"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

205 | settembre 2023

97888948401

Presentazione di: Ermanna Montanari, L’abbaglio del tempo, La nave di Teseo, Milano 2021

testi dell’autrice e di Marco Belpoliti e Igort

Ermanna Montanari, L’abbaglio del tempo, con i testi di Marco Belpoliti e Igort, La nave di Teseo, Milano 2021 | immagine di copertina di Leila Marzocchi (scheda e modalità di acquisto nel sito dell’editore).

Engramma presenta il romanzo autobiografico di Ermanna Montanari L’abbaglio del tempo edito da La nave di Teseo (Prima edizione La nave di Teseo O novembre 2021; © 2017/2021 Ermanna Montanari; © 2021 La nave di Teseo editore, Milano), una trascrizione di memorie vivide della sua infanzia e adolescenza vissute nel paese di Campiano, nel comune di Ravenna. Una narrazione che rivela le origini non sradicabili dell’attrice dalla terra di Romagna e, con esse, il materiale magmatico, tanto reale quanto immaginario, su cui si plasmano le forme che danno vita alla poetica del Teatro delle Albe. Per gentile concessione dell’autrice e della casa editrice pubblichiamo in questo numero della Rivista i due testi, a firma di Marco Belpoliti e Igort, che aprono il romanzo, e Miraggi, un brano introduttivo dove Ermanna Montanari rende ragione del senso della parola “abbaglio del tempo”, scelta a titolo dell’opera.

Il cancello e le zolle scure

Marco Belpoliti

C’è un sogno ricorrente che accompagna per anni la voce narrante di questo libro: un suntuoso cancello di ferro battuto ornato di motivi floreali e da pennacchi a forma di fulmine e con il chiavistello “a capocchia” che lo tiene incatenato. Un vento forte lo fa sbattere fino a che il cancello si scardina e davanti alla sognatrice si apre un campo di zolle scure. Dall’altra parte c’è l’ombra di un animale pauroso. Ermanna indossa un vestito bagnato e spalanca la bocca per urlare, ma non le esce nessun suono. La sua testardaggine di bambina terrorizzata riesce a indurre il nonno a chiudere con un cancello improvvisato quel lato temibile dell’aia. Tuttavia non serve a nulla. Il sogno angoscioso ritorna immancabilmente. Questa è una delle scene capitali di questo romanzo autobiografico che si apre invece con un abbaglio a occhi aperti, simmetrico e opposto a quello del sogno. Una volta adulta Ermanna visita con un celebre produttore cinematografico Campiano alla ricerca di un luogo dove girare un film. Ha tanto vantato la bellezza di quel territorio che, appena arriva al paese con il produttore, s’accorge di colpo che il suo luogo natale, la sua culla, il suo rifugio, il suo antro, non possiede alcuna particolare bellezza agli occhi degli altri: piccolo e uguale a tanti altri paesi. Solo lei lo vede splendido: la bellezza affettiva d’un luogo inventato.

La grandezza di questo libro non sta solo nella lingua con cui è scritta, lingua dura e pastosa insieme, secca e morbida, una lingua essenziale, eppure elegante e forbita, ma nel modo con cui Ermanna Montanari racconta il suo Paradiso, che è anche il suo Inferno. Le sue miniature sono capitoli che si susseguono con un ritmo cadenzato porgendoci l’immagine d’un luogo fatato, abitato da entità invisibili, da spiriti che s’incarnano di volta in volta in oggetti, luoghi e persone. Miniature perché sono piccoli riquadri dipinti con mano ferma da una copista donna, che ha voluto dare forma al suo passato per capire il proprio presente e per vedere là in fondo al tunnel il futuro, che non è nient’altro che il passato stesso.

Il cancello è la paura che prende da piccoli, quei dolori terribili, lancinanti e inesorabili che si provano nell’infanzia e che sono quasi sempre legati al timore di non riuscire a diventare grandi, di non poter evadere dalla famiglia per andare nel mondo liberi e felici. La paura di crescere. Così Ermanna non si è mai mossa da Campiano. Il sogno angoscioso però si è dissolto quando è venuto a salvarla, come in una fiaba a lieto fine, il suo principe azzurro, Marco, che come un antico cavaliere privo del suo destriero, ma armato della spada dell’innocenza, è andata a prenderla per condurla via. Tuttavia negli anni bui la narratrice è stata soccorsa dai libri che ha letto consigliati dalla cugina morta suicida e da ogni altra cosa che la distraesse da quel campo di zolle nere abitato da mostri. L’infanzia si è conclusa per lei molto tardi, o forse non è mai cessata, perché l’Inferno si è trasformato, grazie al Teatro, in un Paradiso, in cui tornare e restarci, ma solo per brevi periodi, perché il più e il meglio per lei sono nell’immaginazione del luogo stesso: nella fantasia amorosa. Tutto vive dentro la sua testa. Resta perciò questo racconto davvero unico nella letteratura contemporanea per essenzialità e durezza, per la malia che promana dalle pagine che una volta iniziate a leggerle non ci si ferma più.

La famiglia contadina da cui Ermanna fugge, e a cui ritorna con i suoi dialoghi finali con la madre e il padre – un teatro vivente –, è il mostro che abita quel campo aperto, ne è il suo doppio, la sua replica, che s’incarna nei fantasmi interiori che l’abitano. Ermanna, lo scarabocchio, secondo una espressione del padre, ha trasformato in un potente carburante queste presenze, le ha fatte diventare la forza della sua straordinaria attività di attrice. Ogni volta che sale sull’impiantito del teatro si nutre di tutto quello che ci racconta qui, pagina dopo pagina, in modo icastico senza la minima sbavatura stilistica. Quando anni fa mi ha detto che voleva scrivere qualcosa dedicato al suo paese, alla sua famiglia, alla sua storia, l’ho incoraggiata; tuttavia nel contempo ho pensato che non l’avrebbe mai portato a termine, perché credevo che fosse troppo importante per lei quel segreto per rivelarlo a tutti. Mi sono sbagliato. Ermanna Montanari non solo ci ha svelato il suo segreto più intimo, che come la lettera rubata di Poe stava già in bella vista nei suoi spettacoli, ma s’è anche trasformata in una scrittrice. Non è una sorpresa, solo la conferma che le radici della sua recitazione si trovano nelle parole; meglio: nella lingua che lei abita da sempre. Ermanna continua a pensare in dialetto e lo traduce per gli altri nell’italiano-latino con cui qui scrive. C’è in queste pagine la forza delle lingue morte apprese al Liceo Classico con cui lei ci parla dei trapassati, l’unico modo che ha trovato per sfuggire al sogno del cancello, all’angoscia d’andare a camminare su quella terra nera che suo padre gli ha già lasciato in eredità. Da viva Campiano è sua, sia nell’immaginazione come nella “realtà”: le appartiene totalmente. Per questo, l’ho capito solo ora, può raccontare il suo natio borgo selvaggio.

Al buio, nella camera da ricevere 

Igort

Passo dopo passo, capitolo dopo capitolo, scivolano nell’oscurità interiore le parole che dicono di tempi antichi, di luoghi remoti. Di penombre o luci accecanti. Di uomini e donne dal portamento austero, del loro rapporto con la terra.
E così penetri in questi riti quotidiani in cui nulla è sprecato, ché la vita è maestra di parsimonia e ferocia.
In cui gli avanzi sono visti come un tesoro e si rispettano come si rispetta qualcosa che fornisce sorprese, che partorisce doni. Il ferro fonde nella stufa da cui poi nasceranno altre forme, il caldo che conforta, cuoce, illumina.
La stufa chiamata per nome, Maria, dalla piccola Ermanna già animista, in tenera età. Come tutti i bimbi che hanno memorie ancestrali, a dispetto del tempo che per loro naturalmente fa un inchino e si piega.
Ermanna è maestra di cerimonia della tradizione giapponese, sa creare sortilegi e ci avvolge con i suoi ricordi collosi, ipnotici e languidi. Rosari composti di ciliegie, dolci e aspre, che speri non finiscano mai.
Si sa quando si entra in questo libro, ma non si sa quando se ne esce, perché sono racconti che penetrano nelle ossa e dimorano dentro te. Voci, conversazioni, che ronzano e rimbombano nei tuoi labirinti interiori, in cui è piacevole smarrirsi.
Così leggi e rileggi, con calma, con lo stesso piacere di quando stai a tavola con qualcuno, con il piacere di scoprire cosa abbia da dirti, da darti.
E impari ad affezionarti alle ostilità del tempo, alle cose piccole di tutti i giorni, un’altalena, il suono dei cocomeri maturi percossi da una nocca, perfino alle puzze di quei luoghi in cui uomini e bestie respirano all’unisono con la natura.
E ti commuovi per i riti magnifici dell’autunno, la complicità con il nonno, sul fumo di una sigaretta condivisa al ritmo tremolante del trattore che avanza nella pianura.
Assistere attoniti alla crudeltà nei confronti degli animali, “sono solo animali”, la cui morte si dimentica con un battere di ciglia, porta delle domande.
La morte. E una metafisica della terra che parla di altro. Di un’alterità desiderata, o osservata con ammirazione.
Milena, la sua carnagione, la grazia, gli impulsi violenti. Le bambole di Parigi, profumate ed esotiche, addirittura gigantesche o l’educazione al collegio delle suore che insegnano l’arte complessa di domare la gelosia.
E vivi con lei, con Ermanna, che ti ammalia con l’evocazione di gesti eterni, pudichi o sfrontati, le cui confessioni sono dono di vita, di cui tu sei il confidente segreto.
Un’iniziazione che porta profumi di un esistere lontano che senti già tuo.

Il campanellino suona.
L’entr’acte è finito!

Il mondo esterno il cui fragore, per un momento, si assopisce cede il passo al silenzio, che ti accompagna: stai per penetrare, in punta di piedi e al buio, nella stanza segreta. Quella che si apre due volte all’anno, per le feste comandate.
La “stanza da ricevere”, perennemente chiusa, ordinata, avvolta nel suo odore. Con le specchiere e le sedie ricoperte dal nylon. La stanza morta per accogliere gli ospiti, così artificiale e dunque distante, che tuttavia può diventare la culla di sogni, visioni, personaggi, un teatro, insomma, per la giovane Ermanna. Che in quella camera di decompressione coltiverà l’arte magica di specchiare il mondo, e la vita, che è imperfetta, e proprio per questo amatissima.

ottobre 2021

Miraggi 

Ermanna Montanari

Mi sono accorta dell’abbaglio del tempo quando qualche anno fa accompagnai un importante produttore di cinema verso il mio paese natale. Gli avevo parlato del villaggio edificato sulla Petrosa, antica via romana tra Ravenna e Forlì, di vecchie case coloniche abbandonate nelle “larghe”, di campi coltivati in ordinate tornature rettangolari, di orizzonti piatti, di filari azzurri, del caldo delle zolle nere, di sontuosi pioppi all’ingresso delle aie prive di recinto, di donne altere vestite a lutto, del bosco di rovi nell’antica villa Ginanni-Corradini dove da adolescenti ci si nascondeva ad amoreggiare.

Dovevamo scegliere un luogo per un film, che poi non s’è fatto, sugli anarchici romagnoli dell’Ottocento, dovevamo individuare un vecchio casolare vicino a uno scolo. Mi accorsi che appena entrata in Campiano cominciai ad arrossire, non c’era niente di quel che avevo descritto, a parte l’antica pieve paleocristiana e i suoi quattro tigli centenari.

Campiano viveva in me di una bellezza affettiva, un luogo inventato, dopo l’abbandono avvenuto durante la prima giovinezza, alla fine degli anni Settanta.

Campiano era per me l’odore dei calicantus che segnavano il cammino verso la scuola d’inverno, il mugghiare dei tori da monta nella grande casa settecentesca al centro del paese, i recinti delle mucche grigie di razza romagnola che con le corna disegnavano il volume dell’aria all’imbrunire, le altalene penzolanti dagli alberi di noce, il bisbiglio sommesso dei braccianti allineati sulle file di barbabietole, le grida delle donne dalle carraie per segnalare l’ora del pasto, il rumore dei trattori cingolati nelle notti di fine estate, i circoli del centro dove si discuteva animatamente di politica, la casa delle due sorelle con le persiane sempre serrate e un suono cupo di pianoforte, il latrare dei cento cani da caccia rinchiusi nel canile del veterinario, la tomba di granito nero coperto di calle della mia famiglia, i lunghissimi capelli bianchi della mia nonna-balena, la minuscola statua in ceramica lucente della Madonna di Fatima, che nella primavera del 1966 atterrò in elicottero nel campo dell’antica pieve paleocristiana.

Campiano è un innamoramento instupidito. Ogni volta che lo penso si rinnova come luogo fiabesco, “lui” in me e io in “lui”. Ma la volta del produttore, era quel rude posto che è: una moltiplicazione di case anonime, edilizia di geometri stravaganti, che accerchiano i rari casolari ottocenteschi con le loro finte collinette-giardino imbellettate di fiori moderni dentro recinti comprati in serie e guardate da cani rabbiosi. I circoli dei repubblicani e dei comunisti ridisegnati in banali discoteche di campagna e ribattezzati con nomi inglesi. Un posto inguardabile. Quel giorno avrei voluto che fosse notte subito. Ero piena di vergogna.

Campiano “non sa” l’italiano, lo parla malamente. Quando me ne sono andata, le persone che vi abitavano, poco meno di mille, parlavano il dialetto delle Ville Unite, una lingua gutturale, ferrosa, scaturita dalla parte sismica di quel sottosuolo bruno, dall’imitazione del gracidare dei ranocchi, dalla durezza dei pennati che sbroccano le viti.

Ora, lungo l’antica Petrosa, tanti condomini a due o tre piani dai colori sgargianti, edilizia a basso costo, li chiamano “i pollai”. Abitazioni destinate a immigrati, coppie di passaggio, braccianti occasionali. Vi abitano albanesi, macedoni, rumeni, senegalesi, l’italiano lo parlano per comunicare con le persone del posto, non è la lingua della gioia, non è la lingua del pianto o del loro canto. C’è tensione a Campiano. Della gente, mesi fa, ha sparato col fucile su un’auto ferma al cancello di una casa per cercare il giusto indirizzo, della gente dorme con il coltello sotto il materasso, gli allarmi suonano a ripetizione nelle rimesse degli attrezzi. Appena posso, tra una tournée e l’altra, torno a Campiano a far visita ai miei vecchi, mio padre ama farsi tagliare da me i suoi fini capelli, mia madre mi racconta gli ultimi “fatti”. La forza che mi attira è la mia nipotina ucraina, una bimba di undici anni che mio fratello ha adottato un anno fa a Odessa. Una selvaggetta dalla pelle scura, sempre pronta alla sfida: si arrampica sugli alberi più alti e si lascia cadere ridendo, la stessa naturalezza nel governare il trattore e l’iPad, parla l’italiano con noncuranza, balla l’hip hop e canta in ucraino. Si chiama Victoria.

English abstract

Engramma presents Ermanna Montanari's autobiographical novel L'abbaglio del tempo published by La nave di Teseo (Milan 2021), a transcription of vivid memories of her childhood and adolescence lived in the village of Campiano, in the municipality of Ravenna. A narration that reveals the actress's unmovable origins from the land of Romagna and, with them, the magmatic material, both real and imaginary, on which the forms that give life to the poetics of the Teatro delle Albe are moulded. By kind permission of the author and the publisher, we publish in this issue of the Journal the two texts that open the novel by Marco Belpoliti and by Igort, and Miraggi, the introductory passage in which the author explains the meaning of the word "abbaglio del tempo” (dazzle of time), chosen as the title of the work.

keywords | Teatro delle Albe; Ermanna Montanari; Romagna; Autobiographical Novel.

Per citare questo articolo / To cite this article: E. Montanari,  M. Belpoliti e Igort, Presentazione di: Ermanna Montanari, L’abbaglio del tempo, La nave di Teseo, Milano 2021, “La Rivista di Engramma” n. 205, settembre 2023, pp. 147-152 | PDF of the article

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2023.205.0013