"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

131 | dicembre 2015

9788898260768

Non poena sed causa facit martyrem. Per Khaled Muhammad Al Asaad

Franco Cardini

English abstract

La Siria è in fiamme. La Siria paga con il suo calvario forse anche i delitti e gli errori della ‘dinastia’ alawita degli Assad che la governa dal 1970 – ma che era tuttavia riuscita a stabilire uno dei migliori e più ordinati stati sociali di tutto il Vicino Oriente e ad imporre una pace religiosa della quale le differenti comunità cristiane presenti sul suo territorio le erano e le restano grate – e non tanto quelli dell’attuale rais Bashar quanto quelli di suo padre Hafez; ma paga altresì le conseguenze dell’essere stata scelta come capro espiatorio da alcune potenze europee – segnatamente dalla Francia di Hollande e dalla Gran Bretagna di Cameron – che hanno denunziato il suo governo come principale repressore della “primavera araba” sul suo territorio laddove, come ormai tutti sappiamo, le “primavere arabe” sono state tutte (con l’unica eccezione tunisina) se non un bluff, un grave malinteso: e molti sono i governi la repressione dei quali è stata in realtà, in quei frangenti, ben più dura e spietata di quella assadista.

La Siria paga inoltre il prezzo di essere un Paese nel quale poco più della metà dei cittadini è musulmana di confessione sunnita, mentre la famiglia del rais e l’oligarchia politica e militare che lo sostiene è in gran parte non solo sciita, ma addirittura appartenente al gruppo sciita minoritario degli alawiti: d’altronde, il particolare riguardo che il regime baathista siriano dedicava alle minoranze etno-religiose dipendeva appunto da questa particolare circostanza. Gli alawiti sanno bene, non meno dei drusi, degli yazidi, dei mandei, dei mazdei e dei cristiani stessi (per non parlare degli ebrei) che cosa può significare appartenere a una minoranza etno-religiosa: e quanto meno sotto questo profilo sono rimasti fedeli a una politica garantista. D’altronde il partito Baath, superstite di quel “socialismo arabo” che è pur stato una grande speranza del Vicino Oriente tra Anni Cinquanta e Anni Settanta e che comunque nello stesso Iraq è rimasto in piedi fino al 2003 ispirando anche i palestinesi di Arafat e almeno in una prima fase il governo di Muammar Gheddafi in Libia. Pilastro essenziale dell’ideologia Baath era l’appartenenza etnica al mondo arabo e nazionale ai singoli stati arabi: il che, ponendo in implicita seconda linea l’appartenenza religiosa, faceva sì che musulmani e non-musulmani, cittadini di uno Stato arabo socialista, si sentissero tutti su un identico piano per quanto ciò entrasse in contrasto obiettivo con il diritto musulmano che stabilisce una differenza netta tra credenti nella fede coranica e ahl al-Kitab (‘gente del Libro’), compartecipi entro certi limiti della Rivelazione divina e pertanto abilitati a esercitare in sede privata il loro culto, ma dhimmi (‘protetti’, ma anche ‘dominati’). Per questo il “socialismo arabo” era incompatibile con qualunque forma di radicalismo islamista; il quale d’altronde, pur avendo conosciuto con il pensiero dell’imam Rukhullah Khomeini e con la Repubblica Islamica dell’Iran il suo modello senza dubbio più alto, si è poi sviluppato in area sunnita accogliendo le istanze della scuola giuridica salafita e trovando il suo appoggio definitivo nel wahhabismo saudita e yemenita dal quel è sorta la galassia politico-terrorista di al-Qaeda della quale il Califfato del Daesh (al-Dawla al-Islamiyya fi al-Iraq wa al-Sham: letteralmente “Potere musulmano dell’Iraq e della Grande Siria”), che ormai siamo abituati a chiamare con la sigla anglofona di IS o ISIS (Islamic State, o Islamic State of Iraq and al-Sham) è originariamente una costola (una scheda sulla genesi dell'IS in questo stesso numero di Engramma, nel saggio corale Palmyra-Parigi, Appendice 1; un lessico di base di termini in uso nella definizione del complesso mondo islamico, è nello stesso saggio corale Appendice 2).

La Siria paga altresì – come dicevamo all’inizio – il prezzo della maldestra ambizione e dell’inintelligenza politica del presidente francese Hollande e della sua corte, nella quale spicca il sinistro Bernard-Henri Lévy, e del gruppo di rifugiati politici (per quanto tra loro, come accadde per l’Iraq prima del 2003, vi siano anche degli esuli per meno nobili motivi) che costituiscono il nucleo dell’associazione Amis de la Syrie, elaboratori della menzogna di un Assad eccezionale responsabile dell’affossamento della “primavera araba” del suo Paese (altri leaders nel mondo arabo hanno commesso ben più gravi atrocità al riguardo) e sostenitori di quei gruppi di “opposizione laica” anti-assadista i quali, nell’àmbito della guerra civile ormai scatenata, avrebbero dovuto condurre, dal 2011, quell’offensiva militare di una Free Syrian Army che all’atto pratico si è dimostrata ben povera cosa. Gli oppositori armati di Assad più efficaci e agguerriti sono stati e restano i miliziani islamisti di organizzazioni come al-Nusra, a loro volta collegati con la galassia di al-Qaeda: ma nella guerra civile siriana la compagine degli anti-assadisti – alcuni dei quali filo-turchi, altri vicini al Califfo – solo di recente sembra aver trovato un equilibrio interno indirizzato a una quanto meno provvisoria unità d’azione ma egemonizzato sempre più dall’IS. Nella pratica, l’improvvida politica di Hollande ha ricalcato per la Siria gli errori commessi nel 2011 in Libia da Sarkozy: volontà di rovesciare a qualunque costo “il tiranno” e appoggio a tale scopo anche agli islamisti. È il vecchio demone occidentale: esattamente come gli USA in Afghanistan che tra 1987 e 1992 sostennero e armarono i mujahiddin islamisti per rovesciare il governo del socialista Najibullah e battere i suoi alleati sovietici impedendo al tempo stesso che gli afghani potessero liberarsi anche usufruendo dell’appoggio iraniano. Ne nacquero come sappiamo l’aggregazione guerrigliera islamista di al-Qaeda, il potere dei talebani sull’Afghanistan in un primo tempo sostenuto dagli Stati Uniti, l’uccisione dell’eroico comandante Massud che avrebbe potuto imprimere una direzione diversa alla politica afghana e, dopo l’11 settembre 2001, l’occupazione statunitense dell’Afghanistan e il cul de sac dal quale non si è più riusciti a uscire, aggravato nel 2003 dalla sciagurata avventura irakena di Bush. Da tutto ciò, francesi e inglesi hanno brillantemente dimostrato, in Libia prima e poi, dal 2011 in Siria, di non aver saputo trarre alcuna lezione. Oggi, l’ambiguità anzi l’ipocrisia di un Occidente che si illude di manovrare il golem islamista a suo piacere e che regolarmente se ne vede sfuggire il controllo dalle mani ha condotto in Libia alla scissione fra una Tripolitania in mano alle varie forze jihadiste, con la correlativa avanzata delle istanze califfali e l’appoggio della Turchia di Erdoğan e una Cirenaica orientata piuttosto ad appoggiarsi alla NATO e all’Egitto di al-Sisi, dove peraltro quel che resta dei Fratelli Musulmani si sta a sua volta volgendo verso l’IS. 

Cercando di fornire a questa sommaria analisi maggiore e più approfondita prospettiva storica, va infine aggiunto che la Siria paga il prezzo del peso delle sue alleanze passate, ancora vigenti sia pure nel mutato clima internazionale, e presenti, in parte anche dipendenti da ragioni geopolitiche. Pur legata storicamente e culturalmente, come del resto il vicino Libano, alla Francia della quale dal 1925 era stata protettorato, le sue vicende dopo il 1941 (quando nel clima della sconfitta militare della Francia essa fu dichiarata indipendente) e soprattutto dopo la presa di potere del partito Baath nel 1957 e la girandola di colpi di Stato che le fecero seguito fino all’instaurazione della dittatura assadista nel ’70, finirono con il fatalmente condurla ad appoggiarsi progressivamente alla superpotenza sovietica, tanto più che nel 1967 essa aveva perduto nella guerra contro Israele le alture del Golan – fondamentali sotto il profilo strategico e sotto quello dell’approvvigionamento idrico – che lo Stato ebraico dichiarò annesse nel 1981. I buoni rapporti tra Siria e Unione Sovietica hanno sopravvissuto al polverizzarsi di quest’ultima e si sono tradotti, si può dire intatti, in un’alleanza costante sia con la Repubblica federale Russa sia, di conseguenza, con la Comunità degli Stati Indipendenti (CSI) che dal 1991 raccoglie e coordina sotto il profilo economico e sotto la presidenza della Russia tutti gli stati della ex URSS, con esclusione delle repubbliche baltiche, della Georgia e del Turkmenistan. Altrettanto forte e solida è, dal 1979, l’amicizia tra Siria e Repubblica Islamica dell’Iran, sua confinante a nord-est, alla quale la lega la prossimità religiosa tra alawiti siriani (pur minoritari nel loro Paese) e sciiti duodecimimani iraniani (non arabi, però religiosamente maggioritari nel loro). L’alleanza triangolare Siria-Iran-Russia, cui negli ultimi anni si è progressivamente avvicinato il governo iracheno – com'è noto instaurato nel 2003 dagli statunitensi, ma espressione tuttavia della maggioranza sciita del Paese – costituisce nel suo complesso un blocco importante, che nell’equilibrio vicino-orientale è obiettivamente prossimo al mondo curdo, che fa da cuscinetto nell’area montana fra Turchia, Siria, Iran e Iraq e che è principalmente avversato sia dalla Turchia di Erdoğan, sia dall’IS del Califfo al Baghdadi.

Tale blocco siro-irano-irakeno-curdo-russo è ormai consolidato – nonostante le molte manovre diplomatiche le quali fatalmente complicano il quadro: il riavvicinamento degli USA all’Iran; le trattative personali tra Obama e Putin; un qualche cenno d’intesa tra Putin e Hollande sulla base di quella che alla fine di novembre il leader russo qualificò, non senza una retorica un tantino grottesca, “una nuova alleanza come quella contro Hitler” (dove il “nuovo Hitler” – epiteto già affibbiato a Saddam Hussein – sarebbe ora il Califfo al-Baghdadi) sostanzialmente contrapposto a quello rappresentato dalle monarchie arabo-sunnite della penisola arabica alla quale sia pur indirettamente e in maniera diversa si collegano sia l’Egitto sunnita (ma “laico”…) di al-Sisi, che a sua volta ultimamente si è tanto avvicinato all’Arabia saudita da condurre insieme con essa una comune campagna militare contro gli sciiti dello Yemen, una campagna che ha tutta l’aria di un episodio di fitna sunnito-sciita.

In questo quadro tanto complicato quanto poco rassicurante, bisogna tener conto anche non di uno, bensì di ben quattro “convitati di pietra”. Il primo “convitato di pietra” è rappresentato dagli Stati Uniti d’America, il ruolo dei quali dovrebbe essere indispensabile e decisivo in quanto essi controllano praticamente (o quanto meno l’hanno controllata fino ad oggi) la NATO e sono i solidi, sicuri alleati sia di Israele sia dell’Arabia saudita, che non comunicano direttamente tra loro ma lo fanno attraverso quella che fino a ieri avremmo chiamato la Casa Bianca, mentre oggi siamo incerti se chiamare invece il Congresso. Infatti, il braccio di ferro tra il presidente Obama che a un anno dalla fine del suo mandato – ormai giudicato da molti, forse un po’ troppo frettolosamente, un’anatra zoppa – ha segnato due punti diplomatici importanti a suo favore avviando il disgelo sia con Cuba, sia con l’Iran, ha modificato profondamente anche l’equilibrio vicino-orientale. Un Obama che dialoga direttamente con Putin, che concerta insieme con lui passi futuri a proposito della lotta contro l’IS e con lui apertamente discute (sia pur non trovando per ora un punto d’accordo) sul possibile domani di Assad (problema, questo rispetto al quale è improbabile che Putin perda sul serio troppo tempo trattando con Hollande), non può non essere se non di gran lunga più inviso a Netanyahu di quanto non appaia. D’altronde, il leader israeliano è viceversa potentemente supportato dal Congresso statunitense: ed è chiaro che non vede l’ora che alla Casa Bianca si insedi un nuovo inquilino, un repubblicano che ohimè potrebbe riportarci ai tempi – che sinceramente speravamo irreversibilmente trascorsi – di Bush jr., dei neocons, dei teocons, delle famigerate teorie dei Rumsfeld e dei Cheney che condussero ai due consecutivi disastri dell’avventura afghana e dell’aggressione all’Iraq, con tutto quel che ne è nato e che ancora stiamo scontando.

Ma tutto ciò conduce, in sia pure in imperfetta analogia, a chiedersi quale ruolo potrà avere il secondo “convitato di pietra”: la Francia, che negli ultimi quattro anni (dalla crisi libica in poi) ha mostrato insieme con la Gran Bretagna una qualche volontà di riempire il parziale vuoto politico lasciato nella leadership della NATO dagli Stati Uniti lacerati dall’ostilità fra presidente e Congresso, e magari perfino di abbozzare le linee di una possibile (e, ohimè, tanto necessaria quanto improbabile) politica estera comune dell’Unione Europea. Hollande, dopo essersi buscato senza reagire il colossale pesce in faccia nella parigina Sinagoga della Vittoria, l’11 gennaio 2015, allorché un Netanyahu, nemmeno ufficialmente invitato a farlo, prese in sua presenza la parola dichiarando che la Francia non era un Paese più sicuro per gli ebrei francesi ed esortandoli a trasferirsi “nella loro casa”, Israele, tenta da allora la maniera forte nei confronti dei migranti disattendendo gli impegni presi in sede di Unione Europea ma sperando con ciò di tappare la falla elettorale che si sta aprendo sotto i piedi e arginare l’affermazione del Front National nelle elezioni appena avvenute e quindi, all’indomani del tragico 13 novembre, si illude di poter in extremis giocare all’Uomo Forte con la vendetta-rappresaglia del bombardamento di Raqqa. Ma facendo tale scelta l’inquilino dell’Eliseo ha dimenticato chi è e che cosa rappresenta: Raqqa è, come Mosul più di recente ancora bombardata dai britannici, una città che non appartiene all’IS, il quale può atteggiarsi finché vuole a Stato di fatto ma resta un’organizzazione criminale che tiene in ostaggio una parte del territorio legittimamente appartenente a due stati sovrani e riconosciuti dalla comunità nazionale, Siria e Iraq. Ora, Raqqa e Mosul sono, la prima città siriana, la seconda città irachena; i civili ammazzati dalle incursioni francese e inglese sono cittadini siriani e iracheni; come giustamente ha subito notato il presidente Assad, siamo in presenza di un crimine internazionale. Qualunque intervento aereo o per via di terra, che non sia concordato con il legittimo governo della regione oggetto di esso, è un atto criminale. Non a caso la Russia di Putin, prima di avviare i suoi raids aerei sulla Siria dell’ottobre-novembre che hanno provocato una reazione turca a quel che pare giustificata nel caso del 6 ottobre, ingiustificata e illegittima nell’altro, ha atteso un preciso invito formale del governo damasceno.

Tornando dunque a Hollande, siamo qui davanti a qualcuno che il nostro rispetto per un nobile pennuto ci impedisce di definire un’anatra zoppa. Ma il discorso televisivo 'presidenziale' di Marine Le Pen il 6 dicembre, immediatamente dopo la affermazione del suo partito sia pure nella prima tornata di elezioni amministrative, lascia intravedere in quello che potrebbe a breve termine essere un ‘nuovo corso’ della politica francese, in una declinazione differente della vecchia ma non riposta – Marine l’ha esplicitamente menzionata – grandeur: e se accanto a una più dura e decisa politica nei confronti dei migranti (accompagnata però, e questo lo stanno ancora notando in pochi, da un sempre più forte avvicinamento all’‘Islam francese’) e a una svolta magari anche decisa (fino allo strappo definitivo?) nei confronti dell’EU e dell’Euro, si accompagnasse una visione innovatrice della politica internazionale, dalla proposta di un ‘europeismo’ diverso alla ripresa – a ben altro livello rispetto ai conati hollandiani – di un discorso con la Russia di Putin? Si potrebbe suggerire a Madame Marine, magari in una delle prossime belle giornate di sole invernale parigino, di farsi una passeggiata sul Pont Alexandre: il monumento, bello nonostante una sua pesante solennità, potrebbe suggerirle qualche idea di politica estera, lì a due passi com’è dal Quai d’Orsay... Certo, di questi tempi di primato dell’economia, pensare a decisioni politiche autonome dal contesto economico-finanziario sarebbe fuori dalla realtà. Arabia saudita e Qatar hanno fatto in Francia investimenti colossali e già a suo tempo avevano suggerito al governo Sarkozy di assumere misure fiscali di favore per agevolarli. Immaginare un futuro governo egemonizzato dal Front National che volga le spalle ai paesi del golfo nel nome dell’assunzione di una linea politica e diplomatica diversa è una prospettiva di rovesciamento delle alleanze alquanto ardita. Che cosa potrebbero offrire ai francesi la Russia e l’Iran, paragonabile ai petrodollari sauditi e qatarioti?

D’altronde un futuro riavvicinamento tra Francia e Russia e quindi tra Francia e Iran – che potrebbe davvero costituire la colonna vertebrale di un rinnovamento politico-diplomatico della compagine europea – non farebbe granché piacere al terzo “convitato di pietra” della situazione vicino-orientale, il presidente turco. È un fatto obiettivo che la Turchia è membro della NATO e che si è assunta la sua parte di responsabilità nella lotta comune contro il "Pericolo Internazionale Numero Uno", l’IS. È un fatto meno istituzionalmente chiaro, ma politicamente ben più sicuro ed evidente, che Erdoğan e al-Baghdadi hanno almeno un punto in comune (la fede musulmana sunnita e le, magari implicite ma sostanziose e crescenti, simpatie per lo Stato califfale all’interno di almeno una parte dello schieramento politico turco, che potremmo definire sul piano religioso “pietista” e quindi antikemalista) e due comuni nemici, la Siria di Assad e i curdi. Ed è appunto su Mosul, città occupata dal Califfo ma etnicamente e culturalmente curda, che stanno puntando anche le truppe turche di terra. Contro chi sta combattendo Erdoğan: l’IS o Assad? L’IS o i curdi?

Dal canto suo il quarto “convitato di pietra”, Israele, si mantiene in disparte, ufficialmente dichiarando che non si muoverà se non attaccato dall’IS e di fatto poco preoccupato dell’ipotesi (da qualcuno in Occidente ventilata) che l’IS possa far breccia nel mondo palestinese: anche perché Hamas, che controlla Gaza, è legata agli sciiti Hezbollah i quali si sono espressi con chiarezza e in termini molto duri contro la politica terroristica del Califfo. D’altronde è ovvio che a Israele non dispiaccia che il mondo arabo-musulmano appaia tanto diviso né che in difficoltà sia Assad, il quale almeno formalmente non ha mai rinunziato ai diritti siriani sul Golan; e che il suo nemico per molti versi più temibile sia lo sciita Hezbollah comporta un qualche interesse israeliano per i progressi sunniti nella fitna intra-musulmana.

Ci si chiederà a questo punto che ruolo stia giocando l’IS: domanda legittima e importante, strettamente collegata alla questione di chi lo sostenga di fatto, di chi lo armi, di chi lo finanzi. Ed è significativo che il Califfo sia lì da un anno e mezzo e che, chiacchiere a parte, fino ad oggi gli unici a contrastarlo sul serio sia stato quel che resta dell’esercito siriano, i curdi e un po’ di volontari iraniani. Domanda forse più imbarazzante che difficile, alla quale personalmente sarei tentato di rispondere come Pier Paolo Pasolini nel 1974 sul “Corriere della Sera” a proposito della malavita italiana del suo tempo e dei suoi legami con la politica, in particolare delle ‘stragi di Stato’: io so come stanno le cose, ma non posso dirlo perché non dispongo delle prove. Sulle prove si costruiscono le tesi politiche; senza le prove, se cioè si dispone solo di indizi, al massimo si possono proporre delle ipotesi.

Mi manterrò al di sotto anche di tale segno, limitandomi ad alcuni fatti e ad alcune considerazioni. Secondo gli accordi del 1916 tra le potenze dell’Intesa e lo sharif Hussein, custode dei Luoghi Santi dell’Islam e discendente del Profeta, nel Vicino Oriente sarebbe dovuto nascere all’indomani della vittoria contro gli imperi centrali e la Turchia, a battere la quale era finalizzata la “rivolta araba del deserto”, un solo grande Stato unitario arabo, un watan (‘patria’, ‘nazione’) nuovo e comune per tutti gli arabi che si sarebbe organizzato secondo principi liberali e occidentali, sul modello dell’impero dell’India della regina Vittoria. I patti segreti anglo-francesi, conosciuti come “patti Sykes-Picot”, disponevano che il mondo arabo sarebbe stato spartito tra Francia a nord e Inghilterra a sud, secondo un regime sostanzialmente coloniale, quello che si sarebbe definito “dei mandati”. Quando il tradimento emerse, era troppo tardi: l’intero Occidente lo pagò in termini di eterna ostilità e diffidenza del mondo arabo nei suoi confronti, ma le cose si mossero come le due potenze vittoriose avevano voluto: e ciò, di tradimento in tradimento e di errore in errore, ci ha portato alla situazione odierna che senza dubbio è di stallo. Appare quindi necessaria une ridefinizione politica, territoriale, istituzionale profonda dell’intera compagine vicino-orientale: e qui si confrontano e si scontrano istanze opposte. Il crescere della fitna che appare voluta e alimentata soprattutto dagli emirati della penisola arabica sembra indirizzarsi a suggerire una risistemazione territoriale più rispettosa delle distinzioni e delle divisioni religiose, che all’indomani della prima guerra mondiale non furono granché prese in considerazione. Le vicende del momento – il nascere e il crescere dell’IS tra Iraq e Siria e in particolare la forsennata e in apparenza incomprensibile volontà di molti soggetti (dal governo turco a quello francese passando per quelli arabi della penisola e forse anche per Israele) – suggeriscono che si stia puntando allo smembramento sia dell’Iraq, sia della Siria, in modo da far emergere futuri soggetti politici a conduzione sunnita in entrambi questi paesi. Un fattore di obiettivo disturbo in queste prospettive potrebbe essere la volontà di creare un proprio Stato da parte dei curdi, che evidentemente intaccherebbe le compagini territoriali attualmente turca, siriana, irachena e iraniana. Per differenti motivi solo la Turchia potrebbe opporsi con forza a un progetto del genere, che senza dubbio avrebbe nel Vicino Oriente un effetto pacificatore. Per il resto, lo smembramento dell’Iraq risolverebbe il problema di un Paese unito a maggioranza sciita e quindi filoiraniano; quanto alla Siria, una soluzione possibile sarebbe tornare alla divisione, che già esisteva alla fine della Prima guerra mondiale, tra i siriani sunniti dell’est e gli alawiti dell’area orientale – quella che ancor oggi appare controllata per la maggior parte della sua estensione dalle forze siriane governative e dagli Hezbollah. La rinascita di un piccolo Stato alawita potrebbe costituire anche una via d’uscita onorevole per Assad.

Ove ciò si verificasse, apparirebbe chiara la funzione politica dell’IS, senza la quale questa ridefinizione territoriale d’ampio raggio sarebbe stata impossibile. Certo, sarebbe necessario restituire presentabilità allo “Stato islamico”, che potrebbe assumere una sua funzione ufficialmente riconosciuta tra Siria e Iraq nelle aree prevalentemente sunnite. Basterebbe l’uscita di scena di al-Baghdadi: un bombardamento, un incidente d’auto, un attentato, una malattia, una morte o una sparizione comunque in circostanze che resterebbero per alcuni mesi da chiarire finché l’opinione pubblica mondiale non pensasse ad altro; al limite perfino un suo più o meno civile scavalcamento da parte di suoi vecchi collaboratori che immediatamente i media occidentali troverebbero simpatici, trattabili, ragionevoli e beninteso “laici” e “democratici” .

L’anello debole e il vero scandalo, in tutta questa situazione che è forse in fieri e l’esito della quale è molto più vicino di quanto non si creda, sarebbe la Siria. Un suo smembramento, in fondo, è ormai nelle cose. Bisognerà per questo trovare però l’accordo necessario per far in modo che Russia e Iran si trovino d’accordo. La vittoria di questo round – la posta in gioco del quale è un consolidamento della sunnizzazione del Vicino Oriente – andrebbe all’Arabia saudita, al Qatar e alla Turchia, con probabile soddisfazione di Egitto e Israele. Poi la lotta riprenderebbe, in quanto interesse comune e ferma decisione di Turchia, Israele ed emirati sunniti è la lotta contro la Repubblica Islamica dell’Iran: ma sia i curdi sia gli arabo-sciiti si sentirebbero comunque spalleggiati, Iran a parte, dalla stessa Russia la quale non si lascerebbe in ogni caso metter fuori gioco né mollerebbe le sue basi navali di Lattakia e di Tartus, in modo da sorvegliar da vicino gli sviluppi dei nuovi bacini petroliferi sottomarini del Mar di Levante. Frattanto, si svilupperebbe anche il "nuovo corso" degli oleodotti tra Turkmenistan e Pakistan, sulla base degli accordi tra Obama e Putin che coinvolgono anche il governo di Teheran. Questo sarebbe lo scenario, tutto men che tranquillizzante, della seconda metà del secondo decennio del secolo XXI.

Ma questo complesso e non limpido intrico internazionale ha purtroppo avuto i suoi costi. Ci sono andate di mezzo, come accadde in Afghanistan con i Buddha di Bamyian, le nostre più care e preziose memorie storiche e artistiche. In questo caso si è trattato dell’antica, venerabile, meravigliosa città di Tadmor, l’antica Palmyra, soggetta a un lungo assedio e quindi nel maggio scorso, alla conquista e alla parziale distruzione da parte delle forze del Califfo al-Baghdadi. Sappiamo delle distruzioni tra agosto e ottobre: il tempio di Baal, il santuario di Bel Shamin, l’Arco trionfale del grande colonnato. Le distruzioni, per quanto scenograficamente disperanti, sono forse la cosa meno tragica: potranno essere in qualche modo restaurate, come sempre accade. Ben peggiore è stata la rapina di opere d’arte, la loro commercializzazione clandestina o semiclandestina, la spoliazione delle aree museali. Quelli dell’IS sono dei fanatici della peggiore specie, nel senso che il loro fanatismo – appoggiato alla convinzione che la loro barbarie incuta in qualche modo terrore nei "pagani” e nei “crociati” occidentali – cede agilmente il passo all’avidità. Per fortuna, già da prima o dai primissimi tempi dell’assedio molti tesori palmyreni erano stati messi in salvo grazie alla direzione delle Antichità locali in collaborazione con l’esercito regolare siriano. Che di ciò non si sia data sufficiente notizia nei nostri media – così come non si ricorda quasi mai se non con distratta e indispettita ammissione i meriti del Kunstshutz nel salvataggio di una parte dei tesori d’arte e di cultura di Montecassino nel 1944 – appartiene al corrente malcostume pseudo-ideologico che in questi casi interviene.

Ma proprio per questo, e a maggior ragione, è opportuno qui il ricordo e l’omaggio a un grande studioso che si è dimostrato anche un devoto servitore dello Stato del quale era funzionario e un coraggioso, esemplare cittadino. Il professor Khaled Muhammad al-Asaad, nato nella stessa Tadmor nel 1932, conservatore delle Antichità della città di Palmyra, ha offerto eroicamente la sua vita per amore della scienza e per assolvere fino in fondo fedelmente al suo dovere.

Catturato dai briganti dell’IS nel maggio di quest’anno, il professor Khaled Al Asaad si rifiutò di collaborare con loro, in particolare non cedendo alle loro pressioni indirizzate a farsi rivelare i luoghi nei quali egli aveva messo al sicuro quei tesori che non aveva fatto in tempo a far portare in salvo. Se essi esistessero ed esistano, e quanti e quali fossero, ce lo diranno forse le ricerche future. Sta di fatto che, rifiutandosi di collaborare con i soldati dell’IS, egli fu decapitato il 18 agosto; il suo corpo, con la testa collocata tra i piedi, fu appeso per i polsi incatenati a un semaforo cittadino. La condanna capitale gli era stata inflitta – senza riguardo alcuno per i suoi ottantatré anni – per “apostasia”, per “complicità con gli infedeli” occidentali e con gli “eretici” iraniani, nonché per essere stato “direttore dell’idolatria in Palmyra”, vale a dire conservatore di monumenti pre-islamici.

Archeologo di fama internazionale, il professor Al Asaad ci lascia un numero imponente di pubblicazioni scientifiche tra le quali eccellono i tre volumi di Inscriptions de Palmyre, editi nel 2001 insieme con Jean-Bapiste Yon per cura dell’Institut Français d’Archéologie du Proche-Orient di Beirut. Ma anche considerando i suoi meriti scientifici, non so guardare a lui come a una “vittima”; credo che egli vada considerato piuttosto un caduto e – se nel nostro linguaggio moderno questa parola, oggi inflazionata, non sembrasse retorica – un martire. Come la Chiesa insegna, non poena sed causa facit martyrem: Khaled Muhammad al-Asaad è stato martirizzato – e non oso pensare a quel che avrà dovuto subire prima di venir soppresso – per essere rimasto fedele a se stesso, alla scienza alla quale aveva dedicato la sua intera esistenza, alla consegna che il popolo siriano gli aveva affidato.

Khaled Muhammad Al Asaad si era battuto a lungo per ottenere dall’UNESCO alla ‘sua’ Palmyra il rango, meritatissimo, di World Heritage Site. Quando la notizia del suo assassinio giunse da noi, il ministro dei Beni e delle attività culturali Dario Franceschini dispose che tutte le bandiere dei musei italiani venissero esposte abbrunate per un’intera giornata. Il 17 ottobre scorso il Presidente della Repubblica inaugurò i restaurati Arsenali della Repubblica in Pisa, che ora si fregiano del nome di Khaled Al Asaad, al quale sono stati dedicati. Altre iniziative sono sorte in queste settimane, di omaggio e di celebrazione delle sue gesta, perché il nome di Al Asaad non venga dimenticato: da ultimo,l’Omaggio di Venezia a Palmyra (presentato in questo numero di “Engramma”). Una volta tanto, l’Italia si sta dimostrando degna delle sue tradizioni e del suo nome: è un buon segno e un auspicio per il futuro.

English Abstract

This article reconstructs the geopolitical situation and the cultural and historical events that have led to the development of the IS; from the midst of internal turmoils of the complex ethnic and religious mosaic of the Middle East, and myopic strategic plans, and various hypocrisies by the West Countries that play with the illusion to manoeuvre the Islamist Golem at will, and that see the situation regularly escaping out of control.

In this intricate and dangerous frame, within the ferocious acts put on by the IS against 'pagans' and 'crusaders', but also against the 'apostates' and "accomplices of the infidels", Khaled Al Asaad, the archaeologist, Superintendent of Antiquities of Palmyra, was brutally tortured and then put to death. Al Asaad, who deliberately choosed not to abandon Palmyra, is not a victim, but a martyr because, according to the teaching of the Christian church, Not poena sed causa facit martyrem.

keywords | Syria; Miffle East; Poetry; Khaled Al Asaad; Palmyra.

Per citare questo articolo / To cite this article: F. Cardini, Non poena sed causa facit martyrem. Per Khaled Muhammad Al Asaad, “La Rivista di Engramma” n. 131, dicembre 2015, pp. 109-120 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2015.131.0007