"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

224 | maggio 2025

97888948401

Alle radici del contemporaneo

Le regie goldoniane di Luca Ronconi attraverso le fonti d’archivio

Arianna Frattali

English abstract
Un Ronconi ‘antigoldoniano’. Le prime regie

Luca Ronconi firma la regia de I due gemelli veneziani (2001)[1] e Il Ventaglio (2007)[2] dopo aver assunto la direzione artistica del Piccolo Teatro e della Scuola di recitazione, raccogliendo, nel 1999, quasi mezzo secolo di eredità lasciata da Giorgio Strehler e Paolo Grassi, storici fondatori dell’istituzione teatrale milanese. Il regista accetta infatti l’incarico “nel pieno della sua maturità artistica e poetica” (Gregori 2011, 6), dopo le sperimentazioni del Laboratorio di Prato e la direzione di altri due Teatri Stabili (a Torino e Roma), inaugurando così “l’ultima fase creativa della sua lunga esistenza” (Ronconi 2019, 373). In questo periodo, agli inizi degli anni Duemila, iniziano a emergere due importanti nuclei di riflessione che, se da un lato si concentrano sull’idea di un teatro stabile pensato nell’ottica di continuità, lunga prospettiva e impegno con un gruppo fisso di attori, dall’altro si focalizzano sul lavoro di scavo profondo nel testo drammatico, quest’ultimo inteso come “qualcosa da sviscerare, da ricreare, da ricostruire […], ricercando i più sottili legami che lo uniscono non solo al suo tempo, ma anche al nostro” (Gregori 2011, 6).

Le stagioni teatrali che seguono, pur orientandosi lungo queste due direttrici (continuità e attenzione al testo) portano in scena tuttavia spettacoli diversissimi fra loro, ispirati ai classici meno frequentati, come a quelli antichi, ai grandi temi della società alle soglie del nuovo secolo, alla drammaturgia di matrice non drammatica (Marchetti 2016), ai nuovi linguaggi della scena. Di questi anni sono infatti il Progetto sogno, ispirato a Calderón de la Barca, il Progetto Greci, il percorso interno a Shakespeare (dal visionario Sogno di una notte di mezza estate al crepuscolare e disilluso Mercante di Venezia), la riflessione sulla scienza del Professor Bernhardi di Schnitzler, la cinematografica Lolita (su sceneggiatura di Nabokov per Stanley Kubrick), la moltiplicazione dei luoghi e del tempo nello spazio scenico di Infinities.

Alla riflessione sui classici appartengono I due gemelli veneziani e Il Ventaglio, che rileggono però testi poco frequentati dalla regia novecentesca, in cui le vicende dell’intreccio drammatico mettono in luce la psicologia dei personaggi e il formarsi di caratteri più moderni, quasi ottocenteschi. Goldoni resta infatti un classico molto particolare “le cui inquietudini, irrisolutezze, e anzitutto la stessa dimensione della ‘mercenarietà’ della scrittura teatrale, rendono più ambiguo, profondo e in maniera volta per volta differente, ‘contemporaneo’” (Vescovo 2019, 12). Questa peculiare caratteristica presente nelle commedie goldoniane di poter essere continuamente interrogate rispetto alle questioni poste dalla contemporaneità interseca in maniera diretta, nelle regie ronconiane, la linea che unisce il testo drammatico alla scena viva.

Nel segno di Goldoni era stato del resto l’esordio registico di Ronconi, l’11 dicembre del 1963, con il dittico La putta onorata, La buona moglie, (sotto il nome comune de La buona moglie), al Teatro Valle di Roma. Si tratta (insieme a I pettegolezzi delle donne) del primo blocco di testi dell’autore “dedicato all’esplorazione degli ambienti popolari con presenza di ‘elementi pittoreschi’” (Joly 1989, 20). Nato dalla proposta della compagnia detta dei ‘Nuovi Giovani’, cui appartenevano Corrado Pani, Gian Maria Volontè, Carla Gravina, Ilaria Occhini, il regista stesso (che recitò nel ruolo di Arlecchino) e sua cugina, Maria Teresa Albani, lo spettacolo rimase tuttavia in cartellone per soli quindici giorni, assumendo i connotati di una vera e propria catastrofe economica (Ronconi 2019, 95-96). In quegli anni infatti, nonostante il grande successo degli allestimenti di Giorgio Strehler e Luchino Visconti, il drammaturgo veneziano non richiamava molto il pubblico e “l’impianto realistico degli spettacoli dei maestri recenti” era mantenuto, ma al contempo scavalcato da questo nuovo esperimento registico “nella direzione di una crudezza e di una pesantezza lontane dalle ricercatezze calligrafiche e dalle immagini poetiche e malinconiche cui si stavano abituando gli spettatori” (Cavaglieri 2003, 25). In tale contesto, la regia ronconiana sceglieva di eliminare gli elementi tradizionali esteriori delle maschere, con l’intenzione di presentare un Goldoni “senza nessuna di quelle ricercatezze estetiche o critiche […] divergenti dalla tradizione viste in quegli anni” (Quadri 1973, 22). Risultò dunque un allestimento dal sapore noir, in cui il regista lasciava il posto “a una commedia moderna”, dove a contare realmente erano “i caratteri, i sentimenti le situazioni” (Gregori 2007, 97). Le luci crepuscolari proiettate all’improvviso sulla scenografia di Lorenzo Ghiglia, fatta di scorci lagunari, grovigli di piccole strade e minuscoli salotti, contribuivano a creare quello che Franco Quadri definì “uno spettacolo livido, truculento, selvaggio” (Cavaglieri 2003, 24), se non addirittura ‘antigoldoniano’.

Nonostante l’insuccesso, Ronconi rimase legato a questo allestimento d’esordio, tanto da sceglierlo per la sua prima regia televisiva offerta dalla RAI, nel 1976, con il titolo di Bettina. La buona moglie, film che presentava interpreti nuovi, accentuando il senso di falsità, chiusura claustrofobica, calore soffocante, voglie inespresse già presenti nella versione teatrale, mentre la macchina da presa assumeva una forte connotazione narrativa. Si confermò pertanto una via che sarà percorsa anche in seguito con La serva amorosa e I due gemelli veneziani, testi che presenteranno delle zone grigie, e delle prolissità, seguendo un ritmo e una scrittura “diversi da quelli generalmente riconosciuti come goldoniani, ossia caratterizzati da musicalità e rapidità” (Cavaglieri 2003, 24).

Dopo ventidue anni, nel 1986, il regista scelse dunque La serva amorosa, trilogia dedicata alla serva Corallina (Alberti 2004, 147-148), confermando, ancora una volta, la propria attrazione verso testi poco noti e poco praticati sui palcoscenici italiani, testi in cui potesse essere privilegiato lo scavo interiore nelle psicologie intime dei personaggi (Bosisio 1994, 213). Le maschere di Commedia dell’Arte perdevano così, progressivamente, la loro connotazione di fissità, mentre la scenografia si presentava scarna ed essenziale, con costumi privi di marche storiche e cronologiche. La recitazione dilatata, tesa a valorizzare il significato di ogni singola parola, vedeva la sparizione del congedo di Corallina in onore della virtù femminile, eliminando così il canonico lieto fine, per sottolineare, al contrario, la condizione di solitudine della protagonista. Come osservato da Roberto Tessari rispetto a questo allestimento, ciò che il verbo drammaturgico di Goldoni non aveva inteso esplicitare si dischiudeva attraverso “gli strumenti non verbali della teatralità: un taglio di luce, essenzialmente, ma, ancora, una notazione rumoristica” (Tessari 1986, 19). In questo modo, la funzione spaziale astratta assunta dal grande contenitore scenico affermava, nel suo complesso, il senso di un’usura indeterminata, che rappresentava tuttavia un’altrettanto indeterminata potenzialità metamorfica. Il teatro assumeva così i connotati di “una grande macchina elementare: antica ma efficace a risucchiare via dal grande contenitore tutti i contenuti d’un goldonismo tradizionale” (Tessari 1986, 20).

L’identità nello specchio. I due gemelli veneziani

Sulla stessa linea interpretativa ed estetica si colloca la scelta de I due gemelli veneziani nel 2001, prima messinscena goldoniana di Ronconi al Piccolo Teatro e prima nella sala storica Paolo Grassi. Si tratta ancora una volta di un testo appartenente al periodo ‘preriforma’ (Bosisio 2001, 17-29) scritto da Goldoni nell’intermezzo pisano (1745-1748), appena prima di legarsi a Medebach. È il periodo in cui il drammaturgo iniziava ad aprire (stando alle sue memorie) “il gran libro del mondo” con la creazione di personaggi, non più riconducibili a tipologie ‘fisse’ (Ferrone 1975, 84;1990 e 2011), ma costruiti a partire dall’indole naturale degli attori. In questo specifico caso, modellò il duplice personaggio di Zanetto/Tonino sulle capacità del comico Cesare D’Arbes, eccellente nel ruolo di Pantalone, azzardando un difficile passaggio dalla vecchia farsa all’improvviso alla nuova commedia. La metamorfosi goldoniana di Pantalone, in particolare, fu infatti il cardine ideologico di uno spostamento in chiave realistica dei ruoli teatrali, che investì progressivamente l’intero sistema delle maschere dell’Arte (Tessari 1986, 27), con decisivi cambi di toni e di rappresentazione sulla scena. Così, mentre la coppia Pantalone-Brighella fu attratta, commedia dopo commedia, nell’orbita interpretativa dei caratteri seri, l’Arlecchino “stracciato” e impersonato da Giovanni Crippa nell’allestimento del 2001 continua a costituire nei Gemelli un caso a sé, necessitando, se non di lazzi acrobatici, almeno di un forte contrappunto comico.

I due gemelli veneziani è dunque una commedia scritta per un solo attore, ma animata da un principio-guida dipendente da una coreografia d’insieme, quest’ultima intesa come movimento collettivo che precipiti progressivamente i personaggi nella follia. Il climax semantico è infatti pronunciato da Pancrazio, nella scena VIII dell’Atto III: “La pazzia si è resa universale: chi è pazzo per vanità, chi per ignoranza, chi per orgoglio, chi per avarizia. Lo sono per amore e dubito che sia la mia pazzia molto maggiore d’ogn’altra”. Si tratta quasi di un epitaffio della Commedia dell’arte, che sopravvive solo nelle maschere di Colombina, Brighella e Arlecchino, ma anche in uno dei due gemelli, il bergamasco Zanetto. Non a caso, Ronconi fa assumere a questo personaggio (interpretato da Massimo Popolizio) connotazioni caricaturali e addirittura ‘animalesche’, come dimostrano le note sul copione[3] della scena VII, quando, in posizione carponi: “va ad affacciarsi strisciando”, procedendo “a quattro zampe”, per cingere le caviglie della sua ‘promessa’ Rosaura. Con la morte di Zanetto sulla scena – avvelenato da Pancrazio che, scoperto, si suiciderà – questo testo si conferma una commedia dal sapore noir in cui Ronconi preferisce “puntare sull’equilibrio tra la farsa e il dramma” (Ronfani 2001), decretando infine la morte fisica, non solo del personaggio principale (molto insolita in un contesto comico) ma anche quella simbolica della maschera primigenia.

Già all’interno del testo, Goldoni inserisce nel sistema dei personaggi due distinte categorie, che in parte corrispondono all’ennesima variazione dei tipici eroi della commedia barocca e in parte propongono figure più naturali e complesse. Pancrazio (Riccardo Bini), di ascendenza nobiliare, è una delle figure più torbide del teatro goldoniano in genere (Alberti 2004, 83-86), caratterizzato da una doppiezza che lo rende una sorta di ‘nipotino’ padano del Tartufo di Moliére, mosso solo dal denaro. Le coppie di ‘Innamorati’ sembrano provenire dal dramma serio per musica, mentre all’imprevedibilità di Rosaura (Manuela Mandracchia) si affianca la subdola falsità del Dottor Balanzoni (Antonello Fassari), avvocato bolognese in Verona, che funge da mezzano per la propria (presunta) figlia mosso da avidità e avarizia. Nella scena VI dell’atto I, le note di regia tagliano proprio le ultime frasi di circostanza rivolte dal dottore a Rosaura a proposito del promesso sposo Zanetto, terminando la scena sulla frase “è un poco scioccherello, ma ha de’ quattrini” e collocando così, in posizione chiave, una delle parole che ispirano, a livello semantico, l’intera messinscena. Al contrario dello sciocco, caricaturale e ‘animalesco’ Zanetto, il gemello Tonino rappresenta invece il nuovo prototipo dell’eroe goldoniano, portavoce di un’etica borghese veneziana della quale il drammaturgo sembra essere, appunto, strenuo difensore (Bosisio 2001, 29). Sul retro del copione, in corrispondenza del terzo ed ultimo atto, una lunga annotazione esplicita infatti il punto di vista del regista a proposito del confronto tra due modi di fare teatro che si rivela in questa commedia: “Tonino è uno sguardo di un nuovo teatro sul vecchio teatro, scimmiotta il manierismo. Lelio nella Scena VII con Tonino non deve essere un retore, è uno che nel barocchismo resta impigliato. La caricatura nasce nel modo di pensare non nel modo di esprimersi”.

A livello drammaturgico, si tratta dunque di un testo che raccoglie in nuce i primi fermenti del progetto di riforma teatrale, con tre atti costruiti secondo l’esplicito intento di superare i limiti della Commedia dell’arte, per aprirsi a un più libero e diretto rapporto con il reale. Lo schema della commedia degli equivoci è pertanto rivisitato, non concedendosi un tradizionale lieto fine, ma semmai una doppia morte (quella di Zanetto e di Pancrazio). Sembrano inoltre essere anticipati alcuni temi contemporanei di denuncia sociale, come la squallida ferocia dei rapporti famigliari, la corruzione delle istituzioni e la degradazione dell’eros, senza tuttavia forzare del tutto il copione di quella che nasce come una commedia leggera, quasi un divertissement. Piuttosto, esiste un contrappunto drammaturgico che coniuga alla esasperata evasione nel comico puro l’impietoso sguardo sui vizi e malvezzi di un’italietta provinciale. Lo stesso regista dichiara infatti (Ronconi 2001, 45) come la principale difficoltà nel mettere in scena questo testo consista proprio nel trovare il giusto equilibrio tra i diversi toni che esso di volta in volta viene a toccare.

 1 | @Luigi Ciminaghi, I due gemelli veneziani. Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Archivio Piccolo Teatro di Milano.

L’immagine-guida è rappresentata dai gemelli, che Ronconi traduce simbolicamente attraverso la presenza e il moltiplicarsi dell’oggetto dell’illusionismo per eccellenza, lo specchio, usato in funzione metonimica [Fig. 1]. Nel copione annotato da Claudio Longhi (assistente alla regia) sono in effetti numerose le indicazioni in proposito fin dalla prima scena, dove le scritture a margine relative alla scenografia collocano sul fondo del palco lo specchio di Colombina, mentre a destra della platea è previsto lo specchio di Rosaura, che duplica di fatto la generica ‘toeletta’ davanti alla quale Goldoni aveva immaginato sedute le due donne. Il nucleo tematico prevalente sembra essere proprio l’“identità nel labirinto” (Capitta 2001, 15), ovvero lo sdoppiamento dell’identità stessa, che vanta illustri precedenti teatrali in Plauto, Shakespeare e Andreini, come del resto dichiarato dallo stesso autore nella prefazione alla commedia. Tuttavia, anche se la trama sembrerebbe ruotare principalmente su due persone (i due gemelli appunto), la macchina della drammaturgia sottostante è ben evidenziata dalla coreografia d’insieme. Sotto la sapiente direzione ronconiana, prendono vita infatti geometrie già insite nel testo drammatico, attraverso un moto perpetuo degli attori che sottolinea le interconnessioni fra i personaggi. Le numerose didascalie annotate a mano sul copione puntano dunque, sin dalla scena d’apertura tra Colombina e Rosaura, sui motivi del movimento e della seduzione (“Colombina passando saltella e tocca forte le chiappe”), rendendo così molto dinamica la situazione statica prevista dall’autore in apertura di sipario.

Per quanto riguarda la scelta degli interpreti, nell’intervista che Ronconi rilascia a Claudio Longhi, il regista dichiara come la programmazione del 2001-2002 sia concepita “in funzione della creazione di un gruppo stabile di attori […], gruppo all’interno del quale abbiamo anche voluto concedere spazio ai giovani allievi della scuola del Piccolo” (Ronconi 2001, 43). Tuttavia, nel doppio ruolo del protagonista, sceglie un attore di comprovata esperienza, Massimo Popolizio, indirizzandolo verso un’interpretazione che lo vuole “un po’ Jerry Lewis, un po’ Dean Martin” (Bandettini 2001, 49). Illustre precedente era stato Alberto Lionello nella versione di Luigi Squarzina per lo Stabile di Genova del 1963, in cui la stessa società ipocrita era rappresentata da due prospettive diverse. Tuttavia, se Lionello distingueva Zanetto da Tonino attraverso l’uso di due oggetti – impugnando prima un ombrello e poi una spada – Popolizio non si avventura mai in elementi di tipo simbolico, prediligendo l’uso del linguaggio corporeo, come voce e gesto, e attribuendo uno stile naturale e pacato a Tonino ed uno stile buffonesco e caricaturale a Zanetto (Cordelli 2001, 5).

Mentre la scenografia creata da Margherita Palli riflette il tema del doppio attraverso un labirinto di armadi coperti di specchi con diversi gradi di opacità, andando a costruire un impianto visivo a più livelli, quello musicale si concentra sulla costruzione di leitmotiv di archi che individuano i personaggi. Già nella scena II del I primo atto colpisce infatti il copione annotato puntualmente con una serie di indicazioni e di disegni schematici riguardanti il movimento degli specchi e degli armadi, mentre la dicitura “musica veloce” accompagna la presenza di alcuni personaggi come Brighella, nella scena V. Ronconi effettua dunque nuove scelte teatrali proprio a partire dall’analisi filologica del testo e con una grande consapevolezza della critica goldoniana, portando in scena una commedia sofisticata con uno scorcio analitico che esplicita e sottolinea i vari significati sottesi al testo stesso. A livello stilistico, si conferma come I due gemelli veneziani appartengano alla stessa chiave interpretativa già usata ne La serva amorosa, cioè tragica e comica insieme: un misto di farsa, melodramma, commedia nera, Commedia dell’arte e dramma vero (Gregori 2011, 35).

L’emergere del sottotesto. Il Ventaglio

2 | Manifesto, Il Ventaglio. Archivio Piccolo Teatro di Milano.

Nel 2007 va in scena al Piccolo Teatro Il Ventaglio, commedia scritta nel 1763 quando Goldoni si trovava a Parigi, dove, pur disponendo di una compagnia interessante e variegata, incontrava serie difficoltà a far eseguire il suo repertorio agli attori della Comédie Italienne, perché poco propensi a recitare parti che non rientrassero nello stile all’improvvisa (Tanant 2007, 36). Posto di fronte alla necessità di tornare alla composizione di commedie a soggetto, il drammaturgo “attinse largamente alla sua opera anteriore riducendo a canovaccio molte commedie scritte” (Joly 1973, 99) e scrisse il copione (mai rinvenuto) de Il Ventaglio in francese, seguendo prevalentemente lo schema di una pochade (Alberti 2004) che non ebbe tuttavia grande successo. L’anno successivo, rimise mano alla commedia, inviandola nel 1765 a Vendramin in Italia, ma questa volta scritta in italiano con le battute completate e i dialoghi integrati, progettando una “complessa articolazione delle scene simultanee e parallele” (Fabiano 2019, 165) e immaginando queste ultime mai vuote e sempre abitate dai comici. Ultimo testo scritto in lingua italiana, Il Ventaglio, non arrivò comunque alla fine del Carnevale ed ebbe una scarsa fortuna, almeno fino al ventesimo secolo.

Luigi Squarzina, che la mise in scena al Teatro Argentina di Roma nel 1979, osservava come si trattasse dell’unico lavoro goldoniano intitolato a un oggetto. Sul ventaglio si focalizza infatti l’intera drammaturgia, descrivendone l’iter dal momento in cui cade di mano a Candida a quello in cui ritorna nelle sue mani, dopo aver messo in moto un meccanismo comico altamente instabile, e disseminato di equivoci e fraintendimenti. Un ventaglio accidentalmente caduto scatena infatti una tempesta emotiva fra i personaggi e scompiglia le loro reciproche relazioni, rivelandosi di natura quasi magica e fiabesca nelle sue potenzialità comunicative, che sembrano travalicare quelle del tessuto verbale (Ronconi 2007, 13).

L’allestimento ronconiano del 2007 si colloca in un crocevia di anniversari, tra il sessantesimo della nascita del Piccolo Teatro e il tricentenario della nascita di Goldoni [Fig. 2] – autore centrale nell’avventura culturale dell’istituzione teatrale milanese – durante una stagione che ospita la messinscena di ben quattro spettacoli a lui dedicati, fra i quali si ricorda anche la fortunatissima Trilogia della Villeggiatura di Toni Servillo. Il tessuto linguistico è stato sicuramente uno dei motivi della scelta (Bordin, Scannapieco 2009, 192), poiché l’ambientazione di Case Nuove colloca gli eventi a metà strada fra Milano e Venezia, slegando il dettato verbale da altri usati in precedenza, come la lingua francese e il dialetto veneziano. In questo spettacolo, gli attori sembrano non appoggiarsi infatti all’espressività della parola per veicolare i sentimenti, ma ricercano nel sottotesto la reale motivazione interiore del proprio personaggio, affidandosi prevalentemente al linguaggio del corpo. Ronconi inoltre rallenta il ritmo del testo e l’impianto fortemente dinamico previsto dall’autore, facendo recitare molte didascalie ambientali agli attori freezati sul palcoscenico e cancellando nel copione[4] molte delle numerosissime didascalie d’azione previste in origine dal drammaturgo.

Dal punto di vista dei personaggi, sopravvivono alcuni tipi sociali presenti nelle commedie precedenti, i cui tratti caratteristici appaiono tuttavia smorzati: l’aristocrazia è rappresentata da un Conte bonario, ma tra le nuvole – ormai fuori tempo e fuori luogo nell’interpretazione di Massimo De Francovich – mentre Giulia Lazzarini (la cui presenza può essere letta come un omaggio alle regie strehleriane) interpreta una vedova senza figli con il compito di combinare un matrimonio vantaggioso per la nipote Candida, rimasta orfana in giovane età.

Il Barone del Cedro, interpretato da Giovanni Crippa, racchiude anch’egli un’aura di un tempo ormai passato, con un risvolto decisamente comico che lo colloca su una linea di continuità interpretativa con il ruolo di Arlecchino nei gemelli, seppure molto smorzato nei tratti caricaturali. In omaggio alla commedia barocca sono presenti ancora due coppie di Innamorati costituite, rispettivamente, da Evaristo e Candida, Crespino e Giannina, che per unirsi nel finale dovranno tuttavia superare una serie di peripezie ed accidenti. Il ventaglio infatti, acquistato da Evaristo come pegno d’amore per Candida, finisce nelle mani di Giannina, muovendo l’intreccio verso direzioni inizialmente impreviste che ne ritardano la risoluzione finale.

Nella lunga (quanto insolita) didascalia ambientale del I atto, in cui Goldoni prevede la disposizione dei personaggi nei vari luoghi deputati (Candida e Gertruda sulla terrazza, Evaristo e il barone al caffé, Timoteo dentro la sua bottega e Giannina vicino alla porta), compaiono nel copione significative cancellature che annullano le indicazioni di movimento, tracciando così, in maniera più sintetica, la situazione di apertura. In generale, come già riscontrato nel copione dei Gemelli, la messinscena de Il Ventaglio tende ad asciugare il testo drammatico eliminando parte delle didascalie d’azione, le battute ridondanti e le espressioni obsolete, al fine probabilmente di preservare solo il valore informativo e comunicativo della battuta stessa, rendendo così più chiara nelle indicazioni la disposizione prossemica e spaziale degli attori sulla scena.

A livello di sistema dei personaggi, la messinscena ronconiana concentra evidentemente l’attenzione, sin dall’atto I, su una coppia anomala rispetto alle due previste, quella che vede protagonisti Evaristo e Giannina – amici sin dall’infanzia, ma divisi dal ceto sociale – e lo fa mettendo in evidenza l’attrazione erotica che scorre sotterranea fra loro attraverso i contatti fisici stretti fra i due attori che li interpretano (Raffaele Esposito e Federica Castellini). D’altro canto, il rapporto di Evaristo con Candida (Pia Lanciotti) appare fisicamente e prossemicamente molto distaccato e lontano rispetto a come dovrebbe essere fra due innamorati; questa distanza emotiva sembra trovare riscontri anche nell’impianto scenografico: il giardino del caffè di Limoncino, che secondo il testo drammatico dovrebbe essere adiacente a quello della casa di Candida, viene posto infatti dalla scenografa Margherita Palli sul lato diametralmente opposto del palco (Alonge 2010, 121-122). Nella stessa direzione procedono le annotazioni sul copione relative alla scena XIII del II atto, quando, accanto alle battute di Evaristo, seguono alcune note relative al suo timore di un rifiuto da parte di Candida: “Ma se Candida non si lascia da me vedere e se per avventura non si affaccia alle sue finestre, se, [nota: questo è l’apice della tensione] vedendomi ricusa di ascoltarmi, se la zia glielo vieta [nota: questo è per deviare la tensione], sono in un mare di agitazioni, di confusioni”. Sempre Evaristo pronuncia la battuta, rivolgendosi a Giannina, “voi conoscete il mio cuore, voi siete testimonio dell’amor mio”, mentre la nota del copione esplicita che, in realtà, il testimone di un amore ‘anomalo’, in quel momento, è lo stesso Crespino, che sta origliando di nascosto ed è travolto dalla gelosia.

L’impianto scenografico che Margherita Palli realizza per questo spettacolo è dominato da linee orizzontali, quasi a sottolineare l’esigenza di sintesi e chiarezza che contraddistingue la messinscena molto ‘geometrica’ di una commedia che è in realtà assai complessa da agire, almeno nelle intenzioni iniziali di Goldoni. A una situazione scenica che il drammaturgo concepisce come mai ‘disabitata’, la Palli risponde con l’ideazione di uno spazio unico pensato quasi come una ‘piazzamondo’ di ascendenza rinascimentale, dove si configuri la possibilità di incontro nello stesso luogo, ma siano previste anche delle nicchie in cui accadono contemporaneamente altre cose (Herry 2007, 25). Sono di questo tipo, a titolo di esempio, l’osteria di Coronato, la casa di Gertruda, la bottega di Timoteo, ma anche il giardino del caffè, sul quale si affaccia la finestra di Candida e il giardino di Susanna. Il modo secondo cui sono costruite le scene a vista obbliga così lo spettatore ad immaginare quelle poste fuori campo (Herry 2007, 25), conferendo ulteriore profondità alla sequenza di tableaux già previsti dalla drammaturgia goldoniana (Joly 1989, 16).

La centralità di un oggetto scenico frivolo e solitamente marginale, usato in funzione metonimica e simbolica, trova inoltre concretezza visiva nel ‘volo’ fisico del ventaglio sul palcoscenico; i suoni diegetici (più appartenenti ai codici della rumoristica) ideati da Hubert Westkemper sottolineano infatti proprio i temi del volo e della tempesta. Nelle annotazioni presenti sul copione è indicata, in apertura del III atto, la dicitura “tuono”, a seguire la battuta iniziale del Conte rivolta al Barone in cui quest’ultimo paventa una liason segreta fra Evaristo e Candida che sconvolgerebbe i propri piani matrimoniali nei confronti della ragazza. Indicazioni relative al “vento” accompagnano invece la battuta della merciaia Susanna “Non credeva che il mio ventaglio avesse da passare in tante mani”, rafforzando ulteriormente anche dal punto di vista uditivo il nesso causale fra ventaglio e tempesta. Nel finale si arriva di fatto alla sospirata ricomposizione nei due matrimoni previsti, ma soffia un gran vento sul palcoscenico; il copione riporta infatti una nota a mano, dopo la battuta in cui Candida dichiara la propria gioia per l’happy end: “respiro 1,2,3 come da inalazione”, sottolineando l’atto di tirare un respiro di sollievo. Attraverso una modalità teatrale fortemente simbolica, il regista sceglie dunque di rendere visibile, fra ironia e serietà, la relazione fra il leggero sventolamento di un ventaglio e il potenziale reale che esso possiede nell’operare un sommovimento generale a livello di impulsi e di intenzioni nascoste.

Dal labirinto alla tempesta. Due spettacoli a confronto

Ronconi si congeda dunque da Goldoni affrontando, negli anni Duemila, due testi assai lontani cronologicamente, nella composizione e negli intenti artistici: uno collocato prima della Riforma del teatro e l’altro, tempo dopo, durante il soggiorno parigino, ma entrambi ambientati in luoghi differenti da Venezia e Parigi. Il ‘teatro del mondo’ modellato dalla lingua dei Gemelli appare come un ambiente multiforme, dove ognuno parla una lingua diversa dall’altro; la differenza dialettale distingue infatti Tonino da Zanetto, mentre Pancrazio è connotato da una sofisticatezza nell’uso della parola che consolida la sua credibilità, nascondendo le sue reali (cattive) intenzioni. Questo ‘concerto’ di voci molteplici sapientemente orchestrato dal regista conduce lo spettatore a distinguere le dinamiche della storia, mentre i personaggi rimangono sordi alle differenze dialettali (come quella tra Tonino e Zanetto), trincerandosi nell’equivoco dello scambio di identità. Se ne I due gemelli il linguaggio multiforme fa dunque emergere il problema dell’incomunicabilità, l’uniformità linguistica de Il Ventaglio porta lo spettatore a concentrarsi maggiormente sul linguaggio corporeo dell’attore, veicolo privilegiato del sottotesto e quindi dei sentimenti espressi e inespressi dal testo.

A livello tematico, la questione della crisi identitaria diviene trait d’union delle due messinscene. In entrambe infatti i personaggi vengono messi di fronte alla questione, appunto, ma l’elemento che la genera è diverso nelle due commedie. Ne I due gemelli a scatenare la crisi è l’incontro tra i due fratelli, mentre ne Il Ventaglio è il fisico e metaforico passaggio dell’oggetto di mano in mano a modificare comportamenti e intenzioni di ciascuno. Se circostanze fortuite e casuali pongono i personaggi di fronte al fatto di non sapere realmente chi siano, solo l’osservazione delle relazioni instaurate nel fatto teatrale, sotto gli occhi dello spettatore, può farli avvicinare alla loro reale identità, rendendo ancora una volta ‘il mondo del teatro’ disvelatore del ‘teatro del mondo’.

Il paesaggio visivo in cui Ronconi inserisce i due spettacoli, avvalendosi, in entrambi i casi, della macchina scenografica ideata da Margherita Palli, è pressoché antitetico: I due gemelli si collocano infatti in una scenografia claustrofobica e ambigua, che trova giusta accoglienza nella sala storica ristrutturata del Teatro Grassi, mentre l’impianto scenico aperto e arioso de Il Ventaglio si dispiega nelle enormi possibilità logistiche e meccaniche di quella nuova del Teatro Strehler. La prima ha una scena chiusa, stipata di armadi e specchi e illuminata da luci fioche; la seconda invece è ampia, con scarsi arredi, dominata da colori chiari e luminosi. Lo scoperchiamento finale (di memoria strehleriana) causato dal vento nel terzo atto svela inoltre un fondale a finestre altissime, che, simile ad una serra (elemento ricorrente nella simbologia ronconiana, se pensiamo a Spettri), accentua ulteriormente l’atmosfera di apertura. Anche a livello cromatico, gli appropriati costumi settecenteschi disegnati da Vera Marzot per I due gemelli prediligono colori scuri (come il color granata indossato da Massimo Popolizio), accentuando l’atmosfera di chiusura, mentre gli abiti ton sur ton in tutte le nuances di marrone e grigio ideati da Gabriele Meyer per Il Ventaglio contribuiscono a conferire ulteriore luminosità all’insieme.

Riguardo alla prossemica, le geometrie relazionali si confrontano da un lato con lo spazio ristretto dei Gemelli, mentre dall’altro con la vastità spaziale pensata per Il Ventaglio. Nel primo caso non esiste infatti grande libertà di movimento per gli attori, mentre la struttura labirintica permette delle entrate e delle uscite di scena particolarmente d’effetto. Nel secondo allestimento, al contrario, lo spazio scenico è talmente grande che la reazione di un attore può essere ininfluente per il pubblico, se il nucleo di azione è collocato dalla parte opposta del palcoscenico. Per quanto riguarda il codice mimico e gestuale, Ronconi usa in entrambe le messinscene indicazioni di tipo realistico, come si evince dalle numerose annotazioni sui copioni che procedono nella direzione di tagliare la maggior parte delle didascalie d’azione presenti nel testo goldoniano, focalizzando l’attenzione del pubblico solo sui movimenti principali. Nei Gemelli si riscontra una gestica naturale nella maggior parte dei ruoli, anche in quelli relativi alle maschere come Brighella e Colombina, mentre l’Arlecchino di Giovanni Crippa non esibisce alcuna capacità acrobatica, proponendo così una versione di sé più realistica, che non trascura tuttavia gli elementi di tradizionale comicità. Ne Il Ventaglio la quasi totale abolizione delle maschere prevista già dalla drammaturgia goldoniana apre ancor più facilmente la strada ad un codice espressivo naturale e moderno, che privilegia la rappresentazione delle contraddizioni interne ai personaggi rispetto all’esecuzione fissa dei tradizionali ‘lazzi’ sulla scena.

Il codice sonoro legato alla dizione degli attori è, al contrario, antimimetico e antinaturalistico in entrambe le messinscene: Ronconi aveva infatti da tempo sviluppato una modalità di enunciazione del testo drammatico, in cui la dizione risultasse “di preferenza spezzata, rallentata, dilatata, fino a giungere ad una vocalità analitica tesa a scavare a fondo all’interno della parola” (Cavaglieri 2003, 139). In questo modo si offre allo spettatore uno scorcio che sonda tutte le possibilità semantiche contenute nella battuta, anche se spesso questa modalità conduce a una riduzione del coinvolgimento emotivo nella vicenda. I due spettacoli in questione non sono esenti dall’applicazione di questo codice, fatte salve infatti le parte dialettali de I due gemelli, che richiedono un loro specifico andamento ritmico e musicale; spesso l’enunciazione fa mostra di una gamma di possibilità impensate, conducendo lo spettatore attraverso imprevisti toni interrogativi, pause, cambi di volume e di registro e rivelando spesso, nelle pause previste dal copione de Il Ventaglio, le intenzioni secondarie dei personaggi.

In conclusione, come dimostrano queste due ultime prove, la regia di Ronconi si contraddistingue per lo scavo a fondo nei testi goldoniani, che scardina il ritmo dell’impianto drammaturgico originario al fine di farne emergere nuovi significati; si discosta infatti sia dalle letture tradizionali, con i loro settecentismi di maniera, che dalle grandi messinscene novecentesche firmate dai maggiori esponenti della regia critica. Interrogando ancora una volta i classici a partire dai quesiti posti dalla contemporaneità (De Michelis 2008), Ronconi costruisce i due spettacoli senza affidarsi al dettato scritto, ma facendo emergere ciò che lo sottende, asciugando la lingua dei dialoghi e rendendoli più attuali. Alla storia rappresentata sul palcoscenico si affianca quella, sotterranea e parallela, prodotta dalle reali intenzioni dell’inconscio umano, che una regia come quella ronconiana, intesa come “seconda creazione” (Perrelli 2005, ma anche Alonge 2006, 133-140), porta alla luce senza inutili forzature del testo drammatico. Ne risulta, in genere, “un Goldoni crudo, talvolta sferzante per il suo intenso, veritiero e mai scontato nell’approccio alla realtà” (Scalise 2016, 45); che non trascura la comicità, poiché non rinnega la tradizione della Commedia dell’Arte, ma è al tempo stesso consapevole di come il ridicolo scaturisca spontaneamente dalla stessa natura umana.

Note

[1] Produzione Piccolo Teatro di Milano e Teatro Biondo Stabile di Palermo. Prima rappresentazione: Milano, Teatro Grassi, 13 marzo 2001. Regia: Luca Ronconi; autore: Carlo Goldoni; scenografia: Margherita Palli; costumi: Vera Marzot; musiche a cura di Paolo Terni; movimenti mimici: Marise Flach; luci: Gerardo Modica. Interpreti: Massimo Popolizio, Manuela Mandracchia, Laura Marinoni, Giovanni Crippa, Riccardo Bini, Marco Andriolo, Nino Bignamini, Franca Penone, Antonello Fassari, Igor Horvat, Luciano Roman, Valentino Villa.

[2] Produzione Piccolo Teatro in collaborazione con Odéon Théâtre de l’Europe. Prima rappresentazione: Milano, Piccolo Teatro Strehler, 16 gennaio 2007. Regia: Luca Ronconi; autore: Carlo Goldoni; scenografia: Margherita Palli; costumi: Gabriele Mayer; suono: Hubert Westkemper; musiche a cura di Paolo Terni; luci: Gerardo Modica. Interpreti: Raffaele Esposito, Giulia Lazzarini, Pia Lanciotti, Giovanni Crippa, Massimo De Francovich, Riccardo Bini, Federica Castellini, Francesca Ciocchetti, Gianluigi Fogacci, Simone Toni, Giovanni Vaccaro, Pasquale Di Filippo, Matteo Romoli, Marco Vergani, Ivan Alovisio.

[3] Tre copie del copione si trovano custodite presso l’Archivio Storico del Piccolo Teatro, in particolare, sono presenti tre copie annotate a mano: una ‘buona copia’ di Claudio Longhi, una seconda copia di Claudio Longhi (molto annotata) e una ‘copia generica’ senza correzioni. Le osservazioni sul copione inserite nel presente lavoro sono tratte dalla revisione delle annotazioni della prima, perché ritenute le più chiare e le più aderenti alla versione video dello spettacolo conservata nello stesso archivio. La copia presenta pagine non numerate. Da considerare inoltre che la prima e la seconda copia riportano spesso le medesime annotazioni. Insieme alle copie del copione citato, l’Archivio del Piccolo conserva anche, relativamente a questo spettacolo: Libretto di sala a cura di Paolo Bosisio: libretto di sala dello spettacolo; rassegna stampa, Teatro Grassi (13 marzo 2001); rassegna stampa, Mosca (13 giugno 2001); rassegna stampa, Lisbona (5 luglio 2001); bozzetti di scenografia di Margherita Palli; foto di scena di Luigi Ciminaghi e una copia video DVD.

[4] Una copia annotata con pagine numerate (cui si fa riferimento nel corpo del testo) del copione è conservata dal Fondo Ronconi presso l’Archivio Storico delle Arti Contemporanee (ASAC) di Venezia. Presso l’Archivio Storico del Piccolo Teatro, abbiamo invece avuto occasione di consultare: libretto di sala; rassegna stampa, Teatro Strehler, 16 gennaio 2007; rassegna stampa tournée Barcellona; rassegna stampa tournée Parigi 10-20 maggio 2007; Dvd completo dello spettacolo; bozzetti di scenografia di Margherita Palli; figurini di costumi di Gabriele Mayer; foto di scena di Marcello Norberth.

Riferimenti bibliografici
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English abstract

Since his debut with Goldoni’s theatre (La punta onorata/La buona moglie, in 1963 and La serva amorosa, in 1986), Luca Ronconi seems to move in an “obstinate and contrary” direction compared to the previous scenic tradition, so much so that critics have defined him as “anti-Goldonian” in his directorial choices. In fact, he is attracted by the “grey areas” and “verbosity” of the Venetian playwright’s texts, rather than musicality and rapidity of rhythm and writing. The dilated acting, the bare and essential scenography, the Commedia dell’Arte’s masks (and other traditional elements) absence are unusual, as well as innovative: all choices aimed at delving into the depths of the characters, bringing out from every single word the realism of a world to be represented even in its most anxious and painful recesses. Appointed artistic director of the Piccolo Teatro in 1998, Ronconi tackled Goldoni’s dramaturgy twice more (I due gemelli veneziani in 2001 and Il Ventaglio in 2007). Behind him was the career of Giorgio Strehler, whose historical-philological exploration of Goldoni’s texts had revolutionized the stage approach to the great playwright, leaving an indelible mark on the Piccolo Teatro’s productions and repertoire. Faced with Strehler’s communicative model, which destabilizes the spectator by reducing the word to pure phonic matter, Ronconi once again chose an inverse path: he delved into the pauses in the text and the recesses of the characters’ psyches to arrive at the contemporary theme of the disintegration of identity. The analysis of the two productions, both born in the context of the Piccolo Teatro – Teatro d’Europa, will be carried out starting from unpublished archive materials (and in particular from the annotated scripts) preserved in the Ronconi Archive Fund at the ASAC in Venice and the one dedicated to the Piccolo’s productions preserved in the Historical Archive of the Milanese Theatre.

keywords | Goldoni; Ronconi; theatre.

La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)

Per citare questo articolo / To cite this article: Arianna Frattali, Alle radici del contemporaneo. Le regie goldoniane di Luca Ronconi attraverso le fonti d’archivio, “La Rivista di Engramma” n. 224, maggio 2025.