"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

201 | aprile 2023

97888948401

21 aprile 1923. Il rituale del serpente

Editoriale di Engramma n. 201

a cura di Silvia De Laude, Monica Ferrando

English abstract

Sorprendente è stato scoprire, quasi al termine del lavoro, la coincidenza dell’uscita di questo numero di “Engramma” – pubblicato in data 21 aprile 2023 – con il centenario del suo tema: la data della conferenza di Aby Warburg sul Rituale del serpente a Kreuzlingen, il 21 aprile 1923.

Si è trattato di un lavoro in cui, come il lettore avrà modo di verificare, acribia filologica e riflessione filosofica attestano la loro indissolubile coappartenenza. Si immagina un lettore che si sia chiesto, leggendo la prima traduzione italiana del testo warburghiano a opera di Gianni Carchia nel numero del gennaio-aprile 1984 della rivista “aut aut” tutto dedicato a Warburg, e credendo poi di rileggerla tale e quale quattordici anni dopo in forma di libro negli adelphiani “peradam” – stesso traduttore più il filosofo Flavio Cuniberto – perché mai al finale mancasse l’ultima frase.

Quando, esattamente un anno fa, in occasione dell’edizione del volume curato da Monica Centanni presso Ronzani felicemente intitolato dalla curatrice Warburg e il pensiero vivente, che raccoglie i contributi più significativi di filologi, a partire da Giorgio Pasquali, e filosofi italiani sul pensiero di Warburg, Monica Ferrando denunciò la discrepanza tra i due finali, l’interrogativo, apparso fino a quel momento trascurabile o al massimo degno di una breve nota a margine, incontrò in maniera davvero insperata il fiuto filologico e l’entusiasmo di Centanni. Fu lei infatti subito a decidere di dedicare al problema un intero numero della rivista. La differenza tra i due finali è, infatti, cruciale per la comprensione del pensiero warburghiano. Se nella traduzione “aut aut” del 1984 la possibilità di disciplinare la tecnica viene accolta:

Il pensiero mitopoietico e quello simbolico, nella loro lotta per spiritualizzare la relazione dell’uomo con l’ambiente, hanno creato lo spazio come zona di contemplazione e di ragionamento, quello spazio che la connessione istantanea dell’elettricità distrugge, a meno che un’umanità disciplinata ristabilisca le inibizioni della coscienza (A. Warburg, Il rituale del serpente, trad. di G. Carchia, “aut aut” 199-200 (gennaio/aprile 1984), 39).

La stessa viene negata in modo netto nella traduzione Adelphi del 1998:

Il pensiero mitico e il pensiero simbolico, nel loro sforzo per spiritualizzare il rapporto dell’uomo e il mondo circostante, creano lo spazio per la preghiera o per il pensiero, che il contatto elettrico istantaneo uccide (A. Warburg, Il Rituale del Serpente, trad. di G. Carchia, F. Cuniberto, Milano 1998, 66)

Sia permesso di aggiungere che il disagio per la scarsa attenzione con la quale tale discrepanza più volte segnalata era stata in generale accolta era nutrito dalla memoria, tutt’ora viva in chi scrive, dell’acceso diverbio, proprio all’indomani dell’uscita dell’edizione Adelphi nel 1998, tra Gianni Carchia e Roberto Calasso. Non si trattava però certo di smascherare un ‘colpevole’, bensì di capire come fossero andate effettivamente le cose. Anche perché, come il lettore avrà modo di constatare, il finale espunto contiene un pensiero della cui importanza siamo ancora ben lontani dall’essere venuti a capo.

Come i collaboratori del numero sanno, si è trattato di scoperchiare un vero e proprio vaso di Pandora archivistico. L’immagine della copertina è del resto eloquente. Ci si è trovati dinnanzi a una intricatissima selva di redazioni arricchite di correzioni, cancellature, trascrizioni, notazioni e aggiunte a matita. E si trattava solo, si badi, del testo della conferenza, non dei relativi Ricordi di viaggio tra gli Hopi del Nuovo Messico, redatti più di vent’anni prima e di cui esiste una recentissima traduzione italiana ad opera di Maurizio Ghelardi (in Aby Warburg, Fra antropologia e storia dell’arte. Saggi, conferenze, frammenti, Torino 2021).

I retroscena della vicenda editoriale riguardanti oltre che il testo warburghiano, anche la prefazione del primo curatore tedesco, lo storico della cultura Ulrich Raulff, per l’edizione Adelphi, vengono qui ricostruiti da Flavio Cuniberto nell’intervista a cura di Silvia De Laude. Cuniberto compare infatti come traduttore insieme a Gianni Carchia; in realtà revisore di una traduzione che doveva basarsi su di un originale fornito dall’editore, quello pubblicato dieci anni prima dal berlinese Wagenbach. Era davvero un ‘originale’, visto che mancava quel finale invece presente nella prima traduzione? Cosa era successo?

Piermario Vescovo nel suo contributo Ein wenig Licht. Indagini filologiche sullo Schlangenritual ha fatto finalmente luce sulla questione intricatissima. Il pregio di questo numero sta proprio nel metterne a disposizione il prezioso e finora intentato lavoro di ricostruzione. Dopo aver collazionato i vari esemplari presenti nell’Archivio Warburg (WIA), egli ha individuato i punti salienti caratterizzanti le varie redazioni, ricostruendo la genesi di un ‘originale’ poliedrico ma, finalmente, rispondente alla reale scrittura warburghiana e soprattutto comprovante lo statuto di ‘originale’ del finale trascurato. Cancellature, aggiunte a matita, riscritture, annotazioni e variazioni risultano decisamente comprensibili in occasione di una conferenza su contenuti raccolti più di venti anni prima e solo parzialmente allora elaborati; legati nondimeno alla novità della circostanza, quella di un’esposizione al pubblico corredata di immagini originali per lo più scattate dall’autore stesso, appassionato fotografo. Senza però dimenticare l’aspetto più delicato, costituito dalla scelta, caduta proprio su di un tema complesso anche per un antropologo esperto, di un rituale Hopi da parte di uno storico dell’arte impegnato in primis a certificare la guarigione da una malattia psichica curata nella clinica di Ludwig Binswanger a Kreuzlingen. La scelta appare tuttavia del tutto comprensibile se si pensa che a farla è il grande pioniere della storia dell’arte rinascimentale divenuto, come tutti sanno, l’inventore di una biblioteca che doveva ruotare su due poli, quelli dell’ellisse: luogo di studio e crogiolo di immagini; fulcro simbolico votato all’operoso culto di una vivente Mnemosyne e meta dei più eminenti studiosi europei delle discipline umanistiche. A latere rispetto al lavoro di ricostruzione filologica in base all’analisi delle varianti si pone la nota di Monica Centanni, “Le orride convulsioni di una rana decapitata”. Sulla redazione degli esemplari B e A della conferenza di Kreuzlingenche restituisce un quadro sulla situazione in cui il testo della conferenza fu composto e ricapitola i dati, a oggi noti, sulla redazione materiale degli esemplari che quel testo hanno trasmesso.

Altro risultato offerto da questo numero consiste nell’edizione critica con apparato dei paragrafi dell’incipit e dell’explicit a opera di Giulia Zanon, che nel Saggio per un’edizione critica de Il rituale del serpente riporta anche l’intero testo della migliore edizione tedesca disponibile a oggi – Treml 2010 – con l’aggiunta della numerazione dei paragrafi onde meglio orientarsi nel testo.

Era inevitabile però, a questo punto, interrogarsi sui motivi che avevano indotto Warburg a scegliere proprio questo tema in realtà per parlare d’altro. Di cosa? Di quel che, come studioso atipico del Rinascimento, gli stava soprattutto a cuore: il mondo delle immagini concepito quale tramite e intermediario di quell’invisibilità incontenibile che è il pathos. Impossibile allora non tirare in ballo concetti come ‘paganesimo’ estranei alla storia dell’arte ma indispensabili per affrontare finalmente il nodo che nell’arte figurativa rinascimentale lega religiosità cristiana e religiosità antica. Questo il filo ermeneutico proposto da Monica Ferrando nel suo Warburg: una ‘teologia senza nome’? Il problema era stato solo apparentemente risolto da Goethe con la professione di un politeismo estetico che però cancellava quell’unico elemento che poteva tenere spontaneamente insieme cristianesimo e antichità, vale a dire la sua aura devozionale. Si trattava di varcare una soglia, quella teologico-antropologica, e solo Warburg avrebbe potuto farlo. Favorito certo dal precoce interesse scientifico, di matrice anglo-tedesca, per l’antropologia, ma forse più ancora dall’amicizia, maturata nell’adolescenza amburghese e cementata dagli anni universitari di Bonn presso la scuola di Usener, del teologo e filologo giudaista Paul Ruben. Se la percezione dell’alterità indotta dal contatto con gli Hopi darà i suoi frutti, lo farà insomma in un campo già preparato dalla intuizione di quell’alterità teologica cui la pittura rinascimentale forniva l’esempio più prossimo ma anche più imbarazzante visto che proprio da una rinascita, quella degli antichi dèi nell’immaginario religioso giudeo-cristiano, tale arte singolare era nata. Rinascita che, per la sua virtù poetica non era incorsa in colpevolizzazioni iconoclaste istituzionalizzate, ma aveva invece mostrato tutta l’indispensabile potenza teologica, memorativa e ordinatrice, propria del simbolo artistico. Era questa emancipazione controllata dall’immaginazione artistica che la colonizzazione tecnologica degli spazi sembra, secondo il finale autografo di Warburg, mettere drammaticamente a rischio.

Che l’attrazione di Warburg per il mondo culturale del ‘selvaggio West’ di Nuovo Messico e Arizona sia stato in ogni caso cruciale, se non altro come reagente delle contraddizioni latenti nella cultura nordica occidentale e nella sua pervasiva e kenotica estetizzazione che, sia in positivo “nella vanità della società del nuovo continente” che in negativo nella densità sacrale e rituale degli Hopi, avrebbero trovato finalmente la loro incontestabile leggibilità, è ampiamente mostrato dal contributo di Miriam Gualtieri e Salvatore Inglese, Hopi, a ovest del mondo. Esso si rifà alla riflessione e alle ampie ricerche, svolte anche in loco, presentate nel volume di Gualtieri e Inglese, Resartus. Viaggi, scoperte e visioni di Aby M.Warburg (Soveria Mannelli 2020). Il merito qui è di scorgere in trasparenza, nell’indagine della patologia dello studioso, i tratti della patologia occidentale nell’imprimere un modello universalistico di cui lo stesso studioso è, anche suo malgrado, tramite. Gli autori, nell’offrire una avvertita ricostruzione antropologica dei rituali Hopi, mostrano – nella pretesa analogia da parte di Warburg, di immaginario infantile e immaginario extra-europeo considerato ‘primitivo’ perché alieno da ogni sapere tecnico-scientifico – gravi ma inevitabili fraintendimenti della cultura Hopi da parte di chi certo non ambiva a comprenderne davvero l’ontologia. Sul suo atteggiamento di studioso non poteva infatti non stingere il colonialismo confessionale del sistema scolastico imposto alle popolazioni asservite dal tempo della conquista, e di cui la Moki Industrial School di Keam Canyon era un esempio eloquente. Sarebbe stato davvero impossibile per Warburg vedere gli Hopi così come gli autori possono vederli oggi, cioè come coloro che “vivono la loro continuità esistenziale e culturale, mitica e storica, anche perché refrattari all’americanizzazione (acquisizione di uno stile di vita alieno) e recalcitranti alla conversione religiosa (nei loro confronti, le missioni protestanti e cattoliche continuano da tempo immemore a predicare nel deserto)”? Gli autori comunque ammettono che:

Nei contenuti testuali della Conferenza traspare un disagio soggettivo e teoretico che trattiene lo studioso, travagliato e frammentato interiormente, in una posizione ambivalente. Quest’ultima viene alimentata dalla sensazione che la via (metodo) dei nativi americani riesca comunque ad aprire uno spazio per l’esercizio di un pensiero contemplativo e riflessivo. Warburg è portato a riconoscere che la vitalità ideativa, e forse l’equilibrio mentale dell’umanità, dipende anche da una proiezione metafisica, talvolta ineffabile, e non esclusivamente dal trionfo universale del pensiero tecnico e scientifico.

Di Salvatore Settis ripubblichiamo in questo numero un testo di difficile reperimento, Verso una storia naturale dell’arte. Aby Warburg davanti a un rinascimento indoamericano (1895), che tratta di Warburg e degli Hopi ed è apparso come introduzione del volume edito da Aragno Gli Hopi, a cura di Maurizio Ghelardi (Gli Hopi. La sopravvivenza dell’umanità primitiva nella cultura degli indiani dell’America del Nord, Torino 2006). Il saggio offre una disamina della storia del viaggio di Warburg nel New Mexico e in Arizona che sottrae quel viaggio e quel racconto alla dimensione di “un’escursione da antropologo dilettante, da fotografo dilettante, da ricco turista europeo in terreni esotici e non ancora di moda”. Tra gli Hopi, Warburg trova “una chiave vincente per intendere almeno tre dei problemi che dominavano la sua ricerca: la sopravvivenza, o rinascita, delle forme antiche, il rapporto fra il mito e le immagini, e infine il ruolo della creazione artistica nella definizione della cultura umana”. Non per niente Gertrud Bing, progettando l’edizione delle opere di Warburg, aveva incluso tra gli inediti la conferenza “Sul significato storico-religioso della danza del serpente degli Indiani”.

Una sezione del numero comprende testi rari, fra i quali un contributo redatto da Saxl nell’inverno del 1929-1930 – edito in inglese dal Warburg Institute nel 1957 (Warburg’s Visit to New Mexico 1957) che pubblichiamo anche in traduzione italiana – dove è significativa, in uno scritto commemorativo (Warburg era morto proprio nel 1929), già la scelta dell’argomento, e cioè il viaggio nel New Mexico, del quale è ribadita la centralità anche per un nuovo modo di guardare all’Antico. In aggiunta al saggio, Reperti scartati. Postilla (2023), una breve quanto preziosa nota in cui Salvatore Settis ripercorre i giorni nel 1991 in cui ha modo di vedere i reperti della colezione di Aby Warburg presso il Museum für Völkerkunde. Ancora perlopiù imballati – e comunque non esposti – i reperti erano recentemente tornati da un deposito nella DDR, dove erano stati conservati per sfuggire ai bombardamenti e dove erano rimasti fino alla riunificazione della Germania. Nella stessa sezione, riproponiamo un piccolo scritto warburghiano sugli Hopi Die Indianer beschwören den Regen. Großes Fest bei den Pueblo-Indianern pubblicato come racconto per ragazzi sulla rivista per l’infanzia “Jugend Insel”, che in toni fiabeschi racchiude nuclei della conferenza, come il serpente, la maschera, la necessità della pioggia: lo cura Giulia Zanon, che dimostra anche in questo caso una “paternità congiunta di Aby Warburg e Fritz Saxl”, confermata da un documento di ricevuta dell’editore berlinese.

Completa il numero Le traversie della collezione etnografica di Aby Warburg, un’intervista a cura di Silvia De Laude con Christine Chavez, curatrice della sezione americana del Museo Etnografico di Amburgo, che ripercorre la storia dell’unica collezione organica raccolta da Warburg dal ritorno del viaggio negli Stati Uniti e conservata fino ad oggi. 

English abstract

This issue 201 of “Engramma” is published exactly one hundred years after the subject it focuses on: the conference on The Serpent Ritual given by Aby Warburg in Kreuzlingen on 21 April 1923. The research presented in Engramma 201 aims at highlighting the theoretical importance of the shift between the two different versions of the conference conclusion, as first observed by Monica Ferrando and Monica Centanni on the occasion of the publication of Warburg and Living Thought (2022). The background to the conference complex publishing history is here reconstructed by Flavio Cuniberto, interviewed by Silvia De Laude. Cuniberto appears as a translator together with Gianni Carchia; he was actually revising a translation that was to be based on an original provided by the publisher, and published ten years earlier by Wagenbach in Berlin. Was it really an ‘original’, since it lacked the ending present in the first translation? What had happened? To try to answer this question, Piermario Vescovo in Ein wenig Licht. Indagini filologiche sullo Schlangenritual presents a philological reconstruction of Aby Warburg’s lecture delivered in Kreuzlingen. Through the study of archive material Vescovo establishes the relationship between the extant drafts and reconstructs the chronology of the text’s composition. In addition to the work of philological reconstruction based on variants, Monica Centanni in “Le orride convulsioni di una rana decapitata”. Sulla redazione degli esemplari B e A della conferenza di Kreuzlingen offers an overview of the situation in which the conference text was composed and summarises the hitherto known data on the material drafting of the exemplars that transmitted the text. In Saggio per un’edizione critica de Il rituale del serpente, Giulia Zanon indicates the criteria that will be used for the forthcoming critical edition and presents an introductory sample of the firsts and last paragraphs. In Warburg: una ‘teologia senza nome’?, Monica Ferrando investigates Warburg’s motivations for the choice of the lecture’s theme. The passage of the artistic image from devotional term to aesthetic object left its delicate anthropological and theological-philosophical status unexplored by art historians. Contact with the Hopi was significant precisely in the light of the idea of a theological otherness that unleashes its power through the artistic symbol. Warburg’s attraction to the Hopi cultural world in comparison to the western world is widely demonstrated by Miriam Gualtieri and Salvatore Inglese in Hopi, a ovest del mondo. The authors discuss the outcomes of Warburg’s journey in the United States. In particular, they focus on Warburg’s theses in A Lecture on Serpent Ritual, which convey a cultural misunderstanding: Hopi religious practices are a stage of development in a universal process of working through fearful impulses to achieve rational responses to the world. In Verso una storia naturale dell’arte. Aby Warburg davanti a un rinascimento indoamericano Salvatore Settis argues that Warburg’s reflections on Hopi culture are consistent with his scholarly work for three fundamental thematic points of his research: the survival, or rebirth, of ancient forms, the relationship between ritual and its images, and the role of artistic creation in defining human culture. In addition to this important essay, in Reperti Scartati. Postilla (2023) Settis recalls the day in 1991 when he saw the materials of Aby Warburg's collection in the Museum für Völkerkunde in Hamburg, recently returned from a storage in a former GDR area, where they were kept to prevent bomb damage. A section of this Engramma issue includes rare texts, such as a contribution written by Saxl in the winter of 1929-1930—published in English by the Warburg Institute in 1957— and as Warburg’s Visit to New Mexico. In this contribution the journey to the ‘new world' is considered as central to a new way of seeing Antiquity. In the same section, we repropose a small writing on the Hopi, Die Indianer beschwören den Regen. Großes Fest bei den Pueblo-Indianern, written by Aby Warburg and Fritz Saxl, which encapsulates the core of the Kreuzlingen lecture as delivered in fairy-tale style. The issue closes with an interview, Le traversie della collezione etnografica di Aby Warburg where Silvia De Laude dialogues with Christine Chávez, curator of the American section of the Hamburg Ethnographic Museum. Chávez traces the history of the collection Warburg gathered since returning from his trip to the United States and preserved until today.

keywords | Aby Warburg; Kreuzlingen; The Serpent Ritual; Schlangenritual; Hopi; Philology; Philosophy; Ethnography; Antropology; Wagenbach; Adelphi; Gianni Carchia; Ulrich Raulff.

Per citare questo articolo / To cite this article: S. De Laude, M. Ferrando, 21 aprile 1923. Il rituale del serpente. Editoriale di Engramma n. 201, “La Rivista di Engramma” n. 201, aprile 2023, pp. 7-12 | PDF of the article 

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2023.201.0002