"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

L’originale assente. L’invenzione del Laocoonte

Saggio interpretativo di Mnemosyne Atlas, Tavola 41a

Monica Centanni

Immagine di Tavola 41a

Il pannello 41a dell’Atlante Mnemosyne di Aby Warburg è dedicato interamente al Laocoonte. In Tavola 41a manca però l’immagine del gruppo ellenistico-romano, ritrovato a Roma nel 1506.

Significativo il dato che anche nel contratto appunto che Warburg lascia come titolo tematico per questo pannello “Leidenspathos. Tod des Priesters” non compaia il nome dell’infelice sacerdote di Poseidone, che pure è il protagonista assoluto del montaggio.

a sin: Mnemosyne Atlas, Tavola 41a; a dex: Mnemosyne Atlas, Tavola 6

Il gruppo del Laocoonte compare invece in un altro punto dell’Atlante: l’immagine è presente in Tavola 6, uno dei cinque pannelli ‘archeologici’ (il gruppo di Tavole 4-8) in cui vengono presentati esempi delle preformazioni antiche dei soggetti e delle formule di pathos destinati a riemergere – formalmente e tematicamente – nel Rinascimento (Mnemosyne Atlas, Tavola 6). Posto al mezzo di una serie di rilievi e di affreschi che raffigurano Polissena trascinata all’altare, la Menade-sacerdotessa rapita nell’estasi dionisiaca, scene pompeiane con culti di Iside, immagini di danze funerarie; al centro insomma di una serie eloquente di raffigurazioni di forme violente o rituali di ‘sacrificio’, il gruppo – che rappresenta il sacerdote morente per volere del suo stesso dio – spicca come elemento centrale di un discorso che ha come coordinate tematiche il sacrificio e il dolore: all’incrocio tra queste linee, come esempio supremo delle loro risultanti formali, sta l’immagine simbolo che in sé contiene sia il pathos dell’officiante sia il pathos del sacrificato. Questo ruolo centrale del ‘Laocoonte’ in Tavola 6 è confermato, oltre che dalla posizione centrale nella sintassi del pannello, anche dal fatto che si tratta dell’unica scultura a tutto tondo tra reperti bidimensionali, per lo più bassorilievi e affreschi: il “sacerdote sacrificato” si propone così come figura superlativa del dolore della vittima e insieme della pietas del sacerdote.

La presenza del gruppo del Laocoonte in Tavola 6 di per sé non basta però a motivare l’assenza dell’immagine in Tavola 41a. Nella composizione dell’Atlante non è inconsueto, infatti, che figure tematicamente o formalmente importanti vengano puntualmente riprese da un pannello all’altro. Nella ratio che regola il funzionamento interno di Mnemosyne la ripresa di una figura o di un dettaglio ha spesso la funzione precisa di collegare a distanza temi, formule e idee: come nel meccanismo del funzionamento della memoria, la ripetizione o la citazione di un’immagine funziona come collegamento per sinapsi, che apre a un orizzonte più ampio attivando un campo di ragionamento che include l’argomentazione specifica nel tessuto complessivo di senso.

Non esiste, dunque, alcuna regola compositiva interna all’Atlante che precluda la possibilità di ripetere un’immagine da una tavola all’altra; al contrario, il gruppo del Laocoonte, proprio perché già presente, e con un ruolo cruciale, in Tavola 6, avrebbe potuto a buona ragione essere funzionalmente ripreso in Tavola 41a.

Sappiamo per altro da Gertrud Bing che il Laocoonte – come opera e come soggetto della speculazione estetica filosofica – ebbe un ruolo fondamentale nell’indirizzare gli interessi di Aby Warburg quando era ancora uno studente di storia dell’arte. Scrive Gertrud Bing nella prefazione all’edizione italiana dei saggi di Warburg:

Il Laocoonte di Lessing [...] per sua testimonianza, fu il libro che avviò Warburg ancora giovane ai propri studi (Bing in RPA 1966, XXVI).

La testimonianza è confermata da Ernst Gombrich che ribadisce il ruolo del ‘Laocoonte’ nell’imprimere una direzione agli studi di Warburg.

Non era stata comunque la cultura letteraria dell’antichità classica ad attrarre la sua immaginazione, ma un problema psicologico di etica e di espressione tradizionalmente connesso nella cultura tedesca con un’opera d’arte dell’antichità. Warburg diceva spesso che era stata la lettura del Laocoonte di Lessing, con il suo maestro Oscar Ohlendorff, a imprimere una direzione ai suoi pensieri (Gombrich [1970] 2003, 28).

Sulla cattiva comprensione di Ernst Gombrich rispetto all’“attrazione” di Warburg per il Laocoonte v. in questo stesso numero di Engramma, L’attrazione psicologica di Warburg per il ‘Laocoonte’.

Ma per capire il senso dell’assenza del ‘Laocoonte’ in Tavola 41a proviamo a interrogare lo stesso studioso, che dedica al tema alcune pagine importanti.
In realtà nei saggi destinati alla pubblicazione, Warburg non menziona mai il Laocoonte di Lessing. Cita invece, polemicamente, la pagina che Winckelmann dedica al ‘Laocoonte’ in cui l’opera ellenistica è menzionata come esempio limite della “nobile semplicità” e della “quieta grandezza” che costituirebbero la peculiare caratteristica dei capolavori greci: quell’anima “grande e posata” che – a quanto sostiene Winckelmann – trasparirebbe per quanto possa essere turbata da grandi passioni “come la profondità del mare che resta sempre immobile per quanto agitata ne sia la superficie” (Warburg [1914] in RPA 1966, 305).

Con una mossa retorica paradossale Winckelmann impone anche al ‘Laocoonte’ la sua estetica consolatoria dell’antico – tutta olimpica e apollinea. Warburg ribalta a sua volta retoricamente questo schema come sponda dialettica per affermare una concezione dell’antico “diametralmente opposta”. Ma la diametrale opposizione non va nel senso della rivendicazione (inversa, ma altrettanto univoca) di una antichità tutta “dionisiaca”. Per Warburg, infatti, “una qualità essenziale dell’arte dell’antichità greco-romana” sta nel suo essere, costitutivamente, duplice ed equivoca, come nel simbolo dell’ “erma bifronte” in cui “l’ethos apollineo germoglia insieme al pathos dionisiaco” (Warburg [1914] in RPA 1966, 306-307). E questa duplice lettura dell’antico viene propugnata tenacemente da Warburg, perché secondo quanto vede lo studioso è propriamente la concezione dell’arte classica “che corrisponde allo spirito del Quattrocento”: Warburg, dunque, ha fatto senza dubbio tesoro della lezione nietzscheana, ma traduce lo schema apollineo/dionisiaco in una prospettiva rigorosamente storica, mai astratta o generica. Secondo Warburg l’estetica winckelmanniana dell’antico risulta “sbagliata” rispetto all’antico non secondo un metro assoluto, ma perché inefficiente rispetto alla prospettiva rinascimentale sull’antico. Il Rinascimento, infatti, cerca non già (o non solo) paradigmi di “quieta grandezza” e di serena compostezza, ma cerca e trova, piuttosto, nei modelli classici mobilità e irrequietezza: casi esemplari che restituiscano, nelle espressioni del volto e nei movimenti del corpo e degli accessori, l’intensità del pathos.

E non a caso: perché questo, per i suoi caratteri dinamici e iper-espressivi, era l’antico che poteva funzionare, e che funzionò da innesco per la rivoluzione della sensibilità e del gusto rinascimentale rispetto alla compostezza estetica medievale. Pertanto il Rinascimento che questo stile – mimico e patetico – cercava, esattamente quello stile dell’antico nel ‘Laocoonte’ finisce per trovare. L’espressione intensificata, l’enfasi del movimento che il ‘Laocoonte’ esprimeva si proponeva agli occhi degli artisti rinascimentali come l’elemento riconoscibile di una lingua comune, un “emblema di partito” antimedievale (si potrebbe dire mutuando una bella espressione da Eugenio Garin); e perciò connotò l’estetica rinascimentale e si impose, in modo prepotente rispetto ad altre possibili tendenze. Secondo Warburg il Rinascimento sarebbe stato a tal punto impegnato nella ricerca del modello – e per esso di quel particolare stile dell’antico – che del ‘Laocoonte’ sarebbe stato trovato un esemplare già prima del ritrovamento ufficiale del gruppo nel 1506:

E quando nel 1488 fu ritrovata durante scavi notturni a Roma, una piccola rielaborazione del gruppo del Laocoonte, gli scopritori, senza prender nota del contenuto mitologico, ammirarono con acceso entusiasmo artistico l’espressione delle figure tormentate e “certi gesti mirabili” che così fortemente li colpivano; era il latino volgare della mimica patetica che si capiva internazionalmente e istintivamente ovunque si trattasse di spezzare i vincoli imposti dal Medioevo all’espressione (Warburg [1905] in RPA 1966, 199).

Di questo ritrovamento Warburg rintraccia notizia in una lettera di Luigi Lotti a Lorenzo il Magnifico:

Luigi Lotti il quale insieme con il nostro Giovanni Tornabuoni dava la caccia alle cose antiche a Roma per conto dei Medici [...] ebbe la fortuna durante scavi notturni in una villa del Cardinal Della Rovere, di ritrovare nel 1488 una piccola replica del gruppo del Laocoonte. Il contenuto mitologico non gli riusciva chiaro e gli era indifferente. La sua ammirazione entusiastica si rivolgeva soltanto al pathos della forma: “et ha trovato tre belli faunetti in una basetta di marmo, cinti tutti e tre da una grande serpe, e quali mei iudicio sono bellissimi, et quali que del udire da voce in fuora (in ceteris) pare spirino, gridino et si fendino con certi gesti mirabili: quello del mezzo videte quasi cadere et expirare”. Non abbiamo più notizia di questo gruppo il cui trasferimento a Firenze fu probabilmente impedito: la riscoperta ufficiale del grande gruppo del Laocoonte stesso che mise in agitazione tutta Roma avvenne soltanto nel 1506. Ma ciò nonostante non si dovrebbe far dipendere l’influenza del Laocoonte soltanto dal fatto del suo tangibile ritorno (Warburg [1914] in RPA 1966, 306-307).

Nel caso dei “tre faunetti” Warburg sbaglia sul dettaglio dell’identificazione del reperto (sull’identificazione sbagliata da parte di Warburg, v. Appendice) ma questo dato non compromette la validità della sua argomentazione e del suo giudizio che vede nel ‘Laocoonte’ il “sintomo” di una sensibilità già predisposta a quell’esperienza; “sintomo”, e non già causa della “degenerazione” dell’estetica patetica verso la maniera barocca:

In modo del tutto errato si ritiene infatti che il ritrovamento del Laocoonte del 1506 sia una delle cause dello stile barocco romano del grande gesto, che in quell’epoca ha il suo inizio. La scoperta del ‘Laocoonte’ è per così dire solo il sintomo esterno di un processo storico-stilistico che trova in se stesso la propria logica e sta allo zenith, non all’inizio della degenerazione barocca. Si trovò semplicemente quanto da tempo si era cercato nell’antichità e perciò si era trovato: la forma stilizzata in sublime tragicità per i valori-limite dell’espressione mimica e fisionomica (Warburg [1905] in RPA 1966, 199).

Warburg ha quindi ragione per quanto riguarda il senso della sua argomentazione. Ma il senso della ‘ragione’ di Warburg, l’articolazione della sua argomentazione, piuttosto che nei brani dei suoi saggi che si soffermano incidentalmente sul tema, si trova espressa più chiaramente e con maggior sistematicità nel ragionamento per immagini proposto in Tavola 41a, che è tutto incentrato proprio su questo tema.

Tutta la fascia superiore di Tavola 41a propone immagini del Laocoonte prima del ‘Laocoonte’: tracce di una conoscenza del soggetto-Laocoonte, precedenti al ritrovamento dell’opera. Le figure 1, 2, 3, 4, 7 (illustrazioni tratte da manoscritti dal XII al XV secolo) testimoniano della conoscenza del tema mitologico e di una sua sporadica fortuna iconografica: Fig. 4, in particolare, è la riproduzione di una pagina di un manoscritto in cui il corpo di un (presunto) ‘Laocoonte’ è stretto nelle spire di una grande lettera P, fornendo lo spunto decorativo per la capitale miniata.

Ma nella stessa sezione del pannello vengono proposte anche testimonianze di volti precedenti al ritrovamento del gruppo segnati da un’espressione patetica assimilabile a quella del disgraziato sacerdote del capolavoro antico. L’esempio di due disegni di Pisanello datati circa 1435 [Figg. 5 e 6] e dell’Adamo dell’affresco di S. Maria Novella a Firenze, datato 1494-1495 [Figg. 8 e 13], sono funzionali al teorema che Warburg propone secondo cui il volto del ‘Laocoonte’, e proprio quel volto contratto dal dolore, non genericamente il tema-Laocoonte, era così avidamente ricercato nel Quattrocento da essere preinventato ben prima della scoperta dell’esemplare antico.

Un dettaglio nel montaggio del pannello rivela la cura nella strategia compositiva che Warburg adopera nella composizione dell’Atlante: all’immagine di insieme dell’affresco di Filippino Lippi [Fig. 8] viene giustapposto un disegno conservato agli Uffizi dello stesso Lippi sul tema della morte di Laocoonte [Fig. 10]: l’iconografia del tutto particolare del disegno attesta un interesse dell’artista per il soggetto (e forse una certa famigliarità con la tradizione manoscritta relativa al tema), ma anche, inequivocabilmente, una totale ignoranza del modello ellenistico e di quella che diverrà l’iconografia più famosa di Laocoonte, a partire dal ritrovamento del 1506. Sotto il disegno del Laocoonte di Lippi compare però il dettaglio del volto dell’Adamo [Fig. 13; dettaglio da Fig. 8]: un volto che prelude cronologicamente al volto ellenistico del ‘Laocoonte’ e che viene però in questo modo iscritto, con intenzionale forzatura anacronistica, nella serie dei “Laocoonte dopo ‘Laocoonte’” che dal modello antico risultano direttamente dedotti.

Dal montaggio stesso del pannello si ricava dunque l’idea di un avvicinamento progressivo a quell’espressione del patetico, che, finalmente, viene inventata (ovvero etimologicamente ‘ritrovata’) soltanto nel 1506, nel volto del vero ‘Laocoonte’. A conforto ulteriore di questo discorso per immagini che Warburg ci propone, potremmo aggiungere un altro tassello: la sinopia di Michelangelo, nella sacrestia di San Lorenzo a Firenze, quasi certamente precedente al ritrovamento del gruppo, ma che pur tuttavia somiglia in modo impressionante al modello.

Esempio sublime di quell’ “eloquenza patetica” che gli artisti rinascimentali nell’antico avidamente ricercavano, il ritrovamento del 1506 è una sorta di come volevasi dimostrare. Ma addirittura – sostiene Warburg – “il gruppo dei dolori del ‘Laocoonte’, se il Rinascimento non lo avesse scoperto avrebbe dovuto inventarlo” (Warburg [1914] in RPA 1966, 307). L’affermazione che nella redazione scritta ha un’intonazione dichiaratamente provocatoria, nella versione figurata di Tavola 41a è declinata in modo del tutto puntuale e rigoroso.

Le presenze e le assenze in Tavola 41a confermano che per Warburg il ritrovamento del ‘Laocoonte’ del 1506 rappresenta lo snodo, il punto di non ritorno verso la maniera enfatica del pathos. Nella fascia centrale Tavola 41a illustra anche, per exempla, la storia della precocissima fortuna del gruppo e del soggetto.

Appena scoperto, il ‘Laocoonte’ come un oggetto del desiderio a lungo agognato, viene prontamente divulgato, variamente imitato e presto riprodotto su tutti i tipi di supporto (compresi oggetti di ‘uso’, o quanto meno di mercato divulgativo, come i piatti in ceramica, di cui Tavola 41a porta due esempi [Figg. 12 e 14].

Un considerevole numero di documenti relativi alla subitanea fama del ‘Laocoonte’ e all’accendersi immediato di interesse nei confronti dell’opera, sono stati raccolti da Sonia Maffei in Settis 1999, 85 ss. La prova più eclatante della diffusione dell’immagine e della sua riconoscibilità è la trasfigurazione satirico-burlesca di Tiziano, di cui c’è traccia in un’incisione di Nicolò Boldrin conservata agli Uffizi: il gruppo è ridisegnato facendone protagonisti uno scimpanzè e i suoi piccoli.

Nel saggio che Lorenzo Bonoldi presenta in questo stesso numero di Engramma si può apprezzare, in positivo e in negativo, la fortuna dell’opera, prima avidamente desiderata dalla corte mantovana, e poi a distanza di pochi anni a tal punto inflazionata da indurre Giulio Romano a proporre invece, nel Palazzo Ducale di Mantova, una variante sul tema (ma con citazione).

Il gruppo del ‘Laocoonte’, ritrovato perché cercato, una volta scoperto e divulgato confermò e contemporaneamente condizionò irreversibilmente l’idea di antico degli artisti rinascimentali. Dopo che fu disponibile quel paradigma dell’eloquenza patetica, il Rinascimento non si tiene più in equilibrio: diventa subito, in consonanza stilistica con i suoi modelli, “ellenismo” e rivela una sua, già connaturata, tendenza alla maniera.

Tavola 41a disegna dunque la linea iperbolica dell’assunzione di consapevolezza di un’estetica “barocca” dell’antico, imparata certo dagli esemplari ellenistici che erano a disposizione, ma anche immaginata sul filo di fantasie che, soprattutto nel campo della plastica, si nutrivano di suggestioni squisitamente ellenistiche.

Dopo lo zenith segnato dal ritrovamento del ‘Laocoonte’ – come ci dice Warburg nei suoi scritti e attraverso la trama compositiva di Tavola 41a – il pathos espressivo può soltanto declinare e perdere di intensità, diventando un esercizio manierato e comune: via via sempre più diluito, finché l’intensità emotiva e l’espressività caricata peculiare del nucleo mitico (l’enfasi che si apprezza nel Laocoonte di Virgilio: Eneide II, 201) non si attenua e finisce per evaporare.

Da un lato dunque il mito potente di Laocoonte e del suo sacrificio perde in carnalità e in potenza, riducendosi ad astratta allegoria. Così accade nella descrizione e poi nell’illustrazione dell’Iconologia di Cesare Ripa, in cui il corpo avvinghiato dal serpente marino del sacerdote diventa astratta raffigurazione del ‘Dolore’, come corredo figurativo di un testo che così recita:

Huomo mezo ignudo con le mani & piedi incatenati & circondato da un serpente, che fieramente gli morda il lato manco, sarà in vista molto malinconioso [...].

Dall’altro lato le raffigurazioni di Laocoonte tendono via via a distaccarsi sempre più nettamente dal modello ellenistico-romano, conservandone solo una blanda ispirazione.

Nello slittamento delle variazioni sul tema, viene privilegiato un tipo di composizione in cui prevale il compiacimento per la resa delle sinuosità delle membra delle vittime implicate nelle spire tortuose dei serpenti: un contorcimento che pare preludere alla fusione tra il corpo del sacerdote e dei figli e le spire stesse dei rettili, alludendo a una nuova fabula di metamorfosi. A quel punto non interessa più restituire la potenza del soggetto mitico, rappresentato nella sua più intensa Pathosformel; ci si compiace invece di raffigurare il languore delle forme intricate in cui vittime e demoni carnefici tendono a confondersi nelle forme di ibridi marini. La stessa sensibilità, già espressa in età tardo antica nello stile delle pitture parietali pompeiane, viene ripresa come engramma da El Greco nella sua nuovissima reinvenzione del Laocoonte a Toledo.

Laocoonte dunque non manca in Tavola 41a: è assente e, in absentia, incombe e avverte della sua latitanza.

Warburg esclude, con un atto intenzionale e fortemente significativo, l’originale dalla composizione del pannello: perché Tavola 41a non è una tavola archeologica o iconografica sulla scoperta del ‘Laocoonte’, o sulla precoce fortuna del gruppo. Anche in questo pannello, come sempre, Mnemosyne ci propone invece un ragionamento complesso sulla riemersione – anche preventiva alla scoperta del modello, ma per cui, al limite, potrebbe non essere necessario ipotizzare un modello – di un tema e di uno stile patetico ispirato all’antico.

Tavola 41a è la dimostrazione che il ‘Laocoonte’, il Rinascimento l’ha trovato perché lo cercava; l’ha visto e lo ha apprezzato perché lo voleva; che il Rinascimento – e in particolare Michelangelo – si inventa il ‘Laocoonte’ perché ha bisogno proprio di quel riflesso per conformare un suo stile. Così il Rinascimento culmina con la scoperta annunciata di quella cifra dell’antico che nel gruppo del Laocoonte è paradigmaticamente tradotta in marmo.

Ma Tavola 41a è anche un ottimo esempio di metodologia dello studio della tradizione classica; giocando con presenze e assenze esemplari, Warburg in questo pannello apparentemente monotematico mostra per figuras la trama complessa di un percorso che vede in atto simultaneamente tutti i meccanismi della tradizione: persistenza-reinvenzione-ritrovamento-variazione e infine scarto rispetto all’ “originale” antico.

Riferimenti bibliografici
  • RPA 1966
    Warburg, La rinascita del paganesimo antico, a cura di G. Bing, tr. it. di E. Cantimori, Firenze 1966.
  • Bing in RPA 1966
    G. Bing, Introduzione, in A. Warburg, La rinascita del paganesimo antico, a cura di G. Bing, tr. it. di E. Cantimori, Firenze 1966.
  • Forster [1999] 2002
    K. Forster, Aby Warburg cartografo delle passioni. Introduzione a Aby Warburg, The Renewal of Pagan Antiquity, a cura di K. Forster, Los Angeles 1999; tr. it. di G. Bordignon in K. Forster, K. Mazzucco, Introduzione ad Aby Warburg e all’Atlante della Memoria, a cura di M. Centanni, Milano 2002.
  • Gombrich [1970] 2003
    E.H. Gombrich, Aby Warburg. Una biografia intellettuale [1970] tr. it. di A. Dal Lago e P.A. Rovatti, Milano 1983, nuova edizione con prefazione di K. Mazzucco, Milano 2003.
  • Settis 1999
    S. Settis, Laocoonte. Fama e stile, Roma 1999.
  • Warburg[1929] 1998
    A. Warburg, Introduzione all'Atlante Mnemosyne, tr. it. di G. Sampaolo in Mnemosyne. L'Atlante della Memoria di Aby Warburg, materiali a cura di I. Spinelli e R. Venuti, Roma 1998.

Appendice

“Warburg aveva torto...”: una lezione di metodo di Gertrud Bing (da applicare al caso dei “tre faunetti”)

I “tre faunetti” trovati nel 1488 in una vigna a Roma vengono presentati correttamente da Warburg come l’esito trionfale di una “caccia di cose antiche”. Ma Warburg arriva ad affermare anche che il rinvenimento anticiperebbe la “scoperta” del Laocoonte di quasi vent’anni. Sulla scorta di Burckhardt infatti, Warburg sostiene l’identificazione dei “tre faunetti” rinvenuti nel 1488 con una replica del ‘Laocoonte’.

Sul punto specifico, come ha ribadito da ultimo Salvatore Settis, Warburg sbaglia: la piccola scultura trovata dai cercatori di antichità per conto dei Medici non era un bronzetto e, quasi certamente, non era neppure una replica del gruppo scultoreo ricordato da Plinio. Si trattava invece, molto probabilmente, del gruppo dei Satiri in lotta con i serpenti già a Graz (Settis 1999, 20-21 e n. 6, con bibliografia).

Dunque la prova addotta da Warburg di una tensione verso il Laocoonte prima del “ri-trovamento” del vero ‘Laocoonte’, alla luce degli aggiornamenti critici viene a cadere. Non è, ovviamente, l’unico “errore” che Warburg commette nel corso delle sue ricerche; come ammoniva puntualmente Gertrud Bing:

Parecchie sue attribuzioni e derivazioni devono essere corrette alla luce delle cognizioni moderne (Bing in RPA 1966, XIII).

Bing introduceva così la segnalazione di un’altra – più clamorosa – svista di Warburg: la deduzione del gesto del David “del Pollajuolo” – in realtà attribuito poi ad Andrea del Castagno – dalla postura del Pedagogo del gruppo dei Niobidi.

Nel caso, si tratta di un vero e proprio abbaglio che va contro i dati assodati della disciplina storico archeologica: il Pedagogo infatti – nota Bing – “fu ritrovato appena nel 1583 ed è fortemente restaurato”. Bing però, nel rilevare puntualmente l’errore del Maestro, riconosce che sotto quell’errore si cela un’argomentazione che non va obliterata in fase di correzione dell’errore stesso. Infatti nonostante Warburg sul punto avesse torto, la posa che come rilevava lo studioso stesso “non appare antica” è comunque una derivazione dall’antico “di fatto documentata da antichi manoscritti di origine classica: bisogna guardarsi bene dal respingere, insieme con i suoi errori, anche i suoi argomenti” (Bing in RPA 1966, XIII).

* La numerazione delle singole riproduzioni contenute nelle tavole fa riferimento alla numerazione dell’edizione dell’Atlante Vienna 1994.