"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

134 | marzo 2016

9788898260799

Machiavelli, gli Antichi e noi

Editoriale di Engramma 134

Monica Centanni, Peppe Nanni

10 dicembre 1513 – da solo. La più nota (e la più equivocata) scena dell’esilio dell’intellettuale è ambientata in Val di Pesa. Machiavelli stesso si racconta, scrivendo all’amico Francesco Vettori: espulso dalla vita politica della città, dopo la fine della parentesi repubblicana e la restaurazione dei Medici al governo di Firenze, la sera, stanco e provato dall’“ingaglioffarsi” negli impegni rustici e domestici della vita di campagna, non ha alcuna gratificazione nell’interrogare chi passa, all’osteria del paese, “delle nuove de’ paesi loro”, o nel notare i “varii gusti e diverse fantasie d’huomini”; e allora per portar via il “cervello di muffa”, si mette sulla via di casa. Chiunque abbia studiato Machiavelli ha davanti agli occhi l’immagine di Niccolò che, tornato a casa, dismette “la veste cotidiana, piena di fango e di loto”, e indossa i “panni reali e curiali”, il paludamento dello studioso, e si dedica per “quattro hore di tempo” a dialogare con gli Antichi, perché solo così, finalmente, “sdimentica ogni affanno” e non sente più “alcuna noia”.

Anche di giorno, in verità, andando per i suoi campi, si fa compagnia con i versi di Tibullo e di Ovidio e si gode “leggendo delle loro amorose passioni”: ma il sentimento elegiaco, per quanto venato di malinconia, è sempre meno triste della condizione di quella solitudine astratta e assoluta della sera, quando l’uomo che per più di dieci anni è stato abituato a trattare quotidianamente con i corpi ingombranti – reali e metaforici – del potere si trova da solo, a discorrere di idee generali e di astrazioni di pensiero in compagnia degli Antichi.

Li chiama e loro arrivano e lo accolgono “amorevolmente” e Niccolò, finalmente, non si vergogna a “parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni”; e gli Antichi “per loro humanità” gli rispondono. Solo in quella “corte” Niccolò non prova soggezione ma non avverte neppure quel sentimento di superiorità che prova con la gente che è obbligato a frequentare quotidianamente. Ha confidenza, Machiavelli, con gli Antichi, non sente “vergogna” quando è con loro.

Ma cosa stiamo descrivendo? Cosa ci racconta, Niccolò, nel brano di quella famosa lettera che è diventato un topos – l’intellettuale nel suo studio che finalmente si ristora dagli affanni quotidiani e dalle brutture della vita? Certo, così non si fa “sbigottire” da nulla, nemmeno dalla morte; ma quel gioco è già, di per sé, mortifero: gioco macabro, evocazione di fantasmi. E, suggestionato da quelle presenze “amorevoli” ma spettrali, “fatto capitale” della loro lezione, Machiavelli compone Il Principe, la sua opera più celebre. Secondo noi, la più effimera: lucida e perfettamente ritmata, scritta d’impeto e di passione, bruciando tutte le risorse di un ingegno allenato sugli scenari della complessità della diplomazia internazionale, evocando tutte le sfaccettature dell’intelligenza politica (comprese le più scabrose: la scaltrezza, l’astuzia, il cinismo), nell’urgenza di trovare uno spiraglio, di occupare – tracciando il profilo di una potente figura – una casella vuota che, se riempita, potrebbe cambiare tutto lo schema del gioco e rimettere in moto le cose innescando un’altra mutazione.

Opera che risulta disperata perché non trova una sponda, un interlocutore all’altezza della sfida: la casella del “Principe nuovo” resta vuota. La specifica occasione che Machiavelli aveva intravisto in quella contingenza storica come ultima possibilità di soluzione della questione italiana non trova un soggetto che la faccia precipitare in azione. Perché l’intelligenza di Machiavelli non brilla se non nel moto di interesse con le cose del mondo; Machiavelli non conosce, se non ha un punto di vista; non gode, non sente, non sa, se non prende parte. Solo la presa sulla realtà – l’aggrappo, l’aggancio che innesca una possibilità di trasformazione del mondo – dà senso a quel che fa, che studia, che scrive.

In Val di Pesa Machiavelli, ogni sera, allestisce un tristissimo teatro delle ombre, e con i fantasmi degli Antichi, proiezioni del suo proprio immaginario mutilato, deprivato della vita activa, sfoga le sue privatissime paure – lo spettro della povertà, lo sbigottimento della morte. Niccolò scrive a Vettori che gli Antichi gli “rispondono” anche, par di capire, sui suoi privatissimi casi: ma sono visioni e paracusie di uno spirito depresso ed esasperato dalla solitudine.

Da solo – Niccolò non può conversare con gli Antichi se è da solo. Forse nessuno può, a meno che non sia affetto da qualche alfieriana – romantica o neoclassica – paranoia. Comunque non può Niccolò Machiavelli, al quale piace il gioco della vita vera.

Machiavelli è un uomo nel mezzo della storia, della vita, della politica. Nel mezzo, immerso dentro (Bazzicalupo 2014, 59).

Un altro teatro serve perché gli Antichi tornino a parlare – per fare davvero ‘rinascimento’. Quel teatro saranno gli Orti Oricellari. Così Delio Cantimori introduce l’ambiente dei Giardini di casa Rucellai in un saggio del 1937 che ripubblichiamo in questo numero di “Engramma” nelle due redazioni inglese e italiana:

Le radunanze degli Orti Oricellari concludono una lunga tradizione fiorentina di conversazioni letterarie e politiche. [...] Si sanno alcuni nomi dei frequentatori degli Orti Oricellari, si conoscono le vite di alcuni di questi, si ricorda genericamente che vi si discuteva di politica e di letteratura, che il Machiavelli vi lesse il capitolo sulle congiure delle sue Deche, che erano frequentati dal Trissino il quale vi introdusse le discussioni sulla lingua italiana, da uno scolaro del Ficino, Francesco Diacceto, che vi parlava dell’amore, dal poeta Luigi Alamanni, dallo scrittore Antonio Brucioli, e da altri giovani che ordirono nel 1522 una ultima fallita congiura repubblicana contro i Medici; si rileva anche che il Machiavelli dedicò la sua Arte della Guerra e i Discorsi ad alcuni principali frequentatori degli Orti, e che anzi fece di questi il teatro dei dialoghi dell’Arte della Guerra. [...] Il fatto invece della presenza del Machiavelli basta [...] a farci pensare di quanto interesse sarebbe la conoscenza più precisa di quelle conversazioni.

Gli Orti sono il set giusto in cui Machiavelli può fare teatro con gli Antichi: vero teatro, ora, richiamando in scena le maschere dei classici per rappresentare i corpi realissimi, e i realissimi desideri, della irrequieta – esistenzialmente, intellettualmente e politicamente irrequieta – gioventù fiorentina.

Nessun panno “reale o curiale” da indossare in quest’altro teatro; nessun compiacimento nel sentirsi “ricevuti” e compresi dagli spiriti del passato; nessun accomodamento consolatorio nella “antiqua corte”; nessun rimpianto per una comune humanitas irrimediabilmente tramontata; nessun rimedio che narcotizzi la costrizione di quell’otium solitario; nessuna pace. I classici ora servono a Machiavelli per fare un’altra parte in commedia: servono a dire altro. E, soprattutto, a fare altro. E gli Antichi stanno a questo serissimo gioco, forse perché proprio questo, da sempre, è il gioco dei classici: fare teatro e fare mondo in modo inedito, inatteso, diverso, sempre in attrito e in trasgressione rispetto a quanto ci si aspetta da loro e, soprattutto, rispetto alle norme che, di volta in volta, si impongono come canone.

Dal momento dell’incontro con i giovani amici agli Orti Oricellari, il desiderio di Niccolò di una conversazione con gli Antichi acquista dunque una piega tutta particolare. Non più presenze spiritiche, ora i nomi e i testi degli Antichi sono pretesti narrativi per parlare della scena contemporanea con parole e immagini classiche; in discontinuità con il passato prossimo, sono strumenti ermeneutici di altissima precisione: la dotazione giusta per affrontare la sfida della complessità nello scenario della politica fiorentina e italiana del tempo.

Non è, dunque, espressione retorica il debito reciproco che lega Niccolò alla compagnia degli Orti, denunciato in apertura ai Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio:

Non so quale di noi si abbia ad essere meno obligato all’altro: o io a voi, che mi avete forzato a scrivere quello che io mai per me medesimo non arei scritto; o voi a me, quando, scrivendo non vi abbi sodisfatto. Pigliate, adunque, questo in quello modo che si pigliano tutte le cose degli amici [...]. E crediate che in questo io ho una sola satisfazione, quando io penso che, sebbene io mi fussi ingannato in molte sue circunstanzie, in questa sola so ch’io non ho preso errore, di avere eletto voi, ai quali, sopra ogni altri, questi mia Discorsi indirizzi: sì perché, faccendo questo, mi pare avere mostro qualche gratitudine de’ beneficii ricevuti: sì perché e’ mi pare essere uscito fuora dell’uso comune di coloro che scrivono, i quali sogliono sempre le loro opere a qualche principe indirizzare; e, accecati dall’ambizione e dall’avarizia, laudano quello di tutte le virtuose qualitadi, quando da ogni vituperevole parte doverrebbono biasimarlo. Onde io, per non incorrere in questo errore, ho eletti non quelli che sono principi, ma quelli che, per le infinite buone parti loro, meriterebbono di essere; non quelli che potrebbero di gradi, di onori e di ricchezze riempiermi, ma quelli che, non potendo, vorrebbono farlo (Discorsi, Dedica).

l Discorsi sono veramente tali perché si tratta di un confronto con il testo antico ma anche di una conversazione con i giovani compagni – i ventenni Zanobi Buondelmonte e Cosimo Rucellai – interlocutori di elezione, che meritano “per le infinite buone parti loro” di essere principi al posto di qualsiasi “principe” in carica, che attira solo adulatori.

E Machiavelli ora legge i classici in altro modo. Legge di storia, soprattutto: Livio e Sallustio e, in traduzione, Polibio, Tucidide e Dionigi di Alicarnasso (Giorgini 2014, 110 ss.; Priori Friggi 2014, 185 ss.); ma li legge per far dire loro quello che nei loro testi va cercando per i suoi, altissimi, secondi fini: trovare la leva per provocare processi di mutazione.

Machiavelli, attribuendo ai Romani o ad altri, il funzionamento di certi ordini, sta facendo una proposta politica, poiché spesso l’attribuzione storica non è corretta. L’imitazione degli antichi, per Machiavelli, non è una idealizzazione, ma un modo per presentare un progetto politico che, pur nella stilizzazione (facilmente confondibile con un modello), testimonia che “nel seguire l’autorità dei Romani, non si segue l’autorità dei Romani [poiché] i Romani scoprirono i loro modi e ordini senza alcun esempio di altri e da loro medesimi” (Strauss [1958] 1970, 137). [...] La collezione di exempla non chiede la semplice imitazione [...]; essa piuttosto è lo strumento che, misurando lo scarto tra presente e passato, aiuta a orientarsi nella soluzione dei problemi in essere, attraverso “l’elaborazione della materia fino ad allora identificata come l’Antichità” (Raimondi 2013, 124 n.).

Perciò usa i classici contro se stessi, ne tortura le opere, li torchia per fargli dire l’inespresso, rovesciando il segno di intenzioni e giudizi. Così avviene, ad esempio, nella rivalutazione del tumulto come fattore decisivo per la tenuta della forma politica romana (Discorsi I, 4):

Che la disunione della Plebe e del Senato romano fece libera e potente quella republica.
Io non voglio mancare di discorrere sopra questi tumulti che furono in Roma dalla morte de’ Tarquinii alla creazione de’ Tribuni; e di poi alcune cose contro la opinione di molti che dicono, Roma essere stata una republica tumultuaria, e piena di tanta confusione che, se la buona fortuna e la virtù militare non avesse sopperito a’ loro difetti, sarebbe stata inferiore a ogni altra republica. [...] Io dico che coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la Plebe, mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma; e che considerino più a’ romori ed alle grida che di tali tumulti nascevano, che a’ buoni effetti che quelli partorivano.
 

Contro un muro compatto di celebrazione della concordia, Machiavelli inventa, da Livio e da altre fonti antiche (Rinaldi 2009, 27-51), l’idea del tumulto come innesco creativo della vita della res publica. Il tumulto non solo non è una patologia della vita civile, ma è il sintomo positivo e vitale, una febbre salutare che conferma la vitalità del corpo.

Idea sovversiva, questa della “repubblica tumultuaria”, luogo in cui si dà attrito e quindi si dà – può sempre darsi – una esplosione di energia (Pedullà 2011, 129) che tiene in movimento e salva dal deperimento la società (sul tumulto come dispositivo di autogenerazione della libertà politica che eccede e precede la funzione delle leggi e l’assetto istituzionale, v. Raimondi 2013, 48-49). È un’asserzione forte, che provoca reazioni immediate. Così ribatte Francesco Guicciardini nelle sue Considerazioni intorno ai Discorsi del Machiavelli sopra la prima Deca di Tito Livio (1529):

Non fu adunche la disunione tra la plebe e del senato che facessi Roma libera e potente, perché meglio sarebbe stato se non vi fussino state le cagione della disunione; né furono utile queste sedizione, ma bene manco dannose che non sono state in molte altre cittá, e molto utile alla grandezza sua che e’ patrizi piú presto cedessino alla voluntá della plebe, che entrassino in pensare modo di non avere bisogno della plebe; ma laudare le disunione è come laudare in uno infermo la infermitá, per la bontá del remedio che gli è stato applicato. Questo disordine fu dalla origine di Roma, perché nel principio suo vi fu la distinzione tra patrizi e plebei.

Nell’ambiente degli Orti, anche architettonicamente arredato con pezzi di antiquitates (Comanducci 1996), gli Antichi invitati a questa nuova festa sono di casa. Ed è proprio in questo contesto che Machiavelli adotta come ‘copione’ per le conversazioni il testo di Livio, da leggere insieme, chiosare, commentare: da prendere come spunto per parlare d’altro.

Una riprova del fatto che nel clima accogliente e stimolante degli Orti Oricellari lo stato d’animo di Machiavelli muta, è l’ampliamento degli strumenti espressivi del suo pensiero e delle sue passioni. È in quel contesto che, come scriverà Paolo Giovio negli Elogia: “Cuncta quae aggrederetur elegantissime perficiebat sive seria sive iocosa scriberentur”.

Così è per lo “sberleffo laico” della Mandragola, “la più bella commedia italiana di tutti i tempi” (Stoppelli 2014), scritta con tutta probabilità per una festa negli Orti Oricellari, in cui Machiavelli sperimenta ancora una volta la ripresa dei classici (in particolare di Plauto e di Terenzio) nel segno della interpolazione incrociata e di una filologica libertà di reinvenzione:

La Mandragola non nasce [...] dall’esigenza di soddisfare la fame di spettacoli di una corte rinascimentale, né è l’esercizio retorico di chi prova a ridare forme nuove a una materia antica. È prima di tutto ed essenzialmente l’opera di chi maneggia la letteratura come strumento conoscitivo. La sua genesi non è dunque lontana dall’esigenza di capire e spiegare il presente con il passato che è all’origine dei Discorsi, del Principe e di tutti gli altri scritti politici e storici del nostro autore (Stoppelli 2006, XXVIII-XXIX; sulla commedia v. anche Calloni 2014, 137-141).

Dalla solitudine dell’isolamento in Val di Pesa alla festa degli Orti Oricellari, fino al clima tragico della congiura repubblicana del 1522: i modi con i quali Machiavelli convoca i classici e, attraverso la loro prospettiva, incrocia il nostro sguardo potrebbero comporre un elenco inesauribile. Anche perché “Machiavelli” è il nome stesso di una contesa ermeneutica tuttora inconclusa.

Questo numero di “Engramma” è l’occasione di incontro per studiosi che si muovono sulle tracce del carattere sovversivo del rapporto tra Machiavelli e i classici.

Nel suo contributo – Machiavelli di fronte al testo antico (Livio, Cicerone, Platone). Esempi di riappropriazione linguistica e concettuale – Riccardo Fubini sostiene che per Machiavelli i classici non valgono come autorità di scuola, ma per l’occasione che gli offrono di affermare il proprio pensiero fondato sulla modernità. E pure, sfidando gli autori classici, Machiavelli si pone egli stesso al livello di un ‘classico’: un riconoscimento che i contemporanei non mancarono di tributargli.

Secondo Enrico Fenzi – Il giudizio di Machiavelli su Scipione l’Africano: la fine di un mito repubblicano? – a Machiavelli sta a cuore il senso propriamente politico del personaggio storico che lo scrittore libera dall’involucro del biografismo umanistico, collocando il giudizio su Scipione entro le coordinate proprie dell’analisi politica: ovvero entro la rete complessa di relazioni, azioni e possibilità che definiscono in modo sempre diverso e sempre attuale il tempo della storia.

Luciano Canfora, nel saggio Tucidide e Machiavelli, mostra come letture multiple interagiscano con il pensiero dell’autore dei Discorsi: un pensiero in cui i riferimenti ai classici, spesso intrecciati, sono il nutrimento e l’ispirazione, ma non la sostanza dell’argomentazione. Machiavelli assimila le fonti, le filtra attraverso la sua costruzione concettuale, e quindi le distorce dalla loro verità letterale. L’attrazione per Tucidide che traspare, direttamente e indirettamente, dal testo machiavelliano, si spiega con il fatto che La Guerra del Peloponneso è un trattato politico in veste di libro di storia, che propone la vicenda che interessa le poleis greche nel V secolo a.C. come un paradigma del conflitto grandioso ed emblematico.

Lo stesso Luciano Canfora è presente con un secondo contributo: Machiavelli e i suoi lettori novecenteschi. La fortuna del testo machiavelliano si misura anche nella relazione tra il saggio di Mussolini Preludio a Machiavelli (in cui riverberano eco della conferenza di Max Weber Politik als Beruf del gennaio 1919) e le citazioni di quel saggio da parte da Gramsci nei Quaderni dal Carcere, dove l’intellettuale propone di identificare il profilo del “principe nuovo” con la figura del partito comunista.

Nel saggio di Peppe Nanni – Cattivi maestri: Machiavelli e i classici – l’accento è posto sul passaggio dall’isolamento dell’esilio alla stagione degli Orti Oricellari. Machiavelli non avrebbe potuto essere pienamente in grado di elaborare il suo pensiero repubblicano, che si fa più radicale nei Discorsi sopra la prima Deca, se non avesse incontrato un gruppo di giovani: quella cerchia di uomini e donne, attivi nella vita culturale e politica del tempo, che incontra nel giardino di casa Rucellai. In quella scuola anche gli Antichi vengono reclutati da Machiavelli come insegnanti, ma per dire quello che fino ad allora, nei loro testi, era rimasto inespresso: ‘cattivi maestri’ i classici, ma solo nel pregiudizio degli eruditi, i “Savi del nostro tempo” (come Machiavelli stesso, ironicamente, li chiama), e per tutti coloro che temono l’insegnamento di un pensiero di libertà che sfugge a qualsiasi classificazione. La relazione che Niccolò intrattiene con i classici è rapsodica, intermittente, a tratti filologicamente puntuale, a tratti ideologicamente forzata e infedele, ma – come solo William Shakespeare saprà ben vedere e ci suggerisce – lo stesso pensiero di Machiavelli è proteiforme e incatturabile.

Machiavelli, l’umanesimo e l’amore politico: il saggio di Guido Cappelli mostra come la scelta della lingua volgare faccia parte della ribellione concettuale che Machiavelli lancia contro la tradizione. In parallelo alla nascita del volgare come linguaggio scientifico, adatto a trasmettere argomenti non puramente letterari, il latino perde l’egemonia ideologica che aveva avuto nel XV secolo, proprio come il progetto umanistico perde la battaglia sul terreno della Realpolitik su scala continentale. L’analisi del problema, tipico della teoria politica tradizionale, del rapporto tra “amore” e “timore”, è un ottimo punto di prospettiva per riconsiderare i rapporti tra il “Principe” e il popolo.

In questo numero di “Engramma”, inoltre, rendiamo accessibili agli studiosi i contributi di due storici italiani, molto rilevanti sotto diversi rispetti per la conoscenza del pensiero di Machiavelli.

Nel 1961 Sergio Bertelli scopriva la prova di una relazione diretta tra Machiavelli e l’opera di Lucrezio. Nei saggi Noterelle machiavelliane: un codice di Lucrezio e Terenzio (seguito, a distanza di tre anni, da Ancora su Machiavelli e Lucrezio) Bertelli annunciava di aver identificato la mano e la firma di Niccolò in un manoscritto databile a cavallo tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo, contente il De rerum natura e l’Eunuchus di Terenzio. Così, grazie all’acume dello storico – trentaduenne all’epoca della scoperta – e alla sua attenta disamina della grafia umanistica, e poi, nel merito, del testo trascritto, Machiavelli è sorpreso alle prese con l’opera di Lucrezio: a copiare accuratamente il testo; a includere in quella sorta di edizione critica manoscritta che è il codice Vat. Ross. 844, varianti provenienti dagli emendamenti di filologi diversi che, nell’ultimo quarto del XV secolo, si erano avvicendati nelle diverse edizioni a stampa dell’opera; infine a chiosare con cura i passaggi più significativi. Grazie a quegli studi di Bertelli sono stati illuminati alcuni snodi concettuali del pensiero di Machiavelli: si pensi soltanto al ruolo della Fortuna e del destino, al margine lasciato all’uomo e alle sue azioni dal libero arbitrio, alla luce della teoria del clinamen degli atomi.

Nel 1937 il “Journal of the Warburg Institute” – la rivista di studi ispirati alla lezione di Aby Warburg, in esilio a Londra dopo l’avvento al potere del partito nazionalsocialista in Germania – ospitava nel suo secondo numero un saggio di Delio Cantimori – anch’egli, all’epoca, studioso poco più che trentenne, che sarebbe stato chiamato a breve dal suo mentore e patrono accademico, Giovanni Gentile, alla Scuola Normale di Pisa. La ricostruzione del contesto culturale e politico in cui risultava plausibile l’affidamento a Delio Cantimori del saggio di apertura del “Journal” è affidato a una Nota introduttiva per la cura di Monica Centanni e Silvia De Laude, a cui segue la pubblicazione di Rhetoric and Politics in Italian Humanism e la redazione italiana del saggio (la versione d’autore su cui fu esemplata la traduzione di Frances Yates) di cui sono segnalate significative diffrazioni testuali rispetto all’edizione inglese. L’originalità del contributo di Cantimori sta nella rivalutazione dell’ambiente degli Orti Oricellari e nell’ipotesi di fondo che anima lo studio: la luce dell’impegno politico che conferisce smalto di senso alla vita activa degli intellettuali del tempo. Quella luce senza la quale ogni attività di pensiero è facilmente derubricabile a “poesia di corte”, al servizio non già di un “nuovo Principe” tutto da inventare, ma delle vecchie maschere del Potere. Una luce senza la quale si rischia di agire non in forza di “persuasione” ma per mera “rettorica” – per dirla con Carlo Michelstaedter che, contro l’impotenza dell’intellettuale (sua, di Machiavelli, di tutti noi) di risolvere questo snodo etico e concettuale, decise di sacrificare la sua propria giovane vita.

in copertina di “Engramma” 134: ms. Vat. Ross. 844, c.11r (dettaglio)

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English abstract

Engramma issue no. 134 “Macchiavelli: un uso sovversivo della tradizione classica” includes contributions by Monica Centanni, Peppe Nanni, Delio Cantimori, Silvia De Laude, Guido Cappelli, Luciano Canfora, Enrico Fenzi, Riccardo Fubini.

keywords | Macchiavelli; Warburg; Lucrezio; Humanism; Tucidide; Livio; Cicerone; Platone.

Per citare questo articolo / To cite this article: M. Centanni, P. Nanni, Machiavelli, gli Antichi e noi, “La Rivista di Engramma” n. 134, marzo 2016, pp. 7-22. | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2016.134.0008