"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

230 | Natale 2025

97888948401

“Non è sempre possibile disertare”

Ri-Pensare dopo Gaza

Intervista a Franco Bifo Berardi, a cura di Giorgiomaria Cornelio

English abstract
Presentazione

Qualche mese fa, in occasione della pubblicazione di Pensare dopo Gaza, ho avuto un’ampia conversazione con il filosofo Franco Berardi Bifo. “Secondo me, dopo Gaza si apre la questione dell’Europa – ed è una questione a cui non possiamo sottrarci”: si chiudeva così quel dialogo, che incomodava l’Occidente con una serie di questioni acuminate e ancora urgenti: la psicosi del riarmo, il genocidio palestinese come punto di non ritorno dell’idea democratica, l’infangamento di Israele per le generazioni future, la mancanza di un vocabolario adeguato per descrivere i fenomeni di potere che stanno prepotentemente riemergendo, l’eccitazione come elemento essenziale nella comunicazione politica contemporanea (“ecco perché la sinistra è destinata a perdere”). A distanza di quasi un anno dall’uscita di questo libro assai discusso, sono tornato a confrontarmi con Bifo, per comprendere come gli eventi degli ultimi mesi hanno contagiato il suo pensiero – rendendo il suo confronto con l’apocalisse (e con il tema della diserzione) ancora più teso, più radicale. Siamo partiti dalla resistenza, nonostante tutto, del popolo palestinese…

Giorgiomaria Cornelio

* * *

Franco Bifo Berardi | Mi sono reso conto di una cosa che può sembrare ovvia: non sempre è possibile disertare. Ci sono condizioni in cui la resistenza è inevitabile, anche se perdente. È un pensiero che nasce da alcune testimonianze delle donne di Gaza. Ammetto, però, che mi tormenta l’idea secondo cui fare figli è la loro forma di resistenza.

Giorgiomaria Cornelio | È proprio un punto nodale, anche rispetto alla nostra conversazione precedente. Ci eravamo fermati lì, sulla tua idea di una denatalità, di un “congelo definitivo” dal pianeta. Ma Gaza rimette tutto in discussione: lì non c’è un popolo formato una volta per tutte, ma un popolo annientato che resiste riformandosi, dandosi nuovi figli, nuove genealogie, nuovi paesaggi adattativi.

Bifo | È difficile parlare di un argomento simile – non siamo donne palestinesi e non siamo cittadini in guerra –, ma detta questa premessa, trovo problematica l’idea secondo cui la sopravvivenza di un popolo sia superiore al diritto alla felicità degli individui che verranno – che saranno consegnati alla miseria del futuro, come i bambini che stanno nascendo ora. Forse è un pensiero troppo occidentale? Non me ne importa: è così. L’idea del “primato del popolo” la trovo pericolosa. È il fondamento del nazionalismo, e in questo non ho mai creduto.

GC | C’è una frase di Deleuze che amo molto: “Tutti si appellano al popolo, in nome di un linguaggio maggioritario, ma dove è il popolo? È il popolo che manca” – sempre a mancare. È bellissima, ma oggi vedo che una certa modalità di pensare la resistenza, per sopravvivere (non solo a Gaza), ha bisogno di tornare a darsi una forte identità collettiva; identità che può diventare a suo modo dispotica, nazionalistica, pericolosa. Vi è in tutto questo una tensione forse irrisolvibile.

Bifo | Sì, è irrisolvibile. Scrivendo Disertate non avevo tenuto conto di una cosa semplice: la diserzione non può essere una consegna, un ordine, una strategia. È una possibilità, e più ancora, un privilegio. Quando siamo nella stessa trincea e si dà uno scenario in cui io riesco a fuggire mentre tu no, non vuol dire che io sia un mascalzone: vuol dire, piuttosto, che siamo in una condizione talmente perdente che anche la fuga diventa privilegio. La miseria oggi è il nostro paesaggio, un paesaggio in cui la storia umana è finita qualche decennio fa e tuttavia la specie umana ha continuato a sopravvivere fino a oggi. Se tutto andrà come deve andare, scomparirà prima della fine di questo secolo sciagurato.

GC | La questione del privilegio torna anche nel discorso sulla fuga come orizzonte politico. Chi può davvero ‘uscire’ dal mondo oggi? Chi può disertare radicalmente? Elon Musk, forse, quando sogna, col turismo spaziale, di andarsene dal pianeta, di approdare ‘altrove’: quella è una forma di diserzione come privilegio, diversa da quella che intendi tu, ma che ne tocca il punto cieco – lo gnosticismo, per così dire.

Bifo | Però la parola ‘diserzione’ nasce in ambito militare, non bisogna dimenticarlo: significa trovarsi in una guerra che non si è scelta, e andarsene. Pensa a quella tra ucraini e russi. Un milione di uomini ucraini è fuggito: il problema principale della nazione ucraina oggi è proprio la mancanza di forza militare. Io avrei fatto lo stesso – sarei andato via come loro. Anche se fossi russo, me ne sarei andato ancora più in fretta. Questa è la vera accezione della diserzione – molto diversa, credo, da quella di Musk.

Tornando alle donne di Gaza, c’è un documento dell’Economist che mostra come il tasso di natalità globale stia crollando molto più rapidamente del previsto. Ogni decennio la caduta si raddoppia. In questo contesto, il fatto che a Gaza si facciano figli come forma di resistenza è un’eccezione assoluta. Mi chiedo quanto sia una scelta e quanto l’effetto di una condizione di ricatto. Ma accetto le parole di chi dice: “questa è la nostra resistenza”. Rimane il fatto che, in uno dei luoghi in cui oggi si soffre di più, si sceglie di mettere al mondo chi certamente soffrirà ancora – e questo per me è catastrofico.

GC | Eppure, quando tutto sembra bloccato, la nascita appare anche come una riapertura del futuro. Dobbiamo ammettere anche che in ogni resistenza c’è sempre un forte elemento reazionario. Per questo, diversi pensatori hanno cercato di articolare forme di risposta all’annientamento che fossero radicalmente diverse, come il ritrarsi volontariamente dal mondo per non sposarne la violenza (penso al marxismo mistico di Simone Weil), oppure al martirio: “Il martire è ispirato dalla propria fede a rispettare in chi lo giudica la verità stessa che egli difende e a riconoscere attraverso di essa la legittimità (ma non la decisione) del potere che lo schiaccia” – così scriveva de Certeau. Ma quanto è legittimo oggi riproporre, in questo tempo disastroso, tali visioni?

Bifo | Che la nascita sia una riapertura del futuro è una trappola. Dobbiamo essere più radicali, sino a riconoscere che non viviamo più nelle condizioni concettuali del Novecento. È difficile da ammettere, ma necessario: l’orizzonte si è rovesciato. Le categorie rivoluzionarie di allora oggi funzionano al contrario. Continuare a usarle significa raccontarsi favole retoriche. E, francamente, non vedo nessun filosofo che descriva l’attuale realtà americana meglio di Ari Aster in Eddington.

GC | Molti hanno riconosciuto che Pensare dopo Gaza è stato un libro fondamentale per il dibattito italiano, ma ti hanno anche criticato perché non hai convocato nel libro voci palestinesi. Anche in questo numero di Engramma ci siamo posti la stessa domanda: come posizionare il nostro sguardo? Da quale obliquità, con quali strumenti a disposizione? Perché, in fondo, gli strumenti di cui disponiamo non possono che provenire dal nostro orizzonte culturale…

Bifo | Sì. Su questo, per esempio, mi ha attaccato anche Pablo Abufom Silva su Jacobin, dicendo che la prospettiva che adotto è orientalista ed eurocentrica (“l’Orientalismo di Bifo è frutto della sua nostalgia occidentale”).Ha ragione: non ho la pretesa di parlare da palestinese. Io parlo della cultura bianca. Il genocidio che ritorna, non solo a Gaza, mostra che la cultura bianca è giunta all’orrore assoluto – o al suo crollo. Cito Adorno e Blake: “Dopo Auschwitz, la poesia non ha più ragione d’essere”. Eppure abbiamo continuato a scrivere. Ora che il genocidio ritorna, possiamo ancora credere nella vitalità della cultura bianca? Il mio è un libro sul mio esaurimento personale, ma anche sull’esaurimento della cultura maschile, bianca e senile: la classe dirigente dell’Occidente.

GC | Tu appartieni a una generazione senile, io a una senza futuro. E qui torno alla frase di Adorno: “Non si può scrivere poesia dopo Auschwitz”. Edmond Jabès gli rispondeva: “Non si racconta Auschwitz. Ogni parola lo racconta”. È un vocabolario che non può dimenticare. Mi chiedo: davvero la mia generazione deve cessare di scrivere, o deve continuare piuttosto a portare dentro quel dolore? Come Pablo Abufom Silva, anche io temo questo pessimismo della volontà.

Bifo | Adorno ha continuato a scrivere, e questo dice già tutto – in fondo contraddice il suo stesso comandamento. Il senso di quella frase è allora proprio quello che Jabès gli risponde. Oggi, però, la questione si gioca dentro il collasso della civiltà bianca. Possiamo anche dire che il Sud del mondo sta emergendo, che la Cina e l’India mostrano i loro missili, ma il punto è che li hanno proprio perché la civiltà bianca li costringe a prepararsi all’olocausto finale. Il trionfo del trumpismo è la sintesi di tutti gli orrori. Non credo sia eterno: coincide con la disintegrazione della stessa civiltà che lo ha generato. Israele è dentro la stessa traiettoria. Ma chi pagherà la disintegrazione di Israele saranno i palestinesi. Prima di morire, la civiltà bianca agonizzante userà tutti i mezzi di distruzione a sua disposizione – e non sarà uno spettacolo bello da vedere.

GC | Rimane però un rischio: se accettiamo questa sentenza definitiva, si traduce in una depressione cosmica, in un annientamento generazionale. Tu venivi da una generazione che aveva la vitalità del ’68 – della sua lunga primavera. Noi veniamo dal suo rovescio, dalla tristezza che (spinoziamente) è ciò che riduce la potenza del fare. Non possiamo abituarci a morire, cadere in questa rassegnazione.

Bifo | Anche tu hai ragione, ma due posizioni diverse non si cancellano: possono convivere e generare una terza possibilità. Hai evocato la “primavera del ’68”: è durata forse vent’anni, ma nasceva da un secolo di espansione demografica, cioè da un secolo in cui i giovani erano sempre di più. Poi la curva si è rovesciata, e oggi assistiamo a una senilizzazione irreversibile. È un processo planetario, con l’eccezione dell’Africa. È come se l’inconscio collettivo fosse diventato un inconscio che non può più immaginare il futuro. La demografia, che abbiamo sottovalutato, è lo zoccolo materiale di questa catastrofe. Non spiega tutto, ma pesa su tutto. Pesa su noi, e ci cancellerà. Ma la questione rimane aperta…

English abstract

This conversation revisits Franco “Bifo” Berardi’s Thinking After Gaza almost a year after its publication, confronting Gaza as a point of no return for Western democratic and cultural imagination. The dialogue addresses militarization, genocide, and the collapse of a political vocabulary capable of naming contemporary power. Central is the tension between desertion and resistance, as Gaza exposes desertion not as a strategy but as a privilege. The birth of children as a form of resistance raises a disturbing conflict between collective survival and individual happiness. Berardi frames this impasse within demographic decline, senescence, and the exhaustion of twentieth-century revolutionary categories. The text reads Gaza as a symptom of the terminal crisis of white Western civilization. The conversation remains deliberately unresolved, holding pessimism and resistance in uneasy coexistence.

keywords | Bifo; Gaza; War; Western Culture.

Per citare questo articolo / To cite this article: G. Cornelio (a cura di), “Non è sempre possibile disertare”. Ri–Pensare dopo Gaza. Intervista a Franco Bifo Berardi, “La Rivista di Engramma” n. 230, Natale 2025.