"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

157 | luglio/agosto 2018

9788894840520

La danza delle Pathosformeln

Formulazioni dell’espressione corporea secondo la lezione di Mnemosyne

Anna Fressola*

English abstract

Neither from nor towards; at the still point, there the dance is,
But neither arrest nor movement. And do not call it fixity,
Where past and future are gathered. Neither movement from nor towards,
Neither ascent nor decline. Except for the point, the still point,
There would be no dance, and there is only the dance.
Thomas S. Eliot, The Four Quartets

L’âme est la forme d’un corps organisé, dit Aristote.
Mais le corps est précisément ce qui dessine cette forme.
Il est la forme de la forme, la forme de l’âme.
Jean-Luc Nancy, 58 indices sur le corps

Pathosformel: definizioni di Aby Warburg

Nella conferenza su Dürer e l’antichità italiana tenuta il 5 ottobre 1905 ad Amburgo, Warburg utilizza per la prima volta il termine Pathosformel, ‘formulazione di pathos’, riferendosi al tema figurativo della morte di Orfeo (o di Penteo), che con “forza vitale” si naturalizza negli ambienti artistici del Rinascimento italiano:

Anche altre opere d’arte, del tutto differenti, raffiguranti la morte di Orfeo […] mostrano quasi del tutto concordi con quanta forza vitale questa medesima formula patetica, archeologicamente fedele, ispirata a una raffigurazione di Orfeo o di Penteo, si fosse naturalizzata negli ambienti artistici (Warburg [1905] 1966, 196).

Nello stesso saggio Warburg parla di “formule genuinamente antiche di un’intensificata espressione fisica o psichica” che si sforzano di rappresentare “la vita in movimento” (Warburg [1905] 1966, 197). Formule che Dürer riprenderà nella sua intenzione di “dare l’immagine anticheggiante di una emozione e farlo riservando, in pieno accordo con gli Italiani, all’antichità il dovuto privilegio di raffigurare la vita mimicamente intensificata nello stile proprio ad essa” (Warburg [1905] 1966, 197). Con il termine Pathosformeln Warburg indica formule di pathos ‘pre-coniate’ (per usare un’espressione cara allo studioso) nell’antichità greco-romana capaci di veicolare “esperienze dell’emotività umana nell’intera gamma della sua tragica polarità, dall’atteggiamento passivo della sofferenza fino a quello attivo della vittoria” (Warburg [1929], 2016) che riemergono nel Rinascimento in forza di incancellabili impronte genetico-culturali.

L’idea di Pathosformel e il relativo “concetto psicologico della polarità come principio euristico” (così Gertrud Bing, 28 gennaio 1929 in Warburg, Bing [1928-1929] 2005, 46) sono centrali nelle ultime ricerche di Warburg e collaboratori che convergeranno nel progetto del Mnemosyne Atlas, “un inventario delle preformazioni anticheggianti”. Ma quelle Vorprägungen che l’Atlante intenderebbe “inventariare”, a quanto si legge nella Einleitung di Warburg a Mnemosyne, sono in qualche misura collegate alle Pathosformeln:

Mnemosyne, con la sua base di materiale visivo che l’Atlante allegato presenta in riproduzione, intende essere anzitutto soltanto un inventario delle pre-coniazioni anticheggianti che hanno influito, in età rinascimentale, alla formazione dello stile della vita in movimento (Warburg [1929] 2016).

Ancora oggi, nonostante la fioritura di studi relativi ad Aby Warburg e al Bilderatlas, il concetto di Pathosformel proprio perché viene a configurarsi nell’ultima fase delle ricerche di Warburg, pare sfuggire alle maglie di un‘analisi rigorosa che ne colga la definizione, la valenza euristica e in generale la complessità. Si vuole qui, a partire da alcune riflessioni nate in seno al Seminario Mnemosyne*, tentare di delineare un primo tracciato a partire dal quale addentrarsi in una ricerca che, in consonanza con lo stile di pensiero dello studioso amburghese, dovrà bruciarsi le navi alle spalle, affrontare la sfida di nuovi orizzonti e “farsi spericolata” (Warburg [1929] 2014); infatti, come nota Gerturd Bing nell’Introduzione all’edizione italiana di La Rinascita del Paganesimo Antico, i pensieri di Warburg “contengono elementi di dottrine estetiche che crediamo di esserci lasciate alle spalle da sempre” (Bing 1966, XIII).

La “vita in movimento” e la funzione polare dell’atto artistico

Le ricerche di Aby Warburg si articolano a partire da un interesse antropologico per la funzione polare dell’atto artistico inteso come “strumento spirituale di orientamento”. Centrali, dunque, i concetti di ‘polarità’ e di ‘distanza’ in quella che si propone come una “scienza della cultura” descritta come “storia della psicologia illustrata – una storia capace di mostrare la distanza tra l’impulso e l’azione verso l’oggetto” (Warburg [1929] 2016). Osserva Gertrud Bing che i casi singoli che di volta in volta Warburg affronta sono accostati mediante una operatività e una strumentazione analitica di tipo ‘clinico’, da trattare come sintomi di stati fisiologici o patologici del sistema nervoso in quanto celano e insieme rivelano l’articolazione della vita mentale ed emotiva, le cui trame possono esprimersi appieno attraverso l’atto artistico:

Nella situazione storica di fatto si doveva poter mostrare che le esperienze interne ed esterne dell’uomo giungono ad esprimersi nelle forme che l’uomo stesso si crea (Bing 1966, XIII-XIV).

L’atto che fonda la civilizzazione umana secondo Warburg, è “la creazione di una distanza consapevole tra sé e il mondo esterno”: uno spazio intermedio (zwischen) “substrato della creazione artistica” (Warburg [1929] 2016; sull’importanza del ‘tra’ nel pensiero di Warburg, v. Cirlot 2017). Warburg immagina che la psiche umana sia vitalizzata da un continuum oscillatorio tra il bisogno istintuale di vicinanza all’oggetto e la capacità di distanziarsi da esso: l’atto artistico si configura come “una manifestazione tattile dell’oggetto, che ha il fine di rispecchiarlo plasticamente o pittoricamente” e per tanto equidistante “sia dalla comprensione per via immaginativa, sia dalla contemplazione concettuale” (Warburg [1929] 2016). Si tratta di un processo che, più che emancipare, fa precipitare in una stessa modalità di presa/comprensione la dialettica ‘tra’ il ‘prendere/afferrare’ (Greifen), effetto diretto di un impulso cinetico naturale, e il comprendere concettuale (Begreifen); esito e insieme causa prima di questa dinamica è la funzione vitale dell’atto artistico:

Il processo artistico si situa tra la mimica e la scienza. Esso utilizza la mano, ma questa ritorna al suo decorso, imita, rinuncia cioè a tutti i diritti di appropriarsi dell’oggetto a patto di poter determinare in modo tattile il suo contorno esteriore. Non rinuncia quindi del tutto a toccare il soggetto, bensì ad appropriarsene per la comprensione (Warburg 2006, 62).

Attraverso la creazione del simulacro artistico la mano dell’artista non afferra, non si appropria (e quindi non rappresenta), quanto piuttosto tocca, parzialmente e puntualmente la vitalità di un oggetto che proprio attraverso la mediazione del processo artistico può essere compreso. Il tocco parziale e decisivo dell’atto artistico può essere accostato alla reggenza al genitivo dei verbi di percezione in greco. A eccezione dei verbi che indicano l’azione del vedere che reggono il caso accusativo – a indicare come la percezione visiva ci appaia come un passaggio fluido, perfettamente ‘transitivo’ che consente al soggetto di cogliere l’oggetto percepito nella sua interezza e immediatezza – gli altri verbi di percezione e in particolare i verbi che indicano il tatto, in greco sono seguiti dal genitivo, in accezione partitiva, a indicare un contatto puntuale e limitato con la superficie:

Il toccare – ἅπτεσϑαι, ψαύειν, ϑιγγάνειν – avrà la sua meta in un contatto parziale e limitato, circoscritto a un punto della cosa. L’azione non riuscirà a trasportare integra la completezza dell’intenzione investendone pienamente l’oggetto, che quindi non accuserà (non potrà essere accusativo) lo slancio e la realizzazione totale del contatto. Nessuno, quasi niente, si lascia dunque – in greco – ‘toccare’; ma concede al contatto un punto, una zona di sé, un appiglio: e limitatamente a quello, parzialmente, potrò dire ‘ti tocco’ (Centanni 1994, 190-191).

In una nota de La ‘Nascita’ di Venere e la ‘Primavera’ di Sandro Botticelli, Warburg riconosce il moto contemporaneo di partecipazione e distacco tattile provocato dall’atto artistico nei visi trasognati botticelliani, dove la luce viva dell’occhio non si trova nel centro a fissare con precisione gli oggetti esterni del mondo, nella pupilla “a guisa di punto”, bensì è diffusa in una zona scentrata, ‘fuori fuoco’, che coincide con la posizione dislocata dell’iride:

Il dualismo fra partecipazione e distacco è dato ai visi botticelliani, da un punto di vista fisionomico, anche dal fatto che la luce viva dell’occhio non si trova a guisa di punto nella pupilla, bensì nell’iride, la quale talvolta è rischiarata anche a cerchio. In tal modo l’occhio appare, è vero, rivolto agli oggetti del mondo esterno, ma non fissato con precisione su di essi (Warburg [1883] 1966, 56)

Così l’immagine, scrive Warburg già nell’appendice al saggio tratto dalla sua tesi dottorale, deriva da una esperienza ancestrale antropologicamente radicata, “immagine fissata di uno stato dinamico originariamente osservato in dettaglio nella realtà” (Wedepohl [2012] 2014). Per lo studioso, che in questo guarda alle teorizzazioni sul simbolo di Theodor Vischer, l’immagine si trova sospesa ‘tra’ due dimensioni. La prima dimensione è quella propria dell’ambito etimologicamente religioso, in cui l’immagine si trova unificata strettamente al suo significato, collusa con esso, lì dove non si attua un processo di differenziazione e distacco e perciò la sostanza simbolica è considerata tangibile e viene fisicamente annessa al corpo: è il caso del serpente nel rituale degli Hopi che viene afferrato e preso in bocca al fine di acquisirne la forza. La seconda dimensione, l’allegorica, è propria di una dimensione “logico-separante” che, introducendo esplicitamente il confronto, distingue inequivocabilmente i due poli del paragone (Wind [1931] 1998, 127-128): è quello che, con una leggera improprietà retorica, Warburg chiama “il come della metafora”. Il simbolo vive dove, non credendo “autenticamente alla vivacità magica dell’immagine” ne rimane legato così che l’immagine, intesa come simulacro artistico, non perda di vita “per mezzo delle scindenti categorie del pensiero” né immetta in una dimensione magica del pensiero (Wind [1931] 1998, 127-129): un processo in cui Gianni Carchia riconosce una “critica salvifica del mito” (Carchia [1984] 2016). La funzione dell’atto artistico si configura così come polare in quanto oscillante “tra un’immaginazione tendenzialmente identificata con l’oggetto, e una razionalità che cerca invece di distanziarsene” (Warburg [1929] 2016): una funzione “organica all’interno del nostro io pensante” (Warburg [1888-1903], 239), che va a disegnare e ad occupare quello “spazio tra” azione e riflessione, tra ethos apollineo e pathos dionisiaco – l’organica unità, “erma bifronte” la cui armonia è il “risultato di un contrasto” (Wind [1931] 1998, 129). Per Warburg la matrice di ogni atto artistico e della sua ricezione è, in questo senso, tragica: unità tragica spesso fraintesa come dottrina degli opposti incapace di articolare la differenza di una dialettica irrisolvibile:

L’uso quotidiano e superficiale di questa dottrina degli opposti nella considerazione delle immagini dell’arte pagana, ostacola semmai il tentativo di intraprendere seriamente la comprensione dell’unità organica di Sophrosyne ed estasi, nella loro funzione polare di coniare i valori-limite della volontà espressiva umana (Warburg [1929] 2016).

La memoria, dove questa vitalità è engramma latente, crea quello spazio sospeso e relazionale tra due poli limite dell’atteggiamento psichico, che è lo “spazio al pensiero” (Denkraum) e, allo stesso tempo, rafforza e conferma la potenza mnemica della loro eredità:

La memoria […] non solo crea spazio al pensiero, ma rafforza i due poli-limite dell’atteggiamento psichico: la quieta contemplazione e l’abbandono orgiastico. Anzi, utilizza l‘eredità inalienabile delle impressioni fobiche in modo mnemico (Warburg [1929] 2016).

Lo spazio della memoria è, come osserva Carchia “autentica voragine del senso, come il luogo del suo stesso mancamento”: è la storia come memoria che, deragliando dal binario lineare dell’evoluzionismo per muoversi in modo aoristico, svela quel fondamento mitico “dalla cui rischiarata eredità ha potuto poi emergere l’arte” (Carchia [1984] 2016).

‘Tra’ espressione e riflessione

Nella cornice teorica di una funzionalità polare dell’atto artistico, Warburg mette in atto il tentativo di “riportare al loro stato libero le energie che si sono apparentemente congelate nell’invarianza formale dell’immagine”: immagine come “dimensione di memoria ovvero di tempo storico condensato” che vive di una assoluta precarietà costitutiva tra mito e logica, e trova nello statuto irrisolvibile del tragico uno spazio al pensiero. È come una pausa del respiro del vivente, che della vita stessa garantisce l’autonomia:

Warburg ha quindi visto nell’opera d’arte, nella sua apparenza remota dal mondo, il solo luogo dove la polarità di mito e storia, di magia e razionalità, che il suo metodo storico aveva saputo cogliere dietro l’astratta invarianza delle forme, trova un proprio punto di equilibrio, qualcosa come una “pausa del respiro”. Al tempo stesso, però, Warburg non ha mai dimenticato le forze che compongono la precaria conciliazione dell’immagine, forze che proprio nella loro scissione, nel loro carattere polare sono all’origine del riuscito autonomizzarsi dell’apparenza estetica (Carchia [1984] 2016).

Nel cuore dell’immagine, a consentirne la vitalità, sta dunque la Pathosformel, formulazione espressiva dell’emozione genuinamente antica propria di quei valori limite dell’atteggiamento psichico che includono “l’intera scala delle manifestazioni cinetiche della vita di una umanità fobicamente scossa, in una scala che va dall’abbattimento inerme fino all’ebbrezza omicida, comprendendo tutte le azioni mimiche che si trovano tra questi due estremi”: “abissale abbandono proprio del culto del tiaso” che nell’arte figurativa si riconosce nei corpi che “camminano, corrono, danzano, afferrano, portano, trasportano” (Warburg [1929] 2016). Memoria “di un irrappresentabile che l’espressione può restituirci” (Carchia [1984] 2016).

Una intensità emotiva e posturale che coinvolge, prendendolo, il corpo e che, ancora una volta si configura come strumento di scarto tra espressione e riflessione: è esperienza cinetica e mimica espressiva, biologicamente utile, che contiene in sé il principio della riflessione già là dove i movimenti muscolari e tutte le funzioni vitali si articolano e si differenziano. Come osserva Wind, riprendendo questo spunto della riflessione warburghiana, allenando un muscolo per una particolare funzione nello stesso tempo lo si rafforza lasciando via via tracce sovrascritte nella memoria biologica. La stessa differenziazione e articolazione muscolare e nervosa crea dunque uno spazio riflessivo, laddove altrimenti, in un corpo disarticolato e omogeneo, l’evento attraverserebbe l’organismo totalmente trasformandosi in un immediato movimento senza lasciare sullo stesso corpo né traccia né sentimento di percezione. L’articolazione dei movimenti che “ristagna in certe parti lasciandone libere altre” assolve così, in forza di questa “funzione di memoria” che si formula nel corpo, ad una funzione sia fisica che espressiva, sottendendo quella polarità propria del simbolo di un “movimento muscolare pienamente espressivo”, in cui il polo opposto è generato da un pieno equilibrio fisiognomico conseguente un debole eccitamento e un movimento mimico ritardato che comporta la fissazione dei caratteri (Wind [1931] 130-132). Se infatti Warburg aveva guardato alle teorizzazioni positiviste della psicologia dell’espressione e della fisiologia, in primis a Charles Darwin e a Tito Vignoli, nel teorizzare e nell’accogliere l’impeto polare del tiaso tragico, non potrà che distanziarsi da una visione meccanicamente evoluzionista.

Pathos quindi come un “nucleo caldo” espressivo (Settis [1997] 2012), movimento vitale che, in quanto tale, non può che essere instabile oscillazione, così come tutte quelle posture di corpi presi dal pathos che, se analizzati scheletricamente, evidenziano una tensione conflittuale e dissonante tra estremità opposte – braccia e gambe, parte superiore e parte inferiore del corpo – e una instabilità propria di un movimento che non può essere mantenuto nel tempo, che non può fissarsi (così si ricava anche dallo studio di Leonardo Impett e Franco Moretti, sul quale tuttavia è da osservare che gli stessi autori ammettono che la prospettiva analitica adottata non tiene conto dell’aspetto antropologico ed estetico, fondamentale per Warburg: Impett, Moretti 2017). Corpi che, se non fossero sempre nell’imminenza di un movimento, smetterebbero di essere vivi e diverrebbero σώματα, ‘meri corpi’, ovverossia cadaveri.

Pathos che, d’altra parte, cerca e trova le sue espressioni in formulazioni per loro natura fredde (Formeln), che tendono a incasellarsi in serie morfologiche, quando non tassonomiche. In questo senso, nota Salvatore Settis, Pathosformel è parola ossimorica in quanto fonde nello stesso termine il movimento del pathos e la stasi, o meglio l‘ipostasi della formulazione di uno schema. Proprio per la sua natura ossimorica il concetto di Pathosformel permette di cogliere la forma vivente ma senza esaurirla, toccandola puntualmente, e contemporaneamente ingenera un atto di coscienza/conoscenza. Formulazione che non è fissazione del carattere ma articolazione di una distanza. Già nelle Tesi su Botticelli Warburg parlava di “una immagine mnemonica di generici stati dinamici che risente della nuova impressione” (Wedepohl [2012] 2014): la Pathosformel si polarizza a ogni occorrenza in modo diverso così “la Salomè danzante della Bibbia compare come una Menade greca” o ancora diventa il pathos luttuoso della Maddalena sotto la croce, e “una serva che reca un cesto di frutta di Ghirlandaio incede imitando in modo del tutto consapevole lo stile di una Vittoria di un arco di trionfo romano” (Warburg [1929] 2016). In questa danza tra formulazioni diverse che si animano, accolgono, reagiscono agli impulsi, si ha l’attivazione di un nucleo energetico che Warburg chiama ‘dinamogramma’ – l’elemento vitale che l’artista sa riconoscere e cogliere a partire da sue concrete esperienze sensoriali del mondo che eccitano una urgenza interiore a cui, a sua volta, l’artista stesso dà una nuova vita, polarizzandone di volta in volta il senso in modo mai univoco o irreversibile:

I dinamogrammi dell’arte antica sono lasciati in retaggio in uno stato di tensione massima ma non polarizzata, rispetto alla carica energetica attiva o passiva, all’artista che può reagire, imitare o ricordare. È solo il contatto con la nuova epoca a produrre la polarizzazione. Questa può portare a un radicale rovesciamento (inversione) del significato che essi avevano nell’antichità classica (Warburg 1927 in Gombrich [1970] 2003, 215).

1 | Baccante, dettaglio da rilievo neoattico, I sec. a.C., Firenze, Gallerie degli Uffizi.
2 | Domenico Ghirlandaio, Storie della vita del Battista: il banchetto di Erode, affresco, 1486-1490, Firenze, Santa Maria Novella, Cappella Tornabuoni, dettaglio.
3 | Sandro Botticelli, Giuditta con la testa di Oloferne, tempera su tavola, 1497-1500 ca., Amsterdam, Rijksmuseum.
4 | Niccolò dell’Arca, figura della Maddalena dal Compianto sul Cristo morto, terracotta, seconda metà del XV sec., Bologna, Santa Maria della Vita.

Senza questo processo che passa dalla vita all’arte e restituisce la vita, si avrebbe la fissità del dinamogramma, ovvero il tradimento della sua natura, la sconnessione dalla vita, e la sua ripetizione infinita che scade inevitabilmente in “retorica” o “fraseologia” (Wedepohl [2012] 2014).

Warburg nel 1927 definì le Pathosformeln “Ur-parole” (Urworte) del linguaggio gestuale “classificando ‘combattere’, ‘andare’, ‘correre’, ‘danzare’, ‘afferrare’, con le prime radici La-Gre-To: [Lauf, Greif, Tod], ovvero ‘corsa’, ‘presa’, ‘morte’” (Wedepohl [2012] 2014): uno strumento metodologico gli viene dal saggio di Hermann Osthoff sulla natura suppletiva delle lingue indo-germaniche (Osthoff 1899), laddove lo studioso spiega come un mutamento della radice lessicale delle parole, per gli aggettivi nella comparazione e per i verbi nella coniugazione, in cui viene meno l’identità formale, non pesa “sulla concezione dell’identità energetica della qualità o dell’azione indicate”, anzi: “l’ingresso di una radice diversa produceva un’intensificazione del significato originario della parola” (Warburg [1929] 2016). Si può guardare così al linguaggio gestuale delle Pathosformeln come a un codice genetico che è matrice di diverse forme di vita. A integrazione di queste riflessioni sulla analogia tra i processi generativi delle formule di pathos e le forme linguistiche, tornano utili anche le considerazioni di Thomas A. Sebeok che mettono in luce la natura generativa del linguaggio, attraverso procedimenti tassonomici estremamente strutturati e allo stesso tempo “meravigliosamente rimodellabili”:

Il linguaggio è un mezzo di formazione di cui dispone solo l’uomo. La moltiplicazione dei segni verbali – tale che, con un piccolo repertorio di caratteristiche distintive binarie raggruppate in poche decine di fonemi, sia possibile costruire, diciamo, parole distinte, e concatenare, quindi, le sequenze di queste in un numero potenzialmente infinito di frasi [...] – conferisce la capacità di creare, potenzialmente, illimitati ‘mondi possibili’, modelli secondari, alcuni dei quali possono essere, realmente, trasformati in tutte quelle aree edificate che costituiscono la civiltà (Sebeok [1986] 1990, 51).

Sebeok ci ricorda che il logos, inteso aristotelicamente come sistema di pensiero e di espressione peculiarmente umano, non nasce per soddisfare un bisogno di comunicazione, istanza che è efficacemente risolta dalle altre specie animali mediante sistemi di segni non verbali, ma si configura piuttosto come fluido capace di “riorganizzarsi incessantemente”, che cresce con “meravigliosa mutevolezza”, continuamente stabilendo rapporti e ridisegnandone altri. In questo senso il linguaggio umano, e soltanto esso, che si è sviluppato in parallelo a un “sistema acustico” di decodificazione piegato a una sofisticata “adeguatezza ricettiva” (Sebeok [1986] 1990, 48-51), è in grado non solo di comunicare segnali, ma di “inventare mondi”. Ma anche l’immagine artistica, nota Wind, non solo “plasma lo stato d’animo” ma, pure, lo “eccita”, ovvero smuove e commuove il senso del desiderio (Wind [1931] 1998, 125). In questo senso, secondo Carchia, l’immagine promuove una “carica di iniziativa storica”, per lo sguardo di coloro che non si accontentano di inventariarla in un “immutabile e precostituito paradigma di forme”, ma che l’accolgono nella sua dimensione di memoria. Un atto di empatia che è “restituzione alla natura del suo contenuto mitico più remoto – quello pagano – nella forma ineffettuale, non religiosa, del simbolo artistico” (Carchia [1984] 2016). La gamma di emozioni così evocate va da un estremo all’altro dell’arcobaleno delle passioni:

Il linguaggio figurativo gestuale, spesso rafforzato dal linguaggio della parola che si rivolge anche all’orecchio attraverso le iscrizioni, grazie alla violenza indistruttibile del suo conio espressivo, nelle opere architettoniche (ad esempio negli archi di trionfo e nei teatri) e in quelle plastiche (dal sarcofago fino alla moneta), costringe a rivivere esperienze della commozione umana in tutta la sua polarità tragica: dalla sofferenza passiva fino all’atteggiamento vittorioso attivo (Warburg [1929] 2016).

La vitalità dell’immagine patetica non può essere colta che attraverso una partecipazione emotiva, capace di toccare e al tempo stesso, per la reciprocità propria dell’atto del contatto, di farsi toccare. Il “trionfo dell’esistenza”, osserva Warburg, si presenta ancora una volta “in tutta la sua sconvolgente antitesi di affermazione della vita e negazione dell’Io di fronte all’anima dei posteri”. Il “gradito incitamento” si svolge infatti come funzione mnemica a partire da un confronto con forme pre-coniete che “esigono nel singolo artista il distacco o l’assimilazione”: si tratta di un processo dove la restituzione “tra una autorinuncia all’impulso dell’Ego e una consapevole forma artistica delimitata – ovvero posta tra Dioniso e Apollo”, prescrive “al genio artistico il suo luogo interiore, laddove poteva comunque dare la propria impronta in un linguaggio formale più personale” (Warburg [1929] 2016). Non copia di un modello esistente, non rappresentazione, quanto piuttosto atto empatico di praesentatio, capace di muovere cariche energetiche, esprimere una affettività che diviene “forza creatrice di stile”:

Nei circoli degli artisti impegnati nelle loro creazioni si potrebbe osservare il senso per l’atto estetico dell’empatia, nel suo divenire, forza creatrice di stile (Warburg [1932] 1998, 5).

Così lo stile artistico poco ha a che fare con la formale riproduzione di un Idealtypus, al contrario: è irruzione di una forma espressiva “della massima esaltazione interiore” la cui matrice è da rintracciare “nell’ambito della esaltazione orgiastica collettiva”. L’atto artistico è necessario, dunque, perché questa energia, recepita e vissuta senza filtri, non è di fatto né ‘toccabile’, né ‘comprensibile’ dal soggetto: la vita può esprimersi appieno soltanto attraverso la mano dell’artista.

Così accade per l’emozione al grado superlativo della disperazione estrema di una donna che corre in avanti, con le braccia gettate violentemente all’indietro, irrompendo tra un gruppo di figure statiche della Strage degli Innocenti realizzata da Nicola Pisano sul pulpito del Duomo di Siena tra il 1265 e il 1268 [Fig. 5]. Uno schema iconografico del quale Maria Luisa Catoni, per il tramite dei sarcofagi con il compianto Meleagro [Fig. 6], rintraccia la prima matrice nella figura di levatrice intenta a soccorrere la partoriente, slanciandosi in avanti: l’occorrenza più antica che ci sia pervenuta è probabilmente quella che compare su una coppa d’argento proveniente dalla Casa del Menandro a Pompei, dove è ritratta la scena della tragica morte di Semele [Fig. 7].

5 | Donna che accorre gettando violentemente le braccia all’indietro, dettaglio del pulpito di Nicolò Pisano con rilievo della Strage degli innocenti, 1265-1268, Siena, Duomo.
6 | Donna che accorre gettando violentemente le braccia all’indietro, dettaglio del sarcofago romano con scene della vita di Meleagro, 170-180 d.C., Milano, Collezione Torno (già Collezione Simonetti).
7 | Coppa argentea con la morte di Semele e il bagno di Dioniso, prima metà del I sec. d.C., da Pompei, Casa del Menandro, Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Com’è noto, la versione principale del racconto mitologico prevede che Semele morisse fulminata dalla violenza dell’epifania di Zeus (da lei stessa provocata, su subdola istigazione di Era), mentre era incinta di Dioniso, e che Zeus espianti il feto del dio dal grembo materno incendiato dalle sue folgori per reimpiantarlo nella propria coscia dalla quale poi, attraverso uno squarcio, Dioniso nascerà. La morte di Semele finì però per diventare il paradigma della morte di una puerpera per parto come mostra l’impiego delle relative formule visuali entro il repertorio in contesti funerari.

Nella coppa di Pompei, Semele è colta nell’attimo in cui si accascia volgendo lo sguardo a una donna che accorre verso di lei con le braccia all’indietro, mentre Thanatos incombe sulla scena. Dall’altro lato della coppa sono ritratte alcune figure femminili rappresentate nell’atto di prendersi cura dell’infante: è il bagnetto di Dioniso neonato (altro tema iconografico destinato a una notevole fortuna), al quale, nella coppa di Pompei, assistono una menade e un satiro. L’iconografia della coppa è collegabile a un cratere apulo del IV secolo a.C. [Fig. 8] in cui Semele, al di sopra della quale incombe il fulmine che le toglierà la vita, è soccorsa da una donna questa volta con le braccia protese in avanti nel gesto comune nella rappresentazione delle levatrici nelle scene di parto (vedi la serie iconografica delle donne morte di parto su stele attiche raccolta in Catoni 2005a).

8 | Cratere apulo a figure rosse attribuito al Pittore di Arpi, 310-300 a.C., Tampa, Tampa Museum of Art.

La formula posturale dell’ingresso della levatrice nell’iconografia di Semele sulla coppa d’argento di Pompei si inverte dunque di segno, diventando il gesto proprio di un’‘anti-levatrice’ che assiste a una scena di morte, anziché di vita.

La formulazione di questa Pathosformel, in rapporto genetico con la formula “positiva” della levatrice che reca aiuto in un momento pur drammatico, si mostra così capace di esprimere le due estremità di una passione e insieme di connettere le trame sotterranee di energia che intercorrono tra cura della vita e disperazione della morte: è la dialettica contraddittoria della posa della figura irruenta in contesto funerario, che irrompe per soccorrere ma che è come trattenuta dalla stessa foga della sua passione, con gli arti superiori innaturalmente bloccati all’indietro rispetto al passo concitato degli arti inferiori. Una figura che emerge come “disperata negazione dell’aiuto che tipicamente porta una levatrice”: la funzione espressiva di un’emozione disperata convive con quella del moto attivo e interventista, del veloce movimento in avanti, in un rapporto, ancora una volta, disgiuntivo (Catoni 2013, 62-76).

È questo il processo di scambio e migrazione di valori espressivi che Warburg fa emergere nella scelta e nell’impaginazione delle immagini nelle tavole di Mnemosyne, ma che prende già spunto da un suo precoce interesse per la psicologia dell’empatia che trova formulazione implicita in Le ultime volontà di Francesco Sassetti (1907): in quel saggio Warburg teorizza che il mecenate nella committenza al Ghirlandaio attui un tentativo di conciliazione nella rappresentazione artistica della sua lotta tra una acuta sensibilità ai valori pagani risvegliati dal Rinascimento, e i suoi valori religiosi e sentimenti di pietas ancora legati a una cultura ‘medievale’. Ma è nell’Atlante che il dispositivo teorico che Warburg ha maturato si svela compiutamente: le tavole accolgono infatti immagini non solo tratte dalla storia dell’arte, ma anche istantanee di vita. È il caso della “Cacciatrice di teste” alla quale è dedicata la Tavola 47 di Mnemosyne, che ricompare in Tavola 77 [Figg. 9 e 10], nello scatto contemporaneo della giocatrice di golf, colta in tutta la sua aggraziata forza femminile nell’atto precedente di sferrare il colpo (Seminario Mnemosyne 2014).

9 | Mnemosyne Atlas, Tavola 47: Donatello, Giuditta e Oloferne, bronzo, 1446-1460, Firenze, Piazza della Signoria.
10 | Mnemosyne Atlas, Tavola 77: fotografia della campionessa di golf Erika Sell-Schopp, da “Frau und Gegenwart”.

Con Mnemosyne emergono alla luce i profondi conflitti trans-storici che trovano espressione nelle forme d’arte che l’uomo crea. Ed è nella dimensione del simulacro e dell’artificio in cui questa polarità psichica si esprime che, osserva Wind, si genera un godimento artistico “che vive ricreando nella contemplazione del ‘simulacro’ questa circostanza centrale [in cui riemergono le] oscure energie della vita umana” (Wind [1931] 1998). Si tratta di un processo di immedesimazione e di presa di distanza, di attrazione e repulsione, assimilabile al moto di eccitazione e spurgo della pietà e del terrore in cui Aristotele individua il sollievo della catarsi tragica (Centanni 1995).

Sospensione. La danza delle Pathosformeln

Le formulazioni “genuinamente antiche” in cui si concentra l’antica gioia di vivere pagana, annunciata da movimenti intensificati e da ventilate vesti e capigliature, sono le Pathosformeln che Warburg vede riemergere, come spazio privilegiato, nella cultura delle feste teatrali rinascimentali, e più in generale nelle forme dell’espressione drammatica cinquecentesca. Sulla scorta di Jacob Burckhardt, citato espressamente da Warburg in occasione della conferenza di presentazione del Bilderatlas alla Biblioteca Hertziana di Roma (De Laude 2014), le feste teatrali sono intese come “autentico trapasso dalla vita all’arte” (Burckhardt [1870] 2006, 310). L’immagine infatti, osserva Warburg nel saggio su Dürer, non è “soltanto un tema di atelier d’interesse puramente formale, ma un’esperienza vissuta appassionatamente con piena intuizione del dramma misterioso della leggenda dionisiaca, rivissuta realmente nello spirito e secondo le parole dell’antichità pagana”: il primo riferimento è, anche sotto il rispetto tematico, all’Orfeo di Poliziano rappresentato a Mantova nel 1471.

Per altro, già durante la conferenza su Rembrandt tenuta presso la Kulturwissenschaftliche Bibliothek Warburg nel maggio del 1926, Warburg rivendicava la necessità fondamentale di tracciare una linea di connessione “tra parola, azione e immagine” (Warburg [1926] 2008, 407) che tenga conto di una “reciproca fecondazione [...] dimenticata, tra una vita modellata dalle feste e l’arte figurativa” (Warburg [1926] 2008, 437). Com’è noto la conferenza è dedicata all’opera di Rembrandt, alla sua epoca e agli elementi dell’eredità classica che, dalle sotterranee fucine della memoria, premono per uscire alla superficie, lottando tragicamente contro uno stile monumentale e trionfale, per “mostrare la doppia radice di questa pateticità antico-pagana del mito o della storia” (Warburg [1926] 2008, 411): è quello il primo tentativo, sottolinea Warburg studioso stesso, in cui cercò di “tener conto della creazione drammatica in senso ampio” (Warburg [1926] 2008, 627).

Per il movimento oscillatorio, instabile e tensivo, proprio della riemersione delle Pathosformeln, per la danza teatrale per eccellenza che è il tracciato delle “antike Vorprägungen” nello spazio del pensiero, Warburg indica un esempio icastico potente: la figura di Medea “madre di vita e di morte” (vedi la lettura della Tavola 5 del Mnemosyne Atlas in Seminario Mnemosyne 2000a).

Con il processo che Warburg definisce di “inversione energetica”, la figura della madre infanticida tratta da un sarcofago romano del 150 a.C., è assunta come modello da Agostino di Duccio in un rilievo della facciata di San Bernardino a Perugia (1457-1461): l’infanticida presta la sua figura alla madre che, con atteggiamento protettivo, accompagna a casa il figlio miracolato dal santo e salvato dall’annegamento. Nel corso della conferenza su Rembrandt, Warburg farà fuoco non tanto sulla formula di pathos di Medea che sguaina la spada e si avventa sui figli, quanto su una commovente e “titubante Medea” colta nel momento che precede l’azione.

11 | Mnemosyne Atlas, Tavola 5: Medea, frammento di pittura parietale da Ercolano, ca. 45-79 d.C., Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
12 | Mnemosyne Atlas, Tavola 73: Rembrandt, Matrimonio di Giasone e Creusa, 1648, illustrazione per il dramma di Jan Six, acquaforte, Dresden, dettaglio di Medea.

È la Medea che appare in una pittura parietale di Ercolano risalente al 45-79 d.C. (presente in Tavola 5 di Mnemosyne Atlas, tutta dedicata alle pre-coniazioni antiche delle madri assassine del mito) con le mani posate sul ventre nel reggere l’arma, e che “non si è ancora risolta se uccidere o meno i suoi figli mentre giocano” [Fig. 11]. Medea, nella quale Lessing “scorge l’esempio più convincente del saggio timore dello stile classico di rappresentare una azione transitoria” (Warburg [1926] 2008, 630), diventa la figura esemplare della sospensione prima dell’azione in cui consiste l’opera della costruzione drammaturgica; e a proposito della – potenzialmente eterna – sospensione, Warburg cita “quell’epigrammatico greco che aveva biasimato il pittore che aveva raffigurato la Medea assassina con le seguenti parole: ‘Hai l’intenzione per sempre di uccidere? Al diavolo tu e il tuo dipinto!’” (Warburg [1926] 2008, 630). La stessa Medea esitante e titubante torna nell’illustrazione di Rembrandt del 1648 che raffigura il matrimonio di Giasone e Creusa per il dramma di Jan Six, in cui l’eroina è posta in primo piano ma del tutto in disparte rispetto alla scena principale, nascosta alla vista della coppia e di tutti gli astanti, nel mentre medita il suo piano sanguinoso [Fig. 12]. L’acquaforte di Rembrandt, che si trova sul pannello 73 del Bilderatlas, è appuntata con “forza statica trasformatrice, trasformazione di uno stile: Rembrandt” (Warburg [1926] 2008, 581).

Questa Medea assassina, ma che non è ancora tale, posta di lato, al margine della scena con lo sguardo obliquo su quel che sta accadendo, colta nella sospensione che precede l’azione, è gravida di tutta la potenza del nucleo energetico del dinamogramma ancora non polarizzato: la postura mostra dell’esistenza di “una cultura greca che era sensibile, come solo Shakespeare poteva essere – scrive Warburg – alla sofferenza della coscienza di colui che è condannato a un comportamento tragico” (Warburg [1926] 2008, 629), in sospeso “tra Sophrosyne ed estasi” (Bordignon 2012). Medea sta in quella spaziatura tra azione e contenimento dell’azione stessa: “Medea a teatro e in Rembrandt – Spazio mentale della ponderazione” (Warburg negli appunti per Tavola 73). Una spaziatura che vive nell’Atlante in quello spazio nero, vuoto e per questo denso di oscillazioni e tensioni, che si espande fino alla soglia delle immagini appuntate ritmicamente nei pannelli attraverso movimenti di focalizzazione, allontanamento e avvicinamento (Centanni 2010). E dato che la tragedia a quanto ci insegna Aristotele è “rappresentazione di un’azione, non di uomini, [e gli attori] non sono in scena per rappresentare caratteri, ma assumono un carattere attraverso le azioni” (Centanni 2018), lo stesso Shakespeare coglie puntualmente il Leitmotiv dello spirito tragico antico, proprio nella costruzione di caratteri che giocano nel tempo teatrale tutta la loro esitazione, il doppio movimento di impulso all’azione e di distacco:

Shakespeare […] impose al pubblico ad un tempo la duplicità della commozione passionale e del sommo distacco come Leitmotiv delle sue creazioni di caratteri. Si trattava di un pubblico che voleva essere costretto a passare dalla delizia degli occhi della recita in maschera alla condivisione della tragedia del distacco (Warburg [1926] 2008, 607).

Rembrandt non risolve il tragico conflitto interiore di Medea, ma la mette in scena rafforzando i poli limite dell’atteggiamento psichico, sospendendo ed espandendo lo spazio al pensiero. Lo spazio della sospensione – spazio teatrale per eccellenza – è ancora assimilabile al primo moto vitale che è l’intervallo della respirazione, la ‘spaziatura’ che coincide con la pausa tra inspirazione ed espirazione:

L’ascesa di Elio verso il Sole e la discesa di Proserpina negli Inferi simboleggiano due tappe che appartengono in modo inscindibile al ciclo della vita, come l’inspirazione e l’espirazione. Come unico bagaglio per intraprendere questo viaggio possiamo portare con noi solo l’intervallo eternamente mobile tra impulso e azione: sta a noi decidere quanto possiamo dilatare, con l’aiuto di Mnemosyne, questo intervallo della respirazione (Warburg [1926] 2008, 632).

Nella postura tragica di Medea risuona quella polarità tra azione e riflessione, che Warburg si adopera a far emergere a partire da una attenzione per artisti che trattano il tema dal punto di vista concettuale, come Rembrandt, o stilistico, come Ghirlandaio, chiamati “guardiani di confini” tra “corpi imbacuccati” e la nudità libera e disinibita (Warburg 1926 in Wedepohl [2012] 2014). Ma è anche la sospensione tra vita activa e vita contemplativa rappresentata emblematicamente da Dürer nella figura della Melanconia “dilemma perenne dell’uomo di fronte alle forze cosmiche” (Dal Lago [1998] 2016).

Schema e ritmo

È in questo spazio, in questa distanza sospesa, che è possibile il movimento e una polarizzazione che si esercita nell’intelligenza o nella comprensione empatica del mondo. In un intervallo che è quello che sussiste tra la declinazione della forma come ‘ritmo’ e la declinazione come ‘schema’: ritmo che, ricorda Émile Benveniste, è termine proprio della filosofia greca atomistica, in cui pieno e vuoto sono il principio di tutte le cose che sono e dove “la varietà tra i corpi si dà soltanto per densità o rarefazione di materia” in cui le possibili diversificazione sono raggruppabili come “forma (nelle due varianti: ῥυσμός/σχῆμα), contatto/ordine (διαθιγή/τάξις), direzione/posizione (τροπὴ/θέσις)” (Benveniste [1951, 1966] 1971, 390: tutti questi termini sono anche ripresi da Aristotele per descrivere, da una prospettiva molto orientata, la fisica atomistica). Diversificazione in cui il primato è proprio della forma come schema, forma statica, “fissa, realizzata, posta in certo qual modo come un oggetto” e, simultaneamente, come ritmo: forma fluida nell’attimo in cui è assunta, momentanea e modificabile:

La prima modalità della relazione tra i corpi è la forma/ritmo che poi presterà i suoi nomi alla danza; e, di converso, la prima forma/ritmo è la danza degli atomi: atomi principi ed elementi costitutivi di tutto quanto esiste, trascinati nel vuoto dello spazio da un vortice vitale e necessario, che si aggirano senza posa in un moto infinito, provando ogni tipo di connessione (omne genus motus et coetus experiundo dirà Lucrezio), intrecciando le loro diverse figure e dando origine a infinite forme (Centanni, Pedersoli 2016).

L’espressione più convincente di questa polarità è apprezzabile negli schemata intesi come “figure di danza”, alle quali nel codice culturale degli antichi corrispondevano caratteri diversi. Ed è propriamente la danza il contesto in cui la parola schema prende forma plurale: tante formule di ethos e di pathos, espresse da altrettanti schemata, che vengono a coincidere con un “linguaggio dei gesti” (Catoni 2005, 135).

Il codice schematico dei gesti, anche all’infuori dell’ambito della danza in cui sorge la terminologia, ha una funzione comunicativa contingente e culturalmente connotata: negli schemata delle arti mimetiche i Greci fissavano e condividevano i valori condivisi all’interno della polis. Tanto che studiarne la funzione è, osserva Catoni, guardare “una lente attraverso la quale leggere le norme comportamentali e la loro violazione ma anche per intravedere i mutamenti culturali impliciti in un loro eventuale cambiamento di forma” (Catoni 2005, 135). Gesto inteso allora come atto soggetto a interpretazione che può de-sematizzarsi fino a diventare intellegibile e che risponde, precisamente e univocamente, a un sistema di convenzioni e di codici dettati dal contesto (Bertelli, Centanni 1995); schema che prevede l’ipostasi di un “momento legato alla stasi e all’assenza [...] di movimento” (Catoni 2005, 143). In questo senso il linguaggio dei gesti è, per tornare alla riflessione di Sebeok, un sistema di segni atto a soddisfare istanze e bisogni precisi, esattamente come accade per il repertorio fisso di versi e di posture che caratterizzano la comunicazione attiva fra tutte le specie animali, limitata a descrivere l’esistente. E che, d’altra parte, a partire da tale cristallizzazione e da una trasversalità in termini di media, contesti e permanenza nel tempo, permette che il movimento possa essere riattivato in ogni momento e in ogni contesto (Catoni 2013).

Ma il codice dei gesti può entrare anche come elemento aggiuntivo nel teatro espressivo delle Pathosformeln, conferendo alle figure significati diversi rispetto al vocabolario predeterminato. Nelle immagini contenute nel Mnemosyne Atlas la variazione dello schema gestuale di una parte del corpo può conferire dinamismo e variazione a una stessa postura. Un caso esemplare è quello, in Tavola 39, della progressiva “animazione” della figura femminile stante messa in movimento ‘cinematografico’ nell’accostamento che Warburg propone di immagini tratte dal repertorio di Botticelli, proprio in forza dei movimenti del braccio e della mano, in un gioco di alterazioni semantiche che di volta in volta ne disegnano il carattere. La Venere nuda che nella Nascita di Venere di Botticelli tiene il braccio destro ripiegato sul seno a significare la seduzione [Fig. 13], nel Regno di Venere (Primavera) mantenendo la postura muove il braccio e la mano destra in un gesto invitante-ammaestrante [Fig. 14]; così nella Pallade e il centauro con lo stesso braccio doma la bestia [Fig. 15]; medesima è la postura generale, ma con un’ulteriore variazione del gesto, nel disegno botticelliano della Pace o Abbondanza [Fig. 16] e nella Pallade con lancia da giostra nella tarsia del Palazzo ducale di Urbino [Fig. 17], laddove la mano destra tiene/ostenta nell’un caso la cornucopia, nell’altro l‘arma offensiva (Seminario Mnemosyne 2000b).

Mnemosyne Atlas, Tavola 39:
13 | Sandro Botticelli, Nascita di Venere, tempera su tela, 1482-1485, Firenze, Gallerie degli Uffizi, dettaglio.
14 | Sandro Botticelli, Regno di Venere (Primavera), tempera su tavola, 1478-1482, Firenze, Gallerie degli Uffizi, dettaglio.
15 | Sandro Botticelli, Pallade e il centauro, tempera su tavola, 1482-1483, Firenze, Gallerie degli Uffizi.
16 | Sandro Botticelli, Ninfa di Acheloo (Allegoria di Abundantia), disegno, 1470-1480, London, British Museum, Department of Prints and Drawings.
17 | Baccio Pontelli su disegno di Sandro Botticelli, Pallade, tarsia, 1479-1482, Urbino, Palazzo Ducale.

Il linguaggio gestuale delle Pathosformeln trova così il suo senso proprio in questa articolazione tra due idee di forma: schema e ritmo irriducibili l’uno all’altra, e tuttavia indissolubilmente e sostanzialmente legati, dato che l’espresso non esiste al di fuori di una sua espressione schematica, e tuttavia mai coincide con essa. Freddo e caldo, pathos dionisiaco della danza e schemata: per essere forma viva, l’impulso della memoria non può fermarsi, ma deve essere sempre in movimento.

Non si dovrà quindi mai dire – ci insegna Gilles Deleuze – ‘la foglia è verde’, ma piuttosto sarà da far luce sul ‘verdeggiare della foglia’: non una “qualità della cosa, ma attributo che si dice della cosa e che non esiste fuori dalla proposizione che lo esprime”. Coesistenza simultanea, osserva Deleuze, di due “facce senza spessore”, una frontiera dove “il senso è l’esprimibile o l’espresso della proposizione e l’attributo dello stato di cose” (Deleuze [1969] 2016, 27).

Funzione delle Pathosformeln e delle forme d’arte mimetiche, come mette in luce Maria Luisa Catoni ancora in consonanza con il pensiero greco, è formalizzare meccanismi e forme che permettono di “rendere visibili entità invisibili”, altrimenti indicibili (Catoni, Ginzburg, Giuliani, Settis 2013, 69).

* Ringrazio tutti i partecipanti amici del Seminario Mnemsoyne che periodicamente si incontra a Venezia, e per l’Europa. In particolare la mia riconoscenza va ai presenti al seminario che si è tenuto al Palazzone di Cortona tra il 10 e il 12 marzo 2018, dedicato al concetto di Pathosformeln, dove riflessione espunti di questo scritto si sono accordati: Monica Centanni, Claudia Cieri Via, Victoria Cirlot, Silvia De Laude, Maurizio Ghelardi, Anna Ghiraldini, Matias Julian Nativo, Alessandra Pedersoli, Alessia Prati, Silvia Urbini.

Bibliografia
English abstract

This study consists of an investigation into the genesis and operation of the Pathosformel notion and the related concept of polarity as a heuristic principle. Polarity and the Pathosformel traverse the work of Aby Warburg but only find a defining configuration during the last period of his research. In particular, the paper’s analysis connects the concept, used for the first time by Aby Warburg in the essay on Dürer and Italian Antiquity (1905), with the Mnemosyne Atlas, an “inventory of pre-coined types from the Antiquity”. The focus is on its instrumental nature in relation to the phenomena that Warburg set out to explain, with particular regard to the function of the artistic act, memory and image. Passing through the iconographic formula of the desperate woman who throws herself forward with her arms backwards, the hesitant Medea of Rembrandt and Pompeii caught in the moment of suspension that precedes the action, the articulated relationship between form as rhythm and simultaneously as a schema – proper terms of atomistic physics lent to dance –, the gestural language of the Pathosformeln emerges characterized by a tragic irreducibility. It is the movement and dance of the Dionysian pathos that cannot exist outside a schematic expression and formulation, but which never coincides with it.

keywords | Pathosformel; Polarity; Aby Warburg; Dürer and Italian Antiquity; Mnemosyne Atlas; Medea. 

To cite this article: A. Fressola, La danza delle Pathosformeln. Formulazioni dell’espressione corporea secondo la lezione di Mnemosyne, “La Rivista di Engramma” n. 165, luglio/agosto 2018, pp. 45-71 | PDF





doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2018.157.0011