"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

147 | luglio 2017

9788894840230

Noi, naufraghi ai confini del mondo

Due tappe alla Biennale Arte di Venezia 2017

Anna Ghiraldini

English Abstract

VIVA ARTE VIVA è il titolo della Biennale Arte 2017, aperta al pubblico lo scorso 13 maggio a Venezia e visitabile fino al prossimo 26 novembre, per la cura di Christine Macel e del Presidente della Biennale Paolo Baratta.

Misurando il proprio passo lungo il percorso di ghiaia dell’Arsenale, il visitatore incontrerà due Padiglioni, geograficamente e topograficamente lontani, che mettono in scena due naufragi dicotomici – uno letterale e uno figurato – opere di due giovani artisti chiamati a rappresentare il proprio paese che si sono avvalsi della collaborazione di colleghi altrettanto giovani per affrontare il tema del naufragio, che è la crisi della contemporaneità, con presupposti, mezzi e linguaggi dissimili.

Il Padiglione Italia della 57. Esposizione Internazionale d’Arte alla Biennale di Venezia, curato da Cecilia Alemani, ospita le installazioni di tre giovani artisti contemporanei, esponenti di quella generazione cresciuta in una realtà cosmopolita e internazionale: Roberto Cuoghi, Adelita Husni-Bey e Giorgio Andreotta Calò sono i protagonisti de Il mondo magico, ospitato alle Tese delle Vergini dell’Arsenale di Venezia. Il linguaggio che questa undicesima edizione del Padiglione Italia utilizza è a un tempo globale e intimamente legato alla cultura italiana, e purtuttavia fortemente antitetico rispetto alla preoccupazione per la storia, le origini e il culto per il passato: gli artisti parlano di miti, rituali, credenze e fiabe e si fanno creatori e interpreti di nuove possibili realtà. Il magico e l’irrazionale non sono mezzi di fuga dal mondo in crisi ma sentieri da percorrere per affrontarlo e ricostruirlo. In particolare, Senza titolo (La fine del mondo) è il titolo dell’opera di Giorgio Andreotta Calò che insiste nella porzione di tesa più prossima al Giardino delle Vergini, situandosi, di fatto, al culmine dell’esperienza odologica dell’Arsenale (o fungendo da invito per gli avventori della Mostra dal Ponte dei Pensieri).

L’artista, che si divide tra Venezia e Amsterdam, è riapprodato in Laguna con un’installazione in situ che amplifica il dialogo con lo spazio in cui si inserisce, riscoprendone ed esaltandone le trame ottocentesche. Il fruitore dell’opera entra in un ambiente dal soffitto molto basso e scarsamente illuminato, quasi intimo, terrificante: è uno spazio trascendente, dotato di un proprio peso, contenitore e contenuto contemporaneamente in cui, nella penombra, si riesce a distinguere una selva di tubi innocenti che gerarchizza lo spazio dividendolo in sei navate di eguale larghezza. Sparsi qui e lì, attaccati ai nodi tra i tubi della struttura, sono delle statuine e dei feticci.

Questo spazio, cui si accede di lato, è coperto da uno scheletro di volte cuspidate di ferro che reggono un sistema di travi e tavole in legno dipinto di nero. L’altar maggiore di questa cattedrale gotica sui generis, posto lungo uno dei due lati brevi, è una scala di reti elettrosaldate dalla pedata lunga, via di apoteosi al secondo spazio, che inghiotte i tubi via via che sale. Il secondo livello presenta uno spazio cinematografico che materializza l’esperienza stessa di cinema: di fronte allo spettatore, voltatosi a guardare il percorso appena compiuto, si apre uno spazio senza fine, in cui le geometrie regolari della copertura della tesa, capriate in acciaio che sorreggono un tetto a falde di travi e traversi lignei e laterizio, si specchiano su una superficie immobile d’acqua, illuminate per mezzo di un’unica, drammatica, luce, che si fa materia. Lo spazio è ancora una volta introspettivo, nero e, citando Rudolf Arnheim, “nella percezione, l’oscurità non appare come la semplice assenza di luce ma come un principio attivo a essa contrapposto”. L’acqua, elemento protagonista di questa geografia culturale ed emozionale, mediatore plastico tra la vita e la morte, è in relazione stretta con l’edificio: ne trasforma lo spazio, rendendolo altro, moltiplicandolo e ribaltandolo fino a farlo concludere con un nuovo inizio, il punto di arrivo e partenza che è lo spettatore, naufrago immerso e riflesso nel tutto senza sosta. Il tempo dell’opera è un tempo intimo e sospeso e lo spazio creato da Andreotta Calò è una camera oscura, luogo dove la pellicola emozionale dello spettatore si impressiona delle trame dello spazio, in un contrasto dinamico in continuo scambio tra accentuazione e negazione. L’elemento architettonico che si specchia su una superficie fluida perde di consistenza e diventa fluido a sua volta. Così Felix Guattari da Architettura della sparizione,

Al di qua di una soglia di consistenza cognitiva, l’oggetto architettonico si rovescia nell’immaginario, nel sogno, nel delirio, al punto che deborda da una soglia di consistenza assiologica, le sue dimensioni portatrici di alterità e desiderio si sgretolano, visto che al di qua di una soglia di consistenza estetica, esso cessa di afferrare l’esistenza delle forme e delle intensità chiamate ad abitarlo.

Giorgio Andreotta Calò ha seguito istante per istante la gestazione e la nascita della sua opera: ha studiato lo spazio della Tesa, percorrendolo, vivendolo, in un quotidiano incedere che gli ha permesso di realizzare una sua fenomenologia podometrica, per dirla con Jacque Gubler.

Nella fase di preparazione dell’allestimento, chi scrive ha avuto l’opportunità di attraversare ripetutamente il Padiglione Italia, muovendosi con circospezione tra le campate di acciaio, testimone (forse) involontario dei lavori in corso, senza lume alcuno sull’installazione in potenza, ma cosciente che lo spazio sarebbe stato un abisso da cui in qualche modo sarei dovuta emergere. “Sei riuscita a vederti nello specchio alla fine della sala?” mi ha chiesto Giorgio Andreotta Calò alcuni giorni dopo l’inaugurazione del Padiglione. “Certo – ho risposto – mi sono vestita di bianco per non perdermi la fine del mondo”.

***

Il Padiglione del Sud Africa, curato da Lucy MacGarry, si situa al primo piano delle Sale d’Armi dell’Arsenale. Un’alta parete bianca di cartongesso, preludio di quello che potrebbe essere un white cube, riporta una sinossi di ciò che attende lo spettatore una volta varcata la soglia del Padiglione: oltre la pesante tenda di panno color grigio antracite, sono esposte Passage e Love story, due installazioni video rispettivamente a tre e otto canali di Mohau Modisakeng e Candice Breitz.

Le opere dei due artisti sono ospitate in un luogo che, a differenza di ciò che avviene per il Padiglione Italia, si annulla: lo spazio della sala, caratterizzato dalla copertura a capriate in legno e dalle chiusure verticali in laterizio pieno, si nega, giacendo in posizione subalterna rispetto alle pareti in cartongesso, vere e proprie scatole realizzate per le installazioni.

La proiezione a tre canali di Modisakeng, come racconta lo schema del padiglione, è la prima cui si assiste: su tre pareti color antracite piegate e contigue, che abbracciano lo spettatore, si apre una distesa d’acqua calma e limpida, ripresa zenitalmente, di cui non si vedono i confini né si percepisce la profondità. Sulla superficie scura su cui brillano i riflessi di un sole alto e freddo, tre barche bianche ospitano altrettante figure vestite di nero senza scarpe, nell’abbigliamento tipico dei braccianti dell’Ottocento: una donna con un falco, un uomo con un trilby calcato sulla testa e una donna avvolta in una coperta basotho. I loro movimenti, in un crescendo che parte dal semplice mimo, uniti alle poche cose che possiedono, denunciano le motivazioni che li hanno portati a compiere l’impresa: la volontà di un ‘passaggio’. Lo spazio è caratterizzato dal suono delle onde che accarezzano i tre natanti. Lo spettatore si interroga se questo forte impulso che anima il loro viaggio precario sarà sufficiente a permettere loro di attraversare indenni l’Oceano; a un punto, si accorge che le scialuppe di legno, lentamente, stanno imbarcando acqua. I tre viandanti naufragano inesorabilmente, muovendo in modo sempre più scomposto nella loro cornice bianca, fino a scomparire nelle profondità marine davanti ad astanti inermi. Schermo nero, silenzio.

Nella visione dell’artista, l’acqua dell’Oceano offre la possibilità di rigenerazione e riscatto ma è anche mezzo capace di privare della vita. La parola ‘vita’, nella lingua Setswana, uno degli idiomi parlati in Sud Africa, è botshelo e significa ‘attraversare’, e gli esseri umani sono bafeti, ‘viaggiatori’.

Passage si fa portavoce di una triste e brutale verità: il naufragio è una condizione umana che va oltre lo spazio e il tempo e la cancellazione delle storie individuali non riguarda solo l’identità africana ma è un marcatore dell’annullamento globale. L’opera di Modisakeng al Padiglione del Sud Africa desidera superare i bordi della cronologia e indagare ciò che va oltre i soliti, banali, riferimenti storici (post-Apartheid nel caso specifico del Paese che al fenomeno ha dato i natali). L'installazione video riassume il dramma della storia locale e internazionale e la pressione politica e socio-economica, fattori determinanti nella definizione della crisi globale di cui prendere definitivamente coscienza e cercare di superare, magari attraverso la bolla d’irrazionalità del mondo magico.

Bibliografia
  • Alemani 2017. 
    Alemani (a cura di), Il mondo magico, Venezia 2017.
  • Arnheim [1967] 2008
    R. Arnheim, Arte e percezione visiva, Milano 2008.
  • Guattari [1976] 2013
    F. Guattari, Architettura della sparizione, Milano 2013.
  • Gubler [2003] 2014
    J. Gubler, Motion, émotion. Architettura, movimento e percezione, Milano 2014.
  • MacGarry 2017
    L. MacGarry, Candice Breitz, Mohau Modisakeng. The South African Pavilion, Cape Town 2017.
English Abstract 

VIVA ARTE VIVA is the name under which this year Biennale will be running throughout the city of Venice until November 26th 2017. The Italian Pavilion is exhibiting Senza titolo (La fine del mondo) by young artist Giorgio Andreotta Calò, a calm sea of steel, wood and uncertainty which deals with the attempt to overcome the global crisis by using mythology, rituals and the world of magic and irrationality. The South African Pavilion hosts The Passage, a three-channel installation by Mohau Modisakeng which shows the sinking of three white ships on a black sea as the wreck of the global community that people can no longer avoid thinking about.

Per citare questo articolo: Noi, naufraghi ai confini del mondo. Due tappe alla Biennale Arte di Venezia 2017, a cura di A. Ghiraldini, “La Rivista di Engramma” n. 147, luglio 2017, pp. 51-56 | PDF dell’articolo 

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2017.147.0000