"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

225 | giugno 2025

97888948401

Ancora sull’οὐδὲν πρὸς τὸν Διόνυσον

L’anomalia olimpiodorea

Luigi Trovato

English abstract

§ I.Il quadro teorico della ricostruzione storica: Arist. Po. 4-5
§ II. Panoramica sui loci dell’οὐδὲν πρὸς τὸν Διόνυσον
§ III. L’anomalia olimpiodorea
§ IV. Considerazioni conclusive
§ Appendice

Nell’ambito degli studi sulla natura della composizione e rappresentazione di opere teatrali nell’antica Grecia a partire dal VI sec. a.C., l’impostazione oggi più accreditata sostiene che tragedie e commedie abbiano costituito un’autentica rottura, sotto molteplici aspetti, con gli originari rituali dionisiaci (cfr. ad es. Centanni 2019, Centanni [2003] 2013, XLV-XLVI; Vernant, Vidal-Naquet [1986] 2001). Fra le fonti che avvalorano questa idea, non possono mancare i passaggi letterari relativi al celeberrimo proverbio οὐδὲν πρὸς τὸν Διόνυσον, che da sempre ha costituito una delle testimonianze portanti di questa linea interpretativa e su cui l’attenzione non è mai venuta meno (se ne ritrova già un accenno in Wilamowitz-Moellendorf 1914, 18, e poi in Pickard-Cambridge 1927, 166-168; più recentemente esso ha fornito spunti per lavori e titoli dall’orientamento più vario: ad es. Winkler, Zeitlin 1990, Friedrich 1996, Scullion 2002, Vásquez Valdovinos 2017; per le occorrenze antiche vd. Appendice). Il detto sembra sì avere il suo fondamento in un fatto propriamente ‘drammatico’, cioè attinente a un dramma messo in scena durante un agone tragico, ma il suo uso venne poi esteso, quasi alla stregua di un grido di protesta, a tutti quei casi di non pertinenza di un’opera rispetto al tema richiesto o proposto. I contesti letterari in cui lo si può incontrare sono quanto mai vari tra loro, tuttavia, all’interno del gruppo in cui è detto qualcosa in più intorno alle rappresentazioni drammatiche, la testimonianza di Olimpiodoro, In Platonis Phaedonem 1.6 (ed. Westerink 1976) presenta una certa dissonanza rispetto alle altre, giacché lì il proverbio è ripreso solo per essere contestato e per riabilitare, conseguentemente, una connessione positiva tra la divinità di Dioniso e il dramma tragico. Eppure, e questo è proprio ciò che si cercherà di mostrare, questa discordanza non risulta sorprendente, né d’altra parte può essere sufficiente da sola a mettere in questione il paradigma ermeneutico della rottura tragica, perché va considerata entro il suo contesto filosofico più ampio.

I. Il quadro teorico della ricostruzione storica: Arist. Po. 4-5

Considerazioni filosoficamente apprezzabili come quella di Ortega y Gasset nel paragrafo dedicato alla tragedia nella prima delle Meditazioni del Chisciotte, secondo cui il lavoro filologico non è ancora riuscito a restituire appieno l’atmosfera extra-poetica, cioè religiosa, che sola consentirebbe di comprendere a dovere la tragedia greca (Ortega y Gasset, Meditazioni del Chisciotte e altri saggi, Napoli 2016, 135 [ed. originale 1914; ed. spagnola 19667, 392]), forse trascurano un po’ troppo ciò che proprio i testi hanno da dire e permettono di ricostruire. In effetti, se è vero che la tragedia rappresenta la forma poetica più eccelsa evoluta dal ditirambo, come insegna lo stesso Aristotele, e il ditirambo altro non è che quel canto corale dedicato a Dioniso e a celebrarne la nascita, al punto che Ditirambo (Διθύραμβος) sembra essere stato uno dei tanti nomi del dio (cfr. Kerényi [1976] 2021, 206-209, 281-282); se è plausibilmente vero che lo stesso vocabolo τραγῳδία significhi ‘canto per il premio di un capro’ o ‘canto per il sacrificio di un capro’, accezioni tra cui non vi è grande differenza, in quanto il capro vinto era sacrificato a Dioniso (cfr. Burkert 1966, 93-102), quantunque in senso contrario sia stato obiettato che questa “ortodossia” impostasi non ha basi troppo solide, giacché capri erano offerti in sacrificio anche a Pan, ad Apollo, alle Muse e ad Artemide, perciò il semplice termine τραγῳδία non autorizza a concludere che la tragedia abbia le sue origini nel culto, tanto meno esclusivamente in quello dionisiaco, bensì soltanto che qualche volta, da qualche parte un capro era messo in palio (cfr. Scullion 2002, 117-118); e se è vero che generalmente le rappresentazioni drammatiche avevano luogo ad Atene in occasione di festività dedicate a Dioniso, come le Lenee e le Grandi Dionisie, immediatamente consecutive alle Antesterie (cfr. Kerényi [1976] 2021, 270-295) e l’istituzionalizzazione degli agoni tragici da parte di Pisistrato nel 534 a.C. sembra essere stato un tentativo da parte dell’autorità cittadina di controllare, ridimensionandole, le manifestazioni corali religiose a favore di un culto di tipo civile (cfr. Magris 2015); pur tuttavia è altrettanto vero che “La ‘verità’ della tragedia non risiede in un oscuro passato più o meno ‘primitivo’ o ‘mistico’, e che continuerebbe ad abitare in segreto la scena del teatro; essa può decifrarsi da tutto ciò che la tragedia ha portato di nuovo e di originale sui tre piani in cui ha modificato l’orizzonte della cultura greca”, cioè sui piani delle istituzioni sociali, delle forme letterarie e dell’esperienza umana, perché la tragedia nel senso proprio del termine è stata un’invenzione, per la cui comprensione una rievocazione delle sue origini può aspirare solo a mettere in luce innovazioni e peculiarità da essa apportate in discontinuità e rottura con le pratiche religiose e le forme poetiche precedenti (Vernant, Vidal-Naquet [1986] 2001, 7-8).

Sebbene non sia intenzione di questo contributo impegnarsi nella vexata quaestio delle origini della tragedia a partire dai riti cultuali dionisiaci – una querelle che si potrebbe far risalire almeno allo scontro tra Nietzsche e Wilamowitz (i testi della polemica sono raccolti in lingua italiana in Serpa 1972) –, sembra comunque opportuno presentare la questione e le principali fonti che supportano la linea interpretativa qui adottata. Innanzitutto, da un punto di vista cronologico, i dati a disposizione non fanno troppa difficoltà: infatti, secondo le fonti del Marmor Parium (A 43 [ed. Jacoby 1904, 14]. Sul Marmor Parium vd. almeno il recente Rotsein 2016) e della Suda (vox: Θέσπις, θ 282 [Adler]), la cui attendibilità non è più messa in dubbio dagli studiosi (cfr. Cerri 1992, 306), la presentazione da parte di Tespi di una tragedia ad Atene fra gli anni 536/535 e 533/532 a.C., in occasione di quello che con tutta verosimiglianza era il primo concorso tragico ufficiale, avrebbe sancito una sorta di atto di nascita della tragedia. Eppure, come a ogni nascita precede una fase di gestazione, questo evento formale dovette essere preceduto da una fase più o meno lunga di sperimentazione progressiva e graduale. Tespi stesso soleva dapprima presentare delle mere recite sul suo carro itinerante durante le Dionisie rurali e, d’altra parte, il modello esplicativo del πρῶτος εὑρετής fa risalire addirittura a un tale Arione, in ambiente peloponnesiaco, segnatamente a Corinto, la paternità del ditirambo in onore di Dioniso e, indirettamente, dei cori tragici (cfr. Lanza 1992, 280-282. La fonte è Erodoto, I, 23-24). Quindi, tra le prime manifestazioni corali e l’effettiva esecuzione di una tragedia compiuta, composta da almeno due attori e un coro, deve essere intercorso un periodo di ‘prove ed errori’, durante il quale intervennero modifiche, alcuni tratti furono preservati integralmente ed altri ancora furono introdotti ex novo, di modo che il genere drammaturgico della tragedia, a cavallo tra la performance recitativa e la più sublime manifestazione poetica, potesse presentarsi come un’assoluta novità.

Su questa linea interpretativa ‘evoluzionistica’, la fonte principale di cui si dispone quanto ad autorevolezza ed attendibilità è senz’altro Aristotele. Infatti, nel capitolo 4 della Poetica lo Stagirita fornisce preziosissime informazioni circa la preistoria, ossia gli eventi concernenti la sua genesi a partire da manifestazioni corali e cultuali, e la protostoria, cioè il periodo di formazione e maturazione, del genere tragico:

γενομένη δ’ οὖν ἀπ’ ἀρχῆς αὐτοσχεδιαστικῆς καὶ αὐτὴ καὶ ἡ κωμῳδία, καὶ ἡ μὲν ἀπὸ τῶν ἐξαρχόντων τὸν διθύραμβον, ἡ δὲ ἀπὸ τῶν τὰ φαλλικὰ ἃ ἔτι καὶ νῦν ἐν πολλαῖς τῶν πόλεων διαμένει νομιζόμενα κατὰ μικρὸν ηὐξήθη προαγόντων ὅσον ἐγίγνετο φανερὸν αὐτῆς· καὶ πολλὰς μεταβολὰς μεταβαλοῦσα ἡ τραγῳδία ἐπαύσατο, ἐπεὶ ἔσχε τὴν αὑτῆς φύσιν. καὶ τό τε τῶν ὑποκριτῶν πλῆθος ἐξ ἑνὸς εἰς δύο πρῶτος Αἰσχύλος ἤγαγε καὶ τὰ τοῦ χοροῦ ἠλάττωσε καὶ τὸν λόγον πρωταγωνιστεῖν παρεσκεύασεν· τρεῖς δὲ καὶ σκηνογραφίαν Σοφοκλῆς. ἔτι δὲ τὸ μέγεθος· ἐκ μικρῶν μύθων καὶ λέξεως γελοίας διὰ τὸ ἐκ σατυρικοῦ μεταβαλεῖν ὀψὲ ἀπεσεμνύνθη, τό τε μέτρον ἐκ τετραμέτρου ἰαμβεῖον ἐγένετο. τὸ μὲν γὰρ πρῶτον τετραμέτρῳ ἐχρῶντο διὰ τὸ σατυρικὴν καὶ ὀρχηστικωτέραν εἶναι τὴν ποίησιν, λέξεως δὲ γενομένης αὐτὴ ἡ φύσις τὸ οἰκεῖον μέτρον εὗρε· μάλιστα γὰρ λεκτικὸν τῶν μέτρων τὸ ἰαμβεῖόν ἐστιν […]. ἔτι δὲ ἐπεισοδίων πλήθη. καὶ τὰ ἄλλ’ ὡς ἕκαστα κοσμηθῆναι λέγεται ἔστω ἡμῖν εἰρημένα· πολὺ γὰρ ἂν ἴσως ἔργον εἴη διεξιέναι καθ’ ἕκαστον (Arist. Po. 1449a9-31).

Dunque, una volta sorta da un principio di improvvisazione – sia essa [scil. la tragedia] sia la commedia, e cioè la prima da coloro che guidavano il ditirambo, la seconda da quelli che guidavano i cortei fallici, che pure ancora adesso continuano a essere in uso in molte città –, a poco a poco fu accresciuta, poiché i poeti sviluppavano quanto di essa diveniva manifesto; e dopo essersi trasformata attraverso molti mutamenti, la tragedia si fermò, allorché possedette la sua propria natura. Eschilo, per primo, portò il numero complessivo degli attori da uno a due e diminuì le parti del coro e predispose il discorso a essere protagonista; mentre Sofocle usò tre attori e introdusse la pittura della scena. Inoltre la grandezza: da piccoli racconti e un’elocuzione ridicola, in ragione del suo mutare a partire dal satiresco, dopo qualche tempo assunse una forma solenne, e il metro da tetrametro [trocaico] divenne [trimetro] giambico. Inizialmente, infatti, si usava il tetrametro, per il fatto che la poesia era di carattere satiresco e maggiormente atta alla danza, ma, una volta che [la poesia] divenne espressione parlata, la natura stessa trovò il verso appropriato: infatti, il giambo è il più colloquiale dei versi […]. E ancora i numeri complessivi degli episodi. E come ciascuna delle altre componenti si dice che venne ordinata, sia posto per noi ciò che è stato detto: spiegare ciascuna cosa in particolare, infatti, sarebbe probabilmente un lavoro troppo vasto.
(Dove non altrimenti indicato, le traduzioni sono di chi scrive).

Queste linee aristoteliche hanno da sempre attirato l’attenzione degli studiosi, i quali ne hanno fornito le interpretazioni più varie e differenti, focalizzandosi di volta in volta su un determinato passaggio piuttosto che su un altro. Per cominciare, non sembra azzardato dividere l’intero brano in due sottosezioni: la prima in cui, molto velocemente, Aristotele dà notizia di come la tragedia si sia originata ed abbia raggiunto la propria maturità compiuta (1449a9-15); nella seconda, invece, lo Stagirita ha cura di esporre quali siano state le innovazioni introdotte, chi ne fossero gli artefici e su quali aspetti della composizione intervenissero (1449a15-31).

Come ha osservato Diego Lanza, Aristotele si avvale di questa sorta di paradigma biologico per illustrare il graduale processo di formazione del genere tragico non tanto al fine di descriverne e comprenderne meglio le origini, quanto piuttosto di individuarne il compimento più maturo, così da poter studiare l’essenza di quella che ai suoi occhi è la più piena realizzazione della poesia in quanto tale. Già il solo lessico adoperato – con diverse forme verbali del verbo γίγνομαι, l’aoristo passivo del verbo αὐξάνω e le due celeberrime formule πολλὰς μεταβολὰς μεταβαλοῦσα e ἔσχε τὴν αὑτῆς φύσιν – è fortemente rivelatorio di come lo Stagirita miri principalmente a mettere a fuoco l’esito finale di questi avvicendamenti, il loro τέλος esprimibile in uno ὅρος τῆς οὐσίας della tragedia, senza indugiare troppo su di essi (cfr. Lanza 1983, 62-64).

Nondimeno, queste rapide allusioni consentono di poter dire qualcosa di più intorno alla nascita della tragedia. Sembrerebbe trattarsi di un processo di sviluppo a partire dai cortei ditirambici in onore di Dioniso, dal carattere manifestamente religioso, ma al contempo all’insegna del vino, dell’ebbrezza e della danza sfrenata, proprio per opera di coloro che li guidavano, in funzione verosimilmente di poeti-musici che ne curavano regia ed esecuzione (cfr. Del Grande 1952, 15-16). La connessione del ditirambo con Dioniso sembra potersi ricavare da un passo delle Leggi (III, 700b4-5) di Platone, dove l’Ateniese annovera tra i generi e le figure del canto “un altro, chiamato ditirambo, che riguardava, credo, la nascita di Dioniso (καὶ ἄλλο, Διονύσου γένεσις οἶμαι, διθύραμβος λεγόμενος – trad. it. di F. Ferrari e S. Poli)” e, ancor prima, dal fr. 120 West di Archiloco, che testualmente recita “come del signore Dioniso so intonare / il bel canto, il ditirambo, dopo esser stato fulminato nella mente dal vino (ὡς Διωνύσου ἄνακτος καλὸν ἐξάρξαι μέλος / οἶδα διθύραμβον οἴνωι συγκεραυνωθεὶς φρένας)”. Quindi, benché Aristotele non faccia esplicitamente il nome di Dioniso, in ragione del cominciamento ditirambico, è comunque supponibile una matrice dionisiaca della tragedia (cfr. Depew 2007, 126-131. Contra vd. almeno Else 1965, 12-14). Ciò che qui importa, però, è che man mano che i poeti ne sviluppavano i vari elementi, portandoli a perfezione, allorquando essi apparivano chiaramente definiti ed individuabili, la tragedia si ampliò nelle dimensioni – nella seconda sottosezione del passo si ritrova l’espressione ἔτι δὲ τὸ μέγεθος – fino a conseguire la sua perfetta natura, ovverosia la sua forma ed essenza (τὸ εἶδος καὶ ἡ οὐσία), che è anche il fine (τὸ τέλος) della generazione, secondo il principale dei modi di dire ‘natura’ di Metaph. Δ (4, 1015a10-11). Pertanto, se molti sono i mutamenti intervenuti in questo processo a partire dal principio autoschediastico, ciò significa che di per sé la tragedia è a tutti gli effetti qualcosa di nuovo e di diverso rispetto al suo preludio e che, pur collocandosi in continuità con esso, ne è distinta da iati e scarti.

Nella seconda sottosezione, infatti, sono elencati alcuni degli elementi di innovazione e rottura propri della tragedia. Prima di vederli nel dettaglio, tuttavia, è opportuno soffermarsi sulla differenza tra ditirambo e satyrikà, poiché Aristotele parrebbe suggerire che la tragedia si sia evoluta a partire da entrambi, indifferentemente, quando in realtà non sono la stessa cosa – lo Stagirita non userebbe due termini diversi altrimenti – né hanno lo stesso ruolo nella ontogenesi della tragedia. Innanzitutto, del ditirambo si dice che è principio e che è autoschediastico, invece del satiresco è dichiarato che è dotato di piccoli racconti, di un registro linguistico scherzoso e perfino di un metro suo proprio, cioè il tetrametro trocaico. Ora, se tutti questi sono elementi chiaramente identificabili e regolamentabili, è impossibile che appartengano anche al ditirambo, in quanto puramente improvvisato, e viceversa è impossibile che la poesia satiresca sia connotata esclusivamente dall’improvvisazione. Infine, dal fatto che la poesia satiresca è detta ‘maggiormente atta alla danza (ὀρχηστικωτέρα)’, è desumibile che venisse rappresentata in una sorta di dramma più leggero e brioso della tragedia. Escluso che ditirambo e satiresco siano la stessa cosa, dunque, per intendere l’espressione διὰ τὸ ἐκ σατυρικοῦ μεταβαλεῖν si aprono due possibilità: o la tragedia è mutata dal satiresco come tappa intermedia tra il ditirambo e la tragedia stessa, oppure la tragedia è mutata dal satiresco come genere drammaturgico a sé stante attraverso un processo di parallela differenziazione. Tuttavia, la prima delle vie ipotizzate sembrerebbe da scartare, poiché tragedia e dramma satiresco sono in realtà due generi poetici ben distinti tra loro che non possono aver conosciuto un processo di mutua trasformazione, bensì soltanto di reciproca distinzione: “essi sono cioè definibili in quanto generi sistemicamente sincroni, non geneticamente successivi l’una all’altro” (cfr. Lanza 1992, 288-289. Per una lettura alternativa, in base a cui il σατυρικόν di Aristotele sia invece una tappa intermedia tra ditirambo e tragedia matura, ma non sia comunque né il dramma satiresco né una prototragedia recitata da satiri, vd. Cipolla 2017).

Comunque stiano le cose, gli elementi in base a cui i due generi si differenziano tra loro sono tre, due rientrano nell’ambito della grandezza, mentre l’ultimo riguarda il metro. Propri del dramma satiresco, infatti, sembrano essere stati dei racconti brevi e un eloquio scherzoso e burlesco, invece la tragedia ἀπεσεμνύνθη, assunse una forma seria e solenne: se in questo unico verbo Aristotele intende convogliare i due aspetti per cui la tragedia si distingue dal satiresco, e questi sono sia la grandezza in senso stretto, cioè l’ampiezza compositiva e di riflesso recitativa, sia il tono dei dialoghi messi in scena, allora se ne può dedurre che il σεμνόν della tragedia consista sia in una maestosità quanto a dimensioni sia in una magnificenza quanto a stile espressivo. D’altra parte, anche il metro è dovuto mutare, anzi è stata la natura stessa a individuare nel trimetro giambico il verso più adeguato a riprodurre il parlato quotidiano, perché il ritmo del tetrametro trocaico è senza dubbio più adatto alla danza e al ballo. Serietà, solennità e metro giambico non sono dunque altro che elementi propri esclusivamente della tragedia, che ne contrassegnano il carattere di rottura e innovazione rispetto alle altre forme drammaturgiche (il dramma satiresco) e pre-drammaturgiche (il coro ditirambico).

Nel corso del processo di maturazione della tragedia, hanno avuto poi un ruolo determinante Eschilo e Sofocle, che Aristotele nomina esplicitamente. Primo fra tutti, Eschilo ebbe l’idea di introdurre un secondo attore che rispondesse sia al coro sia al primo attore e di ridurre le parti del coro, nel senso che all’interno dell’economia complessiva della composizione ridimensionò notevolmente gli stasimi cantati e ballati a favore di una maggiore ampiezza degli episodi, dove prevalgono una più sobria recitazione ed un dialogo più diretto. Infatti, la terza innovazione eschilea, che fa da contraltare al rimpicciolimento dei corali, è proprio quella di aver attribuito una funzione primaria e da protagonista al λόγος. Ma cosa significa esattamente far sì che il discorso sia protagonista? Non è forse la tragedia, innanzitutto, imitazione di un’azione seria e compiuta (μίμησις πράξεως σπουδαίας καὶ τελείας [Arist. Po. 6, 1449b24-25])? E se il parlare e il conversare fossero già di per se stessi un’azione, anzi proprio quell’azione che la tragedia mette in scena, che vuole imitare e tramite cui vuole imitare? In effetti, sulla scena di una tragedia non si vedono mai, o al più in casi più unici che rari, eventi forti, ma soltanto personaggi che conversano tra loro: l’intera azione è questo stesso dialogare e il discorso ha funzione performativa, cioè guida e dirige l’azione, che avviene in conformità al λόγος, oppure la comanda sic et simpliciter. Giovanni Cerri ha messo in evidenza, analizzando alcuni passi della Poetica di Aristotele e riscontrandone il corrispettivo pratico in diverse tragedie di Eschilo, Sofocle ed Euripide, come di fatto le loro tragedie siano ‘mimesi verbale di un evento verbale’, vale a dire messe in scena dei dialoghi problematici e tormentati degli eroi, quali momenti di riflessione e meditazione finalizzati a risolvere i conflitti interpersonali (o intrapersonali) venutisi a creare in conseguenza delle loro gesta fisiche. Queste ultime, invece, nella maggioranza dei casi costituiscono l’antefatto del dramma e sono ricordate nel prologo oppure, qualora si verifichino simultaneamente all’incontro dialogico in scena, sono poste come accadute fuori dalla scena, per essere poi riferite e raccontate da un personaggio in veste di messaggero. In questa prospettiva, il λόγος stesso operante nella tragedia assume una funzione preminente rispetto alla pura gestualità effettivamente visibile, che al λόγος è quasi sempre subordinata (cfr. Cerri 2015, 85-88, 92-94). Per dirla in breve, e con Aristotele, il discorso è protagonista. Non va dimenticato, infine, che secondo la Vita di Eschilo (Vit. Aesch. 14 = T 1, 53-55 Radt) sarebbe stato proprio lui a costruire per primo una scena.

Le innovazioni apportate da Sofocle, benché consentano alla tragedia di raggiungere la sua perfezione, sono ricordate lapidariamente dallo Stagirita – l’assenza di un verbo esplicito e di specifiche determinazioni nella proposizione in questione rammenta anche che si è qui di fronte a uno scritto acroamatico, cioè ad annotazioni di ricerca funzionali alle lezioni, ma non pensate per una ‘pubblicazione’ definitiva – e riguardano l’impiego in scena di tre attori oltre al coro e l’uso della pittura di scena. Da ciò si può arguire che, prima di Sofocle, la scena o era costituita da uno sfondo bianco, o semplicemente disegnato in bianco e nero, o era del tutto assente.

Infine, il numero degli episodi: Aristotele non dice altro al riguardo, menzionandoli soltanto. Plausibilmente era cosa ormai evidente, sia a lui sia ai suoi uditori, che una tragedia compiuta fosse costituita dal prologo, un discorso preliminare in forma monologica o dialogica avente la funzione di un resoconto per il pubblico della situazione che innesca la vicenda drammatica, una parodo, ossia il canto del coro mentre fa il suo ingresso in scena, il primo episodio, la prima azione scenica successiva all’ingresso del coro in cui si assiste alla recitazione degli attori, il primo stasimo, cioè il primo canto del coro dopo che si è collocato stabilmente nell’orchestra, un alternarsi di episodi e stasimi in numero variabile da tragedia a tragedia, fino a concludersi con l’esodo (ultimo canto corale) e l’epilogo (cfr. Cerri 1992, 302-303). In effetti, al capitolo 12 della Poetica, è spiegato che le parti della tragedia secondo la quantità, cioè nella quali essa si divide (κατὰ δὲ τὸ ποσὸν καὶ εἰς ἅ διαιρεῖται – leggo il καί come epesegetico), sono prologo, episodio, esodo, canto corale e, di questo, si possono distinguere inoltre parodo e stasimo: queste sono comuni a tutte le tragedie (1452b14-18); invece, le parti di cui ci si serve come forme o specie (ὡς εἴδεσι – Lanza traduce “come di elementi”) sono quelle già enucleate in precedenza, cioè racconto, caratteri, linguaggio, pensiero, vista e musica (Po. 6, 1450a7-10).

All’apparenza poco significativa, infine, la chiusa dell’intero passo aristotelico è di grandissima importanza per comprendere le intenzioni dello Stagirita soggiacenti a questi accenni di carattere storico. In effetti, il λέγεται di 1449a30 lascia intendere che, sul processo di perfezionamento di ogni elemento costitutivo della tragedia matura, Aristotele avesse sì a disposizione una buona base documentaria, ma comunque non fosse sua premura re-inventariare punto per punto tutte le trasformazioni occorse sin dalle origini in un’opera come la Poetica, il cui obiettivo è di fornire un esame scientifico delle funzioni dell’arte poetica, delle sue varie forme (soprattutto della sua forma più elevata, la tragedia appunto) e delle regole compositive proprie di ciascuna, il che è dichiarato proprio in apertura dell’opera (1447a8-13). Di conseguenza, sviscerare lo sviluppo di ogni singolo elemento in particolare sarebbe stato senz’altro per lui un πολὺ ἔργον, un lavoro eccessivo, troppo vasto (cfr. almeno Cerri 1992, 308-309).

Dalla sintesi che Aristotele propone si ricava perciò che la tragedia è ben altra cosa rispetto al suo cominciamento, il ditirambo dionisiaco, essendo connotata da numerosi elementi di novità, di originalità e, quindi, di rottura, pur in una continuità evolutiva. D’altronde, che non vi sia motivo di dubitare della affidabilità di queste direttrici per una ricostruzione storica, sembra confermato da quanto si legge all’inizio del capitolo 5 della Poetica:

αἱ μὲν οὖν τῆς τραγῳδίας μεταβάσεις καὶ δι’ ὧν ἐγένοντο οὐ λελήθασιν, ἡ δὲ κωμῳδία διὰ τὸ μὴ σπουδάζεσθαι ἐξ ἀρχῆς ἔλαθεν· καὶ γὰρ χορὸν κωμῳδῶν ὀψέ ποτε ὁ ἄρχων ἔδωκεν, ἀλλ’ ἐθελονταὶ ἦσαν. ἤδη δὲ σχήματά τινα αὐτῆς ἐχούσης οἱ λεγόμενοι αὐτῆς ποιηταὶ μνημονεύονται. τίς δὲ πρόσωπα ἀπέδωκεν ἢ προλόγους ἢ πλήθη ὑποκριτῶν καὶ ὅσα τοιαῦτα, ἠγνόηται [Arist. Po. 5, 1449a37-b5].

Mentre dunque le trasformazioni della tragedia e i mezzi tramite cui si verificarono non sono rimaste ignote, la commedia invece resta ignota a causa del fatto che non è presa sul serio sin dall’inizio: e infatti l’arconte concesse molto tardi il coro dei comici, al contrario essi erano volontari. E i suoi cosiddetti poeti sono ricordati quando essa possedeva già certe forme determinate. Chi, però, presentò maschere o prologhi o numeri complessivi di attori e quante [altre] cose di tal genere, è rimasto sconosciuto.
 

Se ci sono delle informazioni ben note ad Aristotele e ai suoi ascoltatori, quindi, sono proprio quelle riguardanti il processo di sviluppo del genere tragico, con le diverse modificazioni occorse e le circostanze che le hanno rese possibili. Non altrettanto lo Stagirita può dire a proposito della commedia: la formula ‘concedere il coro’ è un’espressione per indicare il riconoscimento ufficiale come genere poetico – difatti, σπουδάζεσθαι, ‘essere presa sul serio’, sembra essere opposto a παίζειν, ‘fare per gioco o scherzo’ (vd. il commento ad loc. di Lucas, 89) – e l’ammissione al concorso drammatico. Se la data della prima istituzionalizzazione di un agone comico è il 486-5 a.C., mentre quella del primo agone tragico è tra il 536 e il 532 a.C., ciò significa che Aristotele non poteva disporre di testi comici anteriori a quella data o perché non esistevano più o perché non erano mai esistiti (va ricordato che per lui un dramma era fruibile di per sé innanzitutto come testo scritto: cfr. Lanza 1992, 284-285). Sicché, è naturale che egli non possieda traccia dell’evoluzione della commedia e dica di conoscere coloro che ne curarono la composizione soltanto dopo che essa avesse già raggiunto delle forme caratteristiche ben definite, ma di non avere testimonianza intorno a coloro che ne introdussero e definirono gli elementi costitutivi, come le maschere, il prologo e il numero degli attori.
Cose note riguardanti la tragedia, dunque, cose ignote riguardanti la commedia; ma nel complesso poche cose. Come si accennava, del resto, la finalità della Poetica non è di comprendere la tragedia, e il dramma in generale, a partire dalle origini, bensì unicamente a partire da e in virtù di sé stessa. Quindi, se ad Aristotele si può accordare una discreta dose di fiducia – sebbene la sua ricostruzione sia prevalentemente speculativa, come si è più volte ricordato, e non abbia intenzioni effettivamente storiche –, tanto vale seguirlo nel suo invito a non fare della “questione delle origini” il problema centrale di un’indagine sulla tragedia, a non considerare il legame con il ditirambo e il culto dionisiaco come il fattore esplicativo in grado di restituire pienamente l’essenza del tragico. Tutt’al più, se ci si vuole cimentare con una ricostruzione storica, bisognerebbe concentrarsi sugli elementi di trasformazione, innovazione e rottura apportati dalla tragedia all’interno del mondo ateniese e greco rispetto alle precedenti manifestazioni di ordine sì religioso, ma anche e forse soprattutto politico-sociale e letterario.

II. Panoramica sui loci dell’οὐδὲν πρὸς τὸν Διόνυσον

All’interno di un quadro teorico siffatto, fra le altre testimonianze antiche sulla tragedia che meglio si accordano con questa impostazione ermeneutica, ci sono quelle in cui si ritrova il proverbio οὐδὲν πρὸς τὸν Διόνυσον (“nulla a che fare con Dioniso”). Come si diceva, si tratta di un noto modo di dire volto a rimarcare inadeguatezza e non pertinenza rispetto a una determinata situazione, che nel panorama della letteratura è ripreso nei contesti più disparati, dalla paremiografia alla filosofia, dalla storia alla narrativa amorosa. Solo in certi casi è però esplicitato il suo legame con le rappresentazioni drammatiche. In Appendice si propone un resoconto completo delle occorrenze, cercando di restituirle all’interno del loro contesto più ampio e così suddivise:

A) T1-T10 Testimonianze sul detto Οὐδὲν πρὸς τὸν Διόνυσον con collegamenti espliciti con il genere tragico
B) T11-T16 Testimonianze sul detto Οὐδὲν πρὸς τὸν Διόνυσον in altri contesti

Nel novero delle testimonianze che manifestamente collegano il detto alla tragedia o alla commedia, oppure a entrambi i generi, tutte sono concordi nell’attestare la nascita del detto in relazione a rappresentazioni di contenuto non dionisiaco. Tutte fuorché una, quella olimpiodorea. Prima di spiegare il perché di questa anomalia, è bene soffermarsi su ciò che dal complesso di queste fonti si ricava a proposito del processo evolutivo della tragedia.
Una buona parte delle fonti [T 3, 7, 8, 10], quelle più strettamente paremiografiche, dapprima collegano l’origine del proverbio a una rappresentazione di Epigene di Sicione (VI-V sec. a.C.) che, pur proponendosi di essere in onore di Dioniso, non sembra aver avuto come oggetto le vicende del dio. Tuttavia, questo non è ritenuto un resoconto soddisfacente e, come spiegazione migliore, è addotto il distacco tra rappresentazioni tragiche e satyrikà, che sicuramente erano composti per il dio: i poeti propriamente tragici presentarono nelle loro produzioni racconti tratti dal più ampio patrimonio mitologico, di volta in volta opportunamente rimodulate e rimodellate, oppure prendendo spunto da accadimenti reali (ad es. si potrebbero ricordare l’insuccesso di Frinico con La presa di Mileto e il successo di Eschilo con i Persiani). In effetti, è stato ampiamente mostrato che il reale termine di paragone della tragedia non sia tanto il ditirambo, quanto piuttosto l’epos e il nucleo mitico che esso propone in forma di narrazione statica ed immutabile (cfr. almeno Cerri 1992, 312-319, e Centanni [2003] 2013, XXVII-XXX e XLVII-L). In breve, è possibile dire che il teatro, e il genere drammaturgico della tragedia in particolare, attingono sì a un repertorio mitico fisso come pretesto narrativo, ma ne riplasmano totalmente la materia sotto diversi aspetti: introducendo situazioni sceniche e scambi dialogici del tutto immaginati e originali, perché non offerti dalla tradizione (in ciò risiede anche l’aspettativa dello spettatore per l’impostazione nuova di racconti già noti); reinterpretando e rivalutando il mito stesso; facendo emergere in maniera più netta il contrasto dialettico fra i punti di vista inconciliabili dei personaggi; ponendo l’accento non sull’impresa eroica (gli ἔργα), ma sulla sventura e i patimenti (i πάθη) dell’eroe; lasciando il fruitore sospeso in una assoluta relatività di giudizio e, quindi, lasciandolo libero di formarsi un suo giudizio; proponendo una narrazione drammaticamente unitaria, quanto a azione, tempo e luogo, che abbia un suo inizio, un suo svolgimento e una sua fine. Ora, poiché da un repertorio siffatto non sono necessariamente ed unicamente estrapolabili rappresentazioni che riguardino le vicende e i patimenti di Dioniso – anzi, attraverso una disamina delle occorrenze dei nomi delle divinità del pantheon greco nelle tragedie superstiti, è stato mostrato che Dioniso riceve delle menzioni quantitativamente di gran lunga inferiori rispetto agli altri dèi (una in Eschilo, a fronte delle 174 di Zeus o 18 di Apollo; 7 in Sofocle, a fronte delle 114 di Zeus o 46 di Apollo; 20 in Euripide, a fronte delle 163 e più di Zeus o 142 di Apollo: cfr. Scullion 2002, 110-112) e, sempre fra le tragedie superstiti, l’unica dichiaratamente dedicata a Dioniso e a eroi del suo mito sono le Baccanti di Euripide –, non sorprende affatto come questo modo di dire abbia avuto i suoi esordi, a significare sia la radicale cesura della rappresentazione tragica rispetto ai suoi prodromi cultuali sia, con tutta probabilità, una protesta di indignazione da parte della percezione comune. Il rimando a un’opera sulla figura di Tespi attribuita a Cameleonte (un peripatetico vissuto tra IV e III sec. a.C.), dove era possibile rinvenire un’analoga giustificazione del proverbio, sembrerebbe inoltre suggerire che questa considerazione del dramma tragico si fosse imposta sicuramente sin dal tramonto dell’età classica. Infine, ma ciò è qui marginale, un’ulteriore giustificazione fa risalire la formazione del detto a un aneddoto contenuto in uno scritto sui proverbi di un tale Teeteto – verosimilmente non si tratta del celeberrimo matematico di IV sec. a.C., allievo di Teodoro di Cirene e di Platone, e presente in diversi dialoghi della maturità di quest’ultimo –, aneddoto secondo cui il pittore Parrasio (V-IV sec. a.C.), in occasione di una competizione tenutasi a Corinto, avrebbe dipinto un Dioniso talmente bello e perfetto da risultare inadeguato e inopportuno rispetto alla concezione collettiva del dio, provocando così la disapprovazione del pubblico.

Nel gruppo di testi appena analizzati è riscontrabile la medesima struttura di base, sicché sembra ipotizzabile o la presenza di una stessa fonte, uguale per tutti ma non pervenuta, o una riproposizione quasi meccanica a partire dalla più antica. Il senso che se ne ricava, comunque, è che il detto fosse richiamato ogniqualvolta ci si trovasse di fronte a un contenuto non pertinente ed estraneo al soggetto indicato. Per ciò che concerne gli accenni al rapporto tragedia-Dioniso, questo in realtà sembra essere stato reciso dagli autori tragici maturi, che avrebbero abbandonato il repertorio mitologico proprio del dio per ampliare i loro orizzonti verso il patrimonio dei mitologemi nella sua globalità o a fatti storici concretamente accaduti.

In Diogeniano [T 4] tutto ciò è espresso con la massima concisione: dapprima i poeti avevano come oggetto delle loro composizioni le vicende riguardanti Dioniso, ma in seguito abbandonarono questa materia per dedicarsi ad altro. Perciò coloro che effettivamente erano fedeli alle matrici cultuali dionisiache – non è desumibile se si trattasse degli autori di ditirambi, di satyrikà o addirittura di entrambi, quantunque sembri certo che anche gli attori tragici e comici avessero aderito a corporazioni professionali organizzate, chiamandosi ‘artisti di Dioniso’ – τεχνῖται τοῦ Διονύσου oppure περὶ τὸν Διόνυσον (cfr. Cerri 1992, 310-311) – pronunciarono questa sentenza verso le nuove rappresentazioni tragiche.

Sempre con la medesima brevità, il Paroemiographus Coislinianus [T 9] trasmette invece soltanto la vicenda di Epigene di Sicione che, non avendo composto un’opera riguardante i fatti di Dioniso, fu biasimato dal pubblico. Non si parla però specificamente di tragedia, ma in generale di poesia (ποίησις), e si dice che essa trasse il suo inizio dal ditirambo e trattò appunto di temi dionisiaci.

La testimonianza di Elio Aristide [T 5] è alquanto sui generis, sia perché è inserita in un contesto ostile alla composizione e rappresentazione di commedie sia perché allarga l’applicazione del proverbio pure a queste, non solo alla tragedia. L’avversione polemica di Aristide contro la commedia si deve al fatto che, a suo dire, questa forma drammaturgica, con i comportamenti frivoli e licenziosi dei suoi personaggi, incoraggerebbe la corruzione dei costumi e del buon senso, istruendo a essere viziosi e meschini. Poiché anche le commedie, ai suoi occhi, avrebbero perso la loro originaria funzione religioso-cultuale, non v’è motivo per continuare a redigerle e metterle in scena, essendo sciocchezze che non hanno più nulla di commemorativo riguardante Dioniso.

Nel passo tratto dall’Epitome di Zenobio [T 1] la nascita del proverbio è sempre messa in rapporto al divario tra le composizioni tragiche, dal contenuto mitico più disparato (sono menzionati come esempi i drammi incentrati sulla vicenda di Aiace e quelli intitolati ai Centauri), e i cori ditirambici consacrati a Dioniso. Anzi, parrebbe quasi suggerire che i cori presenti nella tragedia siano derivati proprio da quelli manifestamente religiosi, ma avessero tradíto il senso e il significato di questa pratica d’uso. Di fronte a rappresentazioni del genere, stando a Zenobio, il pubblico astante avrebbe sollevato il grido in segno di beffa e protesta. Proprio per non dare più adito a siffatti rimproveri, i poeti tragici avrebbero introdotto il dramma satiresco, benché non sia chiaro se qui si alluda alla formazione delle tetralogie composte da tre tragedie più un dramma satiresco o all’istituzione di un solo dramma satiresco in apertura dell’intero agone tragico. In effetti, προεισάγειν non significa semplicemente ‘introdurre’, ma ‘introdurre prima’; perciò, la testimonianza di Zenobio potrebbe voler dire altresì che il dramma satiresco fosse messo in scena prima della trilogia di tragedie, e non dopo come ormai è stato indiscutibilmente mostrato dagli studiosi del teatro antico (cfr. ad es Easterling [1997] 2003, 37-44). A ogni modo, se questa remota evenienza corrisponde alla lettura corretta del brano, allora ὕστερον è da intendersi come semplice avverbio temporale a sé stante e da leggere genericamente con ‘successivamente’, sì che la resa complessiva del periodo risulti “di certo, appunto, a causa di ciò ritennero successivamente di anteporre a queste rappresentazioni i drammi satireschi, per non sembrare di essersi dimenticati del dio” (cfr. Pickard-Cambridge 1927, 162. Sul fatto che nel IV secolo a.C. il dramma satiresco era effettivamente rappresentato prima delle tragedie vd. Carrara 2024, 160-163).

Infine, non bisogna trascurare le due testimonianze plutarchee [T 2a e 2b]. La prima, tratta dalle Quaestiones Convivales, contiene un inciso assai importante sull’innovazione apportata da Frinico ed Eschilo, che avrebbero messo in scena come soggetto delle rappresentazioni tragiche le narrazioni mitologiche e i tribolamenti passionali degli eroi protagonisti; non v’è menzione dei cori ditirambici, pur tuttavia è proprio con questa novità che è collegato il proverbio. Il sintagma è inserito all’interno di un discorso prescrittivo circa le buone abitudini e i comportamenti da adottare ai simposi ed è rivolto in particolare agli intellettuali con velleità filosofiche, più o meno fondate, che, durante i banchetti, noncuranti del fatto che fra i partecipanti possano esserci individui non avvezzi a siffatte discussioni, si impelagano in discettazioni raffinate e capziose come l’argomento megarico del ‘dominatore’. Proprio a costoro Plutarco vorrebbe far notare, rimproverandoli, che tutto ciò non è per nulla consono a occorrenze conviviali, perché offensivo nei confronti di Dioniso, divinità cui sono dedicate. Emerge nuovamente l’accusa di inadeguatezza e non pertinenza, ma da questo primo passo, per ciò che concerne le rappresentazioni tragiche, si può ricavare come le tragedie di Frinico ed Eschilo, avendo assunto come loro soggetto contenuti tratti dal più ampio repertorio mitico o da fatti storici, abbiano segnato un effettivo strappo del dramma rispetto al rito e perciò, alla stregua dei filosofastri ai simposi, abbiano leso la dignità del dio.

Nella seconda testimonianza plutarchea, un frammento di un’opera sui proverbi in uso presso gli Alessandrini pervenuta in condizioni lacunose, è invece offerta una spiegazione dettagliata – forse, entro certi limiti, pure conciliabile con quella aristotelica – delle origini della tragedia a partire dai cortei che si tenevano in occasione delle Dionisie rurali. Durante le vendemmie gli abitanti dei villaggi dell’Attica erano soliti recarsi ai torchi per la pigiatura dell’uva, in uno stato d’ebbrezza più o meno accentuato, cantando e scherzando. Proprio perché inizialmente queste manifestazioni erano in uso nei villaggi (ἐν κώμαις), quando le composizioni giocose furono messe per iscritto, presero il nome di ‘commedia’ (κωμῳδία). A differenza di Aristotele, dunque, non è fatta menzione di ditirambi o φαλλικά, ma in modo più generico la commedia trae le sue origini da queste espressioni corali. Plutarco informa inoltre del fatto che, quando si iniziò a usare il gesso come mascheramento per il volto, le frequentazioni di queste occorrenze diventarono ancor più assidue e continue. A coronamento del processo, la tragedia ebbe luogo allorquando vennero inseriti degli elementi e delle parti propriamente tragici, e le composizioni assunsero un tono più serio e austero. Se il termine αὐστηρότερον ricorda indubbiamente l’ἀπεσεμνύνθη incontrato nella Poetica, tuttavia qui il pervenire a compimento della tragedia è messo in relazione con un suo sviluppo a partire dalla commedia, o dalle prime forme ancora grossolane di commedia, e non con un suo distinguersi dai satyrikà. Complessivamente quindi, come si dice in apertura del brano, soprattutto la tragedia, ma anche per certi versi la commedia, abbandonarono un originario carattere giocoso e scanzonato per volgersi alla rappresentazione di fatti di vita, e forse un antecedente di questa concezione si può ritrovare in Arist. Po. 6, 1450a16-17, dove è detto che la tragedia è imitazione non di uomini, bensì di azioni e di un modo di vita (ἡ γὰρ τραγῳδία μίμησίς ἐστιν οὐκ ἀνθρώπων ἀλλὰ πράξεων καὶ βίου). Infine, per quanto il testo sia irrimediabilmente corrotto, un breve accenno merita la derisione del capro, considerato nemico di Dioniso: Kerényi ha infatti ragionevolmente argomentato in favore di una sorta di evoluzione dalle Antesterie alle Grandi Dionisie, almeno in un loro primo stadio, che procedette parallelamente all’introduzione di un capro quale vittima espiatoria per il raccolto dell’uva, giacché le capre, quando erano lasciate libere in un vigneto, erano solite divorare i tralci di vite (Kerényi [1976] 2021, 233-234, 292-296). Se il capro è un doppio di Dioniso, così come lo è anche la vite, questo sacrificio intendeva espiare una colpa nei confronti del dio (la raccolta dell’uva) attraverso il dio stesso (il capro), che è se stesso e contemporaneamente il suo nemico. In ogni caso, anche nella testimonianza plutarchea l’elemento religioso-cultuale sembra essere posto in secondo piano, quasi a voler sì ricordare le origini degli agoni comici e tragici, ma comunque senza darvi troppo peso, evidenziando anzi la distanza che intercorre tra i due poli: da riso e derisione (con sacrificio?) di un capro a fatti di vita, elementi tragici e carattere più austero e solenne.

Tutte le fonti passate al vaglio finora presentano una giustificazione del proverbio οὐδὲν πρὸς τὸν Διόνυσον che ne fa risalire la nascita agli elementi nuovi e innovativi apportati dai tragediografi (Tespi, Frinico, Eschilo, Sofocle) agli originari cori ditirambici in onore di Dioniso. Proprio queste modernizzazioni, però, sanciscono in realtà una radicale cesura tra le rappresentazioni tragiche e le manifestazioni corali agli occhi del pubblico contemporaneo, non solo per quanto riguarda la forma, ma anche rispetto ai contenuti, sicché la tragedia si configura come un fenomeno totalmente svincolato da qualsivoglia componente rituale. Come si accennava, l’unica che sembra stridere con le altre è quella olimpiodorea [T 6], in quanto lì il detto è ripreso non per supportare questa concezione comune, bensì per essere criticato e rigettato. Una lettura poco attenta di questo brano potrebbe lasciar pensare che ci fossero visioni alternative del fenomeno tragico, sostenute da certi fautori di una persistenza dell’elemento religioso-cultuale nella tragedia, quindi merita un’analisi a sé stante.

III. L’anomalia olimpiodorea

Olimpiodoro di Alessandria è un filosofo neoplatonico di VI sec. d.C. (495/505-post 565 d.C.), allievo diretto di Ammonio figlio di Ermia, il maestro più illustre della Scuola neoplatonica di Alessandria, e probabilmente suo successore alla guida di questa istituzione. Delle sue opere ci sono pervenuti i commentari alle Categorie e ai Meteorologica di Aristotele e ad Alcibiade I, Gorgia e Fedone di Platone. Sotto il profilo teoretico, i suoi scritti si mostrano sicuramente inferiori a quelli di Proclo per imponenza speculativa o a quelli di Damascio per sottigliezza dialettica, il che ha indotto per lungo tempo gli studiosi a sottostimarne l’importanza. Tuttavia, pur essendo vero che, in ambito metafisico-ontologico, Olimpiodoro non abbia apportato innovazioni rilevanti – si fa portavoce di una dottrina neoplatonica standardizzata, in cui l’Uno-Bene figura come principio primo, immediatamente seguito dalle tre ipostasi intelligibili di Essere, Vita e Intelletto, poi dai tre livelli intellettivi di Crono, una non meglio specificata divinità vivificante e Zeus demiurgico, e angeli, demoni ed eroi in chiusura –, egli si presenta come un maestro particolarmente sensibile alle questioni di natura etica e attento ai contesti drammatici dei dialoghi, un solerte pedagogo affinché i suoi studenti comprendano saldamente i più importanti cardini dottrinali (le frequenti semplificazioni e ripetizioni nei suoi testi si spiegano in ragione della circostanza didattica di redazione) e uno strenuo difensore della paideia classica e della filosofia greca, senza però mettere da parte la dovuta cautela per un pensatore pagano in un ambiente cristiano. Da qui la rivalutata attenzione di cui ha goduto la sua produzione negli ultimi 20-30 anni (cfr. almeno Westerink 1976, 20-27; Opsomer 2010, 697-705; Gertz 2011, 8-11).

All’interno del cursus studiorum neoplatonico, il Fedone si colloca all’interno del secondo ciclo di letture, i cosiddetti grandi misteri, incentrati sullo studio di alcuni dialoghi platonici scelti e culminanti nel Parmenide (i piccoli consistono nella lettura di opere aristoteliche selezionate, al cui apice si ha la Metafisica). In particolare, il Fedone segue l’Alcibiade I e il Gorgia in veste di grande dialogo etico concernente le virtù catartiche e il percorso di purificazione dell’anima dal corpo, dato che i primi due istruiscono rispettivamente circa la conoscenza di sé come presupposto di ogni indagine autenticamente filosofica e circa le virtù socio-politiche e la moderazione delle passioni (cfr. Anonym. Proleg. Plat. Phil. X, 26.18-27, e Festugière 1969).

Dell’In Phaedonem di Olimpiodoro ci sono pervenute soltanto 13 delle 50 πράξεις (le lezioni giornaliere) di cui doveva constare originariamente e risultano altresì perdute sia l’introduzione generale all’opera sia una serie di 2 o 5 letture tra la 12 e la 13 (cfr. Westerink 1976, 25, 27-28; Giardina 2015, 494-495). Il commento suddivide il testo platonico in tre grandi τμήματα (sezioni) concernenti il tema della morte, a sua volta articolato in due sotto-problemi (il suicidio e il desiderio di morte da parte del filosofo), i cinque argomenti in favore dell’immortalità e il grande mito escatologico conclusivo. Ciascuna lettura è poi rigidamente ripartita in θεωρία, ossia la spiegazione teorica sistematica del passo in esame, e λέξις, cioè il chiarimento delle singole frasi o parole, che spesso altro non è che una reiterazione di ciò che è stato detto nell’esposizione generale (sulla struttura dei commentari neoplatonici, di cui in Olimpiodoro si osserva più che negli altri l’inflessibilità, vd. almeno Festugière 1963, Romano 1983b e Romano 1994). Dal punto di vista contenutistico, l’opera olimpiodorea in genere segue pedissequamente il perduto In Phaedonem di Proclo, non mancando però di apportare alcuni elementi originali (come i quattro argomenti che riconoscono la liceità del suicidio in alcune circostanze – In Phd. 1.8) oppure di preferire la proposta ermeneutica di Damascio (sul fatto che i corpi celesti hanno tutti e cinque i sensi – In Phd. 4.10 – e sul fatto che Platone in Phd. 68d2-69a5 ha omesso la giustizia perché in realtà essa riguarda tutte e tre le parti dell’anima e è presupposta dalle altre virtù – In Phd. 8.9).

Ora, il passaggio in cui è ripreso il detto οὐδὲν ταῦτα πρὸς τὸν Διόνυσον si ritrova nella prima sezione, quella sulla morte (sul concetto di morte nel commentario olimpiodoreo, la sua funzione catartica e anagogica verso gli intelligibili e, tramite il bello presente fra questi, l’anelito di unificazione con l’uno che produce, vd. Giardina 2015), segnatamente in uno dei due argomenti miranti a stabilire che non ci si deve suicidare (ὅτι οὐ δεῖ ἐξάγειν ἑαυτοῦς [In Phd. 1.3.1-2]). Si tratta del cosiddetto argomento mitico (τὸ μυθικὸν ἐπιχείρημα), che secondo i Neoplatonici anticipa l’argomento propriamente filosofico e dialettico (τὸ δὲ διαλεκτικὸν καὶ φιλόσοφον [In Phd. 1.3.3 e 1.7.1] – in generale, sui due argomenti in Olimpiodoro vd. almeno Gertz 2011, 40-45). Nella lettera del Fedone, le parole che offrono lo spunto ai Commentatori per un discorso di tipo mitico e mistico sono quelle che Socrate pronuncia a proposito del motivo per cui non bisogna suicidarsi, cioè il fatto che noi uomini siamo come in una sorta di custodia divina (ὡς ἔν τινι φρουρᾷ ἐσμεν οἱ ἄνθρωποι): si tratta di un discorso pronunciato “nei misteri” (ἐν ἀπορρήτοις), “profondo” (μέγας) e “non facile a comprendersi” (οὐ ῥᾴδιος διιδεῖν [Plat. Phd. 62b3 e b4-5.]). Olimpiodoro chiarisce che Socrate, per mostrare il carattere ineffabile del mito, non aggiunge nulla più oltre all’accenno alla custodia, sicché i commentatori (verosimilmente Siriano e Proclo) si trovano costretti a integrarlo da fonti esterne (ἔξωθεν), rinvenendolo specificamente in Orfeo (παρὰ τῷ Ὀρφεῖ [In Phd. 1.3.3 e 1.4.1-3; si cfr. la nota di Westerink ad 1.4.2, pagina 42]). D’altra parte, nel parallelo commentario neoplatonico al Fedone, Damascio spiega che i lemmi platonici indicano una ragione che non è facile da scoprire e “afferrabile con una sola mano” (μὴ εὐφώρατον εἶναι καὶ τῇ ἑτέρᾳ ληπτόν [In Phd. I, 1.3-4] – il modello della locuzione τῇ ἑτέρᾳ ληπτόν sembra da individuarsi in Plat. Soph. 226a7, dove è riferita alla “belva multiforme” (τὸ ποικίλον θηρίον) del sofista, della cui definizione lo Straniero di Elea e Teeteto, conversando, sono “a caccia”), perché Platone riferisce il simbolo del precetto (τὸ σύμβολον ἱστορεῖ τοῦ παραγγέλματος), cioè del divieto del suicidio, non esponendo esplicitamente quale ne sia la natura – cosa non lecita –, ma dicendo soltanto che è stato trasmesso in modo mistico-misterico (ὅτι παρήγγελται μυστικῶς [In Phd. I, 15.5-7]).
Se le delucidazioni olimpiodoree, rinviando direttamente a Orfeo, sembrano più semplici e didattiche, mentre quelle damasciane, introducendo il concetto di simbolo, si presentano teoreticamente e tecnicamente più complesse, è comunque possibile individuare il loro accordo di fondo tenendo presente ciò che al capitolo 4 del primo libro della Teologia Platonica procliana è detto a proposito di uno dei quattro modi di insegnamento teologico in Platone, segnatamente quello simbolico (gli altri sono quello attraverso immagini, quello divinamente ispirato e quello secondo scienza e dimostrazione):

Ἐστι δὲ ὁ μὲν διὰ τῶν συμβόλῶν τὰ θεῖα μηνύειν ἐφιέμενος Ὀρφικὸς καὶ ὅλως τοῖς τὰς θεομυθίας γράφουσιν οἰκεῖος [Procl. Theol. Plat. I, 4, 20.6-7]

Il modo che mira a rivelare le realtà divine attraverso i simboli è quello di Orfeo e, in generale, è proprio a coloro che scrivono le teologie mitiche

Quindi se è proprio di Orfeo, ma anche di Omero ed Esiodo (costoro, infatti, scrissero teologie e teogonie sotto forma di racconti mitologici), annunciare cose riguardanti gli dèi in maniera simbolica, non fa troppa differenza richiamare direttamente i poemi orfici oppure riferirsi più sottilmente a una forma di insegnamento mistico-simbolica, fuorché appunto sotto il profilo della sottigliezza e della profondità della discussione stessa.
Ovviamente, i poemi orfici a disposizione dei Neoplatonici non erano opera del personaggio semi-mitologico di Orfeo, ma risultano composti a cavallo tra I e II secc. d.C. (o comunque non dopo la seconda metà del II) e, poiché in questa produzione spuria confluiscono tracce di stoicismo, neopitagorismo e medioplatonismo, non sorprende che i Neoplatonici vi ritrovassero una prefigurazione del loro sistema. Se Proclo sembra conoscere soltanto i Discorsi Sacri in 24 Rapsodie (Ἱεροὶ λόγοι ἐν ῥαψωιδίαις κδ´), alle quali tra l’altro sembra preferire gli Oracoli Caldaici – da qui l’attrito con Domnino di Larissa, estimatore dei poemi orfici, quando Siriano chiese loro di fare l’esegesi sia delle Rapsodie che degli Oracoli –, Damascio fa mostra di utilizzare anche una seconda edizione curata da Ieronimo ed Ellanico e addirittura una terza attribuita a un tale “Eudemo il Peripatetico” (è però inverosimile che si tratti del discepolo di Aristotele, Eudemo di Rodi; cfr. Brisson 1987, 48-53, e Brisson 1991, 168-170 e 195-202. Sulle due teogonie, quella attribuita a Eudemo e quella attribuita a Ieronimo/Ellanico vd. West 1983, 140-175, 176-226).

Ora, ritornando al discorso esoterico sull’interdizione del suicidio, il mito orfico in questione è quello, celeberrimo, dello σπαραγμός (smembramento) di Dioniso da parte dei Titani. Nella versione tramandata nel commentario di Olimpiodoro (In Phd. 1.3.3-9), vi sono quattro regni (τέσσαρες βασιλεῖαι) divini: di Urano; di Krono, che evirò il padre; di Zeus, che confinò suo padre nel Tartaro; e infine di Dioniso che successe a Zeus. Di quest’ultimo, le dottrine orfiche seguite dal Commentatore dicono (φασί) che, secondo un complotto di Era (κατ’ ἐπιβουλὴν τῆς Ἥρας), i Titani, che erano a sua scorta, lo smembrano e si cibarono delle sue carni (τοὺς περὶ αὐτὸν Τιτᾶνας σπαράττειν καὶ τῶν σαρκῶν αὐτοῦ ἀπογεύεσθαι). Al che Zeus, adiratosi, li fulminò (ὀργισθεὶς ὁ Ζεὺς ἐκεραύνωσε) e dalla materia, generatasi dalla fuliggine delle nubi di vapore emesse dai Titani, nacquero gli uomini (καὶ ἐκ τῆς αἰθάλης τῶν ἀτμῶν τῶν ἀναδοθέντων ἐξ αὐτῶν ὕλης γενομένης γενέσθαι τοὺς ἀνθρώπους). Da questo mito, che si delinea così e come una teogonia e come una teologia, e come un’antropogonia e come un’antropologia, Olimpiodoro trae la conclusione funzionale ai suoi obiettivi teorici: è proibito suicidarsi in quanto il nostro corpo è dionisiaco, cioè proprio di Dioniso (ὡς τοῦ σώματος ἡμῶν Διονυσιακοῦ ὄντος), perché ne siamo una sua parte, se è appunto vero che siamo composti dalla densa fuliggine dei Titani che ne mangiarono le carni (μέρος γὰρ αὐτοῦ ἐσμεν, εἴ γε ἐκ τῆς αἰθάλης τῶν Τιτάνων συγκείμεθα γευσαμένων τῶν σαρκῶν τούτου [In Phd. 1.3.12-14]).

La linearità dell’esposizione olimpiodorea e la sistematicità della sua interpretazione allegorica hanno da sempre attirato l’attenzione degli studiosi ed è stato ragionevolmente mostrato innanzitutto che non si tratta di un’esposizione canonica, per così dire, del mito, poiché presenta notevoli differenze con altre versioni tramandate in maniera più o meno frammentaria da altri autori, come Pausania, Platone (Leggi), Senocrate e Plutarco (cfr. Edmonds 1999, 38-49). Le differenze sono notevoli persino con il parallelo resoconto di Damascio (In Phd. I, 7-8), che aggiunge altre due punizioni inferte ai Titani, incatenamenti (δεσμοί) e processioni verso il più basso e recondito di altri altrove (ἄλλων ἀλλαχοῦ πρόοδοι πρὸς τὸ κοιλότερον), cioè verso le regioni infime del cosmo, chiaramente neoplatonicamente inteso, e secondo cui gli uomini, invece che da una materia sorta dal denso fumo di vapore sprigionato dai Titani inceneriti, nascono dai frammenti dei Titani (ἐκ Τιτανικῶν θρυμμάτων). Pertanto, il resoconto di Olimpiodoro va considerato come una sua propria elaborazione originale, un bricolage di racconti e informazioni funzionale solo a ciò che il suo autore vuole dimostrare, ossia la consonanza tra l’argomento mitico e l’argomento dialettico sull’illiceità del suicidio (cfr. Edmonds 2009, 512-516, 530), la cui innovazione più peculiare parrebbe quella di essersi avvalso perfino di concetti desunti dalle elucubrazioni alchemiche di VI sec. d.C. (cfr. Brisson 1992, 491-495, che cerca inoltre di sostenere un’identità tra l’Olimpiodoro filosofo neoplatonico alessandrino e un Olimpiodoro autore di un commentario allo scritto alchemico Κατ’ ἐνέργειαν di Zosimo, facendo leva sul concetto di fumo sublimato dal vapore dei Titani; ma su questo punto sono sorte notevoli perplessità, cfr. ad es. Edmonds 2009, 528-529). In breve, sia la narrazione sia l’interpretazione del mito da parte di Olimpiodoro attingono sì dalla tradizione ma hanno dei tratti caratteristici propri, ed è solo tenendo conto di queste coordinate che è possibile comprendere perché egli rigetti il detto οὐδὲν πρὸς τὸν Διόνυσον.
È dunque possibile leggere finalmente il brano:

καὶ γενέσεως ἄλλως ἔφορός ἐστιν ὁ Διόνυσος, διότι καὶ ζωῆς καὶ τελευτῆς· ζωῆς μὲν γὰρ ἔφορος, ἐπειδὴ καὶ τῆς γενέσεως, τελευτῆς δέ, διότι ἐνθουσιᾶν ὁ οἶνος ποιεῖ καὶ περὶ τὴν τελευτὴν δὲ ἐνθουσιαστικώτεροι γινόμεθα, ὡς δηλοῖ ὁ παρ’ Ὁμήρῳ Πάτροκλος μαντικὸς γεγονώς περὶ τὴν τελευτήν. καὶ τὴν τραγῳδίαν δὲ καὶ τὴν κωμῳδίαν ἀνεῖσθαι φασι τῷ Διονύσῳ, τὴν μὲν κωμῳδίαν παίγνιον οὖσαν τοῦ βίου, τὴν δὲ τραγῳδίαν διὰ τὰ πάθη καὶ τὴν τελευτήν. οὐκ ἄρα καλῶς οἱ κωμικοὶ τοῖς τραγικοῖς ἐγκαλοῦσιν ὡς μὴ Διονυσιακοῖς οὖσιν λέγοντες ὅτι ‘οὐδὲν ταῦτα πρὸς τὸν Διόνυσον’. κεραυνοῖ δὲ τούτους ὁ Ζεύς, τοῦ κεραυνοῦ δηλοῦντος τὴν ἐπιστροφήν, πῦρ γὰρ ἐπὶ τὰ ἄνω κινούμενον· ἐπιστρέφει οὖν αὐτοὺς πρὸς ἑαυτόν [Olymp. In Phd. 1.6].

Per un altro verso, Dioniso è il custode anche della generazione, perché è custode anche di vita e morte: infatti, egli è il custode della vita, dacché lo è anche della generazione, e della morte, perché il vino produce un invasamento divino e vicino alla morte, d’altra parte, diveniamo più ispirati dalla divinità, come mostra Patroclo in Omero [Il. XVI, 851-854] che, prossimo alla morte, è divenuto un veggente. Dicono che anche la tragedia e la commedia siano state consacrate a Dioniso, la commedia perché è derisione della vita, mentre la tragedia a causa delle sciagure e della morte. Quindi, i poeti comici non rimproverano giustamente ai poeti tragici di non essere dionisiaci, quando affermano che ‘queste composizioni [scil. le tragedie] non hanno nulla a che fare con Dioniso’. E infine Zeus li [scil. i Titani] colpisce con il fulmine, il fulmine manifestando la conversione, perché il fuoco è ciò che si muove fino alle entità superiori; dunque, egli li converte verso se stesso.
 

Contrariamente a tutte le testimonianze viste più sopra, Olimpiodoro propone qui una riabilitazione del rapporto Dioniso-tragedia, asserendo che la condanna avanzata dai poeti comici nei confronti dei tragici, ed espressa tramite il proverbio “queste cose non hanno nessuna relazione con Dioniso”, non è mossa correttamente. In questo caso, l’origine del detto non è attribuita al pubblico spettatore indignato perché i poeti tragici non mettevano più scena rappresentazioni concernenti le vicende di Dioniso, bensì a dei non meglio specificati comici: potrebbe trattarsi dell’eco di una controversia letteraria originatasi a partire dalle Rane di Aristofane, giacché in tutta la seconda parte della commedia Dioniso si dibatte, come giudice buffo e incerto, tra Eschilo ed Euripide e durante la sfida tra i due confessa persino di non capire ciò che Euripide dice (1169: ὅ τι λέγεις δ’ οὐ μανθάνω). Nondimeno, non c’è riscontro nella letteratura coeva del VI sec. d.C. di una disputa del genere e, per quanto Olimpiodoro conosca sicuramente Aristofane, che in In Alc. I, 2.66-67 è richiamato esplicitamente come uno dei modelli da cui Platone avrebbe tratto spunto per la rappresentazione dei personaggi nei suoi dialoghi e di cui a 50.22 è citato un verso del Pluto, non è possibile determinare con certezza che dietro questo cenno vi siano proprio le Rane. Non è neanche menzionato nessun autore tragico determinato, laddove invece Plutarco [T 2a] nominava esplicitamente Frinico ed Eschilo e le fonti paremiografe rimandavano a un’opera di Cameleonte peripatetico su Tespi.
Inoltre, non è neppure da escludere che l’attribuzione del detto οὐδὲν πρὸς τὸν Διόνυσον a non meglio identificati poeti comici sia o un fraintendimento di Olimpiodoro, forse nato da un espressione come lo σκώπτοντες di Zenobio [T 1] (sebbene il soggetto siano gli spettatori) o dall’ ἐπισκώπτοντες di Plutarco [T 2b] (sebbene non abbia un soggetto determinato), oppure, addirituttura, sia una deliberata forzatura.

L’ipotesi più probabile, allora, è che questa considerazione olimpiodorea sia causata dalle riflessioni platoniche sul tema (cfr. la nota ad loc. di Westerink, nella sua ed. a 47), specificamente in Symp. 223d2-6 e Resp. III, 395a1-6: nel primo brano, il Socrate platonico costringe i suoi interlocutori a convenire sul fatto che è proprio dello stesso uomo saper comporre commedie e tragedie, e chi per arte è tragediografo è anche commediografo (καὶ τὸν τέχνῃ τραγῳδοποιὸν ὄντα <καὶ> κωμῳδοποιὸν εἶναι); nel secondo, invece, Socrate e Adimanto convengono sul fatto che uno stesso poeta non è capace di praticare bene i due tipi di imitazione, cioè tragedia e commedia, per quanto sembrino molto vicini tra loro. Già nella tarda antichità ci si interrogava intorno a questa discrepanza di vedute e la soluzione più nota doveva sicuramente essere quella di Proclo. Nella quinta dissertazione del suo In Remp. (I, V, 51.26-54.2), il Licio affronta direttamente il problema e lo risolve proponendo innanzitutto una psicologia secondo cui l’anima umana altro non è che un’anima distaccatasi dall’attività universale, la quale faceva di essa un’anima cosmica, e che, a causa dell’esistenza vieppiù particolare cui si è confinata, non può che dedicarsi per natura a una sola attività e una soltanto; da qui passa a constatare che, pertanto, un’anima individuale umana può sviluppare esclusivamente un solo ambito di competenza tecnico e, se questo è suddiviso in più parti, non è detto neanche che eccella in tutte. Ora, secondo Proclo, condizione necessaria e sufficiente per comporre tragedie e commedie è “la conoscenza e la vita” (τῆς τε γνώσεως καὶ τῆς ζωῆς [M. Abbate, 352 n. 11, sottolinea che si tratta di un’endiadi]), poiché la prima fornisce appunto le competenze tecniche ai fini della composizione, mentre la seconda consente di produrre un’imitazione dei caratteri consona ai fatti e ai soggetti che li agiscono. Sulla base di questa distinzione è perciò possibile armonizzare Platone con se stesso: nel Simposio egli si riferisce alla conoscenza tecnica propria della composizione di tragedie e commedie, che è una sola per entrambe; invece, nella Repubblica, si parla della capacità imitativa e, poiché nella tragedia si imitano fatti e soggetti che suscitano il pianto, mentre nella commedia che stimolano il riso, un medesimo poeta non può essere specializzato in entrambi i tipi di rappresentazione drammatica.

Dunque, se sono questi i ragionamenti che costituiscono lo sfondo teorico del discorso di Olimpiodoro, in base ai quali una acuta cognizione della vita è indispensabile per foggiare adeguatamente i fatti e i caratteri di tragedie e commedie, non sorprende che egli le ponga ambedue sotto il comune denominatore di Dioniso. Infatti, tragedia e commedia intrattengono un rapporto inscindibile con la vita perché, a detta dell’Alessandrino, la prima è uno scherno, una presa in giro della vita (παίγνιον τοῦ βίου), mentre la seconda a causa delle disgrazie e della morte (διὰ τὰ πάθη καὶ τὴν τελευτήν – tra le quattro accezioni di πάθος prospettate da Aristotele in Metaph. Δ, 21, 1022b15-21, qualità secondo cui può esserci alterazione, stessa alterazione in atto, alterazioni dannose e dolorose, e grandi sciagure e dolori, quest’ultima sembra la più pertinente al discorso olimpiodoreo) che mette in scena o semplicemente evoca. D’altra parte, Dioniso è visto come custode di vita e morte, dacché queste condizioni appartengono al mondo della generazione, la cui potestà gli appartiene parimenti. In altri termini, quindi, se Dioniso sovrintende alla vita e alla morte, e tragedia e commedia sono le rappresentazioni drammatiche di vita e morte, allora è corretto dire che tragedia e commedia sono state consacrate (ἀνεῖσθαι) a lui. Ma come e perché Dioniso può essere concepito quale ἔφορος τῆς γενέσεως? In effetti, è curioso notare che Dioniso è detto custode della generazione soltanto ἄλλως, in un altro senso; sicché c’è presumibilmente un senso secondo cui non è Dioniso a sovrintendere al divenire, ma qualcun altro.

L’esegesi simbolico-allegorica del mito (non-)orfico data da Olimpiodoro si dispiega su due piani distinti tra loro, ma indissolubilmente correlati: uno propriamente etico e uno squisitamente metafisico. Quanto al primo, che qui ha un’importanza secondaria, ma che per il Commentatore è l’aspetto principale, egli sostiene che i quattro regni tramandati dal mito non devono essere intesi come talvolta esistenti, mentre talvolta no (οὐ ποτὲ μέν εἰσι, ποτὲ δὲ οὔ), bensì bisogna ritenere che essi sono sempre (ἀλλ’ ἀεὶ μέν εἰσι). Vale a dire che essi non hanno in realtà una successione diacronica, ma esprimono in maniera allusiva (αἰνίττονται) i differenti gradi delle virtù secondo cui la nostra anima agisce, poiché possiede i simboli di tutte le virtù, le teoretiche, le catartiche, le politiche e le etiche (καθ’ ἃς ἡ ἡμετέρα ψυχὴ <ἐνεργεῖ> σύμβολα ἔχουσα πασῶν τῶν ἀρετῶν, τῶν τε θεωρητικῶν καὶ καθαρτικῶν καὶ πολιτικῶν καὶ ἠθικῶν [In Phd. 1.4.8-11] – invece Damascio [In Phd. I, 138-144] enumera sette gradi di virtù: naturali, etiche, politiche, catartiche, teoretiche, paradigmatiche e ieratiche; cfr. almeno Demoulder, Van Riel 2015, 282-291).

Sul livello metafisico, ciascuna delle divinità figuranti nel racconto rappresenta un determinato momento del costituirsi della realtà. Per quanto riguarda Urano e Krono, Olimpiodoro non si dilunga nella costruzione di corrispondenze con un dato rango del reale, ma fornisce preziose indicazioni a proposito degli altri personaggi. Zeus è detto demiurgo, in quanto agisce nei confronti delle entità secondarie (δημιουργὸς ὁ Ζεύς, ὡς περὶ τὰ δεύτερα ἐνεργῶν [In Phd. 1.5.7]), cioè delle sue stesse creazioni. Era poi, in quanto ha ordito il golpe contro Dioniso, è vista come divinità sorvegliante di movimento e processione (κινήσεως ἔφορος ἡ θεὸς καὶ προόδου [In Phd. 1.5.18]). I Titani, con la loro masticazione delle carni di Dioniso, rappresentano l’immane parcellizzazione (τῆς μασήσεως δηλούσης τὸν πολὺν μερισμόν) e, poiché il ‘τί (qualcosa)’ manifesta il particolare (τοῦ ‘τὶ’ μερικὸν δηλοῦντος), la forma universale, cioè Dioniso stesso, è smembrata nella generazione (σπαράττεται δὲ τὸ καθόλου εἶδος ἐν τῇ γενέσει [In Phd. 1.5.9-10, 12-13]). Perciò Dioniso è il custode delle cose di questo mondo, dove prevale la grande parcellizzazione a causa del mio e del tuo (διότι τῶν τῇδε ἔφορός ἐστιν, ἔνθα ὁ πολὺς μερισμὸς διὰ τὸ ἐμὸν καὶ σόν), ed è la monade dei Titani (μονὰς δὲ Τιτάνων ὁ Διόνυσος [In Phd. 1.5.10-11, 13]). Infine, come si legge nel brano sopra riportato, il fulmine di Zeus manifesta la conversione e dunque egli converte i Titani che hanno dilaniato Dioniso verso se stesso (in Dam. In Phd. I, 14.7-8 e 129.3-4, invece, il momento della conversione è costituito da Apollo, che ricompone Dioniso dilaniato ed è perciò chiamato Διονυσοδότης). In questo quadro, si hanno due dei tre momenti caratteristici che, nella metafisica neoplatonica, costituiscono il venire a essere della realtà, cioè processione (Era) e conversione (Zeus e i suoi fulmini); resta quindi fuori il primo momento, quello della manenza (sulla triade dialettica di μονή-πρόοδος-ἐπιστροφή vd. almeno Romano 1983a, 22-25). Tuttavia, se la conversione è attuata dal principiato verso il principio – su questo assioma della processione neoplatonica è chiarissima la proposizione 34 degli Elementi di Teologia di Proclo (ed. Dodds): tutto ciò che secondo natura si converte, compie la conversione verso quell’entità dalla quale ebbe la processione della propria esistenza (Πᾶν τὸ κατὰ φύσιν ἐπιστρεφόμενον πρὸς ἐκεῖνο ποιεῖται τὴν ἐπιστροφήν, ἀφ’ οὗ καὶ τὴν πρόοδον ἔσχε τῆς οἰκείας ὑποστάσεως) –, allora è Zeus stesso a essere principio e quindi a costituire il momento della manenza. Dove collocare però Dioniso? In ciò, probabilmente, può aiutare un inciso che si legge in un passo alquanto lacunoso dell’In Phaedonem di Damascio: fintanto che Dioniso permane nel trono di Zeus, è indiviso (ἐπεὶ καὶ ὁ Διόνυσος ἐν μὲν τῷ θρόνῳ τοῦ Διὸς ἀμέριστος [In Phd. I, 4.6]). Sembra pertanto doversene concludere che sia Zeus sia Dioniso rappresentano il momento della manenza, il primo però in quanto demiurgo intellettivo, mentre il secondo in quanto divinità intellettiva ipercosmico-encosmica che governa ogni creazione individuale nel mondo (cfr. la nota ad loc. di Westerink e Brisson 1992, 488, n. 44). È questo precisamente il senso altro in cui, nel nostro brano, Dioniso è detto custode della generazione. L’altra accezione, invece, è chiarita quasi espressamente da Olimpiodoro stesso, allorquando afferma che Dioniso è detto essere smembrato dalla generazione, intendendo le cause di questa generazione (λέγεται δὲ σπαράττεσθαι ὑπὸ τῆς γενέσεως, <γενέσεως> τῶν αἰτίων ταύτης ἀκουόντων), cioè i Titani [In Phd. 1.5.13-14]. Per un verso quindi, causa e custode della γένεσις è Dioniso stesso, per un altro lo sono i Titani, dal momento che il carattere proprio del causato si rivela con ancor maggior chiarezza nella causa. Al riguardo Olimpiodoro richiama un verso procliano che recita “quanto videro nei figli, lo espressero nei genitori (‘ὅσσ’ ἴδον ἐν τεκέεσσιν ἐφημίξαντο τοκεῦσιν’ [In Phd. 1.5.17])”, concetto che, da un punto vista teorico, Proclo ha spiegato meglio alle proposizioni 18 e 28 degli Elementi di Teologia: di queste, la prima dimostra che tutto ciò che, per suo essere, è dispensatore per altri, è esso stesso primariamente ciò di cui rende partecipi i dispensati (Πᾶν τὸ τῷ εἶναι χορηγοῦν ἄλλοις αὐτὸ πρώτως ἐστὶ τοῦτο, οὗ μεταδίδωσι τοῖς χορηγουμένοις) e la seconda che tutto ciò che produce fa sussistere cose simili rispetto a se stesso prima che cose dissimili (Πᾶν τὸ παράγον τὰ ὅμοια πρὸς ἑαυτὸ πρὸ τῶν ἀνομοίων ὑφίστησιν – sull’eventualità che, per una migliore comprensione del testo procliano, la preposizione πρό sia da intendersi come ‘piuttosto che’ vd. Opsomer 2015).

Se, quindi, nel brano olimpiodoreo in esame Dioniso è custode del divenire nel senso in cui egli rappresenta il momento della manenza dell’intelletto divino in questo mondo, egli non può che sovrintendere anche a vita e morte. Tuttavia, la dimostrazione che conclude la potestà dionisiaca della vita presenta una struttura circolare, in quanto dapprima si sostiene che Dioniso è custode della generazione perché (διότι) lo è anche di vita e morte, e poi si afferma che egli è custode della vita dacché (ἐπειδή) lo è anche della generazione: il ragionamento pertanto risulta alquanto inconsistente. D’altra parte, l’argomentazione che vuole dimostrare una potestà dionisiaca della morte non risulta troppo stringente, in quanto si basa su una mera associazione di idee: infatti, si constata da una parte che il vino, nome altrimenti usato per riferirsi a Dioniso, produce uno stato di invasamento divino (ἐνθουσιᾶν) e dall’altra, invece, che l’essere umano, quando è prossimo alla morte, diviene ancor più ispirato dalla divinità, venendo fornito di facoltà mantiche e profetiche; in particolare, secondo Olimpiodoro, ciò è mostrato in Il. XVI, 843-854, passo in cui Patroclo, sul punto di esalare l’ultimo respiro dopo essere stato colpito prima da Apollo, poi da Euforbo e infine da Ettore, predice proprio al principe troiano la sua imminente morte per mano di Achille. Come già notato da Westerink (nota ad loc.) e da Brisson (1992, n. 45, 489), questi cenni sono comprensibili alla luce di un frammento di Aristotele (fr. 947 Gigon, 824 = fr. 10 Rose3, 27-28), dove è spiegato che il modo di pensare proprio degli dèi, ἔννοια θεῶν, giunge agli uomini da due principi, gli accadimenti relativi all’anima e i fenomeni celesti, ἀπό τε τῶν περὶ ψυχὴν συμβαινόντων καὶ ἀπὸ τῶν μετεώρων. Con i primi lo Stagirita indica gli stati in cui l’anima si ritrova in se stessa, come durante il sonno o in prossimità della morte, e in cui le giungono l’ispirazione divina e le facoltà profetiche. Con questi collegamenti piuttosto vaghi e allusivi l’Alessandrino considera provato anche il fatto che Dioniso governa sulla morte.

Al di là dell’insufficiente cogenza dimostrativa, comunque, il percorso del ragionamento olimpiodoreo sembra chiaro: se Dioniso è custode della generazione e, quindi, della vita e della morte, e la commedia e la tragedia hanno per oggetto rispettivamente un dato modo di vivere e sofferenze e morte, allora ambedue hanno in Dioniso la loro divinità tutelare; sicché il proverbio οὐδὲν πρὸς τὸν Διόνυσον, che manifesta dissenso e protesta nei confronti dei soggetti tragici, risulta infondato e pronunciato a sproposito.

Il Commentatore esprime quest’idea anche in un altro passaggio dell’In Phaedonem, precisamente nella λέξις della formula platonica “fino al momento in cui la divinità in persona ci liberi (Ἕως ἂν ὁ θεὸς αὐτὸς ἀπολύσῃ ἡμᾶς)” di Phd. 67a6, asserendo che

θεὸν ἐνταῦθα καλεῖ τὸν Διόνυσον, διότι οὗτος ἔφορος καὶ ζωῆς καὶ θανάτου, ζωῆς μὲν διὰ τοὺς Τιτᾶνας, θανάτου δὲ διὰ τὴν μαντείαν τὴν περὶ τὸν θάνατον. ἔφορος γὰρ πάσης βακχείας· διὸ οὐ μόνον κωμικῶν ἔφορός ἐστιν ὡς περὶ ἡδονὰς καταγινομένων, ἀλλὰ καὶ τραγικῶν περὶ λύπας καὶ θανάτους καταγινομένων [Olymp. In Phd. 6.13].

In questa circostanza [Platone] chiama Dioniso ‘il dio’, perché questi è il custode della vita e della morte: della vita, a causa Titani; della morte, per via della facoltà profetica in prossimità della morte. Infatti, egli è il patrono di ogni furore bacchico: perciò è il protettore non solo dei poeti comici, in quanto hanno a che fare con i piaceri, ma anche dei poeti tragici che si occupano delle sofferenze e delle morti.

Come si vede, Olimpiodoro identifica alquanto arbitrariamente questo non meglio precisato ‘dio’, di cui parla la lezione platonica, con Dioniso. Se però si tengono presenti le premesse su cui si basa la sua interpretazione e l’esegesi simbolico-allegorica del mito, tutto ciò risulta perfettamente coerente. Ancora una volta, il segno della potestà di Dioniso sulla morte è individuato nella capacità divinatoria che il dio concederebbe agli esseri umani quando stanno per perire. Nondimeno, com’è emerso nel brano precedente, le doti mantiche sono una forma di ispirazione divina e, pertanto, è tale anche ogni forma di frenesia bacchica. Questa specie di invasamento divino, di cui Dioniso è patrono, viene presentata dal commentatore neoplatonico secondo una sorta di bipartizione: da un lato se ne ha una forma attinente ai piaceri, di cui si dovrebbero avvalere i poeti comici come oggetto di ispirazione per le loro composizioni; mentre, dall’altro, le afflizioni e la morte, che pure consente all’uomo di ricevere dalla divinità capacità profetiche, costituiscono l’argomento delle tragedie.

IV. Considerazioni conclusive

In conclusione, sembra potersi affermare che se all’interno del quadro teorico funzionale alla ricostruzione storica delle origini della tragedia tracciato nella Poetica di Aristotele, dove l’accento è posto sulle innovazioni e le rotture operate da questo genere poetico-drammaturgico rispetto alla tradizione precedente, ha avuto fortuna anche l’inserimento delle fonti antiche sul proverbio οὐδὲν πρὸς τὸν Διόνυσον, la testimonianza olimpiodorea risulta anomala. Innanzitutto, il suo autore non è uno storico né un paremiografo, ma un filosofo e, in quanto tale, richiama il luogo comune solo per smentirlo e respingerlo, ristabilendo quindi un legame positivo tra Dioniso e la tragedia. La sua critica, poi, trova la sua ragion d’essere sia nella tradizione speculativa platonico-neoplatonica sul valore estetico ed etico della tragedia e della poesia in generale, sia in una metafisica ben definita, che è sostenuta da (e sostiene a sua volta) un’esegesi simbolica del mito di Dioniso e i Titani, intervenendo con delle modifiche già nella semplice struttura narrativa. In breve, nella prospettiva di Olimpiodoro, il Dioniso nume tutelare della tragedia è un Dioniso neoplatonico, e non il Dioniso della religione tradizionale. Quindi, alla luce di ciò, le sue parole non possono essere ritenute fededegne al fine di stabilire la persistenza di un elemento cultuale nel teatro tragico, né per risalire alle origini di questo fenomeno, e pertanto non mettono in alcun modo in crisi il paradigma della rottura tragica.
 

Appendice
A | Testimonianze sul detto Οὐδὲν πρὸς τὸν Διόνυσον con collegamenti espliciti con il genere tragico

T 1. Zenobio, Epitome, 5.40
Οὐδὲν πρὸς τὸν Διόνυσον: ἐπὶ τῶν τὰ μὴ προσήκοντα τοῖς ὑποκειμένοις λεγόντων ἡ παροιμία εἴρηται. Ἐπειδὴ τῶν χορῶν ἐξ ἀρχῆς εἰθισμένων διθύραμβον ᾄδειν εἰς τὸν Διόνυσον, οἱ ποιηταὶ ὕστερον ἐκβάντες τὴν συνήθειαν ταύτην, Αἴαντας καὶ Κενταύρους γράφειν ἐπεχείρουν. Ὅθεν οἱ θεώμενοι σκώπτοντες ἔλεγον, Οὐδὲν πρὸς τὸν Διόνυσον. Διὰ γοῦν τοῦτο τοὺς Σατύρους ὕστερον ἔδοξεν αὐτοῖς προεισάγειν, ἵνα μὴ δοκῶσιν ἐπιλανθάνεσθαι τοῦ θεοῦ.

Nulla a che fare con Dioniso: il proverbio è detto nel caso di coloro che dicono cose non appropriate ai soggetti. Giacché sin dall’inizio i cori si erano abituati a cantare un ditirambo dedicato a Dioniso, successivamente i poeti, avendo trasgredito questa consuetudine, si mettevano a scrivere Aiaci e Centauri. Ragion per cui gli spettatori, prendendosene gioco, dicevano “Nulla a che fare con Dioniso”. Di certo, appunto, a causa di ciò [i poeti] ritennero di introdurre i drammi satireschi di seguito a queste rappresentazioni, per non dare l’impressione di essersi dimenticati del dio.

T 2a. Plutarco, Quaest. Conv., 614f4-615b2
οὕτω τοίνυν, ὅταν οἱ φιλόσοφοι παρὰ πότον εἰς λεπτὰ καὶ διαλεκτικὰ προβλήματα καταδύντες ἐνοχλῶσι τοῖς πολλοῖς ἕπεσθαι μὴ δυναμένοις, ἐκεῖνοι δὲ πάλιν ἐπ’ ᾠδάς τινας καὶ διηγήματα φλυαρώδη καὶ λόγους βαναύσους καὶ ἀγοραίους ἐμβάλλωσιν ἑαυτούς, οἴχεται τῆς συμποτικῆς κοινωνίας τὸ τέλος καὶ καθύβρισται ὁ Διόνυσος. ὥσπερ οὖν, Φρυνίχου καὶ Αἰσχύλου τὴν τραγῳδίαν εἰς μύθους καὶ πάθη προαγόντων, ἐλέχθη τὸ ‘τί ταῦτα πρὸς τὸν Διόνυσον;’ οὕτως ἔμοιγε πολλάκις εἰπεῖν παρέστη πρὸς τοὺς ἕλκοντας εἰς τὰ συμπόσια τὸν Κυριεύοντα ‘ὦ ἄνθρωπε, τί ταῦτα πρὸς τὸν Διόνυσον;’ ᾄδειν μὲν γὰρ ἴσως τὰ καλούμενα σκόλια, κρατῆρος ἐν μέσῳ προκειμένου καὶ στεφάνων διανεμομένων, οὓς ὁ θεὸς ὡς ἐλευθερῶν ἡμᾶς ἐπιτίθησιν, *<εὔλογον· λόγοις δὲ γλίσχροις παρὰ πότον κεχρῆσθαι σοφιστικόν μέν,>* οὐ καλὸν δ’ οὐδὲ συμποτικόν.

Così, pertanto, quando i filosofi durante un simposio, immergendosi in problemi sottili e dialettici, recano disturbo ai molti che non sono capaci di seguirli, e quelli a loro volta lanciano se stessi in certi canti, in narrazioni sciocche e discorsi volgari e da cortile, è assente il fine della compagnia conviviale e Dioniso è oltraggiato. Dunque, proprio come, quando Frinico ed Eschilo facevano progredire la tragedia in racconti mitici e passioni, fu detto il “che cosa hanno a che fare con Dioniso queste cose?”, così a me spesso venne in mente di dire a coloro che trascinano ‘il Dominatore’ ai simposi “o uomo, che cosa hanno a che fare con Dioniso queste cose?” Infatti, forse, è ragionevole cantare quelli che sono chiamati scolii, quando il cratere è posto in mezzo e le ghirlande sono state distribuite, cose che il dio concede per liberarci [mentre trattare di argomenti minuziosi durante un simposio è da sofisti] e non è bello né proprio di un simposio.

[Il testo ha una lacuna, qui contrassegnata con degli asterischi, che gli editori (v. nota 1 a pagina 22), hanno colmato interpolando una glossa a margine dei codd. Per quanto sia da considerare un’integrazione spuria, qui si è scelto di mantenerla perché dà comunque un senso accettabile al passo].

T 2b. Plutarco, De proverbis Alexandrinorum, 30
τὰ μηδὲν πρὸς τὸν Διόνυσον: τὴν κωμῳδίαν καὶ τὴν τραγῳδίαν ἀπὸ γέλωτος εἰς τὸν †βίον φασὶ παρελθεῖν. καὶ <γὰρ> κατὰ καιρὸν τῆς συγκομιδῆς τῶν γεννημάτων παραγενομένους τινὰς ἐπὶ τὰς ληνοὺς καὶ τοῦ γλεύκους πίνοντας [ποιήματά τινα] σκώπτειν· <ὕστερον δὲ σκωπτικὰ> ποιήματά τινα καὶ γράφειν, <ἃ> διὰ τὸ πρότερον ἐν <κώμαις ᾄδεσθαι> κωμῳδίαν καλεῖσθαι. ἤρχοντο δὲ καὶ συνεχέστερον εἰς τὰς κώμας τὰς Ἀττικὰς γύψῳ τὰς ὄψεις κεχρισμένοι καὶ ἔσκωπτον. *** τραγικὰ παρεισφέροντες, <ἐπὶ τὸ> αὐστηρότερον μετῆλθον *** ταῦτα οὖν καὶ ἐπεὶ τῷ Διονύσῳ πολέμιόν ἐστιν ὁ τράγος ἐπισκώπτοντές τινες ἔλεγον. *** ἐπὶ τῶν τὰ ἀνοίκειά τισι προσφερόντων.

Ciò che non ha nulla a che fare con Dioniso: dicono che la commedia e la tragedia pervennero dal riso alla vita. E, in effetti, [dicono che] al momento stabilito della raccolta dei frutti [della terra] alcuni motteggiavano, sopraggiungendo ai torchi e bevendo del vino novello; ma successivamente scrivevano anche alcune composizioni scherzose, che nel tempo precedente cantavano nei villaggi (ἐν κώμαις) [e perciò] chiamavano “commedia” (κωμῳδίαν). E andavano perfino più continuativamente nei villaggi attici dopo aver usato del gesso per l’aspetto e motteggiavano. *** Quando introdussero elementi tragici, rivolsero dunque queste composizioni ad un carattere più austero *** e poiché un nemico per Dioniso è il capro, alcuni dicevano di deriderlo. *** Nel caso di coloro che rivolgono cose inappropriate a qualcosa.

T 3. Pausania, Raccolta dei nomi attici (Ἀττικῶν ὀνομάτων συναγωγή), ο 32
οὐδὲν πρὸς τὸν Διόνυσον· Ἐπιγένους τοῦ Σικυωνίου τραγῳδίαν εἰς τὸν Διόνυσον <οὐκ ἀνήκουσαν> ποιήσαντος ἐπεφώνησάν τινες τοῦτο. ὅθεν ἡ παροιμία. βέλτιον δὲ οὕτως· τὸ πρόσθεν εἰς τὸν Διόνυσον γράφοντες τούτοις ἠγωνίζοντο, ἅπερ καὶ Σατυρικὰ ἐλέγετο· ὕστερον δὲ μεταβάντες εἰς τὸ τραγῳδίας γράφειν κατὰ μικρὸν εἰς μύθους καὶ ἱστορίας ἐτράπησαν, μηκέτι τοῦ Διονύσου μνημονευόντες· ὅθεν τοῦτο καὶ ἐπεφώνησαν. καὶ Χαμαιλέων ἐν τῷ Περὶ Θέσπιδος τὰ παραπλήσια ἱστορεῖ (fr. 20, 30 Koepke). Θεαίτητος δὲ ἐν τῷ Περὶ παροιμίας (cfr. CPG. praef. XI) Παρράσιόν φησι τὸν ζωγράφον ἀγωνιζόμενον παρὰ Κορινθίοις ποιῆσαι Διόνυσον κάλλιστον· τοὺς δὲ ὁρῶντας τά τε τῶν ἀνταγωνιστῶν ἔργα, ἃ κατὰ πολὺ ἐλείπετο, καὶ τὸν τοῦ Παρρασίου Διόνυσον ἐπιφωνεῖν· ‘Τί πρὸς τὸν Διόνυσον;’ ἐπὶ τῶν μὴ τὰ προσήκοντα τοῖς ὑποκειμένοις φλυαρούντων.

Nulla a che fare con Dioniso: Quando Epigene di Sicione compose una tragedia dedicata a Dioniso, che però non lo riguardava, alcuni gridarono ciò. Donde il proverbio. Ma è meglio spiegarlo in questo modo: dapprima, scrivendo per Dioniso, gareggiavano con questi componimenti, i quali appunto si dicevano satyrikà; ma successivamente, essendo passati allo scrivere tragedie, a poco a poco si volsero a racconti mitici e storie reali, non ricordandosi più di Dioniso; ragion per cui anche gridarono ciò. E Cameleonte nel suo Su Tespi riferisce cose pressoché uguali. Invece, Teeteto nel suo Sui proverbi dice che Parrasio il pittore, quando gareggiava presso i Corinzi [i.e. a Corinto], dipinse un Dioniso bellissimo; e (dice [scil. Teeteto] che) coloro che guardavano le opere degli avversari, che erano di molto inferiori, e il Dioniso di Parrasio, gridarono “che cosa ha a che fare con Dioniso?” Nel caso di coloro che fanno sciocchezze non appropriate ai soggetti.

T 4. Diogeniano, Proverbi, 7.18
Οὐδὲν πρὸς τὸν Διόνυσον: ἐπὶ τῶν τὰ μὴ προσήκοντα φλυαρούντων. Πρῶτον γὰρ τὰ Διονύσου ᾄδοντες οἱ ποιηταὶ, ὕστερον κατεφρόνουν. Οἱ οὖν τοῦ Διονύσου ἔλεγον, Οὐδὲν πρὸς τὸν Διόνυσον.

Nulla a che fare con Dioniso: nel caso di coloro che fanno sciocchezze non appropriate. Infatti, i poeti che inizialmente cantavano i fatti di Dioniso, successivamente non se ne davano pensiero. Dunque, quelli che erano seguaci di Dioniso dicevano “Nulla a che fare con Dioniso”.

T 5. Elio Aristide, Discorso esortativo sul fatto che non bisogna comporre commedie
(Συμβουλευτικὸς περὶ τοῦ μὴ δεῖν κωμῳδεῖν) o Sull’abrogazione della commedia, 511.6-11 [or. 29 Keil]
καὶ μὴν διαφθορᾶς γέ ἐστι συνθήματα· ὅταν γὰρ εἰς συνήθειαν καταστῇ τοῦ κακῶς ἀκούειν ἀνὴρ ἢ γυνὴ καὶ τὰ χείριστα φέρειν τῶν ὀνειδῶν, εὐχερῶς ἀνίησιν ἡ γνώμη καὶ διδάσκεται πᾶς τις φαῦλος εἶναι, εἰ καὶ μὴ πρόσθεν ἦν, ἄλλως τε τούτων ὧν οὐδὲν πρὸς τὸν Διόνυσόν ἐστιν. ἀλλ’ ἔμοιγε καὶ τὸ τῆς παροιμίας εἰς τὰς τοιαύτας ἀβελτηρίας οὐχ ἥκιστα ἔχειν δοκεῖ.

E, invero, sono simboli [i.e. le commedie] di corruzione: infatti, qualora un uomo o una donna si trovassero nell’abitudine di avere cattiva fama e sopportare i peggiori degli insulti, il giudizio cederebbe negligentemente [senza difficoltà] e chiunque sarebbe istruito ad essere dappoco, se anche non lo fosse prima, specialmente da queste cose di cui nulla ha a che fare con Dioniso. Tuttavia, a me sembra anche che il proverbio si volga non di meno a siffatte stupidaggini.

T 6. Olimpiodoro, In Platonis Phaedonem, 1.6
καὶ γενέσεως ἄλλως ἔφορός ἐστιν ὁ Διόνυσος, διότι καὶ ζωῆς καὶ τελευτῆς· ζωῆς μὲν γὰρ ἔφορος, ἐπειδὴ καὶ τῆς γενέσεως, τελευτῆς δέ, διότι ἐνθουσιᾶν ὁ οἶνος ποιεῖ καὶ περὶ τὴν τελευτὴν δὲ ἐνθουσιαστικώτεροι γινόμεθα, ὡς δηλοῖ ὁ παρ’ Ὁμήρῳ [Il., XVI, vv.851-854] Πάτροκλος μαντικὸς γεγονώς περὶ τὴν τελευτήν. καὶ τὴν τραγῳδίαν δὲ καὶ τὴν κωμῳδίαν ἀνεῖσθαι φασι τῷ Διονύσῳ, τὴν μὲν κωμῳδίαν παίγνιον οὖσαν τοῦ βίου, τὴν δὲ τραγῳδίαν διὰ τὰ πάθη καὶ τὴν τελευτήν. οὐκ ἄρα καλῶς οἱ κωμικοὶ τοῖς τραγικοῖς ἐγκαλοῦσιν ὡς μὴ Διονυσιακοῖς οὖσιν λέγοντες ὅτι ‘οὐδὲν ταῦτα πρὸς τὸν Διόνυσον’. κεραυνοῖ δὲ τούτους ὁ Ζεύς, τοῦ κεραυνοῦ δηλοῦντος τὴν ἐπιστροφήν, πῦρ γὰρ ἐπὶ τὰ ἄνω κινούμενον· ἐπιστρέφει οὖν αὐτοὺς πρὸς ἑαυτόν.

Per un altro verso, Dioniso è il custode anche della generazione, perché è custode anche di vita e morte: infatti, egli è il custode della vita, dacché lo è anche della generazione, e della morte, perché il vino produce un invasamento divino e vicino alla morte, d’altra parte, diveniamo più ispirati dalla divinità, come mostra Patroclo in Omero [Il., XVI, 851-854] che, prossimo alla morte, è divenuto un veggente. Dicono che anche la tragedia e la commedia siano state consacrate a Dioniso, la commedia perché è derisione della vita, mentre la tragedia a causa delle sciagure e della morte. Quindi, i poeti comici non rimproverano giustamente ai poeti tragici di non essere dionisiaci, quando affermano che “queste composizioni [scil. le tragedie] non ha nulla a che fare con Dioniso”. E infine Zeus li [scil. i Titani] colpisce con il fulmine, il fulmine manifestando la conversione, perché il fuoco è ciò che si muove fino alle entità superiori; dunque, egli li converte verso se stesso.

T 7. Fozio, Lessico, ο 357.5-20 e ο 618.1-12
Οὐδὲν πρὸς τὸν Διόνυσον: Ἐπιγένους τοῦ Σικυωνίου τραγωιδίαν εἰς αὐτὸν ποιήσαντος ἐπεφώνησαν τινὲς τοῦτο· ὅθεν ἡ παροιμία· βέλτιον δὲ οὕτως· τὸ πρόσθεν εἰς τὸν Διόνυσον γράφοντες, τούτοις ἠγωνίζοντο, ἅπερ καὶ Σατυρικὰ ἐλέγετο· ὕστερον δὲ μεταβάντες εἰς τραγωιδίας γράφειν, κατὰ μικρὸν εἰς μύθους καὶ ἱστορίας ἐτράπησαν· μηκέτι τοῦ θεοῦ μνημονεύοντες· ὅθεν καὶ ἐπεφώνησαν· καὶ Χαμαιλέων ἐν τῶι περὶ Θέσπιδος τὰ παραπλήσια ἱστορεῖ· Θεαίτητος δὲ ἐν τῶι περὶ παροιμίας, Παρράσιον φησὶ τὸν ζωγράφον ἀγωνιζόμενον παρὰ Κορινθίοις ποιῆσαι Διόνυσον κάλλιστον· τοὺς δὲ ὁρῶντας τά, τε τῶν ἀνταγωνιστῶν ἔργα, ἃ κατὰ πολὺ ἐλείπετο, καὶ τὸν τοῦ Παρρασίου Διόνυσον, ἐπιφωνεῖν, τί πρὸς τὸν Διόνυσον· ἐπὶ τῶν μὴ τὰ προσήκοντα τοῖς ὑποκειμένοις φλυαρούντων.

Niente a che fare con Dioniso: Quando Epigene di Sicione compose una tragedia a lui dedicata, alcuni gridarono ciò: ragion per cui il proverbio; ma è meglio in questo modo: dapprima, scrivendo per Dioniso, gareggiavano con questi componimenti, i quali appunto si dicevano satyrikà; successivamente, essendo passati allo scrivere tragedie, a poco a poco si volsero a racconti mitici e storie reali: non ricordandosi più di Dioniso; ragion per cui anche gridarono ciò; e Cameleonte nel suo Su Tespi riferisce cose pressoché uguali; ma Teeteto, nel suo Sui proverbi, dice che Parrasio il pittore, quando gareggiava presso i Corinzi [i.e. a Corinto], dipinse un Dioniso bellissimo; e (dice [scil. Teeteto] che) coloro che guardavano le opere degli avversari, che erano di molto inferiori, e il Dioniso di Parrasio, gridarono “che cosa ha a che fare con Dioniso?”: nel caso di coloro che fanno sciocchezze non appropriate ai soggetti.

T 8. Lessico di Suda, ο 806
Οὐδὲν πρὸς τὸν Διόνυσον: Ἐπιγένους τοῦ Σικυωνίου τραγῳδίαν εἰς τὸν Διόνυσον ποιήσαντος, ἐπεφώνησάν τινες τοῦτο· ὅθεν ἡ παροιμία. βέλτιον δὲ οὕτως· τὸ πρόσθεν εἰς τὸν Διόνυσον γράφοντες τούτοις ἠγωνίζοντο, ἅπερ καὶ Σατυρικὰ ἐλέγετο· ὕστερον δὲ μεταβάντες εἰς τὸ τραγῳδίας γράφειν κατὰ μικρὸν εἰς μύθους καὶ ἱστορίας ἐτράπησαν, μηκέτι τοῦ Διονύσου μνημονεύοντες· ὅθεν τοῦτο καὶ ἐπεφώνησαν. καὶ Χαμαιλέων ἐν τῷ Περὶ Θέσπιδος τὰ παραπλήσια ἱστορεῖ, Θεαίτητος δὲ ἐν τῷ Περὶ παροιμίας Παρράσιόν φησιν τὸν ζωγράφον ἀγωνιζόμενον παρὰ Κορινθίοις ποιῆσαι Διόνυσον κάλλιστον· τοὺς δὲ ὁρῶντας τά τε τῶν ἀνταγωνιστῶν ἔργα, ἃ κατὰ πολὺ ἐλείπετο, καὶ τὸν τοῦ Παρρασίου Διόνυσον, ἐπιφωνεῖν, τί πρὸς τὸν Διόνυσον; ἐπὶ τῶν μὴ τὰ προσήκοντα τοῖς ὑποκειμένοις φλυαρούντων. καὶ αὖθις· τὸν Κόροιβον Ὀδυσσέα φήσας εἶναι τὸν πολύτροπον. καίτοι μὴ πρὸς τοῦτο παράδειγμα φέρων, τῇ φάτνῃ προσάγεις τὸν κύνα καὶ πρὸς τὸν Διόνυσον ἄγεις οὐδέν.

Niente a che fare con Dioniso: Quando Epigene di Sicione compose una tragedia a Dioniso, alcuni gridarono ciò: ragion per cui il proverbio. Ma è meglio in questo modo: dapprima, scrivendo per Dioniso, gareggiavano con questi componimenti, i quali appunto si dicevano satyrikà; ma successivamente, essendo passati allo scrivere tragedie, a poco a poco si volsero a racconti mitici e storie reali, non ricordandosi più di Dioniso: ragion per cui gridarono anche ciò. E Cameleonte nel suo Su Tespi riferisce cose pressoché uguali, ma Teeteto nel suo Sui proverbi dice che Parrasio il pittore, quando gareggiava presso i Corinzi [i.e. a Corinto], dipinse un Dioniso bellissimo; e (dice [scil. Teeteto] che) coloro che guardavano le opere degli avversari, che erano di molto inferiori, e il Dioniso di Parrasio, gridarono “che cosa ha a che fare con Dioniso?” nel caso di coloro che fanno sciocchezze non appropriate ai soggetti. E ancora: quando qualcuno disse che Corebo è il ricco d’astuzie Odisseo. Sebbene non adduca un esempio in relazione a ciò, tu conduci il cane alla stalla e non porti niente rispetto a Dioniso.

T 9. Paroemiographus Coislinianus [= T 18 TrGF I, Snell-Kannicht 19862, 64 (cfr. Centanni 2019, n. 11, 69)
Τῆς ποιήσεως τὸ πρῶτον ἐκ διθυράμβου τὴν καταρχὴν εἰληφυίας καὶ τὰ πρὸς τὸν Διόνυσον ἀνήκοντα πραγματευομένης Ἐπιγένης ὁ Σικυώνιος οὐχ οὕτω ποιήσας ἤκουσε τοῦτον τὸν λόγον ̔οὐδὲν πρὸς τὸν Διόνυσον̓.

Poiché inizialmente la poesia trasse il suo cominciamento dal ditirambo e si occupò di cose riguardanti Dioniso, Epigene di Sicione, quando non compose in questo modo, udì quest’affermazione “nulla a che fare con Dioniso”.

T 10. Michele Apostolio, Raccolta di Proverbi, 13.42
Οὐδὲν πρὸς τὸν Διόνυσον: ἐπὶ τῶν μὴ τὰ προσήκοντα τοῖς ὑποκειμένοις φλυαρούντων. Ἐπιγένους τοῦ Σικυωνίου τραγῳδίαν εἰς αὐτὸν ποιήσαντος, ἐπεφώνησάν τινες τοῦτο. ὅθεν ἡ παροιμία. βέλτιον δὲ οὕτως. τὸ πρόσθεν εἰς τὸν Διόνυσον γράφοντες τούτοις ἠγωνίζοντο, ἅπερ καὶ Σατυρικὰ ἐλέγοντο. ὕστερον δὲ καταβάντες εἰς τὸ τραγῳδίας γράφειν, κατὰ μικρὸν εἰς μύθους καὶ ἱστορίας ἐτράπησαν, μήκετι τοῦ θεοῦ μνημονεύοντες· ὅθεν καὶ ἐπεφώνησαν. καὶ Χαμαιλέων ἐν τῷ περὶ Θέσπιδος τὰ παραπλήσια ἱστορεῖ. Θεαίτητος ἐν τῷ περὶ παροιμίας Παράσιόν φησι τὸν ζωγράφον ἀγωνιζόμενον παρὰ Κορινθίοις ποιῆσαι Διόνυσον κάλλιστον, τοὺς δὲ ὁρῶντας τά τε τῶν ἀγωνιστῶν ἔργα, ἃ κατὰ πολὺ ἐλείπετο, καὶ τὸν τοῦ Παρασίου Διόνυσον ἐπιφωνεῖν, Τί πρὸς Διόνυσον;

Niente a che fare con Dioniso: nel caso di coloro che fanno sciocchezze non appropriate ai soggetti. Quando Epigene di Sicione compose una tragedia [dedicata] a Dioniso, alcuni gridarono ciò. Donde il proverbio. Ma è meglio [spiegarlo] in questo modo. Dapprima, scrivendo per Dioniso, gareggiavano con questi componimenti, i quali appunto si dicevano satyrikà. Ma successivamente, essendo passati allo scrivere tragedie, a poco a poco si volsero a racconti mitici e storie reali, non ricordandosi più di Dioniso: ragion per cui anche gridarono ciò. E Cameleonte nel suo Su Tespi riferisce cose pressoché uguali. Teeteto nel suo Sui proverbi dice che Parrasio il pittore, quando gareggiava presso i Corinzi [i.e. a Corinto], dipinse un Dioniso bellissimo; e (dice [scil. Teeteto] che) coloro che guardavano le opere degli avversari, che erano di molto inferiori, e il Dioniso di Parrasio, gridarono “che cosa ha a che fare con Dioniso?”

B | Testimonianze sul detto Οὐδὲν πρὸς τὸν Διόνυσον in altri contesti

T 11. Polibio, Storie XXXIX, 2.1-3 (apud Strabonem)
Πολύβιος δὲ τὰ συμβάντα περὶ τὴν ἅλωσιν ἐν οἴκτου μέρει λέγων προστίθησι καὶ τὴν στρατιωτικὴν ὀλιγωρίαν τὴν περὶ τὰ τῶν τεχνῶν ἔργα καὶ τὰ ἀναθήματα· φησὶ γὰρ ἰδεῖν παρὼν ἐρριμμένους πίνακας ἐπ’ ἐδάφους, πεττεύοντας δὲ τοὺς στρατιώτας ἐπὶ τούτων. ὀνομάζει δ’ αὐτῶν Ἀριστείδου γραφὴν τοῦ Διονύσου, ἐφ’ οὗ τινες εἰρῆσθαί φασι τὸ ‘Οὐδὲν πρὸς τὸν Διόνυσον’, καὶ τὸν Ἡρακλέα τὸν καταπονούμενον τῷ τῆς Δηιανείρας χιτῶνι.

Polibio, esponendo gli accadimenti relativi alla presa [di Corinto] con una punta di compassione, aggiunge anche lo sprezzo dei soldati riguardo alle opere artistiche [lett. delle arti] e ai monumenti commemorativi. Dice infatti di aver visto, trovandosi [lì] presente, tavole dipinte gettate al suolo, e i soldati che giocavano alla petteia su di esse. E di esse [scil. delle tavole dipinte] nomina un dipinto di Dioniso fatto da Aristide, riguardo al quale alcuni dicono che sia stato detto il “nulla a che fare con Dioniso”, e l’Eracle oppresso dal chitone di Deianira.

T 12. Strabone, Geographica VIII, 6.23.10-22
Πολύβιος δὲ τὰ συμβάντα περὶ τὴν ἅλωσιν ἐν οἴκτου μέρει λέγων προστίθησι καὶ τὴν στρατιωτικὴν ὀλιγωρίαν τὴν περὶ τὰ τῶν τεχνῶν ἔργα καὶ τὰ ἀναθήματα. φησὶ γὰρ ἰδεῖν παρὼν ἐρριμμένους πίνακας ἐπ’ ἐδάφους, πεττεύοντας δὲ τοὺς στρατιώτας ἐπὶ τούτων. ὀνομάζει δ’ αὐτῶν Ἀριστείδου γραφὴν τοῦ Διονύσου, ἐφ’ οὗ τινες εἰρῆσθαί φασι τὸ ‘οὐδὲν πρὸς τὸν Διόνυσον’, καὶ τὸν Ἡρακλέα τὸν καταπονούμενον τῷ τῆς Δηιανείρας χιτῶνι. τοῦτον μὲν οὖν οὐχ ἑωράκαμεν ἡμεῖς, τὸν δὲ Διόνυσον ἀνακείμενον ἐν τῷ Δημητρείῳ τῷ ἐν Ῥώμῃ κάλλιστον ἔργον ἑωρῶμεν· ἐμπρησθέντος δὲ τοῦ νεὼ συνηφανίσθη καὶ ἡ γραφὴ νεωστί.

Polibio, esponendo gli accadimenti relativi alla presa [di Corinto] con una punta di compassione, aggiunge anche lo sprezzo dei soldati riguardo alle opere artistiche [lett. delle arti] e ai monumenti commemorativi. Dice infatti di aver visto, trovandosi [lì] presente, tavole dipinte gettate al suolo, e i soldati che giocavano alla petteia su di esse. E di esse [scil. delle tavole dipinte] nomina un dipinto di Dioniso fatto da Aristide, riguardo al quale alcuni dicono che sia stato detto il “nulla a che fare con Dioniso”, e l’Eracle oppresso dal chitone di Deianira. Veramente, noi questo [scil. l’Eracle] non lo abbiamo visto, ma osservavamo il Dioniso, un’opera bellissima che era posta come offerta nel tempio di Demetra a Roma; ma, poiché il tempo fu incendiato, ultimamente scomparse insieme anche il dipinto.

T 13. Luciano di Samosata, Ermotimo, 55
Παπαί, ὦ Ἑρμότιμε, ὡς ἰσχυρὰ ταῦτα εἴρηκας ἀπὸ τῶν μερῶν ἀξιῶν τὰ ὅλα εἰδέναι. καίτοι ἐγὼ τὰ ἐναντία ἀκούσας μέμνημαι ὡς ὁ μὲν τὸ ὅλον εἰδὼς εἰδείη ἂν καὶ τὸ μέρος, ὁ δὲ μόνον τὸ μέρος οὐκέτι καὶ τὸ ὅλον. οὕτως καί μοι τόδε ἀπόκριναι· ὁ Φειδίας ἄν ποτε ἰδὼν ὄνυχα λέοντος ἔγνω ἂν ὅτι λέοντός ἐστιν, εἰ μὴ ἑωράκει ποτὲ λέοντα ὅλον; ἢ σὺ ἀνθρώπου χεῖρα ἰδὼν ἔσχες ἂν εἰπεῖν ὅτι ἀνθρώπου ἐστὶ μὴ πρότερον εἰδὼς μηδὲ ἑωρακὼς ἄνθρωπον; τί σιγᾷς; ἢ βούλει ἐγὼ ἀποκρίνωμαι ὑπὲρ σοῦ τά γε ἀναγκαῖα ὅτι οὐκ ἂν εἶχες; ὥστε κινδυνεύει ὁ Φειδίας ἄπρακτος ἀπεληλυθέναι μάτην ἀναπλάσας τὸν λέοντα· οὐδὲν γὰρ πρὸς τὸν Διόνυσον ὦπται λέγων. ἢ πῶς ταῦτα ἐκείνοις ὅμοια; τῷ μὲν γὰρ Φειδίᾳ καὶ σοὶ οὐδὲν ἄλλο τοῦ γνωρίζειν τὰ μέρη αἴτιον ἦν ἢ τὸ εἰδέναι τὸ ὅλον ἄνθρωπον λέγω καὶ λέοντα· ἐν φιλοσοφίᾳ δέ, οἷον τῇ Στωϊκῶν, πῶς ἂν ἀπὸ τοῦ μέρους καὶ τὰ λοιπὰ ἴδοις; ἢ πῶς ἂν ἀποφαίνοιο ὡς καλά; οὐ γὰρ οἶσθα τὸ ὅλον οὗ μέρη ἐκεῖνά ἐστιν.

Oh finalmente, Ermotimo! Hai detto ciò come se fosse incontestabile, ritenendo giusto conoscere gli interi a partire dalle parti. Tuttavia, io ricordo di aver ascoltato cose contrarie, cioè che colui che conosce l’intero può conoscere anche la parte, ma colui che conosce soltanto la parte non conosce di più l’intero. Allora, rispondimi anche questo: Fidia, qualora avesse visto un artiglio di un leone, avrebbe potuto riconoscere che era di un leone, se non avesse mai visto un leone intero? O tu, avendo visto una mano di un uomo, avresti potuto dire che è di un uomo, pur non avendo prima né conosciuto né visto un uomo? Che cosa taci? O vuoi che io risponda al posto tuo le cose necessarie, ché tu non avresti niente da dire? Sicché, Fidia corre il rischio di essersene dipartito [scil. essere morto] inefficiente, avendo modellato invano il leone: infatti, se ne è avveduto dicendo “ciò non ha nulla a che fare con Dioniso”. Oppure, in che senso queste cose sono simile a quelle? Perché, per Fidia e per te, non vi era nessun’altra ragione di conoscere le parti se non il conoscere l’intero – intendo un uomo e un leone; ma nella filosofia, come in quella degli Stoici, in che modo a partire dalla parte potresti conoscere anche le rimanenti? Oppure, in che modo potresti mostrare che sono belle? Infatti, tu non conosci l’intero, di cui quelle sono parti.

T 14. Eliodoro, Etiopica II, 24, 4.1-7
Ὑπολαβὼν οὖν ὁ Κνήμων “ἅλις” ἔφη “βουκόλων καὶ σατραπῶν καὶ βασιλέων αὐτῶν, ἔλαθες γάρ με μικροῦ καὶ εἰς πέρας τῷ λόγῳ διαβιβάζων, ἐπεισόδιον δὴ τοῦτο οὐδέν φασι πρὸς τὸν Διόνυσον ἐπεισκυκλήσας ὥστε ἐπάναγε τὸν λόγον πρὸς τὴν ὑπόσχεσιν· εὕρηκα γάρ σε κατὰ τὸν Πρωτέα τὸν Φάριον, οὐ κατ’ αὐτὸν τρεπόμενον εἰς ψευδομένην καὶ ῥέουσαν ὄψιν ἀλλά με παραφέρειν πειρώμενον”.

Dunque, avendolo interrotto, Cnemone diceva “basta, ne ho a sufficienza di questi pastori e satrapi e re, perché tu, per trasportarmi al termine del discorso, per poco non mi sfuggisti, avendo inserito questo episodio che appunto, come dicono, non ha nulla a che fare con Dioniso, quindi riconduci il discorso alla promessa; in effetti, ti ho trovato come Proteo di Faro, non poiché come lui ti trasformi in un aspetto falso e scorrevole, ma poiché provi a portarmi fuori strada”.

T 15. Aristeneto, Epistole I, 8.1-11
Εὖγε τῆς εὐπρεπείας, βαβαὶ τῆς ἐλάσεως. ὡς ἀμφοτεροδέξιος οὗτος πέφυκεν ὁ ἱππότης. καὶ κάλλει διαπρέπει, καὶ ὑπερφέρει τῷ τάχει. ὡς ἔοικε, τοῦτον οὐκ ἐδάμασεν Ἔρως, ἀλλ’ ἔστιν αὐτὸς περιπόθητος Ἄδωνις ταῖς ἑταίραις.” ταῦτά μου λέγοντος ὁ χρυσοῦς ἀκήκοεν ἱππεύς, καὶ διαμεμφόμενος ἔφη· “οὐδὲν πρὸς τὸν Διόνυσον οὐδὲ πρὸς ἐμὲ τοῦτον οἰκείως εἴρηκας τὸν λόγον. ἄριστα μόνος οἶδεν ἱππάζεσθαι πόθος. αὐτὸς ἐμὲ καὶ δι’ ἐμοῦ τάχιστα τὸν ἵππον ἐλαύνει, καὶ τὸν θέοντα κεντρίζει δεινῶς ὀξύτερον κατεπείγων. ἐπίδος οὖν, ἱπποκόμε, τοῖς δρόμοις, ἅμα τε ᾄδων καὶ ᾄσμασιν ἐρωτικοῖς τὸν ἔρωτα θεραπεύων.

Bravo, per la tua eleganza. Oh! Che modo di cavalcare! Questo cavaliere è proprio portato per natura come ambidestro. Sia per bellezza spicca, sia è superiore per velocità. Come sembra, Eros non lo sopraffece, bensì egli stesso è un Adone molto desiderato dalle etere”. Mentre io dicevo queste cose, l’aureo cavaliere le ha udite e, biasimandomi aspramente, diceva: “Hai pronunciato questo discorso che, in senso appropriato, niente ha a che fare con Dioniso né con me. Il solo desiderio d’amore sa cavalcare in modo eccellente. Esso sospinge me e, attraverso di me, il cavallo velocissimamente, e sprona terribilmente l’animale che corre, sollecitandolo in modo sempre più incalzante. Procedi dunque, mio scudiero, nelle corse, contemporaneamente cantando e con i tuoi canti d’amore curando il mio amore.

T 16. Niceforo Urano (X-XI sec. d.C.), Epistole, 33
Ἤκουσάς ποτε γραφὴν ἀγραφίου; Ταύτην σε γράφομαι, δικαστά· κριτὴς δὲ ὁ βουλόμενος ἔστω. Πλῆθος πραγμάτων καὶ φροντίδων ὄχλος, ὄχλος ἄλλως ἐμοὶ ῥημάτων καὶ οὐδὲν ταῦτα πρὸς τὸν Διόνυσον, ἀλλὰ καὶ γράμμα πρὸς ἑτέρους—ὦ τῆς συμφορᾶς—ἀλλὰ καὶ πάρεργον ἡμεῖς τῶν ἑτέροις γραμμάτων. Ὦ τῆς ὕβρεως, εἰς ταύτην ἐγὼ τὴν τάξιν; Ὦ, ὦ λόγοι καὶ πόθοι δι’ ὃν καὶ πρὸς ἑτέρους γράφειν εἰκός, δι’ οὗ καὶ τοῖς ἄλλοις διαπορθμεύειν τὰς προσφωνήσεις; Ἀλλ’ οὕτως ἐγὼ δύσερις, οὕτω παρορώμενος, ἔτι γράφειν ἐπιχειρῶ καί σε προσκαλοῦμαι πρὸς τὴν γραφήν. Ἂν δ’ ἄρα τι καὶ πλέον βλακεύσῃς, οὐκ ἀγραφίου μόνον, ἀλλὰ καὶ λειποταξίου γράφομαί σε καὶ φιλίας καὶ λόγων· ἰσχυρὸς δὲ τούτων ἔκδικος ὁ Θεός, ἐπεὶ καὶ φίλος τις καὶ λόγιος, ὥσπερ ἀκούομεν.

Ascoltasti mai una scrittura di un testo non scritto? Questa ti scrivo, giudice; e ne sia interprete colui che lo desideri. Una moltitudine di faccende e una folla di preoccupazioni, ma la mia folla di parole ha un altro senso e queste niente hanno a che fare con Dioniso, ma pure una lettera [è rivolta] ai diversi [scil. ai pagani] – oh, della sciagura – ma noi abbiamo anche l’opera secondaria delle lettere per i diversi. Oh, della tracotanza, io sono chiamato a questo ordine? Oh, oh discorsi e desideri, per causa di lui sembra bene scrivere per i diversi, per mezzo di lui anche agli altri sembra bene trasmettere le rivelazioni? Ma così io sarò colui che suscita contesa, così sarò disdegnato, ancora mi accingo a scrivere e ti invoco per la scrittura. E allora potresti rovinare per indolenza qualcosa anche più grande, non di un testo non scritto soltanto, ma anche di diserzione ti scrivo e di amicizia e di insegnamenti; il Dio vendicatore è forte di queste cose, poiché è anche una sorta di amico ed è eloquente, proprio come ascoltiamo.

Bibliografia
Fonti
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English abstract

As far as it concerns the phenomenon of composition and representation of tragedies in ancient Greece, and specifically in Athens, scholars – whether they were philologists or philosophers, historians of religion or historians of arts – have always found themselves in the impasse of defining clearly its essence, i.e. nature, status and functions in a univocal way. In the history of studies there has been no lack of attempts at genealogical reconstruction of the phenomenon, with the belief that adequate knowledge of the origins starting from the dithyramb and the Dionysian cult can fully restore the substance of the phenomenon. On the other hand, already among ancient testimonies the proverb “nothing to do with Dionysos” stands out, and it seems to suggest a sort of rupture and fracture implemented by tragedy as compared to previous choral events. The purpose of this contribution is to demonstrate how the testimony of Olymp., In Phd., 1.6 (ed. Westerink 1976), where the proverb is criticized and there is a positive re-evaluation of the Dionysus-tragedy relationship, cannot be considered probative in this sense, because of the particular philosophical-literary context in which it is inserted.

keywords | Olympiodorus; Aristotle; Tragedy; Cultic Rupture; Dionysos.

La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)

οὐδὲν πρὸς τὸν Διόνυσον. L’anomalia olimpiodorea, “La Rivista di Engramma” n. 225, giugno 2025.

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2025.225.0006