Il desiderio del Laocoonte alla corte di Mantova
Lorenzo Bonoldi
La notizia del ritrovamento del Laocoonte (14 gennaio 1506) giunse rapidissima, per via diretta, alla corte dei Gonzaga. Il 17 gennaio, infatti, a soli tre giorni dal rinvenimento, Ludovico Brognolo, emissario mantovano presso la Curia Papale, partiva da Roma alla volta di Mantova, portando con sé il racconto della scoperta. Di ciò ci informa una lettera di Ludovico Canossa, altro diplomatico mantovano, spedita il giorno seguente alla Marchesa Isabella d’Este Gonzaga: “De le statue novamente trovate non scrivo a quella rimettendomi a messer Lodovico [Brognolo]”. Questa lettera del Canossa, datata 18 gennaio 1506, è in assoluto il primo documento relativo al ritrovamento del Laocoonte.
Pochi giorni dopo, il 31 gennaio, è il letterato Sabadino degli Arienti a scrivere da Bologna a Isabella per fornirle ulteriori indicazioni sul rinvenimento:
Questo dì per lo ducal cavalcator ex Roma ho receputo una lettera de uno mio honorando amico, adoperato assai per il suo reverendissimo patrone, cardinale Sancti Giorgii, in la quale receputa lettera gli è questo infrascripto capitulo de verbo ad verbum, il quale a mi è piaciuto scrivere a la vostra excellentia, considerando quella ne haverà piacere per essere vaga de la pictura et statuaria vetuste.”Per questa intenderete, Johannes mi, che uno romano, a questi dì, in una sua vigna in Roma, in loco dicto Capoce, appresso la chiesa de San Pietro in Vincula, non longe ab Amphitheatro, ha trovato tre figure ex lapide pario in una camera antiquissima, subterranea, bellissima, pavimentata et incrustata mirifice et haveva murato l’usso. Le figure son queste Laocoon, sacerdos Neptuni, cum duobus liberis amplexus a serpentibus duobus. Ipse et liberi de quibus apud Virgilium, in secundo Aenedios: ‘Primus ibi ante omnes, magna comitante caterva, Laocoon ardens summa decurrit ab arce et cetera’. De le quale figure parla Plinio, libro XXXVI, Naturalis Historiae, capitulo quinto in hec verba: ‘Nec plures pariter nuncupari possunt, sicuti Laocoonte, qui est in Titi imperatoris domo, opus omnibus et picturae et statuariae artis preponendum; ex uno lapide eum et liberos draconumque mirabiles nexus de consilii sententia fecere summi artifices Agesandres et Polidorus er Athenadorus Rhodii’. Che queste siano quelle figure che tempore Plinii erano in domo Titi imperatoris est clarissimum signum perché sono de mirabile excellencia et pre se ferunt maximam venustatem et dignitatem. Et quel loco vulgariter se chiama ‘la casa de Tito imperatore’ et quelle Capoçe, che sono sale subterranee cum molte porte de prospectiva, erant Thermae Titi imperatoris.
Queste figure son fragmentate, che al patre mancha uno brazo in quo habebat telum, ad uno de li figliuoli mancha un brazo similiter. Del resto sono assai integre et sane. Se existima che qualche volta, in eversione urbis a barbaris, passae fuerint ruinam et che qualche homo dabene per paura de qualche altra furia barbarica, quia istud saepe eveniebat, non le murasse in quella camera subterranea ne totum perierint, et cetera.
El cardinale San Piero in Vincula glie ne ha voluto dare mille ducati, monsignor nostro reverendissimo le voleva, el papa gli ha decto che nun ne facia contracto alchuno che lui le vole. Tutta Roma die noctuque concorre a quella casa che lì pare el iubileo. La magior parte de li cardinali li sono iti a vedere. Lui ne tene in la sua camera apresso lo lecto ben guardate.
Il successivo 7 marzo il tema del Laocoonte riemerge nuovamente nella corrispondenza fra Roma e Mantova, infatti Ludovico Canossa scrive a Isabella d’Este fornendole dettagli sulla collocazione voluta per il gruppo marmoreo da papa Giulio II:
Alla quale vostra signoria significho nostro signore havere havuto el Lacheonte er ponerasse in Belvedere, in loco assai publico, che Dio volesse fusse in la Grotta de vostra signoria, come di tale imagine più degna.
Fra le righe del carteggio isabelliano qui riportato si evince immediatamente un dato importante: in meno di due mesi “le statue novamente ritrovate”, le “tre figure ex marmo pario” si sono trasformate in “el Lacheonte”. Il mito è ormai consacrato.
Alcuni anni più tardi, nel 1511, il desiderio di poter annoverare il Laocoonte fra i mirabilia della Grotta di Isabella contagiava anche il giovane erede dei Gonzaga, Federico, all’epoca ospite/ostaggio del papa Giulio II. Come riferisce l’ambasciatore Stazio Gadio, il principe undicenne “augura et desidera spesso a Vostra Excellentia il Laocoonte qua e voria poterglilo mandare, chíel sa la lo istimaria et serialo charo como cosa excellentissima et opra divina”.
I corrispondenti e il figlio di Isabella ben conoscevano “l’insaciabile desiderio di cose antique” che animava la Marchesa di Mantova. Primadonna di un mondo che aveva inventato il tema del Laocoonte ancor prima di scoprirlo, Isabella avrà l’occasione di ammirare il gruppo ellenistico in occasione dei due soggiorni romani del 1514-1515 e del 1525-27. Per la sua Grotta, invece, se ne procurò due repliche, registrate nel 1542 nell’inventario della collezione e descritte come “un Laochoonte moderno” e “un altro Laochoonte di bronzo”.
Nell’inventario la spia linguistica mette in luce uno spunto interessante: il termine “Laochoonte” diventa il significante sia del soggetto che delle copie dell’opera. Dall’originale romano la formula del pathos si irradia a tutti i campi delle arti trascinando con sé anche la fortuna del soggetto mitologico: repliche in marmo e in metallo, bronzetti, maioliche, oreficerie e quant’altro. Lo stesso Federico Gonzaga ebbe l’idea, poi abbandonata per motivi economici, di commissionare al più grande orafo del momento, il milanese Caradosso, “uno Laocoonte d’oro di tutto relevo con li suoi figlioli e serpenti come è qua de marmore [...] per portar in uno capello”.
Col passare del tempo e con la produzione ‘a cascata’ di repliche e derivazioni del Laocoonte, il tema mitologico e iconografico divenne un vero e proprio cliché, al punto che i committenti e i collezionisti più esigenti, nella fattispecie Isabella d’Este e Federico Gonzaga, oramai divenuto adulto, sentirono la necessità di distaccarsene.
Nel 1530 circa, Isabella d’Este commissionava al Correggio due tele per il proprio Studiolo. In una delle due, l’Allegoria del Vizio, la figura centrale, un uomo legato a una pianta e tormentato da serpenti e baccanti, deriva bensì la postura dal Laocoonte, ma si discosta dal modello per numerose varianti (oltre che per il soggetto).
Nello stesso torno d’anni anche Federico Gonzaga, che ancora nel 1525 commissionava a Jacopo Sansovino una copia in stucco del Laocoonte alta un braccio, avvertiva il desiderio di distaccarsi dalla moda ormai troppo inflazionata della replica del gruppo romano: per decorare la sua Sala di Troia (inizio dei lavori: 1536) il Marchese di Mantova chiese a Giulio Romano di rappresentare la Morte di Laocoonte in maniera diversa rispetto al Gruppo del Belvedere, rifacendosi non alla versione del mito narrata nell’Eneide ma a quella di Igino (come attestato dalla presenza della moglie del sacerdote, cfr. Fab. CXXXV).
Ancora una volta, quindi, il gusto erudito per le versioni meno note del mito antico diventa il marchio ostentato di una sorta di “sprezzatura” culturale. Tuttavia, nell’apparente distacco dal cliché iconografico del gruppo del Belvedere, Giulio Romano non rinunciò del tutto a un’allusione puntuale all’illustre modello: in uno dei figli del Sacerdote il pittore cita ‘in disguise’ la postura del gruppo ellenistico del Belvedere.
Da notare che in Tavola 41a del Mnemosyne Atlas di Aby Warburg, l’immagine dell’affresco di Giulio Romano Morte di Laocoonte è riprodotta con la destra e la sinistra invertite. Al momento non è possibile sapere se Warburg conoscesse l’originale, se fosse in possesso di una riproduzione corretta e se quindi fosse consapevole del basculamento fotografico. Pertanto non sappiamo con certezza se Warburg, inserendo questa immagine in quella determinata posizione della tavola, volesse sottolineare un rapporto di continuità o di distanza con il mito iconografico rinascimentale del Laocoonte.