"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

228 | ottobre 2025

97888948401

Allestimenti navali a confronto

Spunti di riflessione

Massimo Capulli

English abstract

Come si evince già dal titolo, questo breve contributo si basa su una serie di riflessioni relative agli allestimenti ‘navali’, ovviamente non già intesi come arredamento interno delle navi, bensì come spazi museali che espongono resti di imbarcazioni e/o navi. Trattandosi di riflessioni non possono che essere di carattere personale e pertanto ritengo utile fare una premessa a beneficio spero del lettore. Così, parafrasando indegnamente la nota frase di Vere Gordon Childe “Io sono archeologo e dedico il mio tempo a cercare di raccogliere notizie sul comportamento di uomini morti da lungo tempo” (Childe 1962, 200-201), posso dire che io sono un archeologo subacqueo e dedico il mio tempo a cercare di ampliare lo studio del passato attraverso la conoscenza del patrimonio archeologico sommerso. Non sono pertanto un museografo, ma soltanto un turista sui generis che ormai da diversi anni pianifica le proprie vacanze ponendo i musei con reperti navali quali tappe irrinunciabili e ciò, mi ha portato a visitare una quarantina di musei di questa tipologia oltre confine [Fig. 1].

1 | Mappa elaborata dall’autore, Massimo Capulli.
1: Lisbona, Museo de Marinha (Portogallo); 2: Cartagena, ARQUA – Museo Nacional de Arqueología Subacuática; 3: Alicante, MARQ – Museo Arqueológico de Alicante; 4: Barcellona, Museu Marítim de Barcelona (Spagna); 5: Arles, Musée départemental Arles antique; 6: Marsiglia, Musée d'Histoire de Marseille; 7: Briare, Musée des Deux Marines et du Pont-Canal; 8: Châteauneuf-sur-Loire, Musée de la Marine de Loire; 9: Parigi, Musée national de la Marine; 10: Brest, Musée national de la Marine (Francia); 11: Dublino, National Maritime Museum of Ireland (Irlanda); 12: Belfast, Titanic Belfast (Irlanda del Nord); 13: Portsmouth, The Mary Rose (Inghilterra); 14: Oslo, Vikingskipshuset; 15: Oslo, Fram Museum e Kon-Tiki Museet; 16: Oslo, Norsk Maritimt Museum (Norvegia); 17: Stoccolma, Vasa Museet; 18: Stoccolma, Vrak – Museum of Wrecks; 19: Karlskrona, Marinmuseum (Svezia); 20: Roskilde, Vikingeskibsmuseet (Danimarca); 21: Amsterdam, Het Scheepvaartmuseum; 22: Rotterdam, Maritiem Museum (Paesi Bassi); 23: Anversa, MAS – Museum aan de Stroom (Belgio); 24: Duisburg, Museum der Deutschen Binnenschifffahrt-alt – The German Inland Shipping Museum; 25: Mainz, Museum für Antike Schifffahrt –Museum of Ancient Seafaring; 26: Costanza (Lago di Costanza), Archäologische Landesmuseum Baden-Württemberg; 27: Monaco di Baviera, Deutsches Museum – Museo della scienza e della tecnica; 28: Manching, Kelten-Römer Museum; 29: Bremerhaven, Deutsches Schiffahrtsmuseum – The German Maritime Museum; 30: Schleswig, Landesmuseen Schleswig-Holstein; 31: Schleswig, Wikinger Museum Haithabu – Hedeby Viking Museum (Germania); 32: Danzica, National Maritime Museum; 33: Tczew, Vistula River Museum (Polonia); 34: Tallinn, Estonian Maritime Museum – Fat Margaret; 35: Tallinn, Estonian Maritime Museum – Lennusadam Seaplane Harbour (Estonia); 36: Pirano, Museo del Mare Sergej Mašera (Slovenia); 37: Dubrovnik, Maritime Museum (Croazia); 38: Atene, Archaeological Museum of Piraeus; 39: Atene, Hellenic Maritime Museum; 40: Chania (Creta), Maritime Museum of Crete (Grecia); 41: Bodrum, Museum of Underwater Archaeology; 42: Istanbul, Istanbul Naval Museum (Turchia); 43: Varna, Naval Museum – National Museum of Military History (Bulgaria); 44: Costanza, Museo Nazionale della Marina Rumena (Romania).

Con l’occhio di chi le navi le vede sott’acqua nella loro giacitura originale e poi, come da prassi del mestiere, le studia e pubblica in maniera forse un po’ asettica, osservo con interesse che impatto hanno sul visitatore comune, cercando di decriptare le emozioni che suscitano negli adulti e specialmente nei più piccoli; con sguardo più clinico esamino poi come vengono esposte, che tipo di apparato didattico è stato a loro confezionato attorno, quali le scelte compiute per i sistemi di supporto o per i punti privilegiati da cui osservare lo scafo. Una lettura attenta di un allestimento navale, volta non a giudicarlo ma solo a coglierne in positivo i tratti salienti, non può prescindere anche dalla conoscenza della storia del sito-manufatto che viene esposto, ossia i processi deposizionali e post-deposizionali che hanno ‘filtrato’ quanto ci è rimasto, la strategia di scavo calata nel momento storico in cui è stata condotta, le successive operazioni di recupero e quindi la fondamentale fase di restauro. Non da ultima va presa in considerazione la natura stessa del resto navale, quasi sempre riconducibile al patrimonio archeologico sommerso, quello che sul proprio sito ufficiale l’UNESCO così ben definisce “the witness of our common memory, for several millennia. The oceans, seas, lakes and rivers hide from view and protect under the surface a priceless heritage, largely unknown and underestimated” (Underwater Cultural Heritage 2001 Convention, UNESCO). Ma è corretto altresì riportare ciò che sempre l’UNESCO suggerisce nella Convenzione per la protezione del patrimonio culturale sommerso e segnatamente all’articolo 2, paragrafo 5: “The preservation in situ of underwater cultural heritage shall be considered as the first option before allowing or engaging in any activities directed at this heritage”(UNESCO 2002, 52). Vale a dire che ciò che è finito sott’acqua nel tempo ha dato vita a un paesaggio archeologico subacqueo che dovrebbe rimanere tale. Come anticipato si tratta di un suggerimento, quindi un indirizzo e non un obbligo, rivolto a tutti gli stati che hanno ratificato la Convenzione, così come fatto dal Governo italiano nel 2009, tuttavia questa che era solo una indicazione è diventata quasi ovunque una prassi. E ciò vale soprattutto per il legno, poiché egoisticamente sappiamo che i costi e le problematiche connesse al restauro sono sempre assai gravose (Broda, Hill 2021, 1193). Quindi oggi si evita di recuperare ciò che giace nelle nostre acque, a meno che non vi sia un eccezionale valore scientifico o soprattutto una ineluttabile necessità di tutela. Solo una minima parte del patrimonio archeologico sommerso viene così inserito nei circuiti museali, mentre resta nondimeno l’obbligo morale di escogitare sistemi per rendere diversamente fruibile un bene che per definizione è di tutti. Al di là, dunque, dei diversi siti aperti ai subacquei sportivi, come il celebre caso di Baia (Pagano 2022, 379-383), le vere opportunità forse ci vengono offerte dalle nuove tecnologie che possono contribuire a rendere sempre più godibile questo patrimonio anche da parte di chi non può a vario titolo immergersi: bambini, anziani e persone con disabilità (Capulli 2021a, 279-284).

Fino a qui abbiamo parlato genericamente di patrimonio archeologico sommerso, ma è opportuno ora focalizzarci sul contesto da cui provengono i resti navali. Com’è senz’altro intuibile questi sono riconducibili a quella particolare tipologia di sito che chiamiamo relitto e che di norma è l’esito di un naufragio, una capsula del tempo che giace sul fondale del mare (Renfrew, Bahn 2004, 16), anche se non sono pochi quelli che per processi post-deposizionali ora si trovano in contesto umido (Capulli 2021b, 16). Abbiamo così relitti ritrovati sott’acqua – mare, laghi, lagune e fiumi – ma anche in terra come i celebri casi, solo per rimanere in Italia, di Ostia (Boetto et al. 2020, 139-145), Pisa (Camilli 2012, 13-18) e Olbia (D’Oriano 2002, 1249-1262). Solitamente un relitto è la conseguenza di eventi traumatici involontari (impatto su scogli, incendio a bordo, ecc.), ma vi possono essere altre ragioni come quelli che per qualche motivo sono stati volutamente affondati (Capulli 2003, 15-16), quelli in riutilizzo totale (D’Agostino, Medas 2003, 99-106) o parziale (Capulli, Pellegrini 2010, 263-266), quelli abbandonati (Bertacchi 1976, 39-45) o caso più che raro obliterati da un evento eccezionale, quale l’eruzione del Vesuvio (Steffy 1985, 519-521), e infine quelli utilizzati ad altro scopo, si pensi ad esempio alle navi solari egiziane (Altenmüller 2002, 269-290).

Una volta che questo manufatto complesso viene rimosso dal suo contesto di giacitura inizia una sorta di terza vita. Infatti, una nave di interesse archeologico è fatta di legno, materiale che dopo la sua vita in navigazione è finito in ambiente sommerso, o umido sotto falda, perpetuando così nel tempo la propria esistenza grazie a un nuovo equilibrio che ha trovato nella condizione anaerobica (Grattan 1987, 55-67). Allorquando questo macro reperto ligneo viene ricondotto in ambiente aereo questo equilibrio sub-acquatico si spezza bruscamente e si rende necessario intervenire tempestivamente al fine di scongiurare un degrado irreversibile, donando al contempo alla nave una nuova sorta di terza vita in uno spazio museale. Va però sottolineato che, indipendentemente dalla tecnica impiegata per il restauro del legno bagnato, costituisce requisito fondamentale che l’esposizione avvenga in idonei locali in cui sia possibile controllare e gestire le condizioni ambientali, in primis temperatura e umidità (Vorobyev et al. 2019, 35-52). Va anche parimenti considerato che il legno è un materiale vivo e resta tale anche dopo il restauro, rendendo necessario un sistema di monitoraggio, sia per la qualità del legno, sia per le modificazioni morfologiche (Stelzner et al. 2022), talvolta prevedendo un laboratorio di restauro del legno bagnato interno allo stesso museo.

Va sottolineata un’altra singolarità del ‘reperto’ nave, ovvero il fatto che si tratta di una macchina composta da più parti coerenti tra loro e assemblate secondo un ordine ben definito, al fine di dar vita a uno strumento che deve rispondere a esigenze ben precise: deve galleggiare in ogni circostanza e deve muoversi in modo efficiente e controllato sfruttando fonti d’energia adeguate. Inoltre, pur essendo per antonomasia un reperto mobile, presenta dimensioni che certo non sono compatibili con quelle della classica teca. Non solo le navi più grandi, come è più facilmente intuibile, ma anche il naviglio cosiddetto minore presenta già delle dimensioni tali da renderne complicate le operazioni di movimentazione e soprattutto di allestimento. Questo è tanto più vero quando si sceglie di rifunzionalizzare un edificio progettato per altro scopo e dove banalmente le porte sono troppo strette e costringono a operazioni molto complicate. Non è quindi un caso che per le navi più grandi non solo sia stato necessario realizzare dei musei ad hoc, ma questi sono stati costruiti inglobando il bacino di carenaggio in cui il relitto era stato trasportato via acqua (Harrison 1983, 44-48). Vi sono casi in cui anche per navi di medie dimensioni, come quello dei relitti vichinghi di Oslo (Christensen 1980), si è scelto di portarli in una zona della città dove costruirgli sartorialmente tutt’attorno l’edificio espositivo. Tale operazione è stata poi il motore per altre decisioni successive per cui nella stessa area vi si trovano anche il Museo Marittimo Norvegese, nonché quelli dedicati a due imbarcazioni e alle loro rispettive spedizioni/esplorazioni, ossia il Kon-Tiki Museet e il Frammuseet (Kløver et al. 2019).

Fatta questa lunga premessa, passiamo agli spunti di riflessione prendendo a modello alcuni degli allestimenti navali visitati fuori dall’Italia e che a mio parere rappresentano delle best practices nelle diverse categorie. Vi sono difatti più tipologie museali che possono esporre un relitto/imbarcazione e a seconda della loro differente natura, quali ad esempio può esservi tra i musei archeologici e quelli della scienza o tra i musei industriali e quelli etnografici, ne discendono inevitabilmente filosofie espositive assai diverse tra loro (Capulli 2020, 128-131).

I musei che hanno più lunga tradizione, e che presentano forse una impostazione un po’ antiquata e stereotipata, sono quelli cosiddetti navali. Si tratta solitamente di esposizioni nazionali, spesso gestite direttamente dalle rispettive marine militari e sovente ospitate in ex-arsenali, che hanno l’intento di illustrare la propria storia ‘guerriera’ sui mari attraverso cimeli di varia natura, dipinti e numerosi modellini navali, oltre ai quali vi si possono trovare imbarcazioni vere e proprie. Fanno parte di questa categoria molti musei, come ad esempio il Museo de Marinha di Lisbona [Fig. 2] o a Costanza il Museo Nazionale della Marina Rumena.

2 | Esposizione tradizionale al Museo de Marinha di Lisbona (foto di Massimo Capulli).

Di norma questa tipologia non ospita imbarcazioni di interesse archeologico in senso stretto, anche se non mancano manufatti antichi recuperati in mare come ceppi d’ancora o le classiche anfore, così come in quelli della scienza e della tecnica. Essendo la nave a tutti gli effetti una macchina, così come ricordato sopra, non di rado quest’ultimi espongono piccole imbarcazioni e/o importanti porzioni di navi e pur privilegiando le navi costruite in metallo, e soprattutto lo sviluppo storico dei sistemi di propulsione a motore, danno spazio anche imbarcazione e navi tradizionali in legno come si può osservare nel Deutsches Museum von Meisterwerken der Naturwissenschaft und Technik di Monaco di Baviera. Discorso parzialmente sovrapponibile può essere fatto per quelli legati alla grande industria della costruzione navale di cui il Maritiem Museum di Rotterdam (Dicke et al. 2014) è un ottimo esempio. Realizzato all’interno di un edificio moderno e funzionale, propone un percorso di visita didascalico e in parte interattivo, offrendo inoltre sia un’ampia zona riservata esclusivamente ai bambini e laboratori dedicati alla costruzione navale, che una ricca biblioteca/archivio per gli studiosi. In aggiunta nel contiguo spazio acqueo esterno, sede del più antico porto della città, sono ormeggiate diverse navi storiche. In parte simile è l’Het Scheepvaart Museum di Amsterdam, dove alla sede ricavata in un antico edificio si contrappone un allestimento moderno, nel quale una serie di ologrammi accompagnano il visitatore nella storia della città portuale e della marineria olandese, mentre all’esterno si trova ormeggiata una replica – non proprio filologicamente ineccepibile – dell’East Indiaman Amsterdam [Fig. 3].

3 | Lo Scheepvaartmuseum di Amsterdam e sulla sinistra la replica della East Indiaman (foto di Massimo Capulli)

Val la pena sottolineare invece che anche questo museo può vantare una biblioteca specializzata con oltre 60.000 volumi tra cui alcuni rari, come le seicentine. Mentre fa caso a sé il MAS nella non lontana Anversa in Belgio. Acronimo di Museum aan de Stroom, ossia museo sul fiume, nasce una quindicina di anni fa dalla fusione di tre precedenti musei, quello etnografico, quello del folklore e naturalmente quello marittimo. L’obbiettivo dichiarato è di illustrare gli aspetti principali che caratterizzano la città e allo stesso tempo la connessione globale con culture differenti che proprio l’acqua del fiume che attraversa Anversa assicura. Per raggiungere tale traguardo si sono condensati tutti questi aspetti in unico edificio, ma non un edificio qualsiasi, bensì una iconica costruzione progettata perché la gente non solo possa visitare le collezioni, ma anche solo incontrarsi. Ricoperta da una arenaria rossa, che richiama il colore del letto del fiume, intervallata da vetrate curvilinee come fossero sempre mosse dal vento [Fig. 4], all’interno si articola in dieci piani dove il percorso espositivo si sviluppa con coerenza, lasciando allo stesso tempo la possibilità di selezionare quanto di maggiore interesse o di raggiungere direttamente la terrazza panoramica, perché come si può leggere all’ingresso del museo: “The MAS is more than a museum. It is a new city center. A new meeting place where there is always something to see and do”.

4 | L’iconico edificio che contiene il MAS di Anversa (foto di Massimo Capulli).

Potremmo forse definire totali alcuni musei che considerano il rapporto uomo-mare a trecentosessanta gradi. Mi sentirei di includere in questa categoria lo smisurato Deutsches Schiffahrtsmuseum di Bremerhaven (Winter, Kastens 1980), che affronta tutte le tipologie di mezzi navali, esponendo tra l’altro anche la celebre cocca (Ellmers 2008, 59-72) e il recentissimo Lennusadam Seaplane Harbour di Tallinn (Karu 2014). Nella capitale Estone esisteva già un museo marittimo, ricavato con garbo nella Fat Margaret (Dresen 2021), ossia la più grande delle torri delle mura cittadine, mentre il nuovo spazio espositivo, che lo implementa, si trova a circa un chilometro e mezzo ed è stato ricavato all’interno di un ex hangar per idrovolanti. La ricca esposizione si articola in questo enorme open space su tre livelli che rispecchiano tre elementi in cui navigare: il cielo, il mare e il mondo sommerso. Oltre che per la presenza di un sommergibile degli anni ’30 e un relitto del XVI secolo [Fig. 5], questo museo si caratterizza per la ricca presenza di angoli di approfondimento tematico, che con un approccio di playful learning, si servono di simulatori e postazioni interattive per stimolare e coinvolgere il visitatore negli argomenti più diversi, spaziando dal soccorso in mare, alla cucina a bordo delle navi, alla fisica dei fluidi.

5 | Il relitto del XVI secolo del Maasilinn all’interno del ex hangar per idrovolanti di Tallinn (foto di Massimo Capulli).

Voltando pagina, prendiamo in considerazione ora i musei archeologici in senso stretto, non tanto perché questi contengano navi più o meno antiche, ma in quanto la narrazione espositiva si dispiega dalla scoperta ai metodi di scavo e studio, dal recupero al restauro, e soprattutto al contesto storico. Attraverso i reperti che facevano parte del carico o delle dotazioni di bordo, nonché naturalmente lo stesso scafo, questi tendono a restituire una pagina di storia, a volte legata al commercio, altre alla navigazione o alla guerra sui mari. Ciò che fa la differenza, dal punto di vista museale, è invece se la/le navi sono il fulcro o se invece contribuiscono alla collezione di un più articolato museo territoriale. Questo è ad esempio il caso del Musée de l’Arles antique, che da alcuni anni espone il relitto fluviale Arles-Rhône 3 (Marlier 2017), del Kelten-Römer Museum di Manching (Ballhausen 2006, 10-15) dove si possono vedere i due relitti romani di Oberstimm o il Landesmuseen Schleswig-Holstein dove si trova la nave vichinga di Nydam. Diverso è il caso, sempre nella città di Schleswig, del Wikinger Museum Haithabu (Elsner 1994). Si tratta di una interessante struttura museale, realizzata a padiglioni con il tetto a forma di drakar capovolto [Fig. 6], dove una ricca collezione racconta la storia del villaggio vichingo qui scavato e del suo relitto. Al di fuori del museo un sentiero conduce a un bel parco storico dove sono state ricostruite alcune case vichinghe sulla base dei dati di scavo e una serie di figuranti mostrano in abiti d’epoca le scene di vita quotidiana, secondo quelli che sono i dettami della Living history.

6 | Il museo delle navi vichinghe di Schleswig che si articola in moduli con il soffitto a forma di carena di drakar (foto di Massimo Capulli).

Vi sono poi i musei nati unicamente per esporre una o più navi. Questo è il caso delle imbarcazioni più piccole, come il Museum fur Antike Schiffahrt di Mainz, realizzato all’interno di una caratteristica ex officina per la riparazione delle locomotive, per esporre una serie di relitti romani rinvenuti nel Reno (Bockius et al. 2013). Ciò che rende personalmente interessante questo museo è la scelta espositiva degli scafi. Per rendere i legni più facilmente leggibili dal fruitore medio essi vengono solitamente posti all’interno di un sistema di supporto che ne prolunga le dimensioni rendendo idealmente visibili i volumi. Il problema sta nel fatto che un relitto non è una nave, ma un manufatto di natura organica che ha patito un trauma, che si è degradato e trasformato in acqua, e le cui forme originali sono solo ipotizzabili e quasi mai del tutto certe. La forzatura dei legni in una sagoma che ipotizza le linee d’acqua è un po’, mutatis mutandis, come l’anastilosi in un sito archeologico. In questo scenario per il museo di Mainz è stato scelto di esporre gli scafi così come sono stati trovati, poggiandoli su supporti pieni di materiale plastico che riproducono il fondo naturale su cui sono stati ritrovati adagiati, affiancandovi dei modelli ricostruttivi in scala 1:1 [Fig. 7].

7 | Il sistema di supporto dei relitti di Mainz che rispetta le condizioni di ritrovamento e sullo sfondo uno dei modelli ricostruiti (foto di Massimo Capulli).

Interessante è anche il caso danese dell’ormai storico Vikingeskibsmuseet di Roskilde, non tanto per l’edificio e l’esposizione che risentono decisamente del tempo passato, e infatti dopo quasi 60 anni di vita è previsto un rifacimento totale entro il 2030, quanto per lo straordinario laboratorio di archeologia sperimentale che lo affianca [Fig. 8] e dove sono state filologicamente ricostruite repliche naviganti (Karrasch 2009) dei cinque relitti esposti in museo. Resta al momento ancora prettamente didattico il Museo Nacional de Arqueología Subacuática ARQUA di Cartagena (Azuar Ruiz 2009, 73-90).

8 | Il laboratorio di archeologia sperimentale del museo delle navi vichinghe di Roskilde (foto di Massimo Capulli).

Nato sull’esempio del MARQ, Arqueología y Museo di Alicante (Azuar Ruiz et al. 2007), costituisce probabilmente il miglior museo per illustrare che cosa sia l’archeologia subacquea. Attraverso infatti dettagliati diorami e postazioni interattive [Fig. 9] il visitatore di qualsiasi età può approfondire come si opera e cosa si trova sott’acqua. Ma per completare questo museo bisognerà attendere quando il relitto fenicio Mazzaron II (Cabrera Tejedor 2018, 300-324), recuperato solo nel settembre del 2024, finirà il suo processo di restauro e potrà essere esposto al pubblico.

9 | Museo ARQUA di Cartagena: diorama del relitto di Mazzaron II, attorniato da postazioni interattive (foto di Massimo Capulli.

Facciamo ora un salto quantitativo e qualitativo con due vascelli non a caso celeberrimi. Il primo è la Mary Rose, una caracca d’epoca Tudor affondata nel 1545 nella Battaglia del Solent, che dopo circa dieci anni di scavi venne recuperata nel 1982 con una impresa titanica. Portata a Portsmouth entrò poi a far parte dell’Historic Dockyards, che può vantare la presenza anche della H.M.S. Victory, sulla quale trovò la morte Horatio Nelson durante la battaglia di Trafalgar (Ballantyne, Eastland 2013). Esposta parzialmente già durante il lunghissimo restauro, oggi si trova all’interno di un avveniristico museo, dove sfruttando il fatto che la Mary Rose si è preservata a metà nel senso longitudinale, si sono realizzati dei camminamenti che seguono esattamente i diversi ponti [Fig. 10] in modo tale che da un lato si veda il relitto in sezione e dalla parte opposta quello che avremmo visto nei corrispettivi ponti della nave (Burton 2013).

10 | Il relitto del Mary Rose e sulla destra i corridoi che seguono l’andamento dei ponti della nave (foto di Massimo Capulli).

Il secondo caso è quello del Vasa (Adrup 1990), il vascello svedese affondato nel 1628 e che dopo lo straordinario recupero nel 1961 è stato definitivamente esposto nel 1990 in uno straordinario museo. Diversamente da quello del Mary Rose, qui lo shock è immediato: infatti, appena si entra ci si trova subito faccia a faccia con una nave pressoché integra [Fig. 11]. Salendo poi i diversi piani dell’edificio che lo abbraccia è possibile da una parte sporgersi per continuare a osservarlo da altezze sempre crescenti e dall’altra visitare singoli spazi tematici, che vanno dalla storia della sua costruzione, ai problemi emersi sia durante che dopo il restauro. Le imbarcazioni più piccole vengono sottoposte a trattamenti per immersione in un impregnante non volatile, ma nel caso del Vasa, così come per il Mary Rose, si è potuto procedere solo per irrorazione e chiaramente ciò presenta delle evidenti criticità.

11 | Il percorso di visita a più piani attorno al relitto del Vasa (foto di Massimo Capulli).

L’unicità del Vasa lo ha reso il museo più visitato dell’intera Svezia, suggerendo ai decisori politici di ampliare l’offerta turistica con la realizzazione nelle immediate vicinanze di due altri musei, uno dedicato ai vichinghi e l’altro ai relitti. Quest’ultimo, chiamato VRAK, è stato inaugurato nel 2021 e si presenta estremamente moderno, non solo nell’uso delle più moderne tecnologie, ma anche come e perché queste vengono impiegate. Il VRAK ha una squadra di archeologi subacquei che compie regolarmente attività di ricerca, parte della quale finisce direttamente in museo. La filosofia adottata è difatti di raccogliere dati, lasciando sul fondo quanto più possibile, e di rielaborarli al fine di poterne ottenere anche modellazioni tridimensionali. Queste possono essere facilmente proiettate, anche in modalità interattiva, o nel caso dei manufatti possono essere stampate ed esposte [Fig. 12]. Il visitatore ha così a disposizione immagini del relitto nel suo contesto di giacitura affiancate da un monitor che ne proietta il modello digitale interrogabile e la copia ‘toccabile’ di alcuni degli oggetti che può osservare nel video.

12 | VRAK Museum: teche sospese in cui si proiettano ologrammi di alcuni reperti rilevati sul relitto che è stampato sul pavimento della sala (foto di Massimo Capulli).

Stabilire se questa possa essere la nuova frontiera per gli allestimenti ‘navali’ è difficile a dirsi, anche se come è stato già notato tempo addietro (Melotti 2008) non sempre l’autenticità e/o concretezza del reperto esposto è una condizione imprescindibile per il turista medio. Chiudiamo così con un caso estremo, un museo costruito per un solo relitto e che si trova ancora in fondo al mare, stiamo parlando del relitto per eccellenza: il Titanic. Nella città di Belfast, anche nell’ottica di riqualificare la zona portuale, è stato realizzato un museo in prossimità del luogo dove venne costruito lo sciagurato transatlantico (Neill et al. 2013). Ovviamente, al di là della suggestione offerta dalla vista sul vecchio bacino di costruzione oggi obliterato e materializzato solo attraverso una linea nel selciato [Fig. 13], lo sviluppo espositivo racconta la storia della nave necessariamente solo grazie al continuo ricorso a moderni sistemi multimediali, come ad esempio un pavimento trasparente che consente di camminare sopra il relitto proiettato come una sorta di ologramma.

13 | Materializzazione ‘grafica’ dell’area in cui si trovava il bacino di costruzione del Titanic (foto di Massimo Capulli).

Personalmente credo che queste strade che le nuove tecnologie ci offrono possano essere di grande utilità per promuovere la conoscenza del patrimonio culturale sommerso, rispettando peraltro anche la più recente definizione di museo che è stata sancita nel 2022 a Praga dall’International Council of Museums:

Il museo è un’istituzione permanente senza scopo di lucro e al servizio della società, che compie ricerche, colleziona, conserva, interpreta ed espone il patrimonio culturale, materiale e immateriale […] offrendo esperienze diversificate per l’educazione, il piacere, la riflessione e la condivisione di conoscenze (Zerlenga et al. 2023, 114).

Dall’altro canto riterrei però un errore rinunciare del tutto allo scavo archeologico, ivi compreso il recupero di manufatti e se necessario per preservarli anche degli scafi, poiché significherebbe rinunciare a leggere importanti pagine della nostra storia.

Riferimenti bibliografici
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English abstract

The categories of museums that host shipwrecks are different: traditional naval museums, science and technology museums, as well as archaeological, ethnographic, maritime, and thematic institutions. This paper presents a series of personal reflections on these exhibition approaches, viewed primarily through the perspective of an underwater archaeologist rather than that of a museologist. It highlights the importance of considering the original context of a shipwreck – often submerged – and, where possible, of respecting its transformed nature, in accordance with the principles of the UNESCO Convention that promotes in situ preservation. A wreck, the result of a traumatic or intentional event, undergoes a profound transformation in the transition from an underwater environment to a museum setting. This process necessitates complex and costly conservation interventions, particularly for wooden remains, and exhibition design must account not only for the object's scale but also for the potential fragility of this unique category of macro-artifact. The discussion is framed around selected examples of best practices: some distinguished by their interactive and educational value, others by their adherence to scientific rigor. It concludes with an examination of recent museological approaches employing advanced technologies to digitally recreate and disseminate data without the need for physical removal of the wrecks – an innovative model that, in several respects, may represent the future of archaeological display in museums.

keywords | Shipwreck; underwater site; museography; naval fittings.

questo numero di Engramma è a invito: la revisione dei saggi è stata affidata al comitato editoriale e all'international advisory board della rivista

Per citare questo articolo / To cite this article: Massimo Capulli, Allestimenti navali a confronto. Spunti di riflessione, “La Rivista di Engramma” n. 228, ottobre 2025.