"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

142 | febbraio 2017

9788894840179

Il Bilderatlas Mnemosyne ri-visitato: una mostra e un convegno a Karlsruhe 

Cristina Baldacci, Clio Nicastro

English abstract

Il reenactment di Mnemosyne come metodo storico-critico e azione creativa

“Warburg è da tempo fuori moda perché è diventato un classico”, così Franz Engel ha risposto, anche con una certa autoironia, all’ossessione warburghiana che negli ultimi anni sembra avere contagiato teorici dell’immagine, mediologi, storici dell’arte e artisti, tra cui lui stesso, visto che, proprio con queste parole, concludeva la presentazione di un convegno – parallelo a una mostra sull’eredità di Warburg – che lo proponeva come “redivivus” (Engel 2013; Schmidt e Rüttinger 2012).

Immagine della mostra | ©ZKM Karlsruhe. Foto: ONUK

Una nuova conferma del grande interesse per Warburg, e della sua sopravvivenza nel mondo della teoria e della pratica dell’arte contemporanea, è la mostra da poco conclusasi allo ZKM | Zentrum für Kunst und Medien di Karlsruhe, che ha presentato, in toto e nel loro formato originale (cm 170 x 140), le 63 tavole dell’ultimo allestimento del Bilderatlas ad Amburgo, prima della scomparsa del suo autore nell’autunno del 1929.

Com’è noto, Warburg aveva allestito altre versioni del Bilderatlas, precedenti alla versione che lascia incompiuta alla sua morte. Prima della versione in 20 tavole presentata nel corso di una conferenza alla Biblioteca Hertziana nel gennaio 1929 (vedi in Engramma, la riproduzione dei pannelli – Centanni, De Laude 2016 – e De Laude 2014, con la traccia della conferenza), si ha notizia di una versione della primavera del 1928 (43 tavole) e di un’altra dell’autunno dello stesso anno (71 tavole). Le fotografie di questi primi due allestimenti non sono mai state pubblicate, così come quelle delle circa dieci tavole rimaste non numerate. Da una recente riscoperta fatta da Marcus Andrew Hurttig nell’archivio del Warburg Institute – uno schizzo con una prima idea di un montaggio di immagini – è stato ipotizzato che la genealogia del Bilderatlas possa essere fatta risalire addirittura al 1905.

Immagine della mostra | ©ZKM Karlsruhe. Foto: ONUK

Gli artefici di quello che si intende qui proporre come reenactment, cioè come rifacimento e riattivazione, più che come semplice reinstallazione, sono l’artista Axel Heil e lo storico dell’arte Roberto Ohrt, che, per ricostruire il più fedelmente possibile l’oggetto della loro indagine, nel 2011 si sono riuniti, insieme ad altri collaboratori, nel gruppo di ricerca Mnemosyne | 8. Salon

Prima di Karlsruhe, hanno presentato il loro lavoro sull’Atlante ad Amburgo, Firenze, Monaco di Baviera, St. Gallen e Urnäsch, ma solo per la mostra "Aby Warburg: Mnemosyne Atlas. Rekonstruktion – Kommentar – Aktualisierung" lo hanno ricostruito in forma completa e con diverse novità. Le tavole 63 e 64, a lungo rimaste lacunose, sono state ricomposte attraverso il confronto con le versioni precedenti; le tavole 32 e 48 rese come pezzi unici, grazie all’uso delle immagini originali conservate al Warburg Institute di Londra; la tavola 77 rimontata in modo sperimentale, così come aveva iniziato a fare Warburg, con oggetti quotidiani e tridimensionali (monete antiche; dépliant e cartoline pubblicitarie; una stampa; una registrazione dell’Istituto Luce con immagini di Papa Pio XI). È per questo che, a differenza delle altre tavole – tutte costellate sia di nuove riproduzioni dei motivi iconografici della fine degli anni venti, sia di loro riaggiornamenti, vale a dire fotografie che i due curatori della mostra hanno scattato ex novo – le tavole 63, 64, 77 sono state mostrate sotto vetro.

Le tavole 32 e 48, e in parte anche la 77, hanno permesso di allontanarsi da quello che potremmo definire un livellamento estetico e di studiare l’effetto che il Bilderatlas doveva produrre ai tempi di Warburg. Nei riallestimenti che si sono succeduti dal 1993 a oggi, le immagini usate sono infatti sempre state “brutte” copie delle fotografie del montaggio originale, cosa che non ha mai permesso di toccare con mano, ma soltanto di immaginare, la varietà dei materiali usati, tra cui le foto Alinari, i ritagli di giornale dell’epoca, le foto scattate da Warburg stesso.

Se il Bilderatlas, come stava progettando Warburg con l’editore Teubner di Lipsia, fosse diventato un Atlante iconografico stampato in forma di libro, questa iniziale diversità materica e tonale delle immagini sarebbe scomparsa. Le riproduzioni nel libro, tutte in bianco e nero e sullo stesso supporto, si sarebbero avvicinate a quelle immagini piatte a cui ci siamo abituati guardando le varie edizioni e riallestimenti fatti fino ad oggi. Anche le immagini pubblicate nel 1993, nel cofanetto che è conosciuto come la “scatola blu” – ovvero la prima versione integrale a stampa del Bilderatlas, a cura della “società transmediale” Daedalus di Vienna per l’editore Dölling und Galitz – hanno conservato i difetti delle fotografie originali, che ancora risentivano delle limitate possibilità tecnologiche degli inizi del Novecento e apparivano sfocate o sbiadite, cosa che ha reso spesso difficile il riconoscimento di alcuni soggetti. 

A proposito della prima edizione, la "scatola blu": è da sottolineare che la pubblicazione uscì in occasione del primo riallestimento di Mnemosyne alla Akademie der bildenden Künste Wien, non a caso a cura di un duo di artisti, Anne e Patrick Poirier, che dagli anni Settanta hanno impostato tutto il loro percorso artistico sul concetto di memoria. Il titolo richiama la duchampiana “scatola verde” con gli appunti frammentari per il Grande Vetro (1915-1923), assemblaggio incompiuto che, per la sua complessità e per il fatto di essere una sorta di condensatore del pensiero dell’artista, ha suscitato grande interesse, numerose interpretazioni e più di un remake (soprattutto ad opera di un altro artista, Richard Hamilton, che studiò meticolosamente le note e i commenti lasciati da Duchamp).

Immagine della mostra | ©ZKM Karlsruhe. Foto: ONUK

L’attenzione e la cura date alla qualità delle immagini e al loro formato è dunque la prima e sostanziale differenza della ricostruzione presentata allo ZKM, pur sapendo che si tratta in ogni caso di copie di copie e che l’originalità non si deve qui ovviamente intendere come sinonimo di identità e unicità. Warburg stesso, come è stato sottolineato da Siegfried Zielinski nel convegno che ha accompagnato la mostra, aveva tempestivamente tenuto conto, non solo dell’effetto estetico-formale complessivo prodotto dalle riproduzioni delle opere in bianco e nero, ma anche del loro valore mediale come vettori di informazioni e generatori di senso.

Il lavoro coordinato da Heil e Ohrt non è stato unicamente di riproduzione, ma soprattutto di editing, quindi anche di scelte autoriali, a cui si aggiungono altre due importanti azioni interpretative. Da un lato, il commento delle singole tavole, un impegno esegetico che si inserisce nel contesto degli studi già in corso presso altri gruppi di ricerca – tra cui quello di “Engramma” (l’edizione digitale completa dell’Atlante, con una proposta di articolazione dell’opera e molti saggi di commento alle singole tavole: Seminario Mnemosyne [2004] 2012-ss.): il lavoro esegetico è confluito nei tredici numeri della rivista “Baustelle”, poi raccolti in fascicoli come pubblicazione concomitante la mostra (Forschungsgruppe Mnemosyne | 8. Salon 2016). Dall’altro, la riattualizzazione dell’Atlante da parte di dodici artisti, ai quali è stato chiesto di aggiornare, secondo la loro esperienza e conoscenza, il metodo di Warburg sullo spazio-superficie di una singola tavola.

Tavola Linda Fregni Nagler | ZKM Karlsruhe. Foto: Cristina Baldacci

L’idea di coinvolgere un gruppo di artisti è stata di per sé buona e pienamente condivisibile. Sono infatti loro ad essere i più sensibili all’esempio warburghiano e ad averne accolto e rivitalizzato la modernità; e i nomi inizialmente invitati, tra cui Linda Fregni Nagler, Matt Mullican e il direttore stesso dello ZKM, Peter Weibel, ne sono una dimostrazione. Tuttavia, la scelta di limitare il campo d’azione e di pensiero a un’unica tavola è discutibile, poiché si tratta di una ripresa forse troppo letterale del modello, che rischia di dare una visione riduttiva della pratica e della ricerca dei singoli artisti. Soprattutto se l’intenzione era presentare una serie di motherboard (ci appropriamo qui di un termine informatico) che contenessero la logica di un intero sistema, visto che il Bilderatlas stesso è pienamente comprensibile solo se letto nel suo insieme.

Al di là della sua efficacia in termini estetici, questa operazione vale prima di tutto come riconferma del grande fascino che il Bilderatlas continua a esercitare. Il fatto che quasi tutto il team del 8. Salon sia costituito da artisti è stato determinante nella decisione di tentare questo tipo di reinterpretazione. Ohrt ha affermato che nessuno storico dell’arte si azzarderebbe mai a produrre qualcosa di simile a una tavola dell’Atlante (Ohrt, Fasiolo 2016), ma forse non si è ricordato che Georges Didi-Huberman ha osato molto di più. Con la mostra Histoires de fantômes, curata insieme al fotografo Arno Gisinger, ha compiuto un gesto fortemente autoriale e auto-referenziale, a tal punto che la si può considerare il suo Mnemosyne; “‘un essai visuel’, sospeso tra la riflessione filosofica e il gioco con le forme” – come ha lui stesso commentato – una monumentale trasposizione del suo

[...] tavolo da sartoria (c’è qui uno spostamento semantico dal tableau come quadro da cavalletto alla table come tavolo da lavoro), su cui si dispongono le immagini e prendono corpo le intuizioni svolte nei suoi libri. 
(Venturi 2013) 

Da ricordare poi che sul fronte del "gioco collettivo", ovvero dell’applicazione ludico-metodologica del metodo-Atlante a temi contemporanei, un positivo esperimento di costruzione di una tavola warburghiana è stato effettuato e pubblicato in Engramma, con la "Tavola '68. Mnemosyne 1968-Mnemosyne 2008" (v. Seminario Mnemosyne 2008).

Per il Monumento alla Terza Internazionale di Vladimir Tatlin (1919) – un’opera esistita soltanto come progetto che è diventata leggendaria (e oggi uno degli oggetti della storia dell’arte più ricostruiti e rivisitati) – Dieter Roelstraete ha coniato l'espressione “quintessenza del ‘progetto incompiuto’” (Roelstraete 2013, 664). Mutuando la definizione da Roelstraete, si potrebbe dire che uno dei principali motivi del successo e della continua ripresa del Bilderatlas sta nel suo essere la quintessenza del ‘progetto incompiuto’ della modernità: c’è sempre qualcosa di nuovo da scoprire, un pezzo da aggiungere alla nostra conoscenza dell’oggetto Atlante e del metodo di cui è portavoce. C’è poi anche il desiderio di dare corpo a un progetto che di fatto conosciamo soltanto attraverso riproduzioni fotografiche. Quando, con il consolidarsi del regime nazionalsocialista, nel 1933 la Biblioteca Warburg dovette chiudere e trasferirsi a Londra, le tavole che facevano da supporto all’Atlante vennero smantellate e andarono perdute, mentre le quasi mille immagini confluirono nell’archivio fotografico lasciato da Warburg – che di immagini ne comprendeva ben circa venticinquemila – e furono poi ricatalogate, disperdendosi nella massa di documenti.

L’incompiutezza del Bilderatlas è profezia e condizione della sua rinascita; è ciò che lo rende “una tecnica culturale mobile” (Weigel 2013, 6), vicina al montaggio come strumento dell’avanguardia artistica, al display come strategia curatoriale, e alla più antica ars combinatoria. Da storico dell’arte anticonvenzionale che pensava per immagini, Warburg aveva quello che può essere definito un piglio curatoriale. Il suo modo di disporre le immagini nello spazio si avvicina al metodo di presentazione (display) con cui il curatore o l’artista progettano una mostra-installazione. Anche questo è uno dei motivi del suo successo nell’arte contemporanea. Per questo possiamo parlare del riallestimento del Bilderatlas come di un reenactment, dato che come installazione o mostra "in situ e in actu" (Weigel 2013, 5) è esistito soltanto finché la Biblioteca Warburg è rimasta ad Amburgo.

Senza volere naturalmente fare un confronto tra i due oggetti in sé, ma volendo proporre come termine di paragone una modalità operativa tipica del contemporaneo, quella del reenactment di celebri mostre del Novecento, citiamo l’esempio di Germano Celant e della sua riedizione di When Attitudes Become Form alla Fondazione Prada di Venezia, quasi mezzo secolo dopo il suo primo allestimento alla Kunsthalle di Berna nel 1969. Nel ricostruire, in una nuova dimensione spazio-temporale, ma in scala reale 1:1 – quindi nel modo più coerente e filologicamente corretto possibile – la mostra antesignana delle tendenze concettuali dell’arte del secondo Novecento, Celant ha tentato di ridare concretezza a:

[...] qualcosa che è sopravvissuto e si è tramutato in idolo, un’immagine sognata quanto spettrale che è rimasta enigmatica e inafferrabile a quanti non l’hanno provata né acquisita. Un evento sempre più proteso verso la dimensione postuma del mito, al quale le immagini fotografiche e l’immaginario artistico hanno eretto un monumento […]. Tale dicotomia tra ricordo ed esperienza è stimolo per affrontare il reenacting di quell’evento.
(Celant 2013a, 651)

Immagine della mostra | ZKM Karlsruhe. Foto: Cristina Baldacci

Per quanto l’effettiva efficacia dell’operazione celantiana sia discutibile – e lo si può intuire soltanto accennando al fatto che il volere ridare corpo a delle “attitudini”, che erano fin dall’origine oggetti d’arte effimeri, è già di per sé complicato e forse fallimentare – questa frase mette in luce almeno due aspetti interessanti per la nostra analisi. Primo, il desiderio di far rivivere nel presente un oggetto oggi conoscibile solo attraverso riproduzioni fotografiche. Secondo, le due diverse temporalità (passato e presente) insite nel reenactment, dove l’anacronismo diventa condizione imprescindibile, oltre che motivo scatenante. Ricostruire una mostra significa pertanto “abbracciare al tempo stesso una temporalità coeva e la storicizzazione della stessa” (Stocchi 2013, 676).

A questo punto non si può fare a meno di chiedersi da dove nasca la mania contemporanea per il “ri-”, nella quale, oltre al ricostruire, si possono far rientrare innumerevoli azioni complementari: rifare, riunire, riciclare, rieditare, rinnovare, riattivare, rivalutare ... Come inclinazione artistico-culturale non è spiegabile liquidandola frettolosamente come nostalgico recupero del passato, “febbre d’archivio” o celebrazione feticistica. Le sue origini vanno ricercate in quella diffusa arte novecentesca dell’appropriazione, del riciclo, del remake (e del montaggio), la cui eco risuona ancora con forza nel presente e che, a ben guardare, è “antica quanto la cultura stessa” (Roelstraete 2013, 666). Se ne siamo ancora così suggestionati è perché, dopo il 1989, ha avuto nuovo impulso.

Immagine della mostra | ZKM Karlsruhe. Foto: Cristina Baldacci

Nella nostra era, che coincide con la presunta fine della storia, “l’istinto atavico che induce l’arte [e la cultura in generale] a guardare avanti, ovvero al futuro, è stato sostituito, in assenza di un futuro, da una passione divorante per il passato, e più precisamente per la storia dell’arte stessa”. Per questo motivo abbiamo adottato uno sguardo sostanzialmente metariflessivo e storiografico; a volte anche tautologico. Siamo contagiati dalla:

[...] funzione mnemonica che l’arte svolge in quest’epoca di oblio accelerato e di completa esternalizzazione della memoria; sia il remake sia la riproposizione rappresentano l’operato di una storia dell’arte eretica, ansiosa di tenere viva la memoria di ciò che rischia costantemente di essere dimenticato, marginalizzato, spazzato via. 
(Roelstraete 2013, 664)

Attenzione quindi a non scambiarlo per un esercizio accademico, nostalgico e pedante, che nasconde una mancanza di nuove idee: il reenactment è un invito a guardare oltre, a una storia dell’arte diversa, lontana dai canoni convenzionali, per ri-scriverla. Warburg docet.

Mnemosyne come macchina del “tempo profondo”

Immagine della presentazione della mostra | ©ZKM Karlsruhe. Foto: ONUK

Anche durante il convegno allo ZKM, organizzato da Roberto Ohrt e Axel Heil, il 13 e il 14 ottobre 2016 in occasione dell’esposizione dell’Atlante Mnemosyne, sono emerse accezioni peculiari del reenactment in Warburg, soprattutto rispetto al suo approccio metodologico da (an)archeologo delle forme espressive, delle Pathosformeln. Alle due giornate di studio, concepite come un momento di incontro e confronto a partire dai temi salienti della mostra, hanno preso parte: Matthias Bruhn (Humboldt Universität, Berlin), Thomas Hensel (Siegen Universität), Philippe-Alain Michaud (Centre Georges Pompidou, Paris), Werner Rappl, Joacim Sprung (Lund University), Giovanna Targia (LMU, München), Claudia Wedepohl (Warburg Institute London), Peter Weibel (ZKM, Karlsruhe) e Siegfried Zielinski (Staatliche Hochschule für Gestaltung Karlsruhe).

I due concetti individuati come miccia del reenactment warbughiano sono innanzitutto la relazione, nella sua polarità dialettica unità/differenza, e la sperimentazione, non come ricerca ossessiva dell’originale, ma come prassi creativa che si fonda sulla ripetizione, motore della variazione. Del resto, l’esempio più immediato della concezione alchemica del sapere è la teoria del buon vicinato secondo cui Warburg aveva disposto i materiali della Kulturwissenschaftliche Bibliothek di Amburgo e che sosteneva la proliferazione di nuove idee e significati attraverso il contatto imprevedibile tra le diverse discipline.

Immagine della mostra | ZKM Karlsruhe. Foto: Cristina Baldacci

Il contributo di Siegfried Zielinski, che ha aperto il convegno, ha dato il via a una serie di interessanti riflessioni su una questione assolutamente centrale per comprendere il valore delle tavole di Mnemosyne: il medium come imprescindibile veicolo di senso e non come mero supporto esteriore del contenuto. La prima stanza, anticamera del percorso tra i pannelli della mostra curata dal Forschungsruppe Mnemosyne | 8. Salon, offre uno spunto decisivo per osservare il rapporto affatto scontato tra copia e originale, che ci conduce al cuore dell’intervento di Zielinski. La scelta, solo a un primo sguardo didattica, di porre di fianco alla ricostruzione della tavola 39, incentrata sulla figura della Venere, uno dei dettagli della Primavera del Botticelli nella sua versione originale a colori, dà invece il senso dell’operazione di trasposizione e ‘riduzione’ messa in atto dallo storico dell’arte amburghese. Camminare tra i pannelli a dimensione naturale dell’Atlante è un’esperienza a primo impatto spiazzante che quasi respinge l’osservatore. Allo stesso tempo, proprio questa sensazione è la prova paradossale che la mostra sia riuscita nell’intento di mettere in scena uno strumento di lavoro non concepito in prima battuta come un oggetto artistico, ma come una storia dell’arte che “per comprendere la nascita e il divenire delle opere deve aprirsi a qualcosa che non è o non è ancora artistico” (Michaud 2004, 433).

Immagine della mostra | ©ZKM Karlsruhe. Foto: ONUK

Nel riconoscere Warburg come uno dei pionieri della teoria dei media, Zielinski propone di rintracciare alla base del Bilderatlas il meccanismo che soggiace al funzionamento di ogni dispositivo mediatico: la riduzione. Il processo di conversione e trasposizione da un supporto a un altro implica infatti l’alterazione di determinate qualità ‘originarie’, tramite la quale prenderanno vita nuovi caratteri. Come noto, infatti, quando Warburg va a caccia delle Pathosformeln, colleziona, seleziona e confronta i suoi materiali ‘a bassa risoluzione’, mettendone in risalto la dimensione formale grazie alla quale esplodono i nessi tra ripetizione e variazione. Un esempio lampante di come ridurre non significhi semplificare, risalire alle singole unità, ma al contrario dare vita a una nuova, in alcuni casi più complessa, costellazione di senso. Ancora secondo Zielinski, Warburg era interessato a esaltare il valore dei mezzi espressivi come connettori e generatori di contenuti epistemici inediti. Il Bilderatlas si configura così come una forma di ars combinatoria il cui principio generativo è analogo alla “poetica della relazione” di Édouard Glissant, per il quale la relazione non può essere definita univocamente perché la sua vera essenza è il movimento, l’erraticità, che si oppone alla comprensione rapace di matrice latina, da comprehendere come misurare (Glissant 2007). Una critica che risuona nello struggimento warburghiano per

il tragico destino dell’uomo che viene sempre strappato via dalla condizione della sophrosyne (Besonnenheit) e rigettato in quella della passionale presa di possesso (Besitzergreifung), che deve sempre di nuovo prendere (greifen) quando invece vorrebbe comprendere (begreifen) (Warburg [1923] [2007] 20142).

Decontestualizzare, smantellare, ricomporre e riorientare sono in questo senso l’unico modo per ripercorrere le tappe delle polarità simboliche, assecondando il carattere discontinuo e prismatico del tempo storico.

Proprio tale complessa architettura temporale di Mnemosyne è la seconda, fondamentale questione in gioco nell’analisi di Zielinski, che da più di vent’anni si occupa di esplorare possibili forme di “anarchivio” (Fürlus, Giannetti e Zielinski 2014), collocandosi nel solco delle grandi riflessioni novecentesche sull’archivio a opera, tra gli altri, di Jacques Derrida, Gilles Deleuze e Michel Foucault. Per Zielinski, Warburg è stato una figura fondamentale per accedere modelli di archiviazione lontani da una concezione dell’archivio come raccolta conclusa di materiale da inventariare, lì dove la ragione che tiene insieme gli oggetti non è immediatamente riconoscibile o non è una volta per tutte definibile. Come approcciare, per esempio, anarchivi come l’ufficio di Peter Weibel allo ZKM, che da anni raccoglie e affastella i suoi differenti materiali di ricerca, dando vita a quella che Zielinski definisce “un’estetica dell’esistenza”? O il progetto di Godard di (ri)narrare una storia del cinema attraverso gli otto episodi dell’Histoire(s) du cinéma (1988)? O ancora, come guardare al lavoro da filmmaker e collezionisti di Werner Nekes e David Larcher?

Si tratta di adottare una concezione del “deep time”, il tempo profondo, indossare i panni dell’“anarchelogo” (Zielinski 2006) che combina in maniera creativa passato e futuro: da un lato, scava nella storia per prevedere ciò che potrebbe accadere, dall’altro indaga il passato con creatività, come un mondo di possibilità non del tutto dipanate. “Il passato dipende in parte dal modo in cui lo interpretiamo e lo definiamo. Quando guardiamo al futuro, lo concepiamo come una dimensione aperta di possibilità in divenire, di potenzialità, ma non abbiamo la stessa visione del passato”. Nella proposta di Zielinski, che non vuole ovviamente negare il passato come luogo storico in cui i fatti sono realmente accaduti, ma piuttosto immaginarlo come generatore di possibilità, risuona il concetto warburghiano di Nachleben soprattutto se intendiamo Mnemosyne come una “macchina del tempo profondo”:

Pur essendo consapevoli del fatto che la storia dell'arte e la teoria dei media si basano sull’intreccio di moltissimi concetti, storie e idee, i processi pervasivi di industrializzazione e capitalizzazione hanno ridotto questa molteplicità a un’unica storia omogenea. Con la ricerca del tempo profondo spedisco una macchina del tempo nel passato per vedere come queste variazioni si sono diffuse, sono entrate in collisione e si sono sviluppate, nella speranza che alcune di queste energie e variazioni possano essere trasportate nel presente e nel futuro ed essere produttive per il futuro (così Zielinski in una intervista del 2015).

Anche il gioco tra Nachleben e Pathosformel è un processo privo di punti d’arrivo, così come le tavole dell’Atlante non sono un luogo deputato alla mera conservazione o all’attribuzione definitiva di un’origine e di una traiettoria univoca. Questo diventa tangibile quando si prova a ricostruire e riattivare Mnemosyne mettendolo in mostra ed enfatizzando la sua dimensione mediatica e processuale, un’operazione che richiede quello spirito sperimentale che accomuna pratica artistica e ricerca scientifica.

Riferimenti Bibliografici

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C. Bishop, L’era della ricostruzione: anacronie nell’arte dell’installazione, in Celant 2013, 667-671.

Celant 2013
When Attitudes Become Form: Bern 1969/Venice 2013, a cura di G. Celant, catalogo mostra (Venezia, Fondazione Prada, Ca’ Corner della Regina, 01.06.−03.11 2013), Fondazione Prada, Milano 2013.

Celant 2013a
G. Celant, Un readymade: When Attitudes Become Form, in Celant 2013, 651-652.

Centanni, De Laude 2016
M. Centanni, S. De Laude, Mnemosyne Atlas: the incunabulum. Panels exhibited at the Bibliotheca Hertziana (January 19th, 1929), "La Rivista di Engramma" n. 135 (aprile/maggio 2016)
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De Laude 2014
Silvia De Laude, a cura di, Aby Warburg, Die römische Antike in der Werkstatt Ghirlandaios, Traccia della conferenza alla Biblioteca Hertziana di Roma (19 gennaio 1929), con una Nota al testo (e ‘agenda warburghiana’), “La Rivista di Engramma” n. 119, settembre 2014.

Engel 2013
F. Engel, Warburg redivivus. Liebe Bilder, was tun mit Aby Warburg?
(Siegen, Museum für Gegenwartskunst, 22.−23.02.2013), “H-ArtHist” (18 marzo 2013)

Forschungsruppe Mnemosyne | 8. Salon 2016
Aby Warburg. Mnemosyne Bilderatlas, hrsg. von Forschungsruppe Mnemosyne | 8. Salon, Kartoffelverlag-Universal futur Bitch press-ZKM, Karlsuhe 2016.

Fürlus, Giannetti e Zielinski 2014
AnArchive(s): eine minimale Enzyklopädie zur Archäologie und Variantologie der Künste und Medien / AnArchive(s): a minimal encyclopedia on archaeology and variantology of the arts and media, hrsg. von E. Fürlus, C. Giannetti, S. Zielinski, König, Köln 2014.

Glissant [1990] 2007
E. Glissant, Poetica delle relazioni (1990), Macerata 2007.

Michaud 2004
P. A. Michaud, Migrazioni. Mnemosyne e il passaggio delle frontiere nella storia dell’arte, in Lo sguardo di Giano, Aby Warburg fra tempo e memoria, a cura di C. Cieri Via e P. Montani, Torino 2004, 433-454.

Heil e Ohrt 2016
Aby Warburg: Mnemosyne Bilderatlas. Rekonstruktion – Kommentar – Aktualisierung, hrsg. von A. Heil e R. Ohrt, guida alla mostra (Karlsruhe, ZKM | Zentrum für Kunst und Medien, 01.09.−13.11.2016), ZKM, Karlsruhe 2016.

Ohrt, Fasiolo 2016
R. Ohrt interviewed by B. Fasiolo, Aby Warburg. Mnemosyne Bilderatlas. Exposition at ZKM Karlsruhe 2016. A conversation with the curator, “La Rivista di Engramma" n.139 (novembre 2016). 

Roelstraete 2013
D. Roelstraete, Ri-fare: l’eterno ritorno dell’oggetto, in Celant 2013, 664-667.

Schmidt e Rüttinger 2012
Lieber Aby Warburg, was tun mit Bildern? Vom Umgang mit fotografischem Material / Dear Aby Warburg, what can be done with images? Dealing with photographic material, hrsg. von E. Schmidt e I. Rüttinger, catalogo della mostra (Siegen, Museum für Gegenwartskunst, 02.12.2012−03.03.2013), Museum für Gegenwartskunst-Kehrer Verlag, Siegen-Heidelberg 2012. 

Seminario Mnemosyne 2008
Tavola ’68. Mnemosyne 1968 – Mnemosyne 2008, a cura del Seminario Mnemosyne classicA, coordinato da G. Cengiarotti, M. Centanni, P. Nanni, D. Pisani, "La Rivista di Engramma" n. 68 (dicembre 2008)
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Seminario Mnemosyne [2004] 2012-ss.
Mnemosyne Atlas, a cura del Seminario Mnemosyne classicA, coordinato da M. Centanni, [prima edizione parziale, "La Rivista di Engramma" n. 35 (agosto/settembre 2004)], "La Rivista di Engramma" n. 101 (novembre 2012), con aggiornamenti e integrazioni in corso

Stocchi 2013
F. Stocchi, Ogni atto critico è un atto creativo, in Celant 2013, 675-678.

Venturi 2013
R. Venturi, Atlanti e fantasmi. Georges Didi-Huberman curator
, “Doppiozero” (03 aprile 2013). 

Warburg [1923] [2007] 2014
A. Warburg, Postscriptum alla conferenza di Alfred Doren "Fortuna nel Medioevo e nel Rinascimento", ottobre 1923 (ZK 045 "Antike Nachleben") in A. Warburg, Per Monstra ad Sphaeram, a cura di Davide Stimilli e Claudia Wedepohl, [Sternglaube und Bilddeutung. Vortrag in Gedenken an Franz Boll und andere Schriften 1923 bis 1925, Berlin 2008], Milano, 20142, 17-20.

Weigel 2013
S. Weigel, Epistemology of Wandering, Tree and Taxonomy. The system figuré in Warburg’s Mnemosyne project within the history of cartographic and encyclopedic knowledge
, “Images Re-vues”, 4 (2013).

Zielinski 2006
S. Zielinski, Deep Time of the Media: Towards an Archaeology of Hearing and Seeing by Technical Means (2002), MIT Press, Cambridge (MA) 2006.

Zielinski 2013
S. Zielinski, [… After the Media]. News from the Slow-Fading Twentieth Century (2011), University of Minnesota Press, Minneapolis 2013.

English abstract

Both the exhibition Aby Warburg: "Mnemosyne Atlas. Rekonstruktion – Kommentar – Aktualisierung", curated by Roberto Ohrt and Axel Heil at the ZKM in Karlsruhe, and the two-day colloquium organised in conjunction to the show have been an opportunity to read the “reconstruction, commentary and revision” of the Bilderatlas as a reenactment, and to reconsider the polarities original/copy, past/future, visual montage/epistemic meanings in Warburg’s method, at the crossroad between artistic practice and scientific research. In this respect, the article focuses on the role of Mnemosyne as a medium that stands in an open, generative dialogue with the contemporary obsession for revisiting the past, not in a nostalgic way, but by exploring its potentiality in the present and future.

keywords | Warburg; Mnemosyne Atlas; Reenactment; Exhibition; Karlsruhe; Ohrt.

Per citare questo articolo / To cite this article: C. Baldacci, C. Nicastro, Il Bilderatlas Mnemosyne ri-visitato: una mostra e un convegno a Karlsruhe, “La Rivista di Engramma” n. 142, febbraio 2017, pp. 105-119 | PDF of the article 

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2017.142.0005