"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

La parola, lo spazio

Bellocchio e il teatro

Farah Polato, Rosamaria Salvatore

English abstract
Premessa

Nel cinema di Marco Bellocchio il rinvio al teatro disegna un campo di declinazioni la cui estesa articolazione sembra sondare le forme possibili di interazione trascorrendo dalle più esplicite – come l’adattamento e la citazione – ; all’interrogazione di procedimenti compositivi, pratiche e consuetudini. Il presente contributo si incunea tra queste due direttrici attraverso la selezione di due punti di affaccio che interrogano la messa in scena della parola e dello spazio, storicamente individuati come terreno distintivo tra i due ambiti e le rispettive prassi, in quanto tale potenzialmente produttivi di fertili contaminazioni. Nel mezzo si apre l’irto campo della ‘teatralità’ intesa come sensazione che scaturisce dall’avvertimento di uno sconfinamento, più che dall’individuazione della sua meccanica. Posto che il cinema è il cinema – come il teatro è il teatro – nel vorticoso confermare e sfidare le forme del proprio riconoscimento fino a rigenerarsi, quanto etichettato in una sedicente ‘teatralità’ è stato chiamato ora a suggerire una giovinezza incerta ora una piena maturità; così, la ripresa fissa frontale, indicata a caratterizzare le pratiche del cinema delle origini (“cosiddetto primitivo, o teatrale”, come annotato anche alla voce Scenografia dell’Enciclopedia Treccani online), si assesta nel tempo quale cifra “del cinema d’autore più rigoroso” (ibidem). Al contempo, è proprio la tensione prodotta da acquisizioni o inserti avvertiti come estranei a mettere in moto il testo e la sua produzione di senso.

Nelle due sezioni che seguono, al di là del gioco delle attribuzioni di campo, a partire dall’armamentario terminologico mutato – con le inesorabili perversioni connesse –, l’attenzione si posa sulla dimensione funzionale, strategica e sui processi attivati dalle due polarità convocate, cinema e teatro.

Nella prima parte, attraverso esempi rappresentativi di procedimenti caratterizzanti il cinema di Bellocchio, Rosamaria Salvatore si concentra sulla citazione, evidenziando come la messa in scena nei testi filmici di brani tratti da drammi teatrali stratificati nelle memorie collettive schiuda per i personaggi dinamiche di rigenerazione, snodandosi tra i diversi regimi dell’esperienza, dal piano fenomenico a quello onirico.

Nella seconda, Farah Polato si sofferma sul trattamento dello spazio in La condanna (1991). In particolare, ad essere evidenziata è la trasmutazione di architetture preesistenti in spazi scenici (nello specifico, il museo di Villa Farnese) assonanti con l’idea di teatro evocata dall’arsenale delle apparizioni di Luigi Pirandello, tra gli autori di riferimento di Bellocchio. Diversi elementi e procedimenti, tanto narrativi che formali, vi concorrono: dalle caratteristiche architettoniche dell’edificio, allo scendere della notte, dal calibrato uso dei movimenti di macchina alla fotografia… A fungere da perno è la dimensione di spazio perimetrato, ostentatamente marcato dal gesto di chiusura che ne fa universo a sé stante, su cui si incentra il percorso interpretativo di seguito suggerito. A partire dal nucleo iniziale, l’analisi argomenta come il processo si riversi sull’intero corpo filmico che si fa esso stesso spazio di rivelazione.

Macbeth, o l’atto di parola

Il Macbeth, messo in scena da Bellocchio presso il Teatro India a Roma nel 2000, ricorre con carattere allusivo in due differenti film, Sorelle Mai (2010) e Bella addormentata (2012), tessendo fili di corrispondenze tra personaggi femminili e il loro percorso narrato, evocando nel primo caso temi legati al modo del tutto soggettivo di incarnare gesti e parole, nel secondo proiezioni psichiche dallo statuto onirico. Differentemente dalla rappresentazione teatrale diretta dal cineasta, centrata prevalentemente sul personaggio di Macbeth e sulle tre streghe (Pellanda, 2012, 133-137), nei due film ricorre il medesimo brano estratto dal testo shakespeariano che vede Lady Macbeth, in preda a una allucinazione, tentare disperatamente e senza esito di cancellare dalle proprie mani le macchie di sangue, segno figurativo delle colpe commesse.

Sorelle Mai ha rappresentato “l’occasione di fare uscire dall’ombra, dal buio, alcuni personaggi familiari, in particolare le mie sorelle. Quando penso a loro penso a Pascoli, a Čechov […]. Una caratteristica di questo film è che ci sono famigliari, tanti: i figli, mio figlio, le mie sorelle, i miei amici. Che sono loro stessi, ma sono anche personaggi. Questa è la caratteristica del film: una zona in cui spesso l’autobiografismo e la fantasia si confondono e si mescolano” (Intervista a Marco Bellocchio, contenuti extra DVD). Gli accenni all’universo poetico di Pascoli e al teatro di Čechov segnalano certamente vicinanze di climi e di temi, ma l’indicazione apre scenari più ampi: le opere dei due artisti citati non sono solo serbatoi poetici e drammaturgici in quanto rimandano anche a un universo di figurazioni che vede nella sonorità e nella modulazione della parola uno dei punti significativamente espressivi del cinema di Bellocchio. Il film si apre con una citazione dalle Tre sorelle che funge da innesto, irradiando il proprio senso in più direzioni, per aprirsi a relazioni possibili con altre sezioni narrative di Sorelle Mai. Al pari, i tre cortometraggi da Bellocchio precedentemente realizzati, Il gabbiano (atto I, scena seconda, 1977), Nina (1999) e Appunti per un film su “Zio Vanja” (2002), rappresentano una sorta di cornice-schermo volta a riattivare il processo mnestico e a interrogare la materia trasformativa della propria pratica artistica, che nel 1977 era stata messa alla prova con la creazione della versione cinematografica de Il gabbiano. Riprenderò dunque alcune riflessioni da me proposte in passato su Sorelle Mai (Salvatore, 2012, 43-56) concentrandomi in particolare sul riferimento a un brano del Macbeth e ad altri autori cari al regista.

Come dichiarato da lui stesso (Intervista a Marco Bellocchio, contenuti extra DVD), Sorelle Mai è stato realizzato a Bobbio all’interno della scuola Fare Cinema da lui fondata e diretta. Ognuno dei sei episodi che articolano l’ossatura narrativa è stato girato separatamente a partire da presenze famigliari e, solo in un secondo tempo, il sottile legame tra i rispettivi capitoli è stato costruito attraverso un esile impianto drammaturgico che ha visto la composizione finale nella costruzione staccata dall’autobiografia dell’ultima sezione. Se l’ossatura del film è costruita dall’amalgama tra elementi estratti dalla memoria con altri di fantasia è altrettanto palese il riferimento al tema del rapporto tra vita e finzione, intesa, quest’ultima, quale potenzialità creativa, volta a incidere sulle singole esistenze anche mediante il sorgere di immagini mentali legate a scene teatrali. Così avviene per la professoressa ospite presso le anziane zie, protagoniste del film. Ridestata dalla distrazione da cui è stata colta durante gli scrutini di fine anno per un amore che pare sottrarsi, la donna trova nella rappresentazione visionaria di Eumenidi la forza per ribaltare la valutazione negativa su un suo allievo, imputato di perenne distrazione e ripetuti stati di torpore. Ma ancora più incisiva a tal fine appare la figura di Sara, nipote delle zie, attrice a cui, dopo anni di tentativi fallimentari, viene assegnato l’importante ruolo di Lady Macbeth, per una messa in scena del dramma di Shakespeare. Bobbio è il luogo di origine da cui lei e il fratello Giorgio si allontanano per costruire un proprio percorso autonomo e al contempo ciclicamente tornare, non riuscendo (soprattutto Giorgio) a sfuggire al potere di attrazione emanato dal ‘borgo natio’. Ma per Sara, come vedremo nella sequenza che mi accingo ad analizzare, è anche lo spazio mentale e psichico dove potere attingere forza per comprendere e provare a interiorizzare modulazioni non convenzionali della propria recitazione. Il senso di apertura trasmesso dal paesaggio, tracciato dal fiume Trebbia, è la cornice atta ad esplorare modalità vicine alla parte più intima e al contempo inedita di lei.

Il Trebbia, battuto dalla pioggia e dal vento, si trasforma in forza generativa, paesaggio che potenzia lo scavo su di sé da parte di Sara per attingere allo stile più proprio e quindi rimodulare la meccanica ripetizione del testo teatrale in forma soggettivata.

1 | Sorelle Mai, regia di Marco Bellocchio, 2010.

Mi riferisco alla sequenza in cui lei, circondata dalle colline ora oscurate e schiaffeggiate dal temporale che ne disordina i profili, con i capelli scompigliati dal forte vento, e un fondo sonoro volto a intensificare la tensione drammatica, prova la parte di Lady Macbeth immergendo le proprie mani nel fiume per liberarle dalle macchie del male, mentre scorgiamo in acqua Giorgio nuotare sotto la pioggia. Il fratello raggiunge la riva e vediamo Sara protendersi verso di lui con un telo e parlargli come fosse ancora dentro il dramma shakespeariano. Vita e finzione si amalgamano indistintamente.

2 | Sorelle Mai, regia di Marco Bellocchio, 2010.

Una ellissi ci trasporta nell’inquadratura successiva, loro due in riva al fiume, con i volti accarezzati da una intensa luce solare, ripresi entrambi in primo piano, ora vicini, riflettono su come rendere la battuta del testo drammaturgico in cui Lady Macbeth, ormai preda delle proprie allucinazioni, tenta vanamente di cancellare dalle proprie mani le macchie del sangue versato, finché Giorgio suggerisce di recitare in modo naturale, prendendo ispirazione da un fraseggio spesso usato dalla zia Letizia (Letizia Bellocchio).

Il suggerimento di Giorgio ci offre l’occasione per rammentare la centralità della figura dell’attore ─ e, in particolare dell’attore teatrale ─, nel cinema di Bellocchio, dispiegandosi su vari piani: a livello narrativo, sulla frequente presenza di personaggi che sono, o aspirano a diventare, attori (come, qui sopra, Sara e, rispettivamente, Isabelle Huppert nel ruolo della Divina Madre e il figlio di lei, Federico, in Bella addormentata, oggetto dell’analisi seguente); a livello di prassi cinematografica, nel ricorso ad attori professionisti insieme a non professionisti, con esiti particolarmente incisivi proprio in Sorelle Mai. Il presente contributo tuttavia non si focalizza su questa importante cifra, bensì sul trattamento della parola nella citazione di brani teatrali, stratificati dalla sua appartenenza alla testualità richiamata e dalle forme con cui il regista la mette in scena. In Sorelle Mai, il Macbeth contamina in diversi modi e momenti il flusso della vita, accentuando l’ambiguità tra realtà e finzione, come quando Sara partecipa all’audizione nel corso della quale verrà scelta per il ruolo di Lady Macbeth. Vediamo scorrere davanti ai nostri occhi i volti delle attrici in attesa del responso da parte della commissione. Più che i movimenti nervosi dei volti affioranti dal buio, colpiscono le voci sussurrate che traducono in parola le ansie, le attese, le aspettative frustrate. Il ritmo sonoro delle voci, la penombra in cui sono avvolte le singole figure sembrano sospingerci irrimediabilmente al ricordo delle audizioni delle aspiranti attrici per Il gabbiano di Čechov nel cortometraggio di Bellocchio Nina. Lì i visi, ripresi in primissimo piano, sembravano estratti da una materia scura e impenetrabile e le loro parole drammaturgiche, caricate di una potente forza passionale, colpivano in pieno volto l’aiuto regista, incaricato di porgere loro le battute: l’uomo, sopraffatto dalla forza emozionale, cedeva, abbandonando il compito a lui assegnato. Qui i volti dei commissari vengono colpiti dal gesto impetuoso e dirompente di una aspirante attrice la quale, armata di una pistola finta, spara con asciutta precisione e determinazione. La simulazione si fa gesto rivelatore di una ribellione, di una rinuncia alla accettazione passiva in cui sembra di poter scorgere alcuni tratti delle figure già incontrate nel cinema di Bellocchio (tra le molte, Giulia Dozza in Diavolo in corpo, Maddalena, la paziente rivoluzionaria in La balia e Ida Dalser in Vincere) e forse anche umori dello stesso regista.

Il riferimento al Macbeth torna in Bella addormentata. Lungometraggio diverso dal precedente per toni espressivi e forma ma anch’esso diviso in episodi che si intersecano tematicamente con sullo sfondo, al pari di una eco, il caso di Eluana Englaro.

Il richiamo al dramma di Shakespeare è presente nella sezione narrativa in cui una grande attrice concentra totalmente le proprie energie nel tentativo di fare risvegliare la giovane e bellissima figlia, Rosa, da un coma vegetativo. Tale proposito, che occupa in maniera assoluta la sua esistenza, si traduce in una sorta di fissazione da cui è imprigionata: la protagonista (magistralmente interpretata da Isabelle Huppert) attende un miracolo volto a trasformare quel corpo inerme in corpo vivo. Per ottenere il ‘miracolo’ deve operare attingendo alla propria pratica attoriale, incarnando la parte della Divina Madre, consapevole al contempo della propria assenza di fede religiosa. La sequenza è emblematica di quella stratificata rete di rimandi che il cinema di Bellocchio attiva rispetto alla figura dell’attore e alla pratica attoriale, già segnalata nelle considerazioni precedenti. Tale tessitura, come precisato, non costituisce il perno della presente analisi, incentrata invece sulla messa in scena della parola drammatica di cui la recitazione costituisce solo uno dei fattori che partecipano al procedimento. Le sfide poste qui dalla sceneggiatura, nel loro essere raccolte e superate da un’interprete di straordinaria forza espressiva, ci impongono tuttavia una nota a margine sulla ‘scrittura attoriale’ della Huppert attraverso il rinvio, tra altri, agli studi sull’attrice francese in ambito cinematografico di Alberto Scandola (2018) e di Deborah Toschi (2010).

Gli interni claustrali della villa in cui si snoda la narrazione divengono lo spazio scenico che fa da cornice agli ossessivi rituali da lei osservati, declinati in continue orazioni e attività devozionali. Non a caso nella prima inquadratura dell’episodio la vediamo percorrere ripetutamente, insieme a un gruppo di suore, un corridoio e recitare ad alta voce una preghiera rivolta alla Madonna dirigendo il ritmo delle ‘comparse’ che la affiancano. Il corridoio, come sappiamo, nel cinema di Bellocchio assurge a luogo privilegiato volto a sostenere precisi snodi narrativi, a delineare tratti importanti dei personaggi o diviene anche cornice scenica del generarsi di produzioni psichiche quali ricordi, fantasie, allucinazioni.

In Bella addormentata, differentemente da Sorelle Mai, la narrazione si snoda quasi interamente nell’interno di questa abitazione sepolcrale in cui la penombra bellocchiana avvolge corpi e parole. L’unica camera che vede dominanti il bianco e la luce è quella in cui ‘la bella addormentata’, immobile nel letto, emana il proprio respiro artificiale prodotto dalle apparecchiature mediche che alimentano una vita mimata che non c’è. Il tono finzionale puntella più volte il ritmo narrativo, ancorandolo al registro segnico di una ripetuta e perdurante messa in scena volta a riavvolgere vite e figure in reiterate speranze disattese.

Pure il corpo inerme della figlia, estremamente curato, sembra un figurante muto di una messa in scena sorretta da singoli brani che richiamano in più momenti parole e moduli teatrali: il figlio, Federico, anche lui desideroso di divenire attore, prova a recitare Il pianto della Madonna di Jacopone da Todi, il giorno precedente alla prova d’esame presso l’Accademia, dinanzi al volto assente della madre e a quello trattenuto del padre; un a solo pianistico di un giovane amico di Rosa avvolge di suoni la stanza in cui la ‘bella addormentata’ è immobile nel letto, giovane chiamato a sollecitare con le sue note un risveglio che mai avverrà; un dialogo della Divina Madre con un prelato segnala l’impossibilità per lei di staccarsi dalla interpretazione della ‘parte’ inseguendo vanamente quella di Santa, e persino la Messa, celebrata in nome del risveglio della figlia, è presentata come una sorta di cerimonia scenica.

3 | Bella addormentata, regia di Marco Bellocchio, 2012.

Eppure una notte nella quale la protagonista si addormenta nella poltrona accanto al letto della giovane, una sequenza onirica, mediante la parola drammaturgica, ci fa accostare a un breve attimo di verità soggettiva di lei. La Divina Madre, ripresa da vicino, immersa nell’oscurità rivelativa del sogno, si strofina le mani come per lavarle, mentre a bassa voce le sentiamo pronunciare le frasi in cui riconosciamo, anche se con parole differenti ma vicine, il brano del Macbeth: “Sporche! Via! Via! Via! Ancora una macchia… Queste mani non saranno mai pulite…”.

4 | Bella addormentata, regia di Marco Bellocchio, 2012.

E se nel testo shakespeariano in cui la dama che assiste alla scena risponde al medico lì presente che, pur avendo gli occhi aperti, Lady Macbeth non vede, potremmo leggere questa sequenza secondo un orizzonte differente. La protagonista ha gli occhi chiusi, le palpebre abbassate, ma in questo oscuramento visivo le si presenta un altro vedere, un’altra modalità dello sguardo che si rivolge riflessivamente verso lei riguardandola, toccando l’intima divisione soggettiva, il cuore della sua questione. La parola allora va al di là di quella mimeticamente recitata durante il giorno. Le frasi con cui viene riletto il testo teatrale strappano la rete delle immagini diurne svelando un reale che la perturba e, al tempo stesso, segnala il piacere pulsionale e il desiderio da cui è dominata: che tutto non abbia fine, che il respiro artificiale non si arresti mai, che tutto continui in una perenne ed eterna durata.

L’arsenale delle apparizioni, o del teatro-cinema

COTRONE: Stia tranquilla, Contessa. È la villa.
Si mette tutta così ogni notte da sé in musica e in sogno.
(Pirandello, I Giganti della Montagna, III)

Il trattamento dello spazio costituisce senz’altro uno degli aspetti più espliciti della sperimentazione sollecitata dal cinema e dal teatro su cui si distende negli anni la produzione di Marco Bellocchio. Dai singoli riferimenti, di volta in volta rintracciabili nelle opere, muove verso un piano trasversale costituito da un corpo plurale di architetture e di prassi, tanto performative quanto spettatoriali. Rappresentazioni e palcoscenici, introiettati come parti di uno sviluppo narrativo altro o dominanti nella messa in scena di drammi teatrali, fanno la loro apparizione, film dopo film. Accanto, sfilano altre spazialità deputate o invase dalla rappresentazione, talora non materialmente proposte ma evocate per il tramite dei testi: dalle configurazioni e dalla tradizione del teatro all’italiana, cui si è portati a legare la messa in scena di classici come Čechov e Shakespeare (evidentemente non sovrascrivibile alle prassi dell’epoca), alla performance futurista al museo di Vincere (2009), allo spettacolo allestito nella piazza medievale di Massa Marittima cui assiste Davide, il protagonista maschile di La visione del sabba (1988), al teatro antico della tragedia greca ricondotto a noi dal riferimento a Eumenidi, alle sacre rappresentazioni evocate dal lamento di Jacopone da Todi, rispettivamente nei succitati Sorelle Mai e Bella addormentata. In un’ottica decentrata, potremmo allora conteggiare il ventaglio delle declinazioni come tasselli di un mosaico di possibilità interne alla messa in scena ‘teatrale’ e allestimenti a pieno titolo le operazioni – sempre dibattute – in cui il cinema, nell’ospitare il dramma, fa esplodere la scatola scenica portandola nel ‘mondo’ filmicamente ricreato (eventualmente insidiato dall’esibizione dell’artificio scenografico, come accade in Enrico IV, 1984), piuttosto che ricreare quest’ultimo nella regia del palco.

Nel movimento impresso dalle varianti, in una logica processuale, il teatro ‘entra’ dunque nel cinema di Bellocchio, metamorfizzandosi. Il ricorso quasi assillante, nella letteratura su Bellocchio, alla terminologia teatrale anche là dove non sussista la presenza di moduli effettivi, citazioni, rinvii riconoscibili che la richiedano – ma indubbiamente dall’abbondanza di tali presenze sollecitata – trova allora una propria legittimazione. Possiamo dunque istituire un doppio binario che da un lato isola gli innesti, ne sonda in un’ottica di interazione la tenuta, ne indaga le contaminazioni, le funzioni, le dinamiche attivate, dall’altro li legge come concrezioni, in una logica di sviluppo morfologico, di una corporeità teatro-cinema.

Tale doppio asse introietta anche l’imponente apparato che, sulla scia di autorevoli e consolidate tradizioni retoriche, sovrascrive il palcoscenico a quell’esercizio dei ruoli propri della scena politico-sociale, configurata come set ordinato, nel duplice senso di predisposto da una regia che lo dota di una logica interna funzionale e insieme campo coercitivo, esplicitante un assetto asimmetrico di forze. Proprio in quanto ‘teatrale’, tale scena può tuttavia anche riconvertirsi nello spazio magico della finzione sovversiva, può accogliere l’atto di creazione, la germinazione di fantasmi e spettri, farsi ‘arsenale delle apparizioni’.

La correlazione tra funzione didattico-disciplinante, emanazione dell’Istituzione, e potenzialità sovversiva del teatro ha declinazione esplicita in numerose opere di Bellocchio, basti pensare, tra altri esempi possibili, allo sviluppo della recita nel collegio di Nel nome del padre (1972) o nell’innesco deflagrante della ritualità ‘spettacolare’ del sabba nel corpo dell’istituzionalità dominante (la casa di cura-il tribunale), sostanziata dalla fissazione dei ruoli e dei protocolli funzionali al mandato coercitivo-contenitivo teso a garantire la tenuta del ‘set’, il suo ordine prestabilito (La visione del sabba).

Condensazione si ha in film concepiti sull’impianto della scena chiusa, ricondotti in prevalenza alle opere in cui l’abitazione domestica si dà come luogo di elezione. Per quanto nessuna di esse si esaurisca effettivamente in un unico ambiente, la forza drammatica ivi concentrata è tale da risucchiare a sé le fuoriuscite. Nel suo volume dedicato ai rapporti tra cinema e teatro in Marco Bellocchio, Marina Pellanda li considera moduli riconducibili al kammerspiel (Pellanda 2012, 25-29): appartamenti “opprimenti, labirintici, costellati di false aperture e di provvisorie uscite”, come opportunamente annota Adriano Aprà, “in cui ci si spia, ci si nasconde, ci si tortura” (Aprà 2005, 17). Vi si conteggiano film come I pugni in tasca (1965), Gli occhi, la bocca (1982), caratterizzati tanto dall’intensità della spazialità perimetrata quanto dalla configurazione familiare, dall’introspezione soggettiva dei drammi e dalla scansione snervante del logorio psicologico che trovano “apogeo” nella compattezza della struttura “ottagonale panottica” (Aprà 2005, 15) dell’appartamento di Salto nel vuoto (1980), progettata da Amedeo Fago. In essi la violenza, esplicita o strisciante, delle relazioni familiari si presta a sostanziarsi dell’assetto sociale in cui si collocano, riverberandolo.

Il rinvio alla tipologia teatrale è ugualmente ripreso anche per altre geometrie esatte dei film di Bellocchio, parimenti ospitanti, secondo formule ricorrenti e calchi, “stanze della tortura” (Macchia, 2000) e quel “teatro dell’inconscio indagato nella penombra dell’appartamento” (Aprà 2005, 16) ma ora traslati nella ‘casa del mondo’, cui rifluisce il tratto metonimico talora attribuito al kammerspiel. Dopo averne ricordato l’attribuzione al cosiddetto teatro intimista di Max Reinhardt, Pellanda richiama la pluralità di articolazioni del “dramma da camera”, che Silvio d’Amico alla voce dell’Enciclopedia dello Spettacolo non ritiene definibile come vero e proprio genere drammatico ma come “frutto di una sistemazione a posteriori” (D’Amico 1959, 874 in Pellanda 2012, 26). Nell’indagarne dunque la ripresa nel cinema di Bellocchio Pellanda accorpa al kammerspiel, oltre ai succitati film imperniati su interni domestici, le narrazioni dominate dalla figura del Tribunale. Palazzi di giustizia o istituzioni assimilabili (segnatamente, quelle preposte alla cura ma anche il ‘tribunale del popolo’ di Buongiorno, notte, 2003) si presentano con ossessiva ricorsività nella produzione del regista, esponendo ora la matrice coercitiva degli ordinamenti sociali, ora facendosi sede di attraversamenti soggettivi dei ruoli, forieri di riposizionamenti del sé, sino alla straordinaria rivisitazione nel suo ultimo Il traditore (2019), dove invece l’aula del tribunale diventa luogo sacrificale dell’Istituzione statale, soccombente alla ferale e ‘perversa’ maestria rappresentazionale dell’Istituzione mafiosa.

In tale partizione rientra il dibattuto La condanna (1991), che scatena alla sua uscita scandalo e un acceso confronto, spaccato su fronti avversi, vertente tanto sui risvolti di natura etica quanto su aspetti di carattere formale. I primi, ampiamente rilanciati da roboanti titoli di quotidiani (tra altri, Beebe Tarantelli, Bignardi, Giovannini, Spagnoletti, 1991), si focalizzano sul trattamento del motivo dello stupro, su cui si impernia la scansione narrativa, e in particolare sul dibattito giudiziario ad esso correlato; i secondi, che animano le riviste di settore, si concentrano sulle ricadute della collaborazione di Massimo Fagioli alla sceneggiatura, cui si attribuisce l’imponente apparato psicoanalitico (tra altri, Strauss 1991, 10; Aude 1992, 68; Bruno, L’esplicito e l’implicito 1991, 212; De Vincenti 1991, 213-216; Jousse 1992, 67-68; Noce, 1991; Reale 1991, 83-84).

Dribblando la diatriba, allora fortemente orientata anche da fattori contestuali relativi sia al campo della cronaca (con esplicito rinvio al caso Popi-Saracino, professore accusato di violenza sessuale da una studentessa), che all’ambito della critica (in pieno fervore psicoanalitico), prendiamo invece come punto di avvio la duplice inscrizione sotto il segno del teatro proposta rispettivamente da Marina Pellanda e Adriano Aprà. Annoverato da Pellanda nel kammerspiel non-familiare, La condanna è proposto, nella lettura di Adriano Aprà, come “pièce teatrale didattica, nella precisione delle sue linee” (Aprà 2005, 18). Nel far convergere la lucida formalizzazione del film, addotta a supportare l’inscrizione nella pièce, in moduli di genere cinematografico e, più esattamente, nella cifra “quasi hitchcockiana” della suspence offerta dall’intreccio poliziesco-psichiatrico, Aprà corrobora in realtà la capacità del film “di incarnare perfettamente le proprie metafore” (ibidem).

Il film è scandito da un certo numero, contenuto, di luoghi chiusi, salvo la sezione finale e alcuni passaggi intermedi (i giardini del castello, gli esterni del tribunale nella conversazione tra Giovanni Malatesta, il Pubblico Ministero-Andrzej Seweryn e la sua compagna, Monica-Grazyna Szapolowska). Agglutinanti risultano quelli dotati di marcate istanze narrative e formali, da cui deriva l’impressione di una successione in ‘atti’, alla quale concorrono i cambi di luogo per stacchi netti. Aprà ne individua quattro, rispettivamente il museo, definito dalla figura del cerchio/spirale e dalla dominante rosso-blu; il tribunale, sezionato nei campi/controcampi e nella frontale prossimità dei piani; la festa, con il ritorno della figura circolare vorticosa della danza conclusa dallo iato della torta in faccia, e gli esterni finali, a cui si aggiungono l’interno domestico della casa del pubblico ministero, il carcere dove tornano a incontrarsi Malatesta e Colajanni, l’ambiente vagamente riconducibile a una cava dove si ha la prima apparizione della ‘contadina/terza donna’.

Tra tutti si impongono il museo e il teatro: nel primo, trascorre la notte la giovane Sandra (Claire Nebout), nel secondo si svolge il processo per stupro denunciato da Sandra verso lo Sconosciuto, emerso come un’ombra alle sue spalle dall’oscurità delle sale del museo (Vittorio Mezzogiorno), e qui identificato nell’architetto Lorenzo Colajanni. Di “passaggio dal teatro degli istinti a quello delle idee astratte” parla Stefania Parigi, cui dispiace lo schematismo che ritiene corrompere anche il successivo sviluppo, dove “Bellocchio non vuole più mostrare qualcosa, ma dimostrare qualcosa” (Parigi 2005, 198). Verso questa assegnazione spingono del resto le altrettanto schematiche dichiarazioni dei personaggi che legittimano, anche alla luce della, già segnalata, firma accanto a Bellocchio, dello psicanalista Massimo Fagioli per il soggetto e la sceneggiatura, la trasversale attribuzione alle due spazialità di polarità di segno inverso, variamente catalizzanti desiderio, pulsione, inconscio, da un lato, e legge-razionalità, dall’altro.

La focalizzazione su questi due luoghi esige per La condanna alcune puntualizzazioni rispetto ad altre narrazioni raggruppate all’ombra di Palazzi di giustizia che Pellanda rileva contrapporre il dramma che “si svolge tra le loro mura agli spazi aperti, che per il regista sono la libertà dell’inconscio e dei sentimenti non vincolati dalla legge degli uomini” (Pellanda 2012, 41). In La condanna lo spazio ‘aperto’ in questione si qualifica, infatti, per il suo darsi come spazio perimetrato, chiuso; ancor più, si definisce nel suo ‘chiudersi’.

Ed è precisamente il ‘chiudersi’, come gesto, l’aspetto su cui vorrei soffermarmi. La chiusura, riconducibile a un’azione fattuale, configura una valenza simbolica e una dimensione gestuale. Del resto, le aule dei tribunali sono anche aperte, accessibili ma si trasmutano nella ‘rappresentazione’ dell’Istituzione, micromondo, teatro…, nel loro ‘chiudersi’, vale a dire assolutizzandosi nell’astrazione che ne svela il dispositivo. Se ne ha eco, detto en passant, nella sequenza della festa di compleanno in cui sono riconoscibili molti dei volti visti in tribunale e alcuni dei principali personaggi, segnatamente il giudice (Claudio Emeri), che vedremo danzare vorticosamente con Sandra, e Giovanni Malatesta. Proprio quest’ultimo, il cui volto progressivamente illuminato apre – teatralmente ? – la scena, viene pesantemente redarguito per la sua pessima interpretazione del ‘ruolo’ di PM in un così importante processo mentre, al contrario, Sandra, splendente nell’abito da sera, fa il suo ingresso nel salone, accolta, come una prima donna, da uno stuolo di ammiratrici e caldamente elogiata per la sua ‘bravura’ dal giudice, lo stesso che come un diligente maestro di cerimonia, poco dopo la riprende per il lancio della torta in faccia a Malatesta (per un eccesso – “questo è troppo” – forse più interpretativo, di rottura stilistica, che di comportamento).

5 | La condanna, regia di Marco Bellocchio, 1991.

La centralità della ‘chiusura’ come cesura è del resto ossessivamente riproposta in situazioni e parole che trascendono il riferimento al nodo giudiziario ed etico del possesso della chiave. Oltre a soffermarsi sui custodi che accompagnano le porte, abbiamo l’esitazione di Sandra che si trattiene dall’attraversare la striscia di luce del vano, via via ridotta dal movimento della porta verso il battente, per ritrovarsi quindi chiusa dentro, condizione che più volte segnala allo Sconosciuto emerso dall’ombra.

6 | La condanna, regia di Marco Bellocchio, 1991.

Tale enfatizzazione ritorna poi nella parte finale del film, spesso trascurata, in cui è il PM/Malatesta a recarsi al museo. Di nuovo si assiste al ‘rito’ della chiusura che pone il visitatore di fronte a una scelta. L’uomo deciderà di uscire e, dall’esterno, vedrà (o crederà di vedere, come confesserà al Colajanni) Sandra – già scorta poc’anzi aggirarsi nei corridoi e sale espositive in un immacolato abito bianco che la trasmuta in figura, in una statua animata – affacciarsi a una vetrata, dall’interno.

Il trattamento prodotto dalla sovraimpressione di un’azione quotidiana in una gestualità rituale è coerente con la valenza teatrale assunta dal museo, luogo chiuso e vivificato dalla penombra, come ampiamente rilevato dallo Sconosciuto e, ancor più significativamente, dalla concezione della fotografia (magistralmente diretta da Giuseppe Lanci con Franco Bruni alla camera), che trasfigura gli ambienti dotandoli di un gradiente epifanico. È allora che si può dare rappresentazione, “una sacra rappresentazione dell’incontro-scontro tra l’istinto femminile e quello maschile” (Parigi 2005, 196), in cui, rinnovando il mito della violenza metamorfica fissato in statue e affreschi che attorniano i celebranti, i corpi si offrono, ritraggono, abbandonano, cercano in una mutua sopraffazione che dà vita, letteralmente, a una coreografia di danza: “i personaggi si muovono come in un palcoscenico, con passi stilizzati da balletto; avanzano e indietreggiano come animali impegnati nel rito del corteggiamento e dell’accoppiamento; si spostano con fare sinuoso per poi irrigidirsi bruscamente come figure di un quadro” nella splendida scrittura di Stefania Parigi (ivi, 196).

7 | La condanna, regia di Marco Bellocchio, 1991.

L’imponenza della componente scenografica, ottenuta attraverso tecniche diversificate, investe l’edificio nella sua interezza. Se gli ampi panneggi rossi che, verosimilmente, proteggono gli affreschi in restauro (di cui sono indizio le impalcature mobili e i pennelli abbandonati nelle sale) si fanno sontuosi e vividi drappeggi che incorniciano gli amplessi, le riprese dei corridoi producono, ora più ora meno insistentemente, sfondamenti prospettici nell’infilata di sale abitate di statue (in un vago richiamo della scena palladiana), mentre la struttura architettonica e gli elementi decorativi dell’edificio sono messi in rilievo o, come già evidenziato, trasfigurati da una calibrata disposizione della fotografia e dei movimenti di macchina.

8 | La condanna, regia di Marco Bellocchio, 1991.

A quella lucida formalizzazione capace di “incarnare perfettamente le proprie metafore”, rilevata da Aprà (Aprà 2005, 18), lo spettatore è indirizzato sin dalle prime battute del film nell’interazione tra le parole dei visitatori della villa che udiamo commentarne la forza d’impatto degli elementi architettonici (il movimento impresso dalle colonne), e le geometrie esatte delle decorazioni vegetali del parco, da questi attraversato, in una prefigurazione dell’inscrizione del museo nel movimento aspirante del cerchio-spirale, contrapposto al rigore geometrico distintivo invece dell’esterno.

9 | La condanna, regia di Marco Bellocchio, 1991.

Il sorgere del sole e l’uscita, su cui grava il tema dell’inganno, riportano i celebranti al loro statuto umano.

La scansione del secondo movimento ci porta in tribunale dove si annuncia il processo per sottrazione della libertà personale e stupro intentato da Sandra contro l’uomo che è qui identificato come l’architetto Lorenzo Colajanni. Non si è mancato di sottolineare la connotazione spettacolare dell’avvio, ora in un’accezione degradata del termine (il saettare dei flash sul supposto stupratore, la lunga carrellata su volti quasi famelici delle donne in prima fila, disposte, secondo Parigi “come un coro tragico intorno al loro sacerdote-violentatore privo ormai di qualsiasi aura sacrale” [Parigi 2005, 198]). Se indubbiamente il processo si fa arena di contesa di due logiche – sommariamente ascrivibili alla pulsione e alla ragione – inconciliabili, rispetto alle quali il ricorso ai ‘fatti’ si dà come pallido tentativo, votato al fallimento, di intermediazione, imponendosi nella sentenza come paladino della seconda, l’indicazione di Aprà suggerisce uno sviluppo non confinato all’asse contrappositivo.

La stanza della tortura in cui si è trasformato il tribunale si accanisce non sull’accusato, che non si ritiene colpevole, né sull’accusatrice, supposta vittima, bensì – e in forma plateale – su Giovanni Malatesta, destabilizzato dal conflitto inscenato da Sandra Celestini e da Lorenzo Colajanni, dalle cui fattezze umane traspare il volto dello Sconosciuto e dell’iniziata che perpetua il rito: nell’impassibilità inscalfibile dell’uno, nella soppesata emozione dell’altra, nella frontalità chiusa dei volti che occupa lo spazio dell’inquadratura. I fatti, forvianti nella loro apparente solidità, accecano e distolgono, indirizzando lo sguardo verso ciò che impedisce di vedere, come lo Sconosciuto non cessa di intimare agli astanti e al giudice. In tal modo Sandra, richiesta di attenervisi, in realtà testimonia, scandendole, le fasi di un’iniziazione: lo stato di angoscia, la necessità, la sensazione della perdita, la confusione, la rassegnazione, l’apparizione, il turbamento, la calma, la provocazione, la perdita di sé.

Così, la lettura della sentenza di condanna dell’imputato, lungi dal farsi momento conclusivo e dirimente, diviene luogo sacrificale del suo portatore, luogo di una angosciante perdita di sé da cui ha avvio la quête successiva che si snoda tra domande vuote di risposta (non perché non vengano date ma perché non possono essere attraversate) e un vagare restituito con tratti allucinatori in cui i personaggi tornano come epifanie. Riconoscendo nel film la dimensione dell’allegorizzazione e del tracciato maieutico, Stefania Parigi descrive l’inquadratura finale come “trasfigurazione visionaria in cui le tre figure femminili del film entrano ed escono in campo, come in una giostra, in un girotondo di fantasmi che si alternano a fianco del giudice in cammino” (Parigi 2005, 198).

10 | La condanna, regia di Marco Bellocchio, 1991.

Tra queste “figure sbozzate, a tutto tondo, prive di profondità a causa della loro funzione puramente eidetica”, in cui il “personaggio femminile si fa uno e trino” (ibidem), Monica e Sandra si affiancano e avvicendano a una terza presenza femminile non precedentemente incontrata. Come scrive Adriano Aprà, alla donna (Maria Sneider), variamente indicata nella analisi come “la contadina”, ma descrivibile anche come zingara o baccante, nel suo ferino abbeverarsi alla pozza, abbandonarsi all’abbraccio della terra, farsi mescitrice – di vino, di pane, di provocazioni sessuali – , è attribuita la funzione di “segnalare un punto di fuga, invitandoci a seguirla mentre scompare dietro un muro. Libera dalle costrizioni del vivere civile, lei ‘sa’” (Aprà 2005, 18).

11 | La condanna, regia di Marco Bellocchio, 1991.

Al corteo si unisce il corifeo, nella sua duplice valenza: se all’uomo-Colajanni è offerta La condanna che lo preserva, l’Architetto, libero in un carcere che non può contenerlo, è tornato a guidare con mano ferma l’iniziando verso l’abisso, quelle “realtà profonde che ognuno ha il diritto di tenere nascoste” (Bernardi 1998, 142).

Rimossi gli ingombri che offuscano la vista – le facili provocazioni di un inconscio ridotto a mera giustificazione della sopraffazione e della necessità della donna di essere forzata – La condanna si fa null’altro che recinto sacro dell’apparizione del demone.

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English abstract

The various and articulated references to the theatre in Marco Bellocchio’s films seem to express the intention to investigate the different forms and manners of the interaction between cinema and theatre. This spans from clearly manifest forms – like adaptation and quote - to more subtle ones, which question patterns, praxis and models. The article considers both of the approaches through the analysis of the mise en scène of the word and the space, which are historically recognised as the sensitive areas of the relation between cinema and theatre.
Beyond the identification of the exact mechanics relating theatre and cinema, what we can define as the “theatricality” of a film remains ambiguous it being more related to a feeling coming from the perception of a “trespassing”. It’s clear that cinema is always cinema - and theatre is always theatre- in its affirming and challenging acquired models, forms and patterns. Nevertheless, we notice that “theatrical” is an adjective that has been used to refer to the childhood of cinema, the so-called “primitive” cinema, as well as to the most rigorous expressions of some auteur cinema. At the same time, we would like to stress the generative force of the perception of this trespassing or of the presence of some atypical insert.
In the first part of the article, Rosamaria Salvatore focusses on the mise en scène of the word shaped by the filter of theatre. This becomes an act opening to processes of regeneration touching upon different plans of the human experience, from the phenomenal to the oneiric one. Here are summoned pieces and fragments of renowned dramas such as Macbeth by Shakespeare or The Seagull by Chekhov.
In the second part, Farah Polato analyses the film The Convinction (La condanna, 1991) as a theatrical space echoing the idea of theatre expressed by the pirandellian “arsenale delle apparizioni” (arsenal of apparitions). Here it is the notion of closed-space, both as a concretely limited space (corresponding to the perimeter of the stage in the theatre), or performed as ideally closed.

keywords | La condanna; The Convinction; Sorelle Mai; Bella addormentata; Dormant Beauty; scenic space; performed word

La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma).

Per citare questo articolo / To cite this article: F. Polato, R. Salvatore, La parola, lo spazio. Bellocchio e il teatro, “La Rivista di Engramma” n. 172, marzo/aprile 2020, pp. 105-129 | PDF di questo articolo

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2020.172.0006