"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

126 | aprile 2015

9788898260713

Tra 'progetto' e sogno: a Dresda il museo di Francesco Algarotti

Cristina De Benedictis

English abstract

Su Francesco Algarotti è famoso l’acido, riduttivo giudizio di Giacomo Casanova come colui che: “era riuscito a mettere le signore in condizione di parlare di luce”L’Algarotti fu molto di più di un brillante divulgatore di concetti complessi, svolse un ruolo di diffusione internazionale, quale anello di congiunzione tra letteratura e arte figurativa, tra cultura italiana e cultura europea[1]. Testimonianza emblematica della forte, progressiva inclinazione didattica e dell’illuminato intellettualismo del veneziano, è la formulazione di un piano articolato di acquisti per la creazione di un museo per la gloria di Federico Augusto III, re di Polonia e Principe Elettore di Sassonia, di cui diviene fidato consigliere artistico e agente commerciale. La linea programmatica di acquisizioni che si evince dal ben noto Progetto per ridurre a compimento il Regio Museo di Dresda indirizzato al sovrano nel 1742 assume una doppia valenza: celebrativa ed encomiastica, “per contribuire allo splendore del regno di Augusto che è con quello delle belle arti congiunto”ma altresì innovativa, didattica e storicistica tesa a documentare, in chiave enciclopedica, l’arte europea nella sua genesi ed evoluzione. Una istituzione “il più possibile completa delle opere d’arte prodotte in ogni secolo in modo da offrire tutte le differenti maniere, la storia tutta per così dire della pittura”. L’intento era dunque quello, fondandosi sulle ricche collezioni di pittura rinascimentale e di scultura classica possedute dal monarca, di proporre una loro razionalizzazione con lo scopo, non tanto di assecondarne i gusti, quanto contribuire al pubblico incivilimento “per accendere gli animi dei Sassoni all’amore delle belle arti”. Si sarebbero dovuti perciò incrementare gli acquisti: di stampe originali, di incisioni in sostituzione dei quadri che non si possono acquistare, di disegni che catturano la primitiva creazione dell’artista, disposti in libri e raggruppati per scuola, “così da avere sotto gli occhi la storia della pittura, massime se si facesse un catalogo ragionato”. La scultura classica dovrà convivere con la pittura rinascimentale, a quest’ultima per pareggiarne la sproporzione numerica, doveva esser aggiunto uno scelto numero di quadri contemporanei, dei maggiori pittori viventi, dei quali fornisce una lista di nomi eccellenti, temi compositivi aulici ed eruditi e di preferenze, orientate sugli artisti veneti di cui fu raffinato conoscitore. Si sarebbe così costituita una sorta di “galleria moderna contenente quanto l’odierno secolo può produrre di migliore”[2].

Una campagna ragionata di acquisti che avrebbe portato alla costituzione di un museo che doveva ospitare tre strutture per la prima volta correlate, di forte valenza didattica; una biblioteca con testi specialistici attinenti alle arti, una Accademia e infine un Galleria Reale che avrebbe esposto un’antologia visiva della pittura europea. Il contenuto del Progetto, qui sinteticamente esposto, denuncia l’ampiezza di vedute, l’originalità delle concezioni, la consapevolezza della funzione primaria dell’istituzione proposta con rigore dal suo estensore; ne sarebbe scaturito uno strumento pubblico, centro di conservazione, ma altresì polo di promozione artistica e di committenza reale. Una proposta di contenuti quella formulata da Algarotti che coniuga, come ben evidenziato da Andrea Emiliani, due modelli legati l’uno, alla tradizione della pittura italiana e alla cultura bolognese dell’Accademia Clementina, l’altra alla tradizione sassone del collezionismo internazionale[3]. Una formulazione che trova inoltre, a mio avviso e con più forza, i suoi presupposti più vicini e diretti in area veneta, nelle concezioni museologiche e collezionistiche di Scipione Maffei e di Carlo Lodoli. 

Dal Maffei e dal Museum Veronense di iscrizioni l’Algarotti riprende la visione storicistica di un museo pubblico che consiste nel “radunar quel che è sparso e quel che è separato non val niente e posto insieme sarà un tesoro”, che rimetta l’arte contemporanea sulla via dell’imitazione dell’arte antica in cui le epigrafi servano allo studio della storia, fondata essenzialmente sui reperti e non sui testi letterari[4]. Da Carlo Lodoli, suo maestro, il veneziano recupera invece l’innovativo allestimento della sua collezione privata:

Povero frate come egli era e come diceva, non avrebbe potuto intraprendere l’acquisto di una serie di quadri dè più celebri autori, […] pensò in conseguenza di formarne una ben dissimile da tutte quelle che soglionsi vedere, ma forse più utile immaginandosi che i suoi quadri avessero a mostrare passo passo la progressione dell’arte del disegno dal suo rinnovamento in Italia sino ai Tiziani, a’ Carracci, ai Buonarroti ed ai Paoli[5].

Galleria ‘progressiva’ disposta nell’abitazione veneziana del Lodoli secondo un ordinamento didattico che, aprendo al nascente interesse documentario e storico per i primitivi e per la pittura precinquecentesca, intendeva illustrare il progresso e le peculiarità delle scuole italiane[6]. Algarotti, pur indifferente al recupero dei primitivi, dilata l’esperimento del Lodoli, proponendo per il Museo di Dresda, in mancanza di una tradizione artistica locale, un confronto delle diverse scuole nazionali europee[7]. Si tratta in conclusione di una campagna ragionata di acquisti di valenza essenzialmente museologica perché condotta secondo modalità di ordinamento e di seriazione didattica dei diversi reperti. Questo mi sembra che sveli come nella mente dell’Algarotti la programmazione dei contenuti procedesse di pari passo con una riflessione, meditata e approfondita nel corso del tempo, sull’assetto e sullo stile dell’organismo architettonico che li contiene.

1 | Da sinistra a destra: Jean-Etienne Liotard, Ritratto di Francesco Algarotti, L’Aja, Museo Nazionale;  2 | Giovan Battista Tiepolo, Convito di Antonio e Cleopatra, Melbourne, National Gallery of Victoria.

Ritengo dunque che già dalla formulazione del programma museologico si possano documentare, seppur ancora in nuce, le concezioni progettuali, museografiche ed architettoniche relative alla forma museo che troveranno esplicita e progressiva codificazione in altro e diverso contesto soltanto diciassette anni più tardi. Consigli per acquisti programmati e tesi alla creazione di un museo in grado di assicurare rinomanza e rango internazionale alla nazione e alla corte di Dresda, celebrando al contempo l’immagine del monarca illuminato e la sua passione collezionistica, catturano l’interesse di Federico Augusto che utilizza a tale scopo sistematicamente il conte veneziano come intendente d’arte e irresistibile negoziatore. Gli anni 1743-1746 lo vedono perciò impegnato in Italia come esperto per soddisfare le richieste del sovrano, grande estimatore della pittura rinascimentale italiana. Trentaquattro sono le acquisizioni mirate e oculate che danno prova dei suoi gusti orientati invece sulla pittura veneta contemporanea, di cui Algarotti fu l’araldo e il campione in Europa, ma altresì in grado di apprezzare diverse esperienze figurative come i fiamminghi e lonsvizzero Liotard, al quale commette il proprio ritratto [fig. 1] e di cui riesce ad assicurarsi per Dresda una perla del museo, la splendida Cioccolataia, ammirandone, da pittore mancato e finissimo conoscitore, la perfezione tecnica[8].

Sono questi inoltre gli anni in cui l’Algarotti instaura uno stretto rapporto coll’amatissimo Tiepolo, suggerendogli nuove tecniche, auliche iconografie e orientandolo al classicismo. Tele del Tiepolo destinate a Dresda che denunciano la sintonia d’intenti tra il letterato e l’artista che si mostra consapevolmente in grado di recepire i suggerimenti eruditi e antiquari del veneziano. Opere del Tiepolo e altri dipinti contemporanei che vengono analizzati per evidenziare, non i rapporti tra Algarotti e gli artisti già egregiamente indagati dagli studi, bensì per documentare in questa sede, stili e idee progettuali più tardi elaborate per la formulazione della forma architettonica del museo. Nel 1743 Algarotti compra per sé il modello del Tiepolo per un quadro raffigurante il Convito di Cleopatra, la versione definitiva compiuta l’anno seguente, mostra una accresciuta attenzione alla verosimiglianza storica e una rigorosa, teatrale struttura compositiva imputabile ai suoi suggerimenti [fig. 2]. Nel dipinto giudicato da Haskell, “il più classico che sia stato prodotto da un pittore veneziano sin dalla fine del Rinascimento”, si realizza un irripetibile incontro sotto il segno dell’antichità ricreata tra l’ultimo, già famoso, grande interprete del barocco lagunare e il giovane letterato. Una classicità recepita più rigorosamente dal Tiepolo rispetto alla visione ecletticamente combinatoria dell’Algarotti. Convito di Cleopatra così descritto nella Relazione storica dei quadri acquistati dal Conte Francesco Algarotti per la regia maestà del re di Polonia:

Il sito è una nobile loggia da cui veggonsi bellissime fabbriche che formano un luogo non già ideale e chimerico come il più dè pittori fanno, ma regolare e qual veramente fabbricar potrebbesi e tale che convien appunto alle voluttuose abitazioni di così personaggi. Le fabbriche sono di greca architettura[9].

L’architettura dipinta, il nobile portico corinzio, ordine lodato dal Palladio e suggerito dal conte al pittore, usato come fondale architettonico, acquista perciò una concreta valenza progettuale mentre lo stile classico il valore di esempio condizionante e di canone normativo. Valori fondati sull’antico che per suo merito precipuo faranno di Dresda un centro di precoce apertura al neoclassicismo. Nel Progetto l’Algarotti aveva inoltre enunciato il proposito di far realizzare al migliore degli artisti viventi, un tema aulico di soggetto mitologico:

il più insigne di tutti i pittori avrebbe la pittoresca palma ottenendo sopra gli altri di dipingere un quadro in cui fusse rappresentato il Re in abito romano che consacrasse il Museo che avrebbe forma di sontuoso antico tempio[10].

3 | Da sinistra a destra: Giovan Battista Tiepolo, Mecenate presenta le arti ad Augusto, San Pietroburgo, Hermitage; 4 | Canaletto, Capriccio con il progetto del Ponte di Rialto e la basilica di Vicenza di Palladio, Parma, Galleria Nazionale.

La scelta cade ovviamente sul Tiepolo che nel 1743, su suo suggerimento, dipinge Mecenate presenta le arti ad Augusto [fig. 3]. Le reminiscenze romane; la statua classica della Minerva Giustiniani e la figura di Apollo con la cetra tratta dalle Stanze Vaticane di Raffaello e i ricordi veneti; affreschi del Veronese, loggia alla palladiana, vengono fusi in un classicismo studiato, scenografico di grande suggestione visiva. Il soggetto del dipinto, sfacciato gesto di cortigianeria del veneziano, allude nelle figure di Augusto sul trono e di Mecenate, al sovrano e al potente ministro delle finanze Brühl, per il quale era stato da lui commissionato, svelando inoltre la concezione di Algarotti nei confronti del museo, tempio dell’arte, eletto sacrario di venerate immagini[11]

Il programma elaborato da Algarotti per un museo regio teso ad un confronto normativo tra arte antica e moderna, condiviso e approvato dal monarca subisce peraltro una battuta d’arresto e in seguito modificazioni irreversibili. Il veneziano continua intanto la sua campagna di acquisti in Italia e in Europa, rivede a Berlino il suo antico protettore e appassionato estimatore; l’imperatore Federico II di Prussia e incrementa la sua collezione personale in linea con le scelte già esperite per la corte polacca, orientata verso la pittura veneta e i contemporanei[12]. Al Pannini, definito “eccellente nel dipingere gli antichi edifici”, il letterato aveva commissionato per la sua raccolta privata veneziana, una veduta dell’interno del Pantheon, una delle numerose versioni del tema, non identificata. Un monumento classico ammirato al tempo del suo giovanile soggiorno a Roma e della sua amicizia con l’erudito Giovanni Gaetano Bottari con la motivazione: "le rovine mettono tale idea di magnificenza che tutte le fabbriche moderne mi paiono buffonerie, […] S. Pietro perde pregio se paragonato al Pantheon"[13]. Parole che testimoniano, supportate da una profonda conoscenza dei diversi settori dell’antiquaria, le sue progressive inclinazioni classiciste e la sua conoscenza di quell’organismo architettonico di cui deplora, da competente, i rifacimenti arbitrari. Tempio convertito in chiesa che dalla prima metà del Settecento, viaggiatori illustri del calibro di Montesquieu e De Brosses, ritenevano invece spazio ottimale, poiché provvisto di lume dall’alto, per l’allestimento di una galleria di scultura antica[14].

Del Canaletto il veneziano possedeva, datata 1744, una veduta immaginaria del Ponte di Rialto [fig. 4]. Un Capriccio con edifici palladiani, una veduta ideale, tipologia specifica definita come “un nuovo genere di pittura nella quale si viene a riunire la natura e l’arte”. Quadro che mostra ancora una volta una raffinata intuizione critica nella scelta dell’artista e la consumata abilità dell’Algarotti, quale traduttore di idee letterarie in immagini, che si esplica nella creazione di un’opera d’arte, frutto congiunto dell’alleanza tra letterato e pittore. Come nel Convito di Cleopatra del Tiepolo, l’architettura dipinta dal Canaletto, un capriccio per traslazione, quasi un fotomontaggio, composta dal Palazzo Chiericati e dalla Basilica di Vicenza che sostituiscono il Fondaco dei Tedeschi e il palazzo dei Camerlenghi, con il progetto irrealizzato per il Ponte di Rialto, desunta non dai trattati palladiani, ma da una riflessione “in loco” sulla realtà degli edifici, assume, come individuato acutamente da Lionello Puppi, una precisa, riproducibile valenza progettuale[15]. Una architettura epurata, ideata e ideale che diventa quindi referenza concreta, stimolo operativo nonché realizzabile modello visivo per il futuro, ma anche omaggio al Palladio e per suo tramite un omaggio all’antico. Palladio conosciuto dal veneziano nella sua realtà effettuale, da lui esportato nella Potsdam dell’imperatore Federico il Grande, ma anche già compreso attraverso la mediazione delle teorie architettoniche formulate a Venezia dal console Smith come attraverso le soluzioni combinatorie del palladianesimo di ritorno di Lord Burlington nella villa di Chiswick, ammirata all’epoca del suo giovanile soggiorno inglese[16].

Intanto eventi esterni vanificano le proposte operative di Algarotti, il suo museo ‘programmato’ perde quota, si affievolisce l’interesse del sovrano per gli acquisti di arte contemporanea, altri, più modesti intermediari, lo soppiantano nella campagna degli acquisti. Un progetto concreto che si dissolve in un sogno a causa delle mutate inclinazioni artistiche del re di Polonia, del crescente indebitamento della corte di Dresda, del minaccioso clima politico che porterà alla guerra dei Sette Anni. L’acquisto in blocco di cento capolavori estratti traumaticamente dalla Galleria dei Duchi d’Este, una delle più ricche collezioni dinastiche del Rinascimento italiano, conclusasi nel 1746, vanifica il progetto didattico di Algarotti, producendo i suoi effetti sulla sistemazione della raccolta reale che viene così a comporsi di tre nuclei eterogenei: collezioni del sovrano di arte antica e moderna, acquisti di pittura contemporanea del veneziano, dipinti rinascimentali della Galleria di Modena allestita nella scuderia del sovrano, raffigurata nel 1749 dal Bellotto; raccolta che acquisisce da questo momento risonanza internazionale[17]

L’edificio in origine adibito a scuderia viene perciò rifunzionalizzato, ripetendo lo schema della galleria barocca, disposta intorno ad un cortile interno, divisa in tre ali interne e quattro esterne. La galleria interna accoglie la pittura italiana, un terzo dei dipinti provenienti da Modena viene scelto per completare il patrimonio pittorico esistente, adottando l’abbinamento di grandi pale come nella Galleria degli Este, con una raffinatezza decorativa e una complessità di disposizione che all’epoca non ha riscontri. I dipinti riuniti con un criterio ottico di simmetria distributiva intrinseca e reciproca e non didattica, privilegiano l’arte del Correggio e la pittura emiliana e settentrionale del Rinascimento, la cui visione influenzerà il gusto classicistico del giovane Winckelmann[18]. Con l’acquisto prestigioso della Madonna Sistina di Raffaello che suggella, in controtendenza rispetto alle proposte formulate nel Progetto, le scelte e gli acquisti di Federico Augusto III, si chiude la politica artistica del sovrano e la fortuna di Algarotti come suo consigliere. Nel 1756, anno in cui l’imperatore Federico di Prussia realizza nella palladiana residenza di Sanssouci a Postdam un padiglione autonomo per accogliere in suggestive unità decorative, dipinti e quadri della sua raccolta privata, destinato alla fruizione esclusiva del sovrano e della corte, Algarotti licenzia il suo Saggio sopra l’architettura, spia del suo eclettico pensiero, in cui cerca di conciliare, non senza contraddizioni, il rigoroso funzionalismo costruttivo del Lodoli con la critica al Barocco e le montanti tendenze classiciste, tentando un’analisi stilistica dell’architettura antica basata sia sui testi sia sulle opere[19].

5 | Da sinistra a destra: Pietro Lenzini, Ricostruzione ipotetica della pianta e dell’alzato del Museo di Dresda secondo la proposta di Francesco Algarotti, 1993;  6-7 | Pietro Lenzini, Ricostruzione ipotetica della galleria espositiva del Museo di Dresda secondo la proposta di Francesco Algarotti, 1993.

Prova del gusto ambivalente del veneziano in fatto di stile architettonico, i suggerimenti operativi per la creazione di un edificio museale per la corte di Dresda, i cui contenuti erano già stati formulati nel Progetto indirizzato al Sovrano più di un decennio prima. Si tratta della ben nota Lettera indirizzata all’amico vedutista e prospettico bolognese Prospero Pesci nel 1759. In questa si ravvisano tre rilevanti motivi di interesse; si definisce un nuovo genere pittorico, il capriccio: “il quale consiste a pigliare il sito dal vero, e ornarlo dipoi con belli edifizi o tolti di qua e di là, ovveramente ideali”, si esplicita il simbiotico rapporto che deve instaurarsi tra il letterato, suggeritore di temi precisi e l’artista e si propone infine, la costruzione con intenti progettuali, di un edificio autonomo atto a contenere una collezione d’arte[20]. Indicazioni puntuali per la costruzione di un edificio museale in grado di postularne la realizzazione concreta e la fattibilità operativa, di grande rigore e chiarezza esplicativa, tali da permettere ad Andrea Emiliani, che ha sapientemente analizzato il contenuto della Lettera, di commissionare nel 1993 allo scenografo Pietro Lenzini, una maquette, un disegno ricostruttivo in pianta e in alzato del progetto steso da Algarotti[21]. Nella Lettera si suggerisce al Pesci di realizzare, sulla base di un disegno autografo del veneziano, un capriccio pittorico che possa documentare un progetto teso a sostituire, utopicamente, la veneranda chiesa bolognese di San Domenico con una innovativa struttura laica con funzione museale e didattica. Si tratta di un museo la cui idea originaria, un disegno o un testo forse perduto, sembra già sia stata formulata, ma non recepita dal sovrano:

destinato a contenere statue e pitture che io avevo altre volte immaginato per il re di Polonia. È una fabbrica quadrata con dentro un cortile. Nel mezzo di ciascun lato è un gran colonnato, o loggia corinzia che sporge in fuori; di qua e di la da essa sono due gallerie che ricevono il lume da cinque archi tramezzati da pilastri corinti e queste due gallerie mettono in due salotti [fig. 5], i quali al di fuori sono ornati da mezze colonne nel muro con nicchie bassorilievi tra i due […]. Ricevono essi il lume d’alto per via di quattro cupolini che riescono negli angoli dell’edeifizio; e nel mezzo di ciascun lato s’alza una cupola maggiore che da lume ad un salone che resta dietro alla loggia e tra l’una e l’altra galleria. Queste sale erano così fatte per collocarvi le più belle statue e pitture, le quali ricevendo il lume d’alto, sarebbono comparse vieppiù belle ancora come si può vedere nella Tribuna di Firenze e come praticato aveva con un solo occhio in cima per riporvi il suo museo Rubens ad Anversa. Tutto l’edificio è coronato da una balaustra o poggiolo retto da uno stereobate nell’altezza del quale è cavata la scalinata delle logge [figg. 6-7][22].

È dunque un organismo autonomo nello spazio e nella funzione quello proposto da Algarotti; un museo misto nei contenuti, nuova tipologia museale non ancora sperimentata. Per quanto attiene allo stile architettonico, che serra, per la prima volta in una geometria unitaria accentrata, gli spazi canonici del collezionismo rinascimentale quali; sala, galleria longitudinale e rotonda cupolata, questo denuncia un carattere combinatorio; le cupolette barocche e il colonnato neoclassico, come più tardi si espliciterà nella National Gallery di Londra. Per quanto attiene invece all’aspetto eminentemente funzionale si realizza una perfetta corrispondenza d’intenti e di visione tra programma museologico e progetto museografico. Progetto museografico che contempla anche una riflessione, formulata da uno studioso e stimato commentatore di Newton, sull’ottimale visibilità dei reperti; all’illuminazione piatta delle quadrerie barocche, sfavorevole ai dipinti di grandi dimensioni, si sostituiscono due diverse, più adatte, fonti di luce; laterale per i dipinti, zenitale per le sculture. Un sistema integrato e coerente quello ipotizzato in due tempi dall’Algarotti, in cui il contenuto, un confronto didattico di tradizioni figurative diverse, si incarna in un organismo strutturale, pensato, come ritengo, fin dal 1742, in fieri dunque all’epoca del Progetto e delle commissioni al Tiepolo, che si arricchisce progressivamente, tramite le sue accresciute esperienze culturali e le riflessioni sui dipinti del Pannini e del Canaletto, di nuove, funzionali implicazioni costruttive e museografiche.

L’Algarotti dai gusti contraddittori ed eclettici, fautore di un impossibile accordo tra gusto del pittoresco e istanze erudite e antibarocche, dall’ambiguità del carattere estesa fino alle inclinazioni sessuali, propugnatore di un classicismo disimpegnato, lontano dal rigoroso, vasto sistema storiografico di Winckelmann, trova qui in un piano integrato e consequenziale tra due discipline contermini non ancora formulate e diversificate, una geniale, rigorosa unità d’intenti. Proposta organica quella del veneziano che costituisce un’occasione mancata e disattesa sia da Federico il Grande di Prussia sia dal re di Polonia, per la realizzazione di un museo che avrebbe acquisito una doppia valenza; emblema celebrativo del regime nazionale e strumento didattico di confronto tra esperienze artistiche diverse; doppia valenza recepita invece al volo e attuata con efferata efficacia operativa da Napoleone al Louvre. Siamo quindi in presenza di un sistema complesso, coordinato e necessariamente complementare, formulato in due diverse occasioni che si distanzia irrimediabilmente dalle preoccupazioni classificatorie e terminologiche, dalla riflessione teorica della Museographia del Neickel nella quale sono del tutto assenti indicazioni d’uso e di funzione dell’istituto museo[23]. “Coincidenza tra organizzazione sistematica dei documenti figurativi e strutturata conoscenza della loro collocazione storiografica” che legano invece il pensiero di Algarotti, anticipandole, alle concezioni esclusivamente museologiche basate “sulla completezza ordinata con metodo”, espresse da Luigi Lanzi nel 1782 nella Real Galleria di Firenze accresciuta e riordinata[24]. Il pensiero di Algarotti sul tema del museo trova peraltro il suo più diretto precedente e il più calzante confronto con quello di Scipione Maffei. Due elementi caratterizzanti li accomunano; l’ampiezza poliedrica degli interessi intellettuali e storiografici di respiro internazionale e la riflessione fondante sul museo che congiunge aspetti teorici e contenutistici con quelli allestitivi e costruttivi.

La Notizia del nuovo Museo di Iscrizioni in Verona stesa dal Maffei nel 1720, costituisce un saggio di taglio squisitamente museologico che contempla anche accorgimenti per l’ordinamento dei reperti. Il veronese da vita ad una raccolta programmata, specialistica, a beneficio della comunità civile, in cui le epigrafi con intenti storicistici e progressivi, vengono seriate per classi e provenienza. Nel Museum Veronense, trenta anni più tardi, Maffei riferisce sull’organismo architettonico ormai compiuto, realizzato per contenere una collezione epigrafica quale documento di una ‘antichità parlante’ che trova collocazione in un edificio autonomo, progettato per contenerla[25]. Un portico all’antica in cui l’architetto Alessandro Pompei, come più tardi Carlo Marchionni nel caso di Villa Albani, sembra rivestire, recependo le indicazioni di Maffei sull’organizzazione del percorso di visita e sull’esigenza di massima leggibilità dei reperti, il ruolo di esecutore tecnico piuttosto che quello di progettista consapevole. Museo Epigrafico, conosciuto in fase avanzata di completamento dall’Algarotti in una sua visita a Verona nel 1743, incunabolo dello stile neoclassico nel Veneto e prototipo del museo di ambientazione, in cui il nuovo rapporto, in funzione ricontestualizzante, tra architettura all’antica e reperti antichi, non è dato sapere quanto sia il frutto di una occasionale, felice coincidenza di intenti tra Maffei e Pompei o invece il risultato di una programmatica, virtuosa intenzionalità. All’enciclopedia delle pietre incise esposte in un edificio autonomo di carattere classico con pronao ionico, Algarotti, dilatando ambiziosamente l’esperimento maffeiano, sostituisce un confronto tra arte antica e moderna, ipotizzando di realizzare un’enciclopedia della pittura europea, ordinata per scuole e cronologia da esporre in un funzionale, razionale tempio all’antica che, solo l’insipienza di un sovrano e avverse circostanze, impediranno di portare a compimento. Algarotti formula dunque nei riguardi dell’istituto museo una proposta globale che riunisce competenze diverse non ancora esplicitate in distinti settori e divaricate professionalità, dalla valenza e dal significato non utopico e velleitario, come da alcuni definito, bensì dal valore progressista, o meglio profetico, per dirla con Pevsner, non realizzato per contingenze avverse, ma che di li a poco, poiché il genio è anticipatore di istanze e di tendenze, la storia provvederà a concretizzare[26]. Proposte e suggerimenti architettonici e progettuali dell’Algarotti troveranno infatti, esiti non globali, ma soltanto sviluppi parziali che sono tuttavia pienamente in grado di provare la validità, la modernità del suo approccio operativo. Fattibilità costruttiva dell’organismo espositivo e indicazioni di uso e di funzione che distinguono le idee formulate dal veneziano dalla visione, sublime e straniante e dalla concezione di museo, quale dimora delle arti e della fama, parimenti non realizzata, di Etienne-Louis Boullée[27]

8 | Mario Botta, Ingresso del MART - Museo di Arte Moderna, Rovereto.

Elementi fondanti proposti per un museo mai nato, quello di Dresda, diverranno presto coordinate canoniche; uno stile architettonico ispirato all’antico e al Palladio si coniugherà con una crescente attenzione alla funzionalità degli spazi interni e al didattico allestimento dei reperti. Soltanto dieci anni più tardi della Lettera al Pesci, nel 1769 si realizza, infatti, a Kassel un tempio palladiano celebrativo per il langravio Federico II che ne è insieme il promotore e il destinatario, che riproduce la stessa sintesi tra stili diversi proposta per il Museo di Federico Augusto III; la facciata barocca e il portico neoclassico, un organismo architettonico che ospita una collezione mista, composta di sezioni ostensive, biblioteca e studio del sovrano, fruibile al pubblico ad ore e giorni fissi; nel Pio-Clementino, organismo autonomo dalla geometria accentrata, la Sala Rotonda utilizza opportunamente due fonti di luce, o ancora in epoca di Restaurazione, nella Gliptoteca di von Klenze a Monaco, capolavoro neoclassico dei musei di ambientazione, si recupera invece la pianta quadrata col cortile interno, in cui recependo per la prima volta le periodizzazioni storiche di Winckelmann, si seriano, come già nelle pinacoteche, in ordine cronologico e per stile, anche i reperti della scultura classica; e infine, per limitarsi ad esempi più noti, nel museo misto di Schinkel a Berlino, la Rotonda costituisce il fulcro del percorso espositivo e il sacrario delle sculture più eccellenti[28]. Una esemplare visione di portata europea quella proposta dal veneziano, non più esperita con tale ampiezza e coerenza che coniuga in maniera complementare i due settori della museologia e della museografia che, sugli archetipi rinascimentali e sulle sperimentazioni costruttive, didattiche ed espositive di Maffei e di Lodoli, marca il ruolo egemone del Veneto nella formulazione degli elementi fondanti del museo moderno. Una struttura nuova in cui le opere d’arte sono funzionalmente decontestualizzate in un monumento progettato per assicurarne conservazione e comprensione[29]. Un sistema formulato da un’unica mente in anticipo sui tempi che fonde integrandoli, come mai più si è verificato, teoria e tecnica: programmazione dei contenuti e divisione per scuole con organizzazione spaziale e pratiche allestitive. Le riflessioni concettuali formulate e proposte per primo da Algarotti, prontamente recepite a vari livelli e contesti, sul concetto di museo tempio dell’arte, sul valore dell’antico e della classicità quale componente ineludibile dell’architettura museale, nonostante il novecentesco riassetto dei suoi caratteri connotativi e la moderna diversificazione delle tipologie costruttive, costituiscono ancora oggi, a distanza di tre secoli, stimolo e sostrato creativo per la sperimentazione progettuale contemporanea [fig. 8][30].

Note

1. Giudizio di Casanova e illustrazione della personalità di Algarotti in Mazza Boccazzi 2000, 123-133; Mazza Boccazzi 2001, testo di riferimento con esauriente bibliografia precedente anche della stessa autrice.

2. La seconda citazione è tratta da Algarotti, Lettere sopra la pittura, 191; tutte le altre sono tratte da Algarotti, Progetto.

3. Sulla composizione del Museo per Federico Augusto III, ancora fondamentale il testo di Haskell [1963] 2000, 357-366, ed inoltre Faedo 1995; Liebsch 2010; Emiliani 2002, 23-32.

4. Su Scipione Maffei si vedano: Semenzato 1961; Silvestri 1968, 206; Mariani Canova 1975-76; Franzoni 1975-1976; e inoltre Pomian 1983.

5. Memmo, Elementi dell’architettura, I, 78.

6. Sul Lodoli si vedano; Caligari 1982; Gabetti 1982.

7. Bianconi, Scritti tedeschi, 82.

8. Sulla Cioccolataia di Jean-Etienne Liotard si veda Algarotti, Lettere sopra la pittura, 32-33.

9. Algarotti, Progetto.

10. Ibidem.

11. Sul tema dei rapporti tra Algarotti e Tiepolo vasta è la bibliografia, si segnalano qui i testi più significativi: Gemin, Pedrocco 1993, 108-118; Mazza Boccazzi 1998; Miatto 1997; Andresron 2003; Anderson 2005; ed inoltre Craievich 2012 e le schede di I. Artemieva e A. Craievich, pp.232-233.

12. Sulla collezione di Algarotti: Mazza Boccazzi 2010.

13. La citazione è tratta da una lettera di Francesco Algarotti a Francesco Maria Zanotti del 1734, citata in Faedo 1995.

14. Sul soggiorno romano di Algarotti, sul Pantheon e Pannini; Arisi 1986; Pasquali 1996; Consoli 2004.

15. Puppi 1982, 71; ed inoltre: Mattioli Rossi 1980; Corboz 1985a; Corboz 1985b; Mazza Boccazzi 2005.

16. Oechslin 2006; ed inoltre: Delneri 1986; Succi 1986b; Pasquali 2000, 159-166.

17. Winkler 1989.

18. Weber 1998; Laporte 2001; Marx 2004.

19. Su Federico il Grande e Potsdam si veda: Mielke 1986; Foster 1999. Sul pensiero di Algarotti, Gabrielli 1938-1939; Mazza Boccazzi 2006, 557-559.

20. Su Prospero Pesci e il genere del capriccio si vedano: Matteucci 2002, 425-427; Gregori 2009; su Algarotti e la cultura bolognese: Ciancabilla 2012, 47-49, 130-131.

21. I disegni realizzati da Pietro Lenzini su indicazione di Andrea Emiliani sono pubblicati in Emiliani 1995; sul progetto architettonico formulato da Algarotti nel 1759 si vedano anche: Pevsner 1976, 111; Liebenwein 1982, 504-505; Emiliani 1994; Bianconi, Scritti tedeschi, 82; Emiliani 2002, 23-32.

22. La lettera dell’Algarotti a Prospero Pesci si trova in Bottari, Ticozzi, Raccolta di lettere, VII, 427-436.

23. Su Neickel e la Museographia si vedano: Lugli 1992, 18; Neickel, Museographia; e De Benedictis 2007.

24. La citazione è tratta da Ferretti 1982, XIII. Su Algarotti e Lanzi si veda: Olmi 1983; ed anche Gregori 2009.

25. Su questo concetto si veda Sandrini 1982; sul Maffei si rimanda alla nota n.5.

26. Pevsner 1976, 111.

27. Sul museo di Boullèe si veda Pérous de Montclos 1994; e in particolare McClennan 2002.

28. Pevsner 1976, 137-167.

29. Bianconi, Scritti tedeschi, 82.

30. Sugli sviluppi e sull’evoluzione dell’architettura museale europea si vedano; Pevsner 1976, 137-167; Basso Peressut 1999; G. Andreolli, Mario Botta e il Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto, Milano 1995.

Fonti
Bibliografia
English abstract

This essay reconstructs the architectural project presented by the Venetian Francesco Algarotti in 1742 to the King of Poland Frederick Augustus III for his court in Dresden. Before founding the museum, Algarotti planned a thoughtful purchase campaign of works of art in order to fill the gaps in the royal collections. In his mind, the museum created in this way would count on three different structures: a specialized library, an academy for education and picture and sculpture galleries. Unfortunately Algarotti’s project, even if he worked as art dealer for the king, never came true. De Benedictis traces the sources of Algarotti, from Maffei to Lodoli, as well as his taste for classical and Palladian architecture through his purchases of paintings by artists such as Tiepolo, Canaletto and Pannini. Other sources for the reconstruction of Algarotti’s museum are in his writings on architecture and, particularly, in a 1559 letter to the painter Prospero Pesci, where he returned on the failed project for Dresden court. Crossing these data, De Benedictis outlines the architectural design of the museum, in which Algarotti envisioned a close alternation of rotundas and galleries, with zenithal and lateral lightning, and classical pronaoi for monumental entrances. This model anticipates the development of museum architecture in the subsequent Nineteenth century.

 

keywords | Architecture; Memory; Museums; Gallery; Exhibition design; Dresden; Francesco Algarotti.

Per citare questo articolo: C. De Benedictis, Tra 'progetto' e sogno: a Dresda il museo di Francesco Algarotti, “La Rivista di Engramma" 126, aprile 2015, pp. 78-97 | PDF dell’articolo

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2015.126.0004