"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

203 | giugno 2023

97888948401

L’architettura di Auschwitz

Guido Morpurgo*

English abstract

Auschwitz ha dimostrato inconfutabilmente il fallimento della cultura.
Il fatto che potesse succedere in mezzo a tutta la tradizione della filosofia, dell’arte e delle scienze illuministiche,
dice molto di più che essa, lo spirito, non sia riuscito a raggiungere e modificare gli uomini.
In quelle regioni stesse con la loro pretesa enfatica di autarchia, sta di casa la non verità […]
Chi parla per la conservazione della cultura radicalmente colpevole e miserevole diventa collaborazionista,
mentre chi si nega alla cultura, favorisce immediatamente la barbarie, quale si è rivelata essere la cultura.
Neppure il silenzio fa uscire dal circolo vizioso: esso razionalizza soltanto la propria incapacità soggettiva
con lo stato di verità oggettiva e così la degrada ancora una volta a menzogna.
T.W. Adorno, Dialettica negativa 

Auschwitz II - Birkenau, Zentral Sauna. Vista dala salone delle docce verso l’area dove erano raggruppate le baracche del cosiddetto Kanada.
Foto: Guido Morpurgo.

Il titolo di questo scritto implica una decisione difficile, forse un’ammissione altrettanto problematica: ad Auschwitz è esistita un’architettura. Per gli architetti è con ogni evidenza un tema contundente. È per altro necessario precisare che “l’architettura di Auschwitz” non è qui riferita al cosiddetto Stammlager, il campo-base organizzato su di un preesistente insediamento di caserme di artiglieria dell’esercito polacco, risultato del suo riuso e successiva estensione in lager con nuovi elementi, tra cui un bunker che integra al suo interno una camera a gas e un crematorio [1]. L’oggetto di questo studio è Auschwitz II-Birkenau, sito dall’estensione inaudita, realizzato ex-novo dalle SS tra il 1941 e il 1944 e rimasto parzialmente incompiuto. 

È di questo non-luogo – che fu sia campo di concentramento, sia di sterminio – che ci si vuole occupare, proprio perché la sua unicità nella geografia dei siti di distruzione di massa istituiti dal regime nazista nell’Europa invasa è determinata non solo dalla sua scala industriale, ma, rispetto agli altri campi di sterminio, anche dal suo essere stato l’unico caso che sembra ancora oggi essere riconoscibile, almeno in apparenza, attraverso ciò che resta della sua specifica architettura [2].

Riconsiderare il campo di Birkenau come ‘fatto’ architettonico rende di conseguenza implicito che esso sia stato pensato, pianificato e costruito –  nella sua fisicità di immane manufatto – attraverso un progetto. Sarebbe più corretto affermare che il campo è stato realizzato secondo una serie successiva di progetti, sempre più definiti e precisi nel loro essere finalizzati al raggiungimento di un unico scopo: predisporre spazi e infrastrutture per conseguire la distruzione sistematica di quella parte dell’umanità ritenuta dall’ideologia nazi-fascista indegna di esistere.

Per gli architetti è qualcosa di difficile da riconoscere e accettare, perché ciò implica innanzitutto il problema della responsabilità (Jonas [1979] 1990) di fronte all’esito concreto di un’attività progettuale specifica. Eppure, la prima prova di questa evidenza è l’immagine stessa di Birkenau oggi, la sua concretezza archeologica consegnata a ciò che supponiamo essere la coscienza collettiva del mondo contemporaneo. Questa consapevolezza, reale o sperata, è cristallizzata dall’essere il campo di Birkenau un insediamento del tutto inedito nella storia dell’umanità, definito dalla sua scala di gigantesca infrastruttura di sterminio, dai caratteri dei suoi edifici, dal loro linguaggio, dalla sua stessa consistenza di immagine totale, inevitabile, che si è sedimentata, innanzitutto, come simbolo della Shoah, lo sterminio degli ebrei.

Questa provvisoria decisione o ammissione – a Birkenau c’era un’architettura – trascina con sé, inevitabilmente, una questione fondamentale: che cosa intendiamo per architettura? Come possiamo definire ciò che è architettura rispetto a ciò che non lo è? È necessario sospendere momentaneamente questa problematica domanda e tentare di proporne una risposta attraversando alcuni tra gli argomenti che sembra possibile riallineare attraverso una riflessione su ciò che appare essere l’architettura di Birkenau, più che facendo ricorso a certezze impossibili o a conclusioni univoche.

La frattura epistemologica aperta nella storia dell’umanità da Auschwitz ha implicato la rimessa in discussione dei fondamenti della civiltà e dei modi con cui possiamo ancora pensare. Rispetto a una “concezione ampia, perché abbraccia l’intero ambiente della vita umana [in cui] non possiamo sottrarci all’architettura, finché facciamo parte della civiltà, poiché essa rappresenta l'insieme delle modifiche e alterazioni operate sulla superficie terrestre, in vista delle necessità umane, eccettuato il puro deserto” (Morris [1881] 1963, 3), è chiaro che a Birkenau si è verificato qualcosa che ha infranto, si direbbe per sempre, la “concezione ampia”, proiettiva e intrinsecamente progettuale di architettura nel suo intrinseco legame con civiltà e società, facendo del “deserto” il primo e non l’ultimo termine della relazione tra vita umana e ambiente [3].

Ufficiali delle SS impegnati sui progetti della Zentralbauleitung der Waffen-SS und Polizei Auschwitz (Direzione Centrale delle Costruzioni di Auschwitz). Fotografo SS non identificato.
Fonte: Yad Vashem - Archivio fotografico – Foto n.157/103.

Capomastri tedeschi nel cantiere della centrale termica accanto ad Auschwitz I, probabilmente nel 1942. Fotografo SS non identificato. Fonte: Yad Vashem - Archivio fotografico – Foto n. 157/52.

Birkenau, 28 gennaio 1942. Sezione costruttiva del Krematorium II, scala 1:50. Estratto dalla tavola in formato 700 x 815 mm (inchiostro e pastello colorato su carta) che comprende anche due sezioni trasversali della camera a gas e la pianta del piano terreno della parte centrale dell’edificio con le fornaci e il locale centrale per l’alloggiamento delle macchine di ventilazione.
Fonte: Panstowe Muzeum Auschwitz-Birkenau-Oświęcim (Museo Statale di Auschwitz) - Zentral Collection (cliccare sull’immagine per ingrandire).

Birkenau 1942. Completamento della copertura dello spogliatoio del Krematorium III. Fotografo SS non identificato.
Fonte: Yad Vashem, ID immagine 56514.

Impresa edile Huta Hoch und Tiefbau AG: disegni esecutivi delle scale interne dei Krematorien II e III per l’accesso ai sottotetti degli edifici, poi utilizzati come alloggi dei prigionieri membri del Sonderkommando. Dimensione tavola 730 x 870 mm (inchiostro su carta), scala 1:10. Birkenau 1942. Disegno eseguito da Karl Ulmer, approvato il 14 agosto 1942 da Karl Bischoff – comandante dell’ufficio di progettazione “Auschwitz-Bauleitung”.
Fonte: Panstowe Muzeum Auschwitz-Birkenau-Oświęcim (Museo Statale di Auschwitz) - Zentralbauleitung Collection (cliccare sull’immagine per ingrandire).

Birkenau 1942 – BW 32 im K.G.L. Auschwitz O/S - Zentral Sauna. Fasi di costruzione del piano interrato. Fotografo SS non identificato.
Fonte: Yad Vashem – ID immagini 55804 e 57228 (cliccare sull’immagine per ingrandire).

Modernità e Shoah: architettura, tecnica e finalità

Rispetto al problema del ruolo della tecnica e dei suoi significati in rapporto alle condizioni di una determinata società si è scritto e dibattuto moltissimo [4], così come si è detto forse ormai tutto sulla modernità in quanto patrimonio culturale comune della civiltà occidentale, dove tecnica, produzione e valore d’uso sono le condizioni per realizzare il sogno della liberazione collettiva [5]. Abbiamo appreso che la modernità significa per gli architetti, innanzitutto, la connessione tra pensiero ed esperienza attraverso il metodo, che è un’attività critica duplice: lo smontaggio analitico di un tema architettonico e il suo rimontaggio sintetico per l’elaborazione di prototipi dimostrativi delle nuove possibilità dell’abitare permesse dalla tecnica.

Se accettiamo la tesi che considera l’avventura del progetto moderno suddivisa in due fasi, una inventiva e dimostrativa che trova il suo apice negli anni ’20 e ’30 del Novecento e una nel secondo dopoguerra, quale momento di generazione di nuovi orientamenti attraverso la ricerca critica delle proprie varianti in rapporto alla Storia, dobbiamo allora prendere atto che tra di esse c’è qualcosa che si impone come un fatto totalmente nuovo, che sembra spaccare il moderno, interromperlo, contraddirlo aprendolo di conseguenza a una crisi profonda: in mezzo c’è Auschwitz.

Come noto, il rapporto tra la Shoah e il ruolo della tecnica moderna nel renderla possibile è oggetto di un ambito specifico di studi, sviluppato sulla base delle ricerche e del confronto tra storici, sociologi, filosofi e anche architetti. Questo dibattito sembra che oggi sia stato messo in secondo piano dalla preminenza della questione della fine dell’epoca dei testimoni (Bidussa 2009), della tensione che si è determinata tra la testimonianza fattuale basata sull’esperienza soggettiva e la verità documentale della Storia. Così come tra necessità della Memoria e tendenza alla sua ‘riduzione’ agiografica ma, soprattutto, alla sua recente ritualizzazione politica, commemorativa e consolatoria.

Per gli architetti la questione della tecnica rinvia a un insieme di problemi di ordine metodologico, di regole, di norme, ma anche alla sua capacità di modificarsi attraverso il rapporto interno con altre tecniche, sia in virtù dell’applicazione di queste ultime alla pratica del progetto, sia alla concretezza del farsi di un’opera. La tecnica è quindi qualcosa di profondamente sedimentato nella disciplina, nei trattati, ad esempio, che sono sempre il risultato della coniugazione dei principi teorici e compositivi, delle stesse tipologie di edifici e opere, con le tecniche costruttive. 

Non è questo il luogo per approfondire il problema del significato della téchne rispetto all’architettura intesa come pratica artistica, ad esempio a partire dalla sua traduzione latina in ars. Tuttavia, per tentare di comprendere il paesaggio “ermetico” dell’architettura di Birkenau [6] può essere utile richiamare la condizione-base necessaria per definire ciò che è la tecnica per l’architettura: essa non coincide con la cosa che si vuole realizzare, ma rappresenta un modo di fare quella stessa cosa. La reciproca posizione di architettura e tecnica è dunque fondamentale, sapendo che l’architettura non è mai separabile dalla tecnica. In sintesi, la tecnica è un materiale essenziale del fare, ma non l’opera in sé. 

Alcuni studiosi tra cui il filosofo Jean-Luc Nancy (Nancy [1994] 2006) hanno messo in evidenza un ulteriore aspetto della questione: la separazione che nella modernità si compie tra poiesis, intesa come prodotto, e téchne, come modo di produzione. Il risultato che si determina è una tensione tra i due poli, in cui ognuno di essi tende ad auto-finalizzarsi, con il risultato che l’uno cerca di sopraffare l’altro. Questo problema mette in crisi l’equilibrio tra “architettura, tecnica, finalità” (Gregotti 2002) perché evidenzia un tema nuovo: l’emergere della tecnica come contenuto preminente dell’architettura. Andrebbe inoltre considerato che nessuna pratica artistica può essere definita in sé attraverso la tecnica. Ciò nonostante sia stata rilevata da diversi autori l’esistenza di un rapporto molto stretto – in senso positivo – tra le pratiche artistiche del XX secolo sia con la tecnica, sia con la tecnologia (Pontus Hultén 1968). 

Se consideriamo il tema che abbiamo scelto di affrontare sotto l’aspetto del ruolo della tecnica, cosa ha introdotto di nuovo Birkenau perché si possa ipotizzare che vi sia stata un’architettura? Le questioni sembrano in realtà due, benché strettamente collegate. Da un lato si evidenzia il noto tema della trasformazione endemica della tecnica determinato dall’era della meccanizzazione, ovvero il suo essere divenuta contenuto preminente, poi essenziale dell’architettura (Giedion [1948] 1967; Banham [1960] 1970), fino al possibile rovesciamento della sua necessità nel suo stesso fine. Questo ribaltamento tra mezzi e fini è, nel caso di Auschwitz, la conseguenza di un problema strutturale che riguarda la modernità. Dall’altro, la Shoah non va semplicemente considerata l’apice della vicenda storica dell’antisemitismo occidentale, quindi il fallimento della modernità (Lewandovski 2019), ma, al contrario, andrebbe riletta come un suo prodotto interno (Bauman [1989] 2010), fatto che ‘ridefinisce’ la modernità stessa come compresenza di creazione e distruzione. Ciò grazie alla concomitanza di diverse condizioni: innanzitutto, mediante il potere della burocrazia esercitato attraverso la scansione delle operazioni di deportazione e sterminio in fasi precise. Esse venivano stabilite attraverso rigide gerarchie di comando che agevolavano la possibilità per i singoli esecutori di negare le responsabilità grazie allo smembramento delle istanze etiche che sempre presiedono all’agire umano nel suo complesso, quindi anche al fare architettura. Si tratta in particolare di un contesto in cui la responsabilità tecnica sostituisce quella morale, in base alla revisione integrale del sistema giuridico, al fine di legalizzare la discriminazione e le azioni successive che hanno portato allo sterminio. Ma tutto ciò non sarebbe stato sufficiente senza la trasformazione della tecnica scientifico-produttiva moderna da forma globale del progresso umano (e del suo mito di crescita senza fine) a condizione necessaria alla distruzione industrializzata di una parte di quella stessa umanità. È infatti del tutto evidente il ruolo chiave del dispositivo ferroviario con le sue infinite connessioni europee, così come l’impiego di tecnologie industriali, condizioni entrambe senza le quali non sarebbero state realizzabili la deportazione di massa da ogni parte dell’Europa occupata dai nazisti e l’operatività stessa di un sistema sterminio di quelle dimensioni.

È pertanto impossibile scindere gli immani edifici che alloggiavano le camere a gas-crematori di Birkenau dal loro essere stati realizzati grazie alla tecnica moderna, proprio perché essi sono il risultato della coniugazione tra processi di produzione industrializzata e costruttiva che si avvalsero di norme, metodologie e procedure operative specifiche (Pressac 1989; Pressac 1993). Ciò a partire dalla produzione di macchinari appositamente trasportati e assemblati in situ, collaudati e certificati dalle imprese costruttrici tedesche che li hanno realizzati, così come dalle società che ne hanno fornito i materiali e che per farlo sono state iscritte in elenchi appositamente predisposti, partecipando a bandi pubblici per ottenere le commesse. I complessi che distribuivano ambienti e impianti dimensionati per compiere lo sterminio di massa possedevano una precisa configurazione morfologica, caratteri architettonici e addirittura un proprio linguaggio. Questi edifici sono stati costruiti sulla base di progetti esecutivi elaborati da un ufficio appositamente istituito, il cosiddetto Zentralbauleitung der Waffen-SS und Polizei Auschwitz. Gli elenchi dei membri di questo ‘studio di architettura e ingegneria’ delle SS, così come i documenti ufficiali coi nomi delle imprese tedesche che hanno realizzato disegni costruttivi, opere, dotazioni, impianti e forniture di Zyklon B sono stati raccolti in diversi studi pubblicati, che rivelano, ancora una volta, come il meccanismo complessivo dello sterminio coinvolgesse l’intera struttura produttiva tedesca [7].

A queste condizioni fondamentali per la realizzazione dello smisurato omicidio di massa nazista se ne aggiunge infine un’ultima, utile per osservare più da vicino l’idea iniziale che abbiamo ipotizzato circa l’esistenza di un’architettura di Auschwitz: la centralità della componente ideologica. Quest’ultima si riassume nella presenza di una ‘sola cultura’, condizione necessaria alla trasformazione del mito in realtà mediante l’utilizzo sistematico della menzogna come mezzo per occultare i reali scopi di ciò che si stava compiendo. Nel caso specifico, usando gli strumenti e le tecniche dell’architettura, il suo stesso linguaggio espressivo, per collocare e al contempo occultare la macchina dello sterminio, la sua precipua identità tecnica basata sull’idea fondamentale di effettuarlo “in grande, su di una scala enorme, inverosimile” (Arendt [1951] 1966, 601).

Mappa delle deportazioni europee verso Auschwitz.
Elaborazione: Morpurgo de Curtis Architetti Associati, 2004 (cliccare sull’immagine per ingrandire).

United States Air Force, foto aerea del Complesso Auschwitz-Birkenau, 26 giugno 1944.
Fonte: USHMM - United States Holocaust Memorial Museum – Ph. n. 91361.

United States Air Force, foto aerea del Complesso Auschwitz-Birkenau, 14 gennaio 1945.
Fonte: USHMM - United States Holocaust Memorial Museum – Ph. n. 02992.

Birkenau, inverno 1942-1943: l’area nord-est del campo vista dalla torre del corpo di guardia d’ingresso. Fotografo delle SS non identificato.
Fonte: Yad Vashem – ID immagine 57311.

Auschwitz Bauleitung der Waffen-SS und Polizei: planimetria della cosiddetta “Zona d’interesse del K.L. Auschwitz” (circa 40 Kmq), scala 1:10000. Auschwitz, 1 marzo 1941. Il campo di Birkenau è ancora uno schema di larga massima, tuttavia il principio di insediamento è già precisamente definito nel suo assetto complessivo (cliccare sull’immagine per ingrandire).

Bauleitung der Waffen-SS und Polizei Auschwitz: planimetria della cosiddetta “Zona d’interesse del K.L. Auschwitz”, scala 1:10000, Auschwitz, 19 gennaio 1943. La pianta di Birkenau mostra tutte e tre le sezioni principali del campo completate e la connessione ferroviaria con la Alte Judenrampe corrispondente a quella realmente realizzata.

Bauleitung der Waffen-SS und Polizei Auschwitz: progetto di estensione massima di Birkenau verso sud. Auschwitz, 15 agosto 1942, scala 1:2000. Sono ben visibili i due enormi crematori II e III.

Bauleitung der Waffen-SS und Polizei Auschwitz: ultima planimetria di Birkenau, luglio 1944, scala 1:5000. L’area di estensione nord Mexiko non verrà mai completata.

Auschwitz-Birkenau 1943-2021. Fotomontaggio su base Google Earth Pro.
Elaborazione: Guido Morpurgo.

Auschwitz-Birkenau: tettonica, principio nascosto del grande interno ermetico

Il binomio ‘enorme-inverosimile’ proposto da Hannah Arendt condensa l’immagine del recinto di quasi 14 Km di sviluppo che separa Birkenau dalla storia della civilizzazione europea. Il campo appare in ogni disegno di progetto e in ogni fotografia aerea come un ‘insediamento’, parola quest’ultima che suona inevitabilmente paradossale, impropria. Oggi di quel disegno resta la sua archeologia: una enorme impronta confitta nel terreno, la sua fondazione, il suo precipuo principio tettonico, il suo proprio nucleo segreto.

Il lager era stato progettato originariamente come campo per prigionieri di guerra all’interno della cosiddetta Interessengebiet [8], un vero e proprio territorio di circa 40 Kmq di superficie, che comprendeva oltre agli altri due campi principali – Auschwitz-I e Auschwitz-III Monowitz – e ulteriori 42 sotto-campi, oltre alle zone industriali IG-Farben e Krupp che utilizzavano manodopera schiava. Birkenau si configurava come una sorta di immane interno, di “città ermetica” per 100.000 ‘abitanti’. Ma il termine ‘città’ in questo contesto perde ogni significato che sia ancora possibile ascrivere a un fenomeno urbano, così come il termine ‘abitanti’ è strutturalmente impossibile da riferire a qualcosa di ancora riconoscibile come umano. 

Ubicato nell’Alta Slesia orientale a circa 70 Km a Est di Cracovia – in posizione strategica al centro dell’Europa occupata dai nazisti – Birkenau si estende sul fianco occidentale di un nodo ferroviario lungo 3 Km. L’impronta rettangolare del campo occupa un’area di circa 171 ettari. Nel 1945 il lager comprendeva 154 edifici in muratura e 300 baracche in totale, delle quali 2/3 in legno e 1/3 in muratura, oltre ai quattro enormi crematori e alle due camere a gas ‘sperimentali’ ricavate in ex case coloniche collocate al di fuori del perimetro principale del campo [9]

Completava la dotazione del campo una serie di annessi infrastrutturali di diversa consistenza, tra cui la sequenza delle torri di guardia in legno, le recinzioni in filo spinato elettrificato realizzate con elementi in cemento armato prefabbricato appositamente studiate, e i giganteschi cilindri in mattoni a vista dei due impianti di filtraggio delle acque di scarico. Questi ultimi sono situati nell’area occidentale del campo, che si componeva di un sistema di recinti destinati alle attività di spoliazione e sterminio dei deportati. I recinti isolavano i quattro impianti di sterminio (i Krematoria II-III semi ipogei e i Krematoria IV-V), il grande edificio della Zentralsauna (Świebocka 2001) e, di fronte, il cosiddetto Effektenlager, nel gergo del campo denominato Kanada: l’area del magazzino di circa 5 ettari costituito da 30 baracche in legno, nelle quali i nazisti raccoglievano i beni depredati ai deportati per poi spedirli in Germania.

Il recinto di Birkenau presentava uno sviluppo longitudinale sull’asse Nord-Sud di circa 1.800 metri e una sezione trasversale caratteristica di 750 metri circa, a cui si aggiungevano estensioni puntuali. L’enorme interno ermetico si articolava in una serie di ulteriori sotto-recinti: i macro-settori B-I, B-II, B-III. Quest’ultimo, il cosiddetto Mexiko, era stato realizzato inizialmente come Durchgangslager (campo di transito) per le donne e costituiva il raddoppio del recinto quadrato centrale del campo, il maggiore per dimensioni (circa 56 ha). La nuova enorme estensione di Birkenau non venne mai completata. Oggi è stata parzialmente urbanizzata con villette, analogamente a quanto avvenuto nell’area dov’era ubicata la caserma delle Schutzstaffeln, a Est dell’edificio della Kommandantur (ancora intatto e trasformato nella sede di una chiesa cattolica). 

Il piano generale in scala 1:10000 della Interessengebiet datato 6 giugno 1942 – periodo in cui a Birkenau sono state avviate le operazioni di sterminio – mostra come il rapido sviluppo del campo prevedesse una triplicazione del ‘modulo’ principale da 750x750 metri anche nella parte Sud del sito, oltre all’aggiunta di un’ulteriore area adibita a caserme sul fronte Est. Il campo avrebbe in tal modo raggiunto una superficie di circa 250 ha. Questa previsione fu riconfermata con un disegno in scala 1:2000 datato il 15 agosto dello stesso anno, ma scomparve successivamente dai piani realizzati a partire dal gennaio 1943 dall’Auschwitz Bauleitung [10].

I recinti principali dei tre macro-settori erano stati ulteriormente ‘specializzati’ in sotto-campi assegnati ai diversi gruppi di prigionieri [11]. Questi recinti al cui interno erano disposte le baracche per gli internati sono tuttora riconoscibili in quanto perimetrati dai principali assi di connessione interna su cui si fonda l’intero impianto cardo-decumanico del campo: la cosiddetta Judenrampe (asse Est-Ovest), lo scalo ferroviario interno ai cui estremi sono ubicati a Est la Wachgebäude (1943) – l’edificio turrito del corpo di guardia al cui centro è posizionato il cancello dal quale i convogli entravano nel campo – e a Ovest i due grandi crematori simmetrici principali (II e III). I recinti interni sono inoltre delimitati dalle cosiddette Lagerstraßen A e B (Nord-Sud ed Est-Ovest), quest’ultima in asse con l’edificio della Kommandantur e il recinto – esterno a quello principale – delle caserme delle SS (area a Est del campo, oggi urbanizzata) e l’area che comprende i crematori simmetrici IV e V e le enormi fosse comuni dello spigolo Nord-Ovest del campo, zona in parte ‘coperta’ da un’appendice della foresta di Brzezinka.

Per comprendere la portata disciplinare del progetto-Birkenau è innanzitutto necessario considerare la sua rapida e successiva evoluzione dimensionale e funzionale. Non è questo il contesto per ricostruirne puntualmente la storia, ma si ritiene altresì necessario ricordare come le caratteristiche del ‘sistema insediativo’ di Birkenau, in particolare il suo rigido assetto ortogonale complessivo, si siano dimostrate perfettamente idonee nell’ammettere una serie successiva di integrazioni, varianti ed estensioni di vario tipo. I piani originali di Birkenau raccolti di recente nel volume curato dal direttore del Museo nazionale di Auschwitz (Cywiński 2023) testimoniano della transizione da campo di concentramento (1941) a campo di sterminio (1942) sulla base di progetti elaborati dall’Auschwitz Bauleitung, l’ufficio di progettazione del campo delle SS. Un progetto, quello di Birkenau, rimasto in fieri, che rappresenta sono una parte di una più generale e ampia idea di urbanizzazione di Auschwitz, che nei piani raccolti da Cywiński è testimoniata da un’articolata serie di estensioni ‘residenziali’ per il personale dei campi, a partire dall’espansione verso Nord-Ovest dello Stammlager con 20 nuovi blocchi per i prigionieri – il cosiddetto Lagerweiterung – attraverso una serie di varianti elaborate tra il giugno 1941 e l’inizio del 1943 [12].

Scendendo di scala, quindi passando dai grandi disegni d’insieme alla descrizione puntuale dei progetti esecutivi dei vari edifici in muratura del campo, l’elemento unificante delle varie costruzioni realizzate a Birkenau sembra essere rappresentato dalla loro matrice tettonica. Questo aspetto è altresì confermato sia dalle fotografie sopravvissute alla distruzione degli archivi del campo che documentano le fasi di realizzazione di quegli stessi edifici – la Zentralsauna ad esempio – sia dalle impronte lasciate nella profondità del terreno dai due crematori simmetrici II e III: nonostante la loro distruzione, gli impianti cruciformi che distribuiscono gli spogliatoi e le camere a gas sono ancora perfettamente leggibili nella loro forma e consistenza di vuoti scavati e murati nel terreno “contaminato” di Birkenau (Pollack [2014] 2016).

L’inquietante declinazione della componente tettonica rivelata oggi dall’archeologia dalle principali costruzioni del campo si riscontra in particolare nella compresenza di due condizioni. Innanzitutto il radicamento nel terreno delle rovine dei basamenti interrati, nelle fondazioni dei piani-matrice da cui prendevano forma questi edifici, e nella loro corrispondenza con una concezione della tipologia edilizia specificamente studiata per questo luogo: il rapporto tra massa e volume edilizio ha prodotto qui costruzioni ermetiche mediante una tecnica costruttiva che è stata deprivata del suo potenziale espressivo e simbolico. La tragica collezione delle tracce degli inediti tipi edilizi disposti secondo un ordine assoluto e totale sul terreno di Birkenau ha tradito ogni valore archetipico, in quanto il rapporto tra fondamenti e condizioni è stato ridotto a un puro fatto tecnico-funzionale. Ciò porta in luce un primo problema fondamentale sul significato della presunta architettura di Birkenau, una contraddizione che scaturisce dall’interno del rapporto tra tettonica e architettura. La tettonica intesa come arte del costruire è stata interamente sostituita dalla pura processualità delle tecniche costruttive. Essa prescinde infatti da ogni organizzazione definibile in termini di spazio, categoria qui surrogata da quella di ‘dimensione’, intesa come grandezza puramente funzionale a una finalità che ha perduto, programmaticamente, ogni qualsivoglia legame con l’idea originaria di architettura intesa come spazio abitabile. A Birkenau la tettonica non è più il radicamento dell’architettura nel suo fondamento, perché essa avviene prescindendo da ogni valore etico: è un puro fatto concreto, che si oggettiva nella realizzazione di una macchina necessaria al processo industrializzato di distruzione. Essa è l’insieme di sistemi tecnici necessari per tradurre un’intenzione politica in un gigantesco dispositivo edilizio che è un artificio strumentale, funzionalmente efficiente e necessario per finalizzare lo sterminio di massa. In ultima analisi, la perdita della dualità tra Baukunst e Architektur (anche nel significato di forma simbolica) consegue all’avvenuta divisione tra costruzione e ontologia, è l’appiattimento dell’arte del costruire sull’oggettività del dispositivo. Questa condizione non è l’esito di un processo progettuale ma, al contrario, lo presiede, perché, come ha evidenziato Arendt, con l’istituzione di un apparato giuridico e burocratico di nuovo tipo basato sul ‘trasferimento’ della responsabilità individuale, è venuta a mancare la sorveglianza critica di giudizio rispetto ai valori sui cui l’intero dispositivo è stato ideato.

Bauleitung der Waffen-SS und Polizei Auschwitz: prospetti della Kommandantur dello Stammlager. Auschwitz 14 ottobre 1942, scala 1:100. Fonte: Panstwowe Muzeum Auschwitz-Birkenau.
Heinrich Tessenow, Istituto di ginnastica ritmica Jacques Dalcroze, Hellerau, 1910-12 (cliccare sull’immagine per ingrandire).

Bauleitung der Waffen-SS und Polizei Auschwitz: prospetti della Kommandantur e complesso amministrativo dello Stammlager. Auschwitz 1941, scala 1:100.
Fonte: Panstwowe Muzeum Auschwitz-Birkenau (cliccare sull’immagine per ingrandire).

Bauleitung der Waffen-SS und Polizei Auschwitz: prospetti e sezioni del Wachgebäude, il corpo di guardia e cancello ferroviario d’ingresso al campo di Birkenau. Auschwitz, 5 novembre 1941, scala 1:100.
Fonte: Panstwowe Muzeum Auschwitz-Birkenau

Birkenau, il Wachgebäude con trattamento camouflage vista dalla Judenrampe, dopo il 27 gennaio 1945.
Fotografo non identificato.
Fonte: Panstwowe Muzeum Auschwitz-Birkenau.

US Air Force, foto aerea del campo di Auschwitz-Birkenau, 13 settembre 1944. L’immagine reca annotazioni aggiunte dalla CIA nel 1978.
Fonte: USHMM - United States Holocaust Memorial Museum
US Air Force, foto aerea del recinto dei Krematorien II e III, 25 agosto 1944. L’immagine reca annotazioni aggiunte dalla CIA nel 1978.
Fonte: USHMM - United States Holocaust Memorial Museum, Ph. n. 03983 (cliccare sull’immagine per ingrandire).

Una delle prime blueprint del Krematorium II, datata novembre 1941. Il disegno è controfirmato dall’Oberführer Hans Kammler, comandante dell’Ufficio del Gruppo C del Bauleitung der Waffen-SS und Polizei Auschwitz.
Fonte: Yad Vashem.

Bauleitung der Waffen-SS und Polizei Auschwitz: pianta esecutiva del Krematorium II di Birkenau, 1942, scala 1:100. Sulla sinistra lo spogliatoio e, perpendicolarmente, la camera a gas seminterrati. Sulla destra il locale al piano terreno con le fornaci suddivise in 5 blocchi da tre elementi e la centrale di ventilazione con la ciminiera. Nello snodo centrale sono concentrati scale, montacarichi e locale autopsie.

Il Krematorium II di Birkenau nel 1942.
Fotografo delle SS non identificato.

Impresa edile Huta Hoch und Tiefbau AG: disegni esecutivi del Krematorium IV (dettaglio), 1943, scala 1:100.

Birkenau, costruzione del Krematorium IV, 1943.
Fotografo delle SS non identificato.
Fonte: Yad Vashem, ID  55232.

L’architettura di Birkenau: da Tessenow a Speer?

Osservando i pochi edifici sopravvissuti alla distruzione di Birkneau eseguita dai nazisti in fuga tra il 20 e il 26 gennaio del 1945, studiandone le fotografie e i piani insieme ai progetti di estensione dello Stammlager che oggi sono consultabili in diversi musei e archivi nazionali – in particolare, il Państwowe Muzeum Auschwitz-Birkenau, lo Yad Vashem di Gerusalemme e lo United States Holocaust Memorial Museum di Washington D.C. – sembrano emergere diverse corrispondenze tipologiche e di linguaggio con l’architettura di Tessenow. Ovviamente il collegamento Heinrich Tessenow-Albert Speer sembra di conseguenza inevitabile, essendo quest’ultimo stato suo allievo e assistente alla Technische Universität Berlin (1927), prima di diventare Ministro degli armamenti e della produzione bellica del Reich e architetto di Hitler dopo la morte di Paul Ludwig Troost (1936). Come responsabile dell’intero sistema che controllava la progettazione delle installazioni naziste (incluse diverse basi militari costruite utilizzando manodopera schiava tra cui quella di Mittelbau Dora e il cosiddetto “Bunker Valentin” presso Brema, realizzato per la produzione di U-boot), fu responsabile anche di quelle del campo di Birkenau, di cui autorizzò la costruzione il 15 settembre 1942 e di cui ebbe una responsabilità diretta in connessione col sistema delle imprese edili e dei fornitori che ne effettuarono la realizzazione [13].

Il corpo di guardia e la quasi gemella Kommandantur delle SS, la cosiddetta Zentralsauna, i quattro grandi crematori gemelli a due a due (II-III e IV-V) e altri edifici del campo erano infatti accomunati da forme e da un linguaggio che riecheggiavano i caratteri di un’architettura tradizionale, un apparente richiamo alla declinazione dell’innesto tra forme classicheggianti e vernacolari che ha caratterizzato una parte consistente dell’opera di Tessenow, in particolare negli anni ’10 del Novecento, ad esempio nel noto caso delle opere realizzate a Hellerau. Come sappiamo, sull’architettura di Tessenow e degli altri architetti considerati proto-razionalisti, storici e architetti hanno pubblicato una cospicua serie di monografie e studi riguardanti opere specifiche. Del resto, l’ideologia reazionaria legata agli stili storici accomunava molti tra i precursori del cosiddetto Movimento Moderno: da Wagner a Loos, da Hoffmann a Behrens, che pure aveva aderito al nazionalsocialismo. 

È stato in particolare osservato che nell’architettura di Heinrich Tessenow la semplificazione, la riduzione a forme essenziali, a rapporti geometrici immediatamente evidenti, era lo strumento compositivo per evocare una classicità ideale e rassicurante. Una forma di semplificazione del lessico architettonico che potremmo rileggere come applicativa del vocabolario classicista fatto di timpani, colonne, a volte di fregi, quasi a suggerire il tentativo di estrarne una supposta essenza soprastorica e totale. Nella monografia dedicata da Marco De Michelis a questa problematica figura di architetto, si segnala un passaggio riferito al noto concorso nazista per il centro balneare di Rügen, che è rivelatore di una questione di fondo: “Per Tessenow il concorso di Rügen sembrava rappresentare l’occasione di una sorta di grandiosa sintesi del suo pensiero architettonico, più che interpretare la particolare fisionomia dei programmi architettonici del Terzo Reich”. De Michelis evidenzia come ciò corrispondesse alla “continuazione delle sue riflessioni sulla regolarità e sull’elementarizzazione dell’espressione architettonica […] sulla possibilità di concentrare in rarefatte figure architettoniche i caratteri anche monumentali dell’opera” (De Michelis 1991, 133).

Oltre al tema della semplificazione del linguaggio, nella Germania degli anni Trenta del Novecento la cultura architettonica affronta un ulteriore argomento: il rapporto con il cosiddetto ‘tradizionalismo’, o meglio, con l’appropriazione indebita della tradizione da parte del nazionalsocialismo, anche se in realtà non è ben chiaro di quale ‘tradizione’ si trattasse. È stato per altro evidenziato come questo tema “per un lungo periodo ebbe una connotazione fortemente negativa” (Steinman 1985) e che una traiettoria del tema del tradizionalismo è stata tracciata sulla base di testi di pubblicati in Germania con l’inizio del nuovo Novecento, tra cui quelli di Hermann Muthesius, Paul Schultze-Naumburg, Paul Mebes, Friedrich Ostendorf, come base per definire questo fenomeno come prevalentemente tedesco (Magnago Lampugnani 1980).

Ma in cosa consisterebbe una eventuale connessione tra Tessenow e Birkenau? Essendo chi scrive un progettista e non uno storico dell’architettura, si ritiene necessario prendere provvisoriamente le distanze da questa domanda e limitarsi a rilevare che, avendo avuto l’architettura di Tessenow una notevole e diffusa ricaduta sulla cultura architettonica degli anni ’30 in Germania, in particolare sugli architetti che, nella fase di consolidamento del regime nazista precedente alla guerra, rappresentano la nuova generazione di progettisti (Albert Speer incluso), è possibile che essa sia stata in qualche misura rielaborata in forma deteriore dagli architetti dello Zentralbauleitung der Waffen-SS und Polizei Auschwitz. Questo però non significa che Tessenow fosse responsabile di eventuali trasmigrazioni del suo linguaggio architettonico negli edifici di Birkenau. In altri termini, Tessenow così come, ad esempio, Richard Riemerschmid, architetto che ha tra l’altro lavorato a Hellerau negli stessi anni di Tessenow, con Birkneau non hanno nessuna relazione e, di conseguenza, nessuna evidenza di responsabilità diretta o indiretta. Ma allora perché sollevare questo problema? Forse è necessario farlo soprattutto perché ciò che si postula essere l’architettura di Birkenau pone due questioni tra loro collegate, che rappresentano la base di un primo ordine di conclusioni. 

Innanzitutto, il fatto che i principali edifici del cosiddetto Kriegsgefangenlager [14], ovvero quelli realizzati in muratura di mattoni e in cemento armato, pur mostrando qualche affinità con l’architettura di questi maestri sul piano linguistico, ne cambiano radicalmente i presupposti. Quelle che provvisoriamente abbiamo denominato ‘architetture di Auschwitz’ utilizzano il linguaggio della semplificazione morfologica che sembra effettivamente richiamare quello del Tessenow di Hellerau in particolare e i caratteri di una sorta di “tradizione inventata” o forse “iniziata” (Hobsbawn, Ranger [1983] 1987) innanzitutto per autolegittimare la presunta continuità del nazismo con un’idea altrettanto falsa di progenie storico-culturale e razziale. Ma rispetto a ciò prevale con ogni evidenza la dimensione della menzogna connaturata con l’ideologia nazista, che qui si traduce nel tentativo di dissimulare la vera natura di quegli stessi edifici, la loro essenza tecnica di infrastrutture mostruose, in cui i principi e le modalità proprie di funzionamento dell’industria moderna erano state declinate nella produzione di impianti per realizzare uno sterminio di massa.

In altre parole, si presenta un fenomeno di nuovo tipo che utilizza il linguaggio e le tipologie dell’architettura per dar luogo a qualcosa di totale e inedito, aspetto che evidenzia il drammatico paradosso dello scopo che presiedeva al progetto di questi edifici. Ciò rappresenta qualcosa che nulla ha a che fare con la ricerca di una riduzione del linguaggio classico a un sistema di segni semplificati o di qualsiasi possibile connessione ai valori dell’architettura tradizionale. Si tratta, banalmente, solo di travestimenti della costruzione, per usare le parole che Walter Benjamin utilizzò per descrivere la traduzione tecnica delle architetture in ferro ottocentesche. A Birkenau esse dissimulano la preminenza della tecnica per realizzare fino all’ultimo la cosiddetta ‘soluzione finale’ attraverso una tragica concatenazione di menzogne che comprendono l’apparente veste di architettura civile di questi edifici, progettati con l’unico scopo di compiere questo inaudito assassinio di massa.

È in secondo luogo evidente che per raggiungere questo risultato servirono architetti che utilizzarono quelle forme e quel linguaggio e ne declinarono le caratteristiche in qualcosa che si presenta come architettura, ma che in realtà è la sua stessa apparenza, qualcosa che ne ha tradito i presupposti culturali e i suoi stessi fini. Emerge qui la questione della responsabilità individuale dell’architetto, essendo quest’ultimo coinvolto direttamente in un processo il cui scopo non è in alcun modo occultabile, tanto meno nella fase di progettazione.

Un terzo elemento – che presenta un’immediata attinenza disciplinare – è rappresentato dalla questione che deriva inevitabilmente dalle due prime considerazioni: la forma architettonica è di per sé incolpevole, oppure è sempre l’esito di un atto politico? Questi edifici erano solo delle tragiche scenografie realizzate per dissimulare ciò che avveniva al loro interno, oppure riflettevano l’ideologia distruttiva che le ha prodotte? 

L’ultimo aspetto riguarda una derivazione che sembra inevitabile richiamare: l’annosa questione della presunta architettura nazista, che non è in realtà univocamente definibile e tantomeno qualcosa di codificato da regole o da uno stile (Hagen, Ostergren 2021). Altra è la questione degli architetti che hanno aderito al nazionalsocialismo, ma tra Paul Bonatz (De Maio 1999; May, Sturm, Voigt 2010) e Fritz Höger (Bucciarelli 1991), ad esempio, non vi sono elementi accomunanti, così come l’architettura di Behrens non si può certo definire ‘nazista’. Lo stesso linguaggio di Speer, la sua coerente megalomania, il suo delirio di onnipotenza morfologica, delimitano un ambito progettuale e linguistico peculiare per quanto emblematico di un approccio ‘codificato’ che fa riferimento all’idea di una rielaborazione ideologica e astratta dell’eredità classica, greca in particolare, ambito comunque ristretto sostanzialmente a sé stesso e ai suoi rapporti con Hitler e, fortunatamente, a opere realizzate in maniera del tutto frammentaria (Krier 1985).

Zentral Sauna: scarico nel pavimento spaccato del locale docce. Foto: Guido Morpurgo.

Per le altre immagini di questa sezione si rimanda alla Galleria di fotografie di Guido Morpurgo.

Archeologia della fine della civiltà

Oggi Auschwitz tende al museo, mentre Birkenau non è più che un sito archeologico. Per lo meno, così appare guardando quel che resta da vedere dove quasi tutto è distrutto: per esempio, questi pavimenti a pezzi, feriti, crivellati, crepati. Pavimenti intaccati, sfregiati, spaccati. Pavimenti incrinati, fracassati dalla storia. [Le rovine di strani edifici che punteggiano l’enorme sito archeologico sono] lettere di una scrittura che precede ogni alfabeto (Didi-Huberman [2011] 2014).

Come ha evidenziato Hannah Arendt nel suo fondamentale studio sulle origini del totalitarismo (Arendt [1951] 1966), le categorie tradizionali della politica, del diritto, dell’etica e della filosofia risultano inutilizzabili per tutto ciò che attiene al nazismo: quanto è avvenuto non si può descrivere nei termini di semplice oppressione, di tirannide, di illegalità, di immoralità o di nichilismo realizzato, ma richiede una spiegazione “innovativa”.

Ovviamente sorge il dubbio che anche ciò che abbiamo provvisoriamente definito ‘l’architettura di Birkenau’ non possa essere analizzato in termini tradizionali, ma necessiti di una rilettura specifica. Le considerazioni di Didi-Huberman sembrano per altro confermare questa necessità di aggiornamento degli strumenti con cui rileggere questo non-luogo. 

La nostra stessa strumentazione disciplinare sembra infrangersi contro la diversa consistenza dei resti del lager, una consistenza che rivela i tratti di questo carattere innovativo che a Birkenau si presenta in tutta la sua densità di totalità tragica e inevitabile. Per poter affrontare questo tema e finalmente comprendere che gli architetti hanno effettivamente avuto una responsabilità diretta nel realizzare questo campo di sterminio nella sua forma del tutto particolare, è necessario partire innanzitutto da ciò che ne resta, con lo sguardo dell’architetto di oggi, che sa osservare le rovine come un archeologo – secondo Didi-Huberman – riappropriandosi di un ruolo che, nello sviluppo dell’archeologia come scienza autonoma, l’architetto ha progressivamente perduto, un “discorso sulle rovine” (Pousin 1993) che Birkenau impone di estendere e riformulare. Non ci si riferisce qui soltanto all’aspetto immediatamente operativo, ma soprattutto alle implicazioni culturali di questa possibile attività. Il termine ‘archeologia’ oltre a originare da un’archè che condivide con l’architettura, resta uno degli strumenti più efficaci per comprendere la storia delle civiltà abbandonando le successioni lineari, traslando l’oggetto della ricerca sulla struttura sedimentaria della cultura occidentale, attraverso ciò che Foucault chiamava “sganciamenti in profondità” (Foucault [1969] 1971, 8). 

Dalle rovine di Birkenau emerge una sorta di ‘codice della memoria’, qualcosa di apparentemente incomprensibile che si presenta come materiale storico. Più che essere il risultato di una distruzione, esso sembra affiorare ogni volta dal terreno: lo infrange denunciandone la tragica stratificazione, in particolare all’intorno delle rovine dei crematori. È un sostrato che il Museo di Stato di Auschwitz cerca di ricoprire con terra riportata, ma che puntualmente riaffiora e si presenta come “immagine-fatto” di ciò che è intrinsecamente impraticabile, indelebile, imperdonabile.

Architetti BPR - Lodovico Belgiojoso, Enrico Peressutti, Ernesto Nathan Rogers, Monumento ai Caduti nei Campi di concentramento, Milano, Cimitero Monumentale, 1945.

Conclusioni in forma di interrogativi

L’ex campo di sterminio di Birkenau si presenta oggi come un immane ‘reperto’ che nonostante sia stato indagato, analizzato e ‘spiegato’ su base sia documentale, sia testimoniale, rappresenta la materializzazione di un evento che resta in larga parte una sostanza incomprensibile, da ‘scavare’ e decifrare. È per questa ragione che ciò che resta del campo può essere forse studiato solo come un sito archeologico, che nella sua atroce stratificazione rapprende ciò che a prima vista sembra un’irrisolvibile contraddizione e cesura della modernità ma che, come si è cercato di postulare in particolare sulla scorta degli studi di Bauman, è in realtà un suo prodotto interno. 

Ma quali strati bisogna isolare gli uni dagli altri? Qual è la continuità o la discontinuità che li attraversa e il significato che finiscono per assumere nel loro complesso? Sulla base di questi ‘indecifrabili’ resti è ancora possibile tracciare il perimetro di una totalità che possiamo definire attraverso l’architettura? Oppure questi frammenti rappresentano la testimonianza di qualcosa di diverso, di “innovativo” come propone la Arendt in senso deteriore?

Studiare e conoscere Auschwitz è quindi necessario, ma rendere ‘praticabile’ questo luogo per diffonderne la conoscenza significa per noi saper riconoscere ciò che di esso appare oggi, ancora, come frammento incomprensibile. È necessario costruire nuove categorie per imparare a pensarlo e nuovi strumenti per riconoscere il rapporto tra uso e significato, tra mezzi e fini che qui non è qualcosa di riferibile a una definizione accettabile di architettura, a una qualunque definizione di architettura.

Cosa nascondono questi resti ostinati, se non una sorta di ‘antimateria’ dell’architettura? Con questo termine preso in prestito dalla fisica non si intende il contrario dell’architettura, ma l’estremo stato di un processo che ha usato le sembianze dell’architettura per realizzare qualcosa di inedito, di nuovo e alieno da ogni idea di spazio abitabile, qualcosa che in ultima analisi sembra essere speculare all’architettura. Forse la quintessenza di questa sorta di ‘antimateria dell’architettura’ è imprigionata in alcuni dettagli, totali e inevitabili, come può esserlo una soglia di cemento: due gradini di cemento con uno scuretto, che conducono alle camere a gas del Crematorio IV. L’affaccio sull’abisso della fine della civiltà umana e della Storia è segnato da due gradini con uno scuretto. È l’ultima parola di quella “scrittura che precede ogni alfabeto” incisa nel suolo con gli strumenti dell’inganno, della barbarie, ma che è pur sempre il risultato di un processo culturale (Adorno [1966] 1975). 

È questo l’aspetto più imperdonabile, tragico e rivoltante di un tale inaudito paesaggio di incomprensibili rovine: l’essere di fronte ai prodotti di una cultura. Dobbiamo ricordarci di questo gradino che porta alle rovine di una camera a gas che è stata teatro del duplice atto di resistenza del Sonderkommando che vi era obbligato a operare. Dapprima con le 4 notissime fotografie scattate di nascosto il 23 agosto del 1944 per documentare le atrocità che vi stavano avvenendo, poi con la rivolta che il 7 ottobre dello stesso anno che lo distrusse parzialmente, ma irreversibilmente, con un gesto disperato, finale e necessario: probabilmente l’unica vera risposta alla grande questione sulla responsabilità individuale. In quella collettiva, di fronte a tutto ciò, non sembra più possibile trovare vie d’uscita.

Questi gradini non rappresentano uno tra gli esiti del nazifascismo, ma la sua istituzione suprema, il suo coronamento: alla fine del nazifascismo c’è il lager, ci sono due gradini con uno scuretto che conducono a una camera a gas.

Che Birkenau sia stato il luogo di una barbarie è un fatto concreto che si mostra nella sua evidenza. Ciò è documentato e provato – nonostante i tentativi negazionisti [15] – ed è sedimentato nel futuro stesso della civiltà umana. Ciò che invece non è forse ancora del tutto chiaro è che Auschwitz rappresenta il risultato di una certa cultura antropologica e filosofica dell’eugenetica e della ‘razza’; di una cultura politica – quella del Nazionalsocialismo – che ha prodotto una propria estetica (dalla Norimberga di Speer all’Olympia di Riefensthal); una cultura che ha spostato il problema della tecnica su un piano nuovo, apparentemente paradossale, ma in realtà strutturalmente intrinseco al fenomeno che chiamiamo modernità, evento che sostituisce la responsabilità individuale – inclusa quella degli architetti che hanno progettato Birkenau – con una responsabilità ‘differita’ che il sistema nazista ha realizzato congiungendo l’agire tecnologico con quello burocratico.

Tutto ciò si riflette nella consistenza fisica di questo non-luogo ante litteram, o meglio in ciò che appare essere stata o essere ancora – in qualche frammento ancora integro – la sua architettura. Ma se questa era architettura, allora dobbiamo considerare che essa, in generale, come categoria che coniuga teoria e pratica della costruzione dello spazio abitabile, azione dell’ordinare lo spazio dell’uomo, non ha più alcun senso. 

Il progetto di architettura dovrebbe essere l’interpretazione critica della coniugazione del mondo delle idee con quello delle cose concrete, un’attività intellettuale che lega indissolubilmente durata e responsabilità, dove per durata si intende l’aspirazione alla forma e un’offerta orientata al futuro di matrici d’uso e di senso. Ma a Birkenau il concetto stesso del pensare era stato archiviato: lì non c’era spazio né per la responsabilità, né per la durata. Le vite umane non venivano solo recise ma umiliate, depredate e letteralmente cancellate, in estrema sintesi rese superflue attraverso complessi edilizi che erano meri dispositivi tecnologici per lo sterminio. 

L’Architettura dovrebbe essere, al contrario, sempre un’attività umana intesa a modificare l’ambiente fisico in rapporto alle necessità dell’esistenza. Un’attività che si invera secondo un processo attributivo di valore che opera tramite un “sistema di segni visivi dimensionali-geometrici” (Della Volpe 1960) che lo rende rappresentativo, configurandolo come spazio, cioè assegnandogli organicità o struttura. Ma a Birkenau si veniva portati per essere sterminati, non certo per esistere. La “maledetta razionalità” di Birkenau, come la definì Jean Amery (Amery [1966] 1987), rappresentava il progetto di quella parte di umanità che trasformando un mito in realtà e arrogandosi il diritto di considerarsi superiore, adatta, si è autodeterminata quale protagonista eletta per svolgere un compito soprastorico: sterminare tutti quelli che considerava diversi, inadatti, inferiori, inutili.

L’atto primario del separare e tracciare confini costruendo recinti (Gregotti 1979), ciò che identifica il principio primo di definizione dello spazio abitabile, a Birkenau – recinto fatto di recinti – è stato ribaltato nel suo opposto: il significato originario di discrimine tra artificio e natura è divenuto speculare a ogni insediamento umano. 

È forse ora possibile tentare di rispondere alla domanda iniziale sul significato di Architettura richiamando una definizione che sembra ancora valida, operabile e necessaria. Questa definizione o forse ‘dichiarazione’, ci viene offerta da uno degli architetti che meglio hanno saputo ridare senso alla nostra disciplina ricostruendola come fatto culturale proiettivo, ricongiungendola alla sua arché, proprio a partire dalla sua definitiva perdita, dal suo sprofondamento nel terreno dei campi di sterminio, in quello di Birkenau “fracassato dalla storia”:

L’architettura è espressione concreta dell’uomo, sintesi della sua misura fisica e spirituale. La misura fisica dell’uomo determina le dimensioni necessarie dell’architettura: è la misura costante, dovuta alle nostre condizioni anatomiche e fisiologiche. Ma infinite variazioni subisce la misura necessaria nel soddisfare le complesse attività dell’uomo e le sue aspirazioni. Lo spirito creativo, mentre la interpreta, le conferisce diverse grandezze. Uomo, architettura, uomo: ecco il ciclo continuo, che si salda eguagliando il fine all’origine (Rogers 1951).

Questa definizione-dichiarazione accompagna la presentazione della mostra dal titolo Architettura misura dell’uomo che Ernesto Nathan Rogers progettò e realizzò per la IX Triennale di Milano con due studenti, Vittorio Gregotti e Giotto Stoppino. Era il 1951. Auschwitz era ‘finito’ solo 6 anni prima. Si trattava di una mostra fatta di telai, in analogia con il monumento ai caduti nei campi di sterminio nazisti che si erge presso il Cimitero Monumentale di Milano, progettato dallo studio BPR Belgiojoso, Peressutti, Rogers, nel 1945: un’intelaiatura prospettica, ‘concetto spaziale’ in cui forma e struttura coincidono, senza rivestimenti, senza mascheramenti o travestimenti. 

È un’“immagine sospesa” (Fossati 1971) che propone il ricominciamento del pensiero sull’architettura, sul suo significato, a partire dagli strumenti più semplici del mestiere, quelli che ne rivelano i fondamenti, le intenzioni e ne rispettano la durata, ovvero il carattere e la responsabilità prima dell’architetto, responsabilità che è sempre individuale. Questo straordinario telaio che sospende nel tempo l’architettura razionalista e forse ne completa la traiettoria interrotta – da Auschwitz – condensa la storia e il nostro presente e li fa entrare in un tempo nuovo. È il “tempo-ora” di cui parla Walter Benjamin (Benjamin [1939-1940] 1997) che ci consente di rimettere finalmente in prospettiva Birkenau e ci aiuta a comprendere, in maniera semplice – non semplificando ma attraverso la sintesi della forma – che in quel luogo l’architettura, in realtà, non c’è mai stata, perché l’architettura può solo essere ‘misura dell’uomo’.

Galleria

Judenrampe. Sullo sfondo il settore BI, Frauen lager.

Ingresso alla Lagerstrasse A dalla Judenrampe.

Lagerstrasse A.

Rovine nel settore B IIb.

Rovine nel settore B IIb.

Rovine nel settore B IIb.

Rovine nel settore B IIb.

Rovine nel settore B IIb.

Rovine nel settore B IIb.

Rovine nel settore B IIb.

Lagerstrasse B. Ingresso ai recinti degli impianti di sterminio IV e V, Kanada e Zentral Sauna.

Lagerstrasse B. Ingresso ai recinti degli impianti di sterminio IV e V, Kanada e Zentral Sauna.

Gaskammer / Krematorium V – 2018.

Gaskammer / Krematorium V – 2018.

Gaskammer / Krematorium V – 2018.

Gaskammer / Krematorium V – 2018.

Gaskammer / Krematorium V – 2018.

Gaskammer / Krematorium IV – 2018.

Gaskammer / Krematorium IV – 2018.

Gaskammer / Krematorium IV – 2018.

Gaskammer / Krematorium II – 2018.

Gaskammer / Krematorium II – 2018.

Gaskammer / Krematorium II – 2018.

Gaskammer / Krematorium II – 2018.

Gaskammer / Krematorium II – 2018.

Gaskammer / Krematorium II – 2018.

Gaskammer / Krematorium II – 2018.

* Questo testo si propone di riallineare i temi da me affrontati nella conferenza dal medesimo titolo, tenuta il 22 gennaio 2023 presso l’Aula Magna dell’Università Iuav di Venezia. La conferenza è stata promossa dal Rettorato nel quadro delle iniziative promosse dal Coordinamento cittadino del Comune di Venezia per le celebrazioni del Giorno della Memoria. Quest’ultimo è stato istituito su proposta dell’allora deputato Furio Colombo con la legge 211 del 20 luglio 2000, in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti.

Note

[1] Nello Stammlager – aperto il 20 maggio del 1940 – prima della costruzione del bunker tuttora esistente era già stata allestita una camera a gas improvvisata nel seminterrato del cosiddetto Block 11. Si rinvia al riguardo alla “Holocaust Encyclopedia” dello United States Holocaust Memorial Museum: https://encyclopedia.ushmm.org/content/en/article/auschwitz-1.

[2] I quattro campi di sterminio riservati agli ebrei – in larga maggioranza polacchi – sono stati realizzati dai nazisti nel contesto della cosiddetta “Operazione Reinhard” (marzo 1942-novembre 1943). Essi erano: Chelmno (il primo, con camere a gas mobili, ubicato a 70 Km da Łódź, è stato attivo in due periodi tra 8.12.1941 e 11.4.1943, poi dalla primavera-estate del 1944 al 18.1.1945); Treblinka (ubicato a circa 80 Km da Varsavia; 22.07. 1942-2.08.1943, giorno della rivolta del Sonderkommando); Belzec (ubicato tra Varsavia, Lublino e Leopoli; 17.3.1942-marzo 1943); Sobibor (ubicato a circa 80 Km da Lublino; 16.3.1942-14.10.1943, giorno della rivolta del Sonderkommando). A essi andrebbe aggiunto anche Majdanek (primavera 1941-primavera 1944, ubicato a 3 Km a est di Lublino). Il suo utilizzo come campo di sterminio è documentato dal settembre-ottobre 1942 al novembre 1943. Sui siti di Chelmno, Treblinka, Sobibor e Majdanek, e di recente anche Belzec, sono stati realizzati dei Memoriali-Monumenti. Per ulteriori precisazioni si rimanda al riguardo al sito dell’ANED (Associazione Nazionale ex Deportati dei campi nazisti): https://deportati.it/lager/chelmno/chelmno/; https://deportati.it/lager/treblinka/https://deportati.it/lager/belzec/belzec/; https://deportati.it/lager/sobibor/sobibor/; https://deportati.it/lager/majdanek/.

[3] W. Morris, Prospects of architecture in civilization, conferenza tenuta alla London Institution il 10 marzo del 1881, pubblicata in Morris [1881] 1963.

[4] I contributi pubblicati dopo il 1945 su queste tematiche sono ormai articolati in diversi filoni di ricerca e documentazione oltre che di ordine narrativo, documentaristico e cinematografico. Tutti insieme costituiscono un patrimonio culturale ormai considerevole. Si è pertanto scelto di restringere i rimandi a ciò che è stato ritenuto di più immediata attinenza ai temi qui affrontati, per i quali si rimanda ai riferimenti bibliografici del presente scritto. Si specifica altresì che a fronte di un siffatto volume di studi e ricerche, i contributi pubblicati riguardanti il campo disciplinare dell’architettura sono esigui e solitamente ristretti a casi o temi specifici, oppure a frammenti e riferimenti contenuti in studi che riguardano tematiche connesse all’architettura tedesca del Novecento. Si segnala in particolare la mancanza di uno studio sistematico disciplinare sulla progettazione dei siti di sterminio e specificamente sull’architettura di Auschwitz.

[5] Si rimanda a questo proposito a quattro contributi che si ritiene rapprendano alcuni tra i principali temi legati alla questione della modernità. Questi studi sono stati pubblicati a valle delle questioni innescate dal dibattito sulla postmodernità introdotto in particolare da Lyotard [1979] 1981; Berman [1982] 1985; Maldonado 1987; Harvey [1990] 1993; Touraine [1992] 1993.

[6] Il termine “ermetico” per riassumere simbolicamente il lager è stato introdotto in Bizzarri 1946.

[7] Si rimanda a J.-C. Pressac, History of the Topf firm and its role at equipping the Auschwitz Birkenau Krematorien. General description of the cremation furnaces produced by Messrs TOPF & SONS of Erfurt and that of the Trzebinia Labour Camp, in Pressac 1989, 93-122; T. Świebocka, Appendix 2. Firms involved in the Construction of the Sauna, in Świebocka 2001, 46-47.

[8] La cosiddetta ‘Zona d’interesse’ del K.L. di Auschwitz si estendeva su di un territorio di circa 40 Kmq all’interno del quale erano disseminati 41 campi di concentramento. Oltre allo Stammlager ‘campo base’, gli altri campi principali erano Birkenau e Monowitz, non più esistente e urbanizzato tramite villette disposte sulla traccia della griglia ortogonale originaria. Il sito del campo Auschwitz III-Monovitz era collegato alla gigantesca area industriale della IG-Farben – ancora esistente e in parte attiva – che comprendeva gli impianti e laboratori della Buna-Werke, l’industria chimica insediata ad Auschwitz per la fabbricazione della gomma sintetica (mai prodotta) ai quali fu assegnato Primo Levi.

[9] Le due camere a gas ‘sperimentali’ di dimensioni ridotte, le cui tracce restano leggibili ancora oggi, erano eufemisticamente denominate Bunker 1 – czerwony domek – la ‘casetta rossa’ ubicata a nord-est della recinzione settentrionale – nella quale erano state ricavate due camere a gas di circa 80 mq ognuna, e Bunker 2 – maly bialy domek – la ‘casetta bianca’ ubicata a nord-ovest del recinto, sul retro della Zentralsauna, di cui resta solo la traccia a terra che presenta una superficie ancora rilevabile di circa 120 mq.

[10] Le estensioni sul fronte Sud del campo di sterminio sono riportate in due disegni entrambi del 1942. Il primo, in scala 1:10.000, è del 6 giugno e descrive la cosiddetta ‘Zona d’interesse’ con al centro il campo di Birkenau. La tavola che presenta dimensioni 920 x 1120 mm, è stata disegnata su carta con inchiostri nero e colorato con campiture in pastello colorato ed è firmata dal prigioniero 8252, il topografo Janusz Goślinowski. Il secondo, in scala 1:2000, è del 15 agosto e rappresenta la pianta di Birkenau. Presenta dimensioni 650 x 1035 mm e la medesima tecnica grafica. Questa tavola è stata approvata dalla SS Karl Bischoff, direttore dell’Auschwitz Bauleitung. In entrambe le planimetrie sono già presenti i crematori II e III. Esse sono pubblicate in Cywiński 2023, 61, 99.

[11] I sotto-campi interni al recinto principale di Birkenau erano in particolare da sud verso nord: il campo femminile operativo dall’agosto 1942 denominato B-Ia (area originariamente utilizzata per i prigionieri di guerra russi) esteso nel luglio del 1943 utilizzando il B-IId (in precedenza parte del campo degli uomini); B-IIa Quarantänelager; B-IIb Familienlager Theresienstadt, il lager delle famiglie provenienti dall’omonimo ghetto, utilizzato per questo scopo dal settembre 1943 al luglio 1944; B-IIc Durchgangslager – campo di transito – in uso dal maggio al novembre 1944 per gli ebrei ungheresi prima della loro distruzione e utilizzato per l’internamento delle donne ebree sopravvissute alla liquidazione del cosiddetto Mexiko l’ultima estensione di Birkenau a nord, mai completata (ottobre 1944); B-IId Männenlager (campo degli uomini); B-IIe Familienzigeunerlager (famiglie zingare) attivo dal febbraio 1943 al febbraio 1944, poi riutilizzato per altri prigionieri uomini e anche donne; B-IIf Häftlingskrankenbau, il cosiddetto ‘ospedale’ attivo dal luglio 1943 al gennaio 1945 per gli uomini, soprannominato Ka-Be dai deportati, fu utilizzato anche per esperimenti medici; B-IIg Effektenlager, il cosiddetto Kanada in attività dal dicembre 1943 al gennaio 1945, sito dove venivano raccolti i beni sequestrati ai deportati all’ingresso nel campo, per poi inviarli in Germania. Le baracche furono in parte frettolosamente bruciate dai nazisti in fuga per cercare di coprire le tracce dello sterminio documentato dalla massa di beni ancora presenti a Birkenau.

[12] Si vedano in particolare le planimetrie dei seguenti progetti di ampliamento dello Stammlager: K.L Auschwitz, Lagerplanseitz, febbraio 1942, scala 1:2000; estate 1942, scala 1:2.000; fine 1942-inizio 1943, scala 1:4000 (Cywinński 2023, 51, 53, 55).

[13] La controversa figura di Albert Speer è stata definitivamente riconsegnata alle sue responsabilità storiche solo di recente. Si segnala a questo proposito lo studio di Christmeier, Schmidt 2018, teso a far definitiva chiarezza sulla partecipazione dell’architetto ai crimini nazisti, attraverso lo smantellamento della sofisticata quanto falsa autorappresentazione costruita da Speer a seguito della liberazione dal carcere avvenuta nel 1966. Il volume è stato pubblicato in occasione dell’omonima mostra organizzata dai curatori presso il cosiddetto Dokumentationszentrum Reichparteitagsgerlände di Norimberga nel 2018, complesso il cui impianto generale fu progettato dallo stesso Speer, fu utilizzato tra il 1933 e il 1938 per i raduni nazionalsocialisti. Come noto, del sito fa parte anche la Kongresshalle (118.000 mq) progettata e parzialmente realizzata dai fratelli Franz e Ludwig Ruff tra il 1935 e il 1938.è

[14] Il campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau era stato siglato K.G.L. ovvero Kriegsgefangenlager – campo per prigionieri di guerra – a causa del suo utilizzo orignario. Questa denominazione che si ritrova stampigliata sia nei documenti ufficiali, sia nei disegni di progetto prodotti dall’Auschwitz Bauleitung. Al riguardo si rimanda ai materiali raccolti nel volume del Direttore del Museo di Auschwitz-Birkenau (Cywiński 2023). Il libro raccoglie per la prima volta l’insieme dei disegni di progetto prodotti per la realizzazione del complessivo sito di Auschwitz, quindi per tutti gli edifici che ne facevano parte, impianti di distruzione di massa inclusi.

[15] Lo storico dell’architettura Robert Jan van Pelt ha raccolto nel volume The Case for Auschwitz: Evidence from the Irving Trial (van Pelt 2002), le prove basate sugli studi storici e i rilievi la lui compiuti nel campo di sterminio di Auschwitz II – Birkenau sull’esistenza delle camere a gas. Lo studio era stato effettuato in occasione del processo per diffamazione intentato dallo storico britannico Davis Irving presso La Royal Courts of Justice in London nel 2000 contro la Penguin Books e Deborah Lipstadt. Secondo Irving nel libro Denying the Holocaust (Lipstadt 1993) la Lipstadt lo avrebbe falsamente etichettato come negazionista dell'Olocausto. Robert Jan van Pelt aveva svolto queste ricerche come testimone della difesa della Lipstadt che, come noto, vinse contro Irving. Nel 2016 Anne Bordeleau, Sacha Hastings, Robert Jan van Pelt, Donald McKay con la Waterloo University School of Architecture hanno allestito alla 15esima Biennale di Venezia un’installazione dal titolo The evidence room, basata sulle prove raccolte da van Pelt nel 2000. Si rimanda a Bordeleau, Hastings, van Pelt, McKay 2019.

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English abstract

Auschwitz represents a unicum in the immense geography of sites of mass destruction established by the Nazi regime in Europe. The Auschwitz II - Birkenau extermination camp (1941-45), in particular, is the outcome of a complex project, developed over the years, both at the level of its general layout and through the process of architectural definition of its most tragically relevant elements. Despite the hasty demolition of the unusual extermination complexes at the hands of the Nazis themselves in January 1945, photographs of their original appearance together with the consistency of the ruins and the footprints they left in the depths of the ground testify to a tectonic component that makes the specific identity of these objects not reducible to merely technological and functional reasons. These complexes, the so-called Zentralsauna and other camp buildings were in fact united by forms and a language that recalled the characteristics of a ‘civil architecture’, which seems to represent the dramatic paradox of the purpose behind their design. Today, the ruins of Birkenau leave open, among others, questions that have an immediate disciplinary relevance: is the architectural form itself blameless, or is it always the outcome of a political act? Were these buildings merely atrocious 'stage sets' made to conceal what was happening inside them, or did they reflect the destructive ideology that produced them? Critically re-reading what remains of the Auschwitz Vernichtungslager from within its architecture cannot, however, be a way of providing unambiguous and 'definitive' answers by attempting to trace the ambiguous perimeter of an alleged ‘Nazi architecture’. It means re-proposing the question of the architect's responsibility and ethical duties in the face of this extreme symbol of the Shoah: a place of the wiping out and loss of all cultural achievements, of the very capacity to think and, ultimately, of the end of history and human civilisation. 

keywords | Auschwitz; Birkenau; History; Architecture; Piotr Cywiński; Heinrich Tessenow; Albert Speer; Hannah Arendt; Georges Didi-Huberman.

questo numero di Engramma è a invito: la revisione dei saggi è stata affidata al comitato editoriale e al comitato scientifico della rivista

Per citare questo articolo / To cite this article: G.Morpurgo L’architettura di Auschwitz ”La rivista di Engramma” n.203, giugno 2023, pp. 153-194 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2023.203.0002