"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

203 | giugno 2023

97888948401

Memoria e avanguardia. Intervista a Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi (1996)

Con una nota al film Lo specchio di Diana

Intervista di Bruno Fornara. Riedizione e Nota a cura di Filippo Perfetti

English abstract

Il presente contributo ha come oggetto Lo specchio di Diana, film di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, in quanto possibile strumento utile allo studio della vicenda del recupero e della musealizzazione delle navi di Nemi. Si tratta di un approfondimento sul film ma anche sull’opera e la poetica dei suoi autori, articolato in tre parti:
I. Riedizione dell’intervista ai due autori fatta per la rivista “Cineforum” da Bruno Fornara;
II. Filippo Perfetti, Lo specchio di Diana di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi (1996). Una nota;
III. Bibliografia tematica dedicata a Lo specchio di Diana.

Memoria e avanguardia. Intervista a Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi

Bruno Fornara

Bruno Fornara | Come definireste il vostro cinema e i vostri lavori? La parola “sperimentale” non mi sembra la più adatta.
Yervant Gianikian | Sperimentale era un termine di tanti anni fa. Si diceva anche: d’avanguardia. Abbiamo mantenuto delle forme d’avanguardia, se vuoi. Ma quello che ci interessa di più adesso è il contenuto. Tante forme di contenuto: ideologico, politico o anche della memoria.
Angela Ricci Lucchi | La definizione di sperimentale l’abbiamo un po’ rifiutata. Non dico che sia riduttiva, ma non mi sembra centrata. Però, una definizione precisa, un termine esatto non lo saprei dare. Quando dobbiamo spiegare a qualcuno il tipo di lavoro che facciamo, questo ci riesce difficile: si può dire di ricerca, forse è un cinema radicale. Forse, come ci siamo inventati una forma cinematografica, bisognerebbe inventare anche un termine.
YG | È un lavoro sulle immagini, sull’immagine. Qualcuno dice che sono troppo belle, che cerchiamo troppo il bello: però, è anche attraverso il bello che cerchiamo di fare un discorso. Ci chiediamo perché mai il bello non possa essere politico.

BF | Ogni regista si crea le sue immagini. Voi le andate a cercare già fatte.
YG | Sì, le cerchiamo già pronte. Però le scegliamo, le reincorniciamo. Andiamo a rifilmare il già fatto che non si è mai visto, a riproporre il già fatto scomparso. Non è sempre stato così. Vent’anni fa filmavamo noi le nostre immagini. A quell’epoca facevamo davvero un cinema sperimentale in senso stretto con delle forme che vediamo riprese oggi. Abbiamo visto, qui a Locarno, il film di Alain Cavalier, La rencontre
ARL | … siamo usciti e uno ha detto all’altro: tu cosa ne pensi? E io ho detto: penso che lo facevamo vent’anni fa!
YG | I nostri cataloghi di oggetti, i lavori sulla memoria attraverso gli oggetti. Ci stupiamo che dei cineasti che hanno fatto dei film di grossa produzione poi si accorgono, a sessant’anni, che potrebbero lavorare da soli, senza attori, senza macchinisti, senza operatori, usando una piccola camera. Questo l’abbiamo fatto, e con mezzi minimi, molto tempo fa.

BF | Allora il vostro è un cinema un po’ anarco-individualista…
ARL | Non un po’: molto, molto…
YG | Continuiamo a lavorare in modo del tutto artigianale. Soltanto quando usiamo il video abbiamo bisogno di altre persone. Ma non vogliamo certo abbandonare il cinema, la pellicola.

BF | Quando avete cominciato a lavorare su immagini già filmate?
ARL | Adesso sono in molti a lavorare sugli archivi. Noi abbiamo cominciato verso la metà degli anni Settanta, quando portammo in Inghilterra certi primissimi tentativi e ci guardavano come dei matti. Non è che eravamo i soli a usare gli archivi. Ma un certo modo di usare il materiale di archivio non tanto per usare l’archivio ma per dialogare con l’oggi, quello abbiamo cercato di scoprirlo già allora.
YG | Dai nostri lavori sugli oggetti eravamo passati ad un lavoro sul fotogramma come oggetto di ripresa. C’è un film di mezzo, di passaggio, che non facciamo mai vedere, anche perché è in 8 millimetri, e che si chiama Karagoez numero zero, in cui ci sono gli oggetti e ci sono anche i film tra gli oggetti.
ARL | Bisognerebbe precisare che oggetto va inteso in senso largo. Abbiamo una mole di lavori in 8 millimetri. Lavoravamo con gli oggetti in tante maniere: gli oggetti nella natura…
YG | …lavoravamo sulla nozione di catalogazione, del fissare tutto quello che incontravamo. Allora ci colpiva questa idea di catalogazione. Poi, con gli anni, il senso estetico o della memoria pura non ci ha più interessato e siamo passati a cercare la memoria interna delle cose. Sono passati gli anni, è cambiata la storia. Abbiamo adesso questo profondo senso della fine del millennio. Adesso lo si dice tutti. A noi è capitato di cominciare a sentire tutto questo quando, anni fa, abbiamo scoperto dei film nazisti o fascisti. Anche se allora non ce ne rendevamo conto del tutto, vedevamo soltanto il bello. Era tutto materiale scomparso, di cui non si conosceva più l’esistenza.

BF | Si può dire che il vostro lavoro attuale – penso a Prigionieri della guerra e a Lo specchio di Diana che avete portato a Locarno – sia una meditazione sulla storia della sopraffazione che il cinema ha conservato sulla pellicola e che bisogna tirar fuori e mostrare di nuovo?
ARL | Detestiamo al massimo grado tutto ciò che è retorica. Ci sforziamo di far vedere ciò che sta dentro queste immagini che sono state girate con tutt’altri intenti. Vogliamo che siano le immagini stesse a dire. Noi stiamo il più distante possibile. Chi vede queste immagini le rielabora, scopre in esse, certo, una storia della sopraffazione. Già con Dal Polo all’Equatore ci siamo messi su questa strada: sopraffazione sull’uomo, sul mondo, sulla natura…
YG | La storia è sempre attuale. Abbiamo fatto questo lavoro, Lo specchio di Diana, e l’ombra del nazismo risalta fuori proprio in questi giorni, con il caso Priebke.

BF | Come arrivate ad avere l’idea di un film? Come si passa dai materiali che ritrovate ad una loro utilizzazione per farne un film?
YG | Prendiamo quest’ultimo film, Lo specchio di Diana. È un lavoro in corso, è uno scavo archeologico che continua. È un film destinato a crescere. Adesso è di mezz’ora. Vorremmo durasse più di un’ora. Si tratta di materiali sulle navi dell’imperatore romano Caligola ritrovate in epoca fascista nel lago di Nemi. C’è un discorso sul fascismo, sulle radici imperiali che andava a cercare dentro la romanità; c’è anche un discorso sugli oggetti come emblemi: questi leoni e queste lupe, gli stemmi.

BF | I filmati non vengono dai cinegiornali.
ARL | No, è un diario filmato del lavoro di recupero di queste due navi, un diario che va dal 1926 al 1940. Sono stati gli ingegneri che lavoravano alle navi a filmare le fasi del recupero. Infatti il materiale non è montato, è difficile da risistemare, da riorganizzare…
YG | Era materiale che stava in un vecchio laboratorio cinematografico. Volevano buttare tutto. L’abbiamo trovato quindici anni fa. Per noi, le cose vengono a stratificarsi: negli anni, i materiali si accumulano e il progetto di un lavoro si apre ad altre immagini. Ci piace descrivere, per noi stessi, tutto il materiale che troviamo. Sulla base di queste descrizioni pensiamo ad un film possibile. Poi, queste descrizioni si aprono ad altre immagini che si incastrano in quelle di partenza. Per esempio, le immagini delle bombe chimiche all’iprite, in Africa, sono andate a incontrare le navi di Nemi. Insomma, siamo partiti da immagini documentarie, che erano destinate ad essere buttate vie. Erano considerate ciarpame, quando noi le abbiamo salvate. Allora, noi le cercavamo, tutti le buttavano: adesso no, adesso tutti le conservano.
ARL | Siamo orgogliosi di aver salvato Comerio dalla totale scomparsa.

BF | In questi materiali si tratta di trovare quelle immagini che conservano “il vero” di un avvenimento?
YG | Noi cerchiamo all’interno del materiale qualcosa che ci dice qualcosa. L’importante è la forma dell’osservazione del materiale: come lo guardiamo. Non lo guardiamo in maniera meccanica.
ARL | I filmati da cui viene Lo specchio di Diana arrivano ad un totale di circa due ore e mezzo di proiezione. Vorremmo che il nostro film si allargasse ancora, soprattutto nella parte che dell’impresa del recupero delle navi di Nemi. Si tratta di un esempio di primo cinema di tipo industriale, però c’è ancora dentro l’Italia contadina, poi c’è l’Italia militare, perché il lavoro lo fanno fare ai militari…
YG | … e ci vedi già dentro il futuro: vedi i preti, i poliziotti, i portaborse, i ministri, le donne dei ministri. Il regime. Nulla è cambiato. E questa folla che guarda. Vedi le costanti immutabili del potere.

BF | Su queste immagini, il vostro lavoro va in due direzioni. Operate tecnicamente sulla pellicola per sottolineare ciò che volete mettere in evidenza. E date alle immagini dei riferimenti esterni. In questo caso, Frazer e Il ramo d’oro.
YG | Questo lago era un luogo mitologico. Turner ha dipinto su questo soggetto dei quadri molto importanti: Le sibille, Il lago di Diana, Il ramo d’oro. E il libro più importante di Frazer, in dodici volumi, e prende il titolo dal lago di Nemi, dalla foresta mitologica di Diana.
ARL | Anche nella musica abbiamo fatto riferimento a Frazer che chiude il suo lavoro dicendo qualcosa come: mi allontano dal lago di Nemi e sento le campane che suonano al tramonto… Allora abbiamo cercato dei suoni che richiamassero le campane. In parallelo al lavoro sulle immagini, facciamo molte letture, troviamo collegamenti.
YG | Il mito del lago di Nemi, in due parole, è questo: la foresta dedicata a Diana aveva un guardiano, il re della foresta, che era insieme re e assassino; si diceva che uno schiavo in fuga poteva rubare un ramo d’oro dell’albero sacro, uccidere il re sacerdote e diventare re a sua volta. Ogni sacerdote re veniva dunque ucciso da uno schiavo fuggitivo che diventava il nuovo re sacerdote. Caligola aveva costruito queste due navi enormi, lunghe settanta metri. Anzi, le navi erano tre: alla fine, nel film, si vede un rabdomante, che sembra il demonio, che cerca la terza nave. Non si sa se le navi fossero dei templi galleggianti o venissero usate per delle feste. È Caligola a far uccidere l’ultimo re sacerdote del lago e lo stesso Caligola morirà di morte violenta. Chiunque si occupasse di questo lago, moriva di morte violenta. Perciò abbiamo collegato questa leggenda al fascismo. Abbiamo voluto prendere il fascismo da un’altra direzione: usare un mito per scavare sotto ai miti del fascismo. Era Mussolini l’ideatore di questo recupero della navi: era con queste navi che Roma aveva conquistato l’impero. E il film finisce con le bombe all’iprite.
ARL | Anche le navi finirono distrutte. Durante la guerra, la gente della zona andava dentro al museo delle navi e si rifugiava sotto gli scafi. Abbiamo trovato una fotografia in cui si vedono i lettini e le persone sotto le navi.
YG | Pensa: avevano continuato a lavorare dal 1926 al 1940. L’inaugurazione del museo è dell’aprile del 1940 e l’Italia un mese dopo entra in guerra. I nazisti entravano in Yugoslavia, lo stesso giorno dell’inaugurazione del museo delle navi.
ARL | E po la beffa e la follia. La fatica annullata da due soldati tedeschi in fuga che sono passati e hanno bruciato le navi, nel 1944.
YG | La follia era stata il tirar su le navi che dovevano stare sotto.

BF | Che struttura avete dato a questo film?
YG | Ci sono tre sezioni. La prima è la parte archeologica girata dai tecnici e dagli ingegneri degli scavi come per tenere un diario. Noi questa parte la vediamo con un diario italiano.
ARL | Infatti il film l’abbiamo chiamato, come sopratitolo, Archivi italiani numero 3. I nostri archivi continuano, vanno avanti.
YG | Poi c’è la sezione dedicata a Tripoli, la Tripoli dell’impresa di Mussolini vista dai francesi, dove Mussolini viene chiamato, scherzosamente, per prenderlo in giro, l’imperatore italiano. Poi c’è una terza parte di materiale amatoriale, sulle bombe in Etiopia, girata in 16 millimetri sempre da un ingegnere, dove si vedono i cammelli morti, le riprese aeree e le bombe all’iprite. Perciò ci sono il cinema industriale, il cinema imperialista di propaganda e il cinema amatoriale.

BF | Qual è il vostro lavoro su queste immagini?
YG | Noi montiamo le immagini e soprattutto le riprendiamo di nuovo, le ri-fissiamo, le rivitalizziamo. Abbiamo provato a far questo anche attraverso il video. Ma abbiamo visto che il risultato non era assolutamente lo stesso. Così siamo tornati alla pellicola. Fotogramma per fotogramma, rifilmiamo il cinema.
ARL | Frame by frame
YG | Già: frame by frame. Siamo appena stati nella ex Yugoslavia a portare Prigionieri della guerra. E l’espressione “frame by frame” ci è rimasta in mente. Parlando di questo film, Prigionieri della guerra, in una certa città, siamo stati costretti a parlare solo di tecnica, solo di questo “frame by frame”. Non ne potevo più di parlare solo di tecnica, mai di contenuto. Poi siamo arrivati in un’altra città e di nuovo soltanto di tecnica… Non si poteva parlare di politica. Torniamo allo Specchio di Diana: nella parte di Nemi abbiamo cercato di mantenere i colori come li abbiamo trovati. La muffa è originale, la muffa che va sulla decomposizione del colore. Abbiamo scelto le parti più colorate. Mancano le parti in bianco e nero.
ARL | Sui colori, di solito, interveniamo sempre. Un altro tipo particolare di intervento che facciamo sulle immagini è quello sulla velocità di scorrimento delle immagini. Sulla velocità delle immagini originali e sulla velocità diversa che noi decidiamo di dare a queste immagini. Questo nuovo tempo può essere più lungo o più breve, possiamo accellerare o rallentare. Comunque, dietro e insieme a tutte queste faccende tecniche, c’è sempre un discorso politico. Ci siamo accorti, guardando indietro al nostro percorso, che abbiamo messo insieme, strada facendo, un lavoro di notevole valenza politica. Forse qualcuno poteva pensare che il nostro fosse un lavoro leggero. Ma fin dall’inizio ha avuto anche altre connotazioni. Abbiamo un film su Mahler, degli anni Settanta, un film muto, che si basa un testo di Adorno su Mahler.
YG | Non siamo molto bravi a parlare di queste cose. Allora le scriviamo. Prima di arrivare a un festival, ci scriviamo delle cose da dire che non riusciamo a dire senza leggerle. (Prende un quadernetto. N.d.R.) Senti: per esempio, delle vecchie frasi: “Il lavoro contro la violenza è la sola arma di un artista”... “La cultura come unica sovversione in questo vuoto totale”... “Non facciamo in genere dichiarazioni politiche, però il politico è intrinseco al lavoro”... “Risignifichiamo il passato, attualizzandolo, ribaltando il significato primario del passato e rimettendo il passato nel presente”...
ARL | Di questo ci accorgiamo: che stiamo lavorando a un film, pensato due, tre anni prima e poi salta fuori che le cose dette nel film sono attualissime. Anche per questo film. Che tra l’altro nessuno ci ha voluto produrre, neppure all’estero: solo l’immagine di Mussolini li terrorizzava. Troppo bello, pericoloso.
YG | Come se si facesse dell’apologia… In realtà, noi usiamo queste immagini con ribrezzo.

BF | E allora come l’avete prodotto?
ARL | Abbiamo girato per le produzioni che di solito ci aiutano, e cioè la ZDF tedesca, la Sept francese, o il Museo di Trento e Rovereto, o anche Raitre per certi lavori documentaristici degli anni Ottanta. Niente. Così, stavolta le cose sono andate in modo diverso. Questo film, anzi il progetto di questo film ha vinto un premio al festival di Sacile, Ambiente Incontri. Poi abbiamo avuto un aiuto dalla Provincia di Milano, con le attrezzature video.
YG | Abbiamo impiegato poco per comporlo. Relativamente poco. Per Dal Polo all’Equatore ci son voluti tre, quattro anni. Per Prigionieri della guerra, due. Per Karagoez, tre anni. Comunque, a questo Specchio di Diana giravamo intorno da dieci anni.

BF | Sembra difficile che abbiate tanti film in gestazione, chiusi nelle scatole, scritti su quaderni… Continuate anche a filmare il presente?
ARL | Abbiamo moltissimi progetti. Una parte riguardano le pellicole d’archivio. In più abbiamo il nostro archivio, che ci costruiamo noi con quello che giriamo e che si accumula nel tempo. Guardiamo ancora il mondo com’è adesso.
YG | Il passato è sempre in relazione col presente. Talvolta addirittura lo precede, ci mostra quello che succederà. Si sa già cosa dovrà succedere.
ARL | In questo viaggio in Yugoslavia abbiamo filmato delle cose, ma non voglio parlarne. Sono diverse, particolari, anche come tecnica. Diventeranno un film. Magari fra tre o quattro anni.
YG I Abbiamo anche alcuni temi fissi, su cui ritorniamo. Le origini, gli armeni, la storia di mio padre: temi sempre collegati a quel che succede oggi, in Turchia, alla questione curda, agli integralismi. Abbiamo poi un film con Walter Chiari. L’ultimo film di Walter Chiari credo che lo faremo noi. Abbiamo fatto con lui un lungo viaggio nell’Armenia sovietica nel 1987, girando in maniera approssimativa ma sono scene piene di significati. Walter Chiari era nostro amico e aveva voluto venire ad accompagnarci.
ARL | Aveva letto il diario del padre di Yervant, delle sue tragiche vicende. Così è venuto…
YG | …e ha fatto delle cose… forse la cosa più comica che abbia mai fatto. Nell’Armenia sovietica. Non abbiamo mai avuto il coraggio di mostrarlo.
ARL | Adesso ci accorgiamo, abbiamo capito che è una cosa bella…
YG | Tutte quelle ore con lui in viaggio. I kolkoz, le sue recite, le sue confessioni.
ARL | Comincia così. Quando siamo partiti, da Milano, noi siamo arrivati in ritardo e lui ha detto: “Non avrei mai pensato che c’erano delle persone che riuscivano a battermi”. Poi a Linate, abbiamo incontrato un amico suo, Giancarlo Vigorelli, che gli chiede cosa faceva lì. E lui: “Accompagno un mio amico in Armenia, a trovare la sua vecchia patria”. Poi c’era una fila di suore con delle taniche andavano a Lourdes. Hanno mollato le taniche e hanno detto: “Il primo miracolo l’abbiamo già visto: Walter Chiari”. E in aereo ne ha fatte di tutti i colori… Devi pensare che per Yervant andare in Armenia era un impatto terribile, la tragedia della famiglia morta. Qualche nostro amico ha pensato che se partiva con noi un comico la cosa si alleggeriva. Io non volevo più partire: figuriamoci, vado via con Yervant e con Walter Chiari, uno superdrammatico, quell’altro comico. E quando siamo stati là è stato proprio così, c’erano queste due tensioni. Walter ha accettato tutte le scomodità, si adattava a tutto, scherzava nei momenti drammatici: “Il nostro agnellino, cosa dici: ce l’avranno mangiato oggi? fin qui? fin qui?”. Ci sono successe certe scene che purtroppo non abbiamo filmato. A un supermercato, erano arrivati i biscotti. Quel giorno c’erano i biscotti e alla cassa c’era una donna russa. In tutti i posti di un qualche potere c’erano i russi. Walter prende i biscotti e paga. Mette un rublo, un altro, dieci, venti, ottanta rubli. Io dico: “Ma sei impazzito? Una scatola di biscotti!”. E lui: “Ma non vedi quella! Me li chiede, li vuole!”. E lui metteva soldi su soldi. Un pacco. Facciamo per uscire, sento un rumore, un trambusto: tutte le donne armene che c’erano lì erano imbestialite contro questa cassiera e l’hanno costretta a ridarci indietro tutti i soldi. Siamo usciti come due eroi, con le donne che applaudivano.
YG | Lo faremo questo film. Dobbiamo farlo. Per la memoria di Walter.

BF | Come vivono i vostri film? Dove li mostrate?
ARL | Girano molto di più all’estero che in Italia. In Inghilterra abbiamo il British Film Institute che li distribuisce. In America c’è il Moma di New York. Anche in Australia è così. O in Austria. In Germania passano anche in tv. E in Italia, girano nel circuito non commerciale. E li accompagniamo ai festival.
YG | Mi è venuta in mente una cosa a proposito della prima domanda, su che cosa è il nostro cinema. Ci sentiamo legati ad un concetto ormai antico: ci piace il nuovo, qualcosa che spinga avanti. Non rinneghiamo mai l’appartenenza all’avanguardia. Adesso ci sono autori che si spacciano per avanguardia…
ARL | … ed è retroguardia, perché se conoscessero le avanguardie storiche…
YG | Ci sentiamo legati alle avanguardie storiche degli anni Venti e Trenta e alle avanguardie americane e europee dei Sessanta. Ci sono ancora tanti capitoli così poco esplorati, tanti poeti del cinema che sono sconosciuti, non arrivano a nessun festival. È chiaro insomma che non ci interessa fare del cinema commerciale.
ARL | Non andiamo molto al cinema. Andiamo anche a vedere del cinema “commerciale”, però non è la fiction che ci interessa. Anche se è difficile mettere un confine tra fiction e documentario o ricerca. Il nostro non è neppure un cinema documentaristico. Qualcuno ci definisce documentaristi, però i nostri non sono sicuramente documentari in senso stretto. Mi piacerebbe comunque avere più tempo per andare al cinema. Mi piacciono due cose: il cinema e leggere.
YG | È proprio così: facciamo dei film e facciamo delle letture parallele. Non ci interessa solo il cinema ma tutto quello che lo coinvolge, che può stargli intorno. Anche in questo Specchio di Diana, c’è Frazer, c’è Wittgenstein…
ARL | … che attacca Frazer perché dice, vede sempre i sacerdoti dal punto di vista di un pastore inglese…
YG | (legge dal quadernetto degli appunti. N.d.R.) … “di un pastore inglese del nostro tempo con tutta la sua stupidità e insipidezza”.

(Intervista raccolta da Bruno Fornara, al Festival di Locarno 1996)

II. Lo specchio di Diana di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi (1996). Una nota

Filippo Perfetti

Y. Gianikian A. Ricci Lucchi, Lo specchio di Diana (still), video, 1996.

Y. Gianikian A. Ricci Lucchi, Lo specchio di Diana (still), video, 1996.

Y. Gianikian A. Ricci Lucchi, Lo specchio di Diana (still), video, 1996.

Il mondo è un posto ingannevole. Molte delle cose che vedi non sono più realmente qui.
Sono solo un’immagine residua.
[...]
Siamo sommozzatori di recupero. Facciamo quello per cui ci pagano.
Comunque sia, sono sicuro che di questa storia ne sapete più voi di me.
C. McCarthy, Il passeggero

Nel 1996, al Festival di Locarno, la coppia di filmmaker Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi presenta il film dal titolo Lo specchio di Diana; raggruppato dal sopratitolo Archivi italiani n. 3 a due precedenti cortometraggi del 1991 e 1994, Il fiore della razza e Animali criminali. Lo specchio di Diana, realizzato in video, della durata di circa trenta minuti, si innesta nella fase matura della filmografia dei due artisti, quando è già cifra del loro cinema la realizzazione di film per mezzo della “camera analitica”, il dispositivo inventato dalla coppia per il rifilmaggio di pellicole cinematografiche di vario formato; e delineato è il soggetto della loro ricerca: la violenza nel Novecento, incarnata nei totalitarismi e diffusa a ogni latitudine (il titolo che infatti si fa bandiera di questa ricerca formale e tematica è Dal Polo all’Equatore, 1986). Il film riprende il materiale dei girati dal 1926 al 1940 relativi al recupero delle navi di Nemi nell’eponimo lago laziale, documenti che testimoniano i primi lavori per lo svuotamento del lago fino all’inaugurazione del museo dedicato alle navi romane avvenuta il 21 aprile 1940. Ad aprire il film, che conta sulla colonna sonora di Keith Ulrich, troviamo scritte che a mo’ di introduzione ricapitolano la leggenda e la storia relative al luogo e alle navi, mentre la prima e principale parte è segnata dalle immagini del recupero fortunoso dei relitti; a chiudere il film, invece, sono due brevi sezioni che fanno slittare lo scenario e in apparenza il tema. Dapprima ci si sposta a Tripoli, con il trionfo a cavallo di Mussolini nel 1926; poi è la volta dell’Africa orientale dell’Etiopia, ripresa durante i bombardamenti all’iprite dell’esercito italiano nel 1936. Della struttura del film parlano dettagliatamente gli autori nell’intervista che qui ripubblichiamo (apparsa su “Cineforum” del 1996), spiegando la stretta attinenza tra i materiali della prima parte e delle due successive. Le tre parti interlacciate tra loro legano con sé i differenti e simultanei volti del fascismo: l’imperialismo che cerca una radice e una giustificazione storica, la volontà di forma e retorica nell’immagine, l’essere capace di distruzione e omicidio nel consenso e nel frattempo di tutte le altre immagini. Queste immagini, o volti, cooperano e sono convergenti a un unico fine pur rimanendo nella distanza dei luoghi e degli anni (Lumley [2011] 2013, 117-118). Ara H. Merjian, commentando Lo specchio di Diana, fa notare che “La storia diventa prolettica anziché strettamente cronologica” (Merjian 2012), è questo che genera il montaggio nel film delle tre parti.

Altro aspetto che merita attenzione è la provenienza del materiale utilizzato. Come è noto, dal 1982 Gianikian e Ricci Lucchi hanno accesso al materiale dell’archivio di Luca Comerio, conservato nel suo ultimo laboratorio milanese, e da quel momento fanno tesoro del fondo per la creazione delle loro opere. Come dichiarano gli autori nell’intervista, la prima parte deriva da “un diario filmato del lavoro di recupero di queste due navi”; per loro stessa ammissione si tratta di materiale grezzo, che “stava in un vecchio laboratorio cinematografico”. Il “laboratorio” è proprio quello di Comerio e l’archivio comprende diversi tipi di documenti: ci sono quelli filmati dallo stesso Comerio e dalle sue produzioni, che arrivano fino alla fine degli anni Venti, quando smetterà di lavorare per mancanza di committenze e per il suo ammalarsi (cfr. Manenti, Monti, Nicodemi 1979). C’è il materiale collezionato da Comerio, che si può datare tra gli anni Venti e Trenta (Comerio muore nel 1940); quello di Paolo Granata, primo operatore di Comerio e poi tra i più importanti operatori del Luce negli anni ’30 (a lui si devono i girati dallo stesso Granata e altro materiale del Luce); e ancora, il materiale filmato dal nipote di Granata, colui che poi traghettò l’archivio fino alla condivisione con Gianikian e Ricci Lucchi, che va dalla metà degli anni Quaranta fino ai Sessanta. Ciò si può desumere leggendo l’intervista dei due artisti a Scott MacDonald:

Gianikian | Nel 1982 ci ha dato alcuni nastri – registrazioni di conversazioni con operatori che hanno ripreso la Prima guerra mondiale – realizzati molti anni fa per la radio; nei nastri c’era anche Paolo Granata, il primo operatore di Luca Comerio durante la Prima guerra mondiale.
Ricci Lucchi | Abbiamo continuato a prelevare materiale fino al 1985, quando è stato chiuso. Il proprietario del laboratorio (solo lui e la moglie ci lavoravano) era il nipote di Granata. Durante il fascismo Granata era l’operatore più importante nell’Italia settentrionale dell’Istituto Luce fascista. Negli anni, il nipote aveva ereditato il laboratorio di Comerio: lo spazio, i film. Anche il nipote era un operatore. La sua prima ripresa è stato il corpo di Mussolini appeso in una piazza milanese nel 1945. Il nipote ricordava le ultime visite di Comerio al laboratorio.

Il laboratorio aveva diversi vani cantina. Al principio è stato impossibile capire quanta pellicola ci fosse. Più tardi abbiamo realizzato che c’era una sorta di stratificazione del materiale filmico. C’erano le vecchie pellicole girate o collezionate da Luca Comerio. C’erano i film fascisti realizzati da Paolo Granata (in cui si rivela l’influenza di Comerio) negli anni Venti, Trenta, Quaranta. E c’era materiale religioso ripreso dal nipote negli anni Cinquanta e Sessanta. Il materiale filmico documentava epoche diverse: l’epoca del re, l’epoca del fascismo, e la più recente epoca del Vaticano. La raccolta di Comerio era molto ricca, migliaia di metri di materiale: documentari degli albori del cinema, film di viaggio, etnografici, materiale scientifico, e testimonianze della Prima guerra mondiale. Fatta eccezione per alcuni rulli, non restava praticamente traccia dei film di fiction elencati nella filmografia di Comerio. Quel materiale era scomparso, o era stato raccolto dalle cineteche. Però nessuno si era interessato ai documentari. 

SMD | Avete potuto distinguere il materiale girato e quello solo collezionato da Comerio?
YG | Sì, anche se nel nostro film [Dal Polo all’Equatore] abbiamo utilizzato entrambi. Una parte rilevante dell’archivio riguarda la Prima guerra mondiale. È stato girato da Comerio, l’unico ad avere l’autorizzazione dell’esercito a filmare scene di guerra. Durante la seconda parte della guerra perse quel permesso; c’erano troppi morti nei suoi film, e le battaglie che riprendeva risultavano spesso delle sconfitte. La prima parte della guerra si poteva vedere come un gioco – per esempio, le centinaia di soldati che cercavano di spingere l’enorme cannone in cima alla montagna – ma dopo non è più stato possibile. Alla fine della guerra Comerio filmò la cerimonia per la vittoria a Trento, vicino alle Dolomiti. Nell’archivio, i materiali che riguardano la guerra erano in piccoli rulli da dieci, venti, trenta metri, o a volte in sequenze separate in meno di un metro. Tutti i positivi sono colorati, e anche alcuni dei negativi. C’è solo un rullo di positivo, quattrocento metri, già montato, con le didascalie (da questo rullo abbiamo tratto le scene di guerra danneggiate dalla muffa). Abbiamo iniziato il nostro film riprendendo di nuovo e rimontando il materiale di guerra. Nel nostro Dal Polo abbiamo inserito una ripresa di Mussolini che entra a Tripoli a cavallo nel 1927, la ripresa non è di Comerio, ma dell’Istituto Luce. Volevamo mostrare quale sarebbe stato il futuro degli italiani. Dalla sua filmografia abbiamo appreso che Comerio ha cominciato a girare nel 1898 (McDonald [1998] 2000, 20-21).

Lo specchio di Diana è realizzato con l’archivio Comerio ma non con le sue riprese: la parte a Tripoli è la stessa di Dal Polo all’Equatore, che viene dall’Istituto Luce (Gianikian Ricci Lucchi 2000, 43), mentre come detto nell’intervista a “Cineforum” l’ultima parte è di qualche cineamatore: “C’è una terza parte di materiale amatoriale, sulle bombe in Etiopia, girata in 16 millimetri sempre da un ingegnere”. Sul materiale della prima parte si può fare qualche ipotesi di ricerca e qualche preliminare approfondimento, anche se lo studio meriterebbe una indagine più dettagliata mentre qui si dà solo una ricognizione iniziale. Il materiale utilizzato dalla coppia nella prima parte è interessante se si confronta con quanto ora si trova nell’archivio Luce: sono visibili infatti, anche con uno sguardo veloce, gli stessi brevi spezzoni non montati o in parte organizzati per brevi cinegiornali (si veda il materiale reperibile all’interno dell’Archivio Luce digitalizzato e accessibile dal suo sito internet). L’Archivio Luce dà conto delle attribuzioni di chi li ha realizzati, o più probabilmente dei responsabili della produzione del cinegiornale in cui sono state impeigate (è verosimile quanto dichiarano nell’intervista sull’amatorialità del materiale). I filmati degli ultimi anni Venti sono attribuiti a Renato Sinistri; quelli dei primi anni Trenta a Giulio Ruffini e altri a uno dei nomi più importanti nel Luce, Arnaldo Ricotti. L’ultimo cinegiornale che qui interessa, invece, datato 26 aprile 1940 e dedicato al Natale di Roma, è a firma di Arturo Gemmiti (catalogato come C001905) e per poco più di un minuto richiama l’inaugurazione del Museo delle Navi. Stando alle dichiarazioni dei due artisti (“ARL | il materiale non è montato, è difficile da risistemare, da riorganizzare”; “BF | I filmati non vengono dai cinegiornali. ARL | No, è un diario filmato del lavoro di recupero di queste due navi”) i materiali non sarebbero gli stessi, tuttavia non è da escludere che le copie utilizzate a Milano per Lo specchio di Diana non fossero già in toto o in parte nella stessa forma di quelle del Luce.   Gianikian e Ricci Lucchi aggiungono poi un’altra informazione: “I filmati da cui viene Lo specchio di Diana arrivano ad un totale di circa due ore e mezzo di proiezione”.

G. Parisch, F. Puchstein, Das geheimnis vom Nemi see [Il segreto del lago di Diana] (still), pellicola 35mm, 1932 (?), Archivio Istituto Luce, M009001.

Difficile calcolare il materiale in possesso del Luce senza una ricerca più dettagliata, ma pare certamente minore (un rapido calcolo fa ammontare il girato tra i 25 e 30 minuti). D’altro canto i materiali usati dalla coppia erano copie in parte a colori: “Nella parte di Nemi abbiamo cercato di mantenere i colori come li abbiamo trovati. La muffa è originale, la muffa che va sulla decomposizione del colore. Abbiamo scelto le parti più colorate. Mancano le parti in bianco e nero”. Se la parti in bianco e nero compaiono anche nell’archivio Luce, di quelle a colori non si ha traccia. Ma il materiale non differisce, si tratta delle stesse immagini, solo in copie a colori. A questo punto occorrerebbe capire se Gianikian e Ricci Lucchi hanno materiale differente, con altre immagini rispetto a quelle del Luce e che non hanno usato, oppure hanno le stesse immagini ma sia in copie a colori che in bianco e nero che sommate raggiungono le circa due ore e mezzo di materiale che dichiarano di avere.

A complicare il quadro è un altro filmato posseduto solo dal Luce (M009001), da quanto si può dedurre dalle informazioni che si hanno (quelle che si desumono dall’intervista e da quanto si trova nella bibliografia sul tema, Cfr. infra), e non dalla coppia di filmmaker. Si tratta di un lungometraggio di un’ora che raccoglie i filmati dei primi anni di lavoro per la ricerca e la riemersione delle navi, ma la cosa più interessante è il modo in cui è costruito. Il film riunisce le riprese documentarie che nello stesso periodo trovano la forma del cinegiornale a cui si sommano alcuni raccordi di finzione girati appositamente, soprattutto con il fine di raccontare il lavoro che sta dietro all’opera di scavo, fatto anche da gente comune, popolani dei dintorni di Nemi. La varie parti del film, oltre che da cartelli, sono raccordate fra loro da alcuni intermezzi, che tra l’altro aprono e chiudono il film, con una donna ben vestita che recita alcune parti non identificabili – dalla copia visibile manca il sonoro per cui non si può ricostruire quanto dice e il suo tenore, quasi sicuramente di carattere propagandistico e magniloquente al pari di quanto mostrano le immagini. Assieme alla parte parlata c’è una parte di canto e coro come riportato dai titoli di testa che riassumono le varie informazioni sul film. Dagli stessi si conosce che la regia è di Guido Parisch, con l’edizione tedesca di Fritz Puchstein, per la produzione del Luce in coproduzione con Ariete film, sotto la direzione artistica di Eugenio Fontana, con il titolo Das Geheimnis vom Nemi-See [Il segreto del lago di Nemi]. Fritz Puchstein è accreditato soprattutto in qualità di attore in diversi lungometraggi dagli anni Trenta alla metà dei Sessanta di produzione tedesca; maggiore attenzione la desta il nome di Guido Parisch, regista e produttore già negli anni del muto. I suoi primi film sono tra fine anni Dieci e primi anni Venti e ha certamente un ruolo chiave nella produzione di questo film. Infatti si sa che negli Trenta Parisch è rappresentante per il Luce a Berlino, in pratica l’uomo a cui è affidata, con scarsi risultati, l’alleanza sul campo cinematografico fra i governi di Mussolini e Hitler (cfr. Baldoli 2004, 230; Maganzani 2020, 77). A rimararcare il ruolo centrale nella produzione è la donna che nel film appare in qualità di corifeo. Si tratta di Marcella Albani, una diva del muto che è spesso interprete di molti dei film di Parisch anche per il legame coniugale che li unisce. Per via della qualità delle immagini e per i nomi che lo hanno realizzato, nonché per la datazione (che nell’archivio Luce risulta al 1932, quindi prima della salita al potere in Germania del partito Nazionalsocialista) meriterebbe un maggiore approfondimento – mentre per quanto concerne le possibilità di questa nota si deve solo considerare come un ulteriore dato sulle copie e i materiali che riguardano le riprese del recupero delle navi.

Per quanto si conosce ad ora, si può dire che esistono più copie di quanto filmato a Nemi, che le riprese sono state usate in quegli anni per un lungometraggio che contiene sia filmati di natura documentaria che brevi passaggi con un carattere semi narrativo e di natura finzionale, fino a intermezzi giustapposti e creati appositamente per il lungometraggio Das Geheimnis vom Nemi-See. Mentre un’altra copia del materiale, in parte a colori e in parte in bianco e nero, o in più versioni, alcune a colori e altre in bianco nero, è arrivata fino a Milano nel laboratorio di Comerio. Essendo parte dei girati giunti a Milano anche quelli che riportano l’inaugurazione del museo, si può dire con un buon grado di sicurezza che siano arrivati tramite Paolo Granata, che allora lavorava per il Luce e a cui si può attribuire anche l’arrivo del materiale dall’Etiopia del 1936. D’altronde, a conferma di questa deduzione, è bene ricordare che Comerio era sempre più malato con l’avanzare degli anni, e nel ’40, appena prima dell’inaugurazione del museo, inizia ad entrare e uscire dal manicomio di Mombello, dove vivrà gli ultimi mesi in una sempre più completa amnesia prima di morire nel luglio dello stesso anno. Contrappasso per chi, con le immagini da lui raccolte assieme ai continuatori del suo archivio, sarà una fonte per il lavoro sulla memoria disvelata, specchio e finestra del contemporaneo: “Anziché reiterare la logica diacronica, l’opera di Gianikian e Ricci Lucchi sottolinea le bizzarrie del tempo storico: anacronistico, atavico, eternamente ricorrente” (Merjian 2012).

H. Ryggen, Etiopia, arazzo, 1935.

Un breve focus merita anche la parte sonora del film. Come detto la colonna sonora è affidata a Keith Ulrich, compositore di stanza losangelina con origini cilene che lavora con la coppia di artisti dagli anni Ottanta, risultando uno dei collaboratori più longevi e fidati per la coppia. Gianikian interviene a proposito della musica nel corso di una video intervista del 2015, un’occasione in cui era stato proiettato il film del 1996 assieme a Oh! Uomo (2004). Rispondendo alla domanda evidenzia la continuità, spesso più nascosta e stringente di quanto appare, che lega la loro filmografia:

YG | I due film che avete visto hanno fonti sonore diverse. La musica dello Specchio di Diana è stata composta da un musicista di Los Angeles con il quale lavoriamo a distanza. Abbiamo usato diverse volte lo stesso tipo di suono ipnotico che si discosta sempre un pochino dalle immagini. Dopo [con] la trilogia della guerra [Prigionieri della guerra, 1995; Su tutte le vette è pace, 1998; Oh! Uomo N.d.R.], abbiamo cominciato a lavorare con Giovanna Marini. [...] Per Lo specchio di Diana avevamo letto dei pezzi sul lago di Nemi. Il ramo d’oro di James G. Frazer e anche il commento che ne ha scritto Wittgenstein in cui dice che percepiva qualcosa di tremendo nella mitologia del lago. In un diario, scrive che il fratello Paul, pianista eccezionale, aveva perso la mano destra in battaglia. Wittgenstein era preoccupatissimo per il fratello che in quelle condizioni non poteva più lavorare, e commissionò a Maurice Ravel una composizione per mano sinistra. Poi abbiamo scoperto che Ravel aveva scritto alcuni pezzi per un altro musicista che aveva solo la mano sinistra, il ceco Otakar Hollman, e nell’ultima parte di Oh! Uomo [piena di mutilati di guerra N.d.R.] Giovanna Marini ha lavorato su questa idea di suonare il pianoforte solo con la mano sinistra. Queste cose sono davvero importanti per la nostra ricerca, per il nostro viaggio interiore nel corso della lavorazione del film. A un certo punto Giovanna Marini ha cominciato a non sopportare le immagini e ha smesso di lavorare alle musiche per il film. Piangeva tutti i giorni, quindi abbiamo chiamato un altro musicista, Keith Ulrich, un percussionista scappato dalla dittatura cilena. Ha collaborato con noi anche in seguito, continuando così il lavoro di Giovanna Marini. È per questo che ci sono tante percussioni. E comunque i punti per cui i musicisti si sono rifiutati di comporre qualcosa li abbiamo lasciati muti. Ci sono parecchi silenzi nello Specchio di Diana (Diserens 2017, 248-249).
 

Y. Gianikian A. Ricci Lucchi, Lo specchio di Diana (still), video, 1996.

Vuoti e pieni ipnotici, parti assenti che mai però mancano di senso, un lavoro di ricerca che prosegue e continua tra un titolo e l’altro, a volte entrando in contatto con altri artisti. Una ricerca aperta e capace di essere contaminata dal lavoro artistico altrui non solo in fase di realizzazione, come nella collaborazione con Ulrich e Marini, ma anche successivamente, a film concluso. Ne è prova un caso che riguarda proprio Lo specchio di Diana, scelto per essere mostrato nel 2014 alla Galleria Nazionale del Kosovo a Pristina (Out of the Blue. A Sense of Public-Mindedness - MMX, 9 luglio - 3 settembre 2014) in dialogo con l’opera Summer Thoughts (part 1) dell’artista Sven Augustijnen e tre arazzi di Hannah Ryggen, Etiopia (1935), Drømmedød (1936), Jul Kvale (1956) (cfr. Diserens 2017, 235-237). Le tre opere, ciascuna coi propri mezzi, riflettevano sulla violenza, la sopraffazione e il fascismo nel concatenarsi dei tempi e dei luoghi: una ragnatela il cui significato si rivela nella sua piena terribilità se vista nell’insieme che la forma significa.

È allora opportuno guardare al significato del film, non fermandosi solo a una analisi filologica dei materiali con cui è stato realizzato e prendondo in esame le singole parti. A dare luce sul significato sono gli appunti di Gianikian e Ricci Lucchi scritti per il film e leggibili all’interno del volume Cinema anni vita (2000) e che è utile riportare integralmente come elementi necessari sia per la lettura del film che di quanto il film tratta:

Le navi imperiali di Nemi – La leggenda del ramo d’oro. (Poi realizzato due anni dopo questo scritto con il titolo Lo specchio di Diana).

Le due navi di Caligola giacciono sul fondo del lago di Nemi. Per il loro recupero il lago viene prosciugato. I lavori iniziano nel 1926 e nel 1927 ha inizio lo svaso. Viene costruito un museo per ospitare le navi. Esso viene inaugurato nel 1940. Il film documentario è il diario filmico di quattordici anni di enorme sforzo industriale che attraverso l’archeologia documenta la ricerca della “romanità”, della radici del fascismo, delle sue origini imperiali. Mussolini è l’artefice e l’ispiratore dell’impresa.

Lago di Nemi 1926.
Visioni idilliache e aspetti diversi del lago precedenti i lavori. Immagini seppia e blu e gialle nelle varie stagioni. Luoghi mitologici, il Monte Cavo con il tempio di Diana, la fonte Egeria, la foresta che si affaccia sul lago, prima della sua spoliazione.

Diario. Inizio dell’opera di prosciugamento.
Migliaia di soldati del genio in azione. Divise della Prima guerra mondiale. Ritratti della popolazione rurale all’opera. Sfilate nella foresta di carri tirati da buoi che trasportano materiali. Industrie elettriche e idrauliche partecipano gratuitamente al lavoro. Soldati e operai navigano sulle acque con zattere e barconi. Portano tubazioni, motori, pompe. Un palombaro virato in blu compie i collegamenti subacquei dei tubi di scarico. Esplora le navi sommerse.

Mussolini inedito.
Mussolini in varie sequenze diversamente virate, il 20 ottobre 1927 abbassando una leva dà inizio allo svaso del lago. È giunto sul posto la sera prima in barca, al tramonto, sulla riva è atteso da due ministri. È vestito in borghese, un cappello Borsalino, calza lunghi stivali neri. In sequenze virate in rosso e in giallo visita un museo improvvisato. Vi arriva scendendo una scaletta di legno che dà su di un viottolo di fango. Ha lo sguardo interessato mentre gli vengono illustrati grafici e fotografie. Dopo l’inaugurazione si allontana su una barca a remi, così come è venuto. Il 1926 era stato l’“anno napoleonico” di Mussolini. Del suo ingresso a Tripoli a cavallo, con il fez e la piuma dell’uccello del paradiso. Nemi rappresenta un’altra tappa nell’evoluzione dell’immagine del primo ministro. Il recupero delle navi perdute di Caligola trova ampio risalto all’estero.

Le navi di Nemi. Archeologia.
Quando la massa d’acqua comincia ad abbassarsi, il paesaggio inizia le sue mutazioni. Le rive crollano e vengono puntellate da palafitte. Il 28 marzo del 1928 la prima nave affiora. In estate viene ritrovato il primo oggetto: una testa di lupa di bronzo. Si invitano i giornalisti italiani e stranieri a cui il direttore generale delle antichità illustra l’opera. Quando il livello del lago è stato abbassato di 20 metri, prima nave di Caligola è completamente emersa. Misura 64 metri di lunghezza per 20 di larghezza. La cinepresa registra il catalogo dei tesori che essa ancora contiene. Tra i ritratti della commissione archeologica si può notare re Gustavo di Svezia. Il diario filmico prosegue negli anni. Riemerge la seconda nave di Caligola, di grandezza simile alla prima. Un rabdomante con un pendolo cerca inutilmente nel fango una terza nave. Mussolini nel corso del tempo visita di frequente gli scavi, giungendo all’improvviso sul luogo, non annunciato, guidando da solo la propria auto. Riceve in dono dai contadini grappoli d’uva dorati che agli archeologi fanno pensare all’antica leggenda del lago di Nemi. Il mito di Diana.

La leggenda. Il ramo d’oro.
William Turner viaggia in Italia nel 1819. Sul lago di Nemi dipinge Il ramo d’oro, il mito di Diana.
James G. Frazer nel suo libro descrive il mito e la leggenda. (Il titolo del libro è Il ramo d’oro). Nelle Note sul ramo d’oro di Frazer, Ludwig Wittgenstein scrive: “Quando Frazer, all’inizio, ci racconta la storia del re della foresta di Nemi, lo fa con un tono che indica che qui avviene qualcosa di strano e di terribile”.
Il lago di Nemi era lo specchio di Diana. La sua foresta aveva un guardiano, il re della foresta. Egli era al tempo stesso sacerdote e assassino. Uno schiavo in fuga poteva strappare un ramoscello d’oro dall’albero sacro e uccidere il re. Tutti i sacerdoti morirono uno dopo l’altro di morte violenta. In epoca romana Caligola rinnova il mito di Diana, fa uccidere l’ultimo sacerdote. Sul lago costruisce due grandi navi, forse templi galleggianti. Dopo la sua morte violenta nel 41 D.C. le navi vengono spogliate, o affondano misteriosamente in seguito a una tempesta.

Mussolini. Il museo delle navi imperiali di Caligola.
Mussolini il 21 aprile del 1940 ritorna a Nemi dopo tredici anni. In uniforme nera da comandante e berretto con aquila imperiale inaugura il grande museo dove sono state allestite una accanto all’altra le due navi di Caligola. È una marcia militare. Mussolini è accompagnato da gerarchi e da ufficiali della milizia. È contornato da due ali di folla. Riceve i doni di rito. Da una didascalia del 1928 nel materiale: “Monumento unico e solenne che documenta la perizia dei romani nella costruzione delle navi da guerra con le quali Roma si lanciò alla conquista dell’impero e mantenne per secoli il suo dominio universale”.
Il film documenta l’idea metafisica del sogno della conquista dell’impero, della trasposizione pratica dell’impresa africana.

Epilogo.
Durante la guerra il museo è adibito a ricovero dei senza tetto. Nel 1944 il museo e le navi vengono distrutte da un incendio appiccato da alcuni soldati tedeschi in fuga (Gianikian Ricci Lucchi [1995] 2000, 47, 49).
 

Questi sono gli appunti scritti a margine del film, una glossatura in forma di sceneggiatura desunta che aiuta chi guarda ed entrare nella complessità dell’opera dei due filmmaker e mette in chiaro il loro metodo di lavoro: “In parallelo al lavoro sulle immagini, facciamo molte letture, troviamo collegamenti”. Lo specchio di Diana, pur essendo un film breve e non troppo conosciuto, è un caso particolarmente indicativo tanto della loro ricerca che del loro metodo, nonché del loro lavoro sull’archivio e sulla singola immagine. E lo è un film che ha gran parte del racconto concentrata su uno scavo archeologico, una disciplina che in una semplificazione già usata (si vede anche solo ​​Blüminger [2008] 2012) si può riconoscere come prossima al lavoro dei due artisti. Ma questa semplificazione non è sufficiente, si riprenda l’ormai classico passaggio in cui i due artisti riepilogano il loro metodo di lavoro:

La costruzione di una “camera analitica” ci permette di avvicinarci, di scendere in profondità nel fotogramma. Di intervenire sulla velocità di scorrimento, sul dettaglio, sul colore. Di fissare e riprodurre in forme non abituali il materiale d’archivio. Attraverso di essa compiamo le nostre “catalogazioni”, archiviamo tra la massa di immagini ritrovate e possedute quelle provocano in noi forti tensioni. Uso del vecchio per il nuovo, per fare emergere dal repertorio i significati nascosti, per rovesciare i significati primitivi. Memorie di fine millennio, su comportamenti, ideologie (Gianikian Ricci Lucchi [1995] 2000, 32).

A. Ricci Lucchi, Variazione (dalla serie I cineasti), acquerello su carta, 1996.

Vedere il processo compiuto attraverso il dispositivo della camera analitica come equivalente a uno scavo archeologico nell’immagine è riduttivo: “Non siamo archeologi, antropologi o entomologi, come spesso veniamo definiti” (Lissoni 2012). Occorre sempre tenere a mente il loro lavoro interpretativo e di significazione, speculativo, capire come il processo tecnico, certamente fondante, abbia un fine stabilito. Un fine volto a ripresentificare le immagini e gli archivi: entrare in profondità non solo nel dettaglio ma nel significato. Penetrare il fotogramma andando a scegliere il particolare e ritagliando l’immagine è soprattutto svelamento del sotto, di quanto l’apparente cela e che contiene il significato di ciò che si vede. Mutare la velocità dei fotogrammi vuol dire farne perno a cui si legano significati, rimandi che cuciono la storia e i luoghi a uno stesso presente e a altre immagini. E il rovesciare è il riemergere, non il contraddire: lo scavo del significato non come per chi fa archelogia ma campagna, chi dissoda e coltiva e porta il sotto sopra. Mostrare della zolla la parte interna affinché divenga visibile e il campo sia fertile. Non c’è il repertorio di immagini in quanto reperto archeologico, ma immagini vive, con una loro vita che parte dal passato e che nell’oggi continua grazie anche al lavoro di Gianikian e Ricci Lucchi: “Per noi non esiste il passato, non esiste la nostalgia, ma esiste il presente” (Lissoni, 2012).

In apertura dell’intervista a Bruno Fornara rimane sospesa la risposta a una domanda, su come si possa definire il loro cinema. Difficile per loro stessi trovare il termine esatto. Una risposta, però, sembra trovarla in forma di acquerello Angela in quello stesso anno. Una definizione apofatica che nel suo escludere comprende tutta la complessità del loro lavoro nonché del possibile di un’immagine: “Non politico, non estetico, non educativo, non progressivo, non cooperativo, non etico, non coerente: contemporaneo”.


 

III. Bibliografia tematica su Lo specchio di Diana

Si possono trovare note sul film di mano degli stessi Gianikian e Ricci Lucchi in Gianikian Ricci Lucchi [1995] 2000; per interviste ai due artisti in cui viene trattato ill film si veda Censi [2010] 2013, Diserens 2017, Fornara [1996], 2023, MacDonald [1998] 2000; una scheda sintetica del film si trova in appendice a Mereghetti, Nosei 2000 [cfr. Lo specchio di Diana 2000]; per una recensione sul film si veda Signorelli 1996; per contributi che danno una lettura del film o lo utilizzino come fonte per approndire alcuni temi e la filmografia di Gianikian e Ricci Lucchi si veda Lumley [2011] 2013, Mereghetti 2000, Merjian 2012; a cui va aggiunto il già citato Diserens 2017 per la parte analtica del contributo scritta dall’autrice; mentre per un inquadramento del film rispetto alla trilogia che va a comporre (Archivi italiani) si veda Pick 2015.

Riferimenti bibliografici

English abstract

The subject of this contribution is Lo specchio di Diana (Diana’s Looking Glass, 1996), a film by Yervant Gianikian and Angela Ricci Lucchi, as a possible useful tool for studying the story of the recovery and musealisation of the Nemi ships. It is also an in-depth study of the film itself and the work of its authors. With this purpose, it is divided into three parts: the re-edition of the interview with the two authors made for the magazine "Cineforum" by Bruno Fornara; followed by a commentary note including some comments on the film written by the two filmmakers and already published; finally, a thematic bibliography dedicated to Lo specchio di Diana.

keywords | Yervant Gianikian; Angela Ricci Lucchi; Lo specchio di Diana; Istituto Luce; Cineforum.

questo numero di Engramma è a invito: la revisione dei saggi è stata affidata al comitato editoriale e al comitato scientifico della rivista

Per citare questo articolo / To cite this article: intervista di B. Fornara, riedizione e Nota a cura di F. Perfetti, Memoria e avanguardia. Intervista a Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi (1996) ”Rivista di Engramma” n.203, giugno 2023, pp. 61-80 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2023.203.0006