specchio. Virginia chiama quella donna e le sue epifanie, genericamente, ‘il mostro’. In realtà è di volta in volta sua sorella, che la lascia fuggire dentro la tana del coniglio, la sua maestra, è l’adulta che le dà indicazioni su come abitare la scena, è la creatura fantastica che popola il suo sogno dentro quella stanza. Un giorno la bambina non avrà più bisogno di lei. È allora che il mostro si potrà trasformare. Chiederà alla bambina, prima di andarsene, di cantarle una canzone, una specie di filastrocca, di ninna nanna. Si farà consolare dalla bambina, dirà che ha paura. Entrambe allora si potranno trasformare: ‘il mostro’ cesserà di comportarsi da Caronte oroscopico e si trasformerà, essa stessa, in bambina; la bambina prenderà la parte del mostro. La metamorfosi del ‘mostro’ è quella della bambina: sarà del tutto naturale, dunque, uno scambio di ruoli finale. Per arrivare a quel punto la maestra, l’adulta, dovrà attraversare la paura, la follia, il senso e il nonsenso della storia, rischiando d’attirarsi l’ostilità della bambina, mettendosi anche spesso in ridicolo (“Le addizioni le so fare, le sottrazioni assolutamente no…”): discenderà con lei all’inferno, permettendole di discendervi a sua volta. Non bisogna dimenticare, però, che è sempre Alice, nella storia, e qui la bambina, che in origine evoca il mostro, magari in sogno, da lontano, e senza nemmeno saperlo.
Il cammino che lo spettatore deve compiere, dunque, sarà simile a quello di Alice. Lo spettacolo è interdetto, scherzosamente, agli adulti, proprio in quanto adulti. Lo spettatore farà così un viaggio non all’indietro, nella memoria della sua infanzia, ma verso un’adesione sempre più precisa all’ideale d’infanzia che quella bambina che ha di fronte evoca e incarna. Non ha affatto senso entrare in questo mondo dalla porta del ricordo, evocare la realtà oggettiva della propria inestinguibile infanzia, “il se stesso bambino”, come a volte si sente dire. Nulla di quello che ci si troverà di fronte in questo spettacolo corrisponderà mai alla propria realtà. E, del resto, nemmeno il mondo delle Meraviglie di Alice può mai farlo. Questo luogo, la Wunderkammer di Alice interdetta agli adulti, è un mondo in cui il concetto di realtà è momentaneamente sospeso (e dunque anche quello di immoralità, non si può stabilire quel che è giusto e quello che è sbagliato, le regine tagliano la testa, ognuno dà ordini incomprensibili, e sempre è interrotto il nostro metro di giudizio usuale): questa è la condizione in cui può davvero proliferare il Meraviglioso. Nasce così il mondo paradossale dello specchio, dove il Meraviglioso non è considerato tale, ma è la normalità.
Ecco come la piccola attrice, e lo spettatore con lei, conquisterà e affronterà la sua storia. Questa conquista è forse la cosa più scandalosa di tutte, la sola che sia davvero interdetta: interdetta agli adulti che non sappiano accettare una profonda trasformazione, di sé e del proprio modo di guardare alle cose. E questo naturalmente vale per il pubblico, ma anche per noi, al di qua dello specchio, per gli autori. In un intervento radiofonico in cui venne intervistato a proposito di letteratura e di infanzia Gilles Deleuze disse, un giorno:
Mi sono immaginato mentre mi mettevo alle spalle di un autore: prendevo un bambino e glielo davo. Questo bambino era il suo, ma era un mostro. È importante che fosse il suo, perché doveva fargli dire esattamente quello che io volevo, ma è anche importante che fosse un mostro, perché doveva attraversare ogni forma di travisamento, scandalo, rottura, emissione segreta...
Riferimenti bibliografici
- Baum [1900-1920] 2017
F. Lyman Baum, I libri di Oz [The Wonderful Wizard of Oz, 1900], tradotti e raccontati da Chiara Lagani, Torino, 2017. - Carroll [1865/1871] 1978
L. Carroll, Alice nel Paese delle meraviglie/Attraverso lo Specchio [Alice’s Adventures in Wonderland 1865, Through the looking-glass, 1871] trad. M. d’Amico, Milano, 1978. - Lecercle 1985
J. J. Lecercle, Philosophy through the Looking Glass-Language, nonsense, desire, London 1985. - Lecercle 2008
J. J. Lecercle, Alice, Paris 2008. - Palazzi 1996
R. Palazzi, Macabri riti infantili, “Il Sole 24 ORE”, 6 ottobre 1996. - Sacchettini 2003
R. Sacchettini, Vietato ai maggiorenni, “Lo Straniero” n. 36, giugno 2003.
English abstract
Since 1996, the myth of Alice has always been present in the works of Fanny & Alexander, but it is of course central to the pièce Alice vietata >18 anni, where infancy is treated as the subject, the point of view of the play, and not as its object. Here, Alice is put alone in a box, a sort of aseptic schoolroom where she has to come to terms with words with opposing meanings, unsettling situations, absurd rules and orders. A Wunderkammer where the concept of reality is suspended and Wonderfulness appears. And, in the paradoxical world of the looking-glass, Wonderfulness turns into Ordinariness, which is the only way Alice, and the spectator with her, can face her own story, and the transformations she undergoes. Deleuze once said that he had imagined himself standing behind an actor who handed him a baby. It was his own baby but it was a monster. It was important that it belonged to him, because he had to make him say exactly what he wanted him to say, but it was also important that it were a monster, because it had to pass through any form of misrepresentation, scandal, and rupture.
keywords | Alice in Wonderland, Fanny & Alexander, Alice vietata > 18 anni .
Per citare questo articolo: Chiara Lagani, Alice attraverso lo specchio di Fanny & Alexander, “La Rivista di Engramma” n. 161, dicembre 2018, pp. 115-127. | PDF dell’articolo