"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

228 | ottobre 2025

97888948401

Le navi di Nemi e la nave di Teseo

Elisabetta Pallottino

English abstract

1 | Il Museo delle Navi romane di Nemi in costruzione in una cartolina della fine degli anni Trenta. È in evidenza il rapporto spaziale e materico fra la struttura architettonica della navata sinistra e i resti della seconda nave.

L’assenza dei relitti delle navi romane di età imperiale in un museo che era stato appositamente costruito per ospitarli non può lasciare indifferenti. E sarebbe innaturale, di fronte al carattere inevitabilmente frammentario degli allestimenti del Museo delle Navi romane di Nemi, non desiderare un possibile ritorno di quell’insieme perduto – museo/navi – che Vittorio Morpurgo aveva disegnato appositamente per gli scheletri delle due imbarcazioni antiche, straordinariamente recuperate dal fondo del lago di Nemi tra il 1928 e il 1932 anche grazie alle competenze tecniche e alla visione umanistica di Guido Ucelli (Ucelli 1940; Ucelli [1950] [1983] 1996).

Inaugurato nel 1940, quell’insieme museale era unico: nel paesaggio pressoché inalterato dei miti nemorensi e dei resti degli insediamenti romani, due navate in cemento armato avevano accolto quasi in riva all’acqua le due carcasse navali in legno, pregne di storia, che da tempo immemorabile erano rimaste in fondo al lago, nonostante i diversi tentativi di recupero già avviati nel XV secolo.

Il 31 maggio 1944, più di ottant’anni fa, fu soprattutto quell’insieme di nuova architettura e di oggetti antichi a essere cancellato di colpo dal devastante incendio che distrusse i resti delle navi e danneggiò la struttura del nuovo museo, rimasto quindi in vita, nella sua conformazione originaria, per soli quattro anni. Provocato da uno degli ultimi atti di guerra delle forze aeree alleate (Altamura, Paolucci 2023a; Altamura Paolucci 2023b), disgraziatamente soltanto quattro giorni prima della liberazione di Roma, l’incendio non colpì soltanto gli scafi antichi ma con essi annullò almeno altri due orizzonti di significato delle imprese di quegli anni: la storia secolare del recupero delle navi (una storia di eccellenze artistiche, scientifiche e tecnologiche) e il valore della loro musealizzazione, nella spazialità e nella materialità del progetto di Morpurgo. E fatalmente, in quanto incendiate a causa della guerra, le navi perdute evocano oggi un terzo orizzonte di significato, che chiede di essere celebrato: la memoria delle rovinose distruzioni del 1944, che sono in attesa di essere almeno in parte risarcite.

L’auspicio di un parziale recupero dell’unità perduta del Museo delle Navi, grazie alla riproposizione in forma di replica in legno dell’ingombro originale di almeno uno dei relitti incendiati, è espresso oggi da molti visitatori del Museo, di diversa provenienza e formazione. Nel maggio del 2022, il noto divulgatore scientifico Piero Angela, diventato cittadino onorario di Nemi, lanciò un appello accorato per la ricostruzione delle navi antiche distrutte durante la Seconda guerra mondiale. Consapevole dell’oneroso impegno di spesa necessario al ripristino in scala 1:1 anche di uno solo dei due scafi incendiati (circa 13 milioni, secondo il sindaco di Nemi, Alberto Bertucci), Angela si impegnò allora pubblicamente, pochi mesi prima di morire, a contattare Elon Musk o Bill Gates, perché offrissero il loro contributo all’operazione (Di Frischia 2022). Anche senza rivolgersi ai miliardari d’oltre oceano, le istituzioni italiane sono sicuramente in grado di promuovere e di coordinare finanziamenti privati e pubblici da destinare a ricostruzioni filologiche accurate, controllate sulle fonti dirette e indirette, come è già avvenuto, anche se a scala ridotta, per alcuni restauri di resti navali antichi, quali, ad esempio, quelli ospitati nel Museo delle Navi di Fiumicino, che si sono avvalsi della preziosa consulenza di Giulia Boetto (Sebastiani et al. 2018; Boetto 2008).

E ancora, in altri ambiti, il valore culturale delle repliche e la loro risonanza simbolica e umanitaria sono stati ampiamente dimostrati dalla recente realizzazione italiana di una replica dell’antico toro androcefalo di Nimrud, donata all’Iraq: un’iniziativa, promossa dall’Associazione Incontro di Civiltà e finanziata dalla Fondazione Terzo Pilastro, che ha voluto rispondere a una distruzione violenta (come è avvenuto anche alle navi di Nemi), ripristinando in perfetto mimetismo e con alte competenze tecnologiche e artigianali, una scultura assira distrutta dall’ISIS nel 2015 (Ippolito 2024).

Ciò non significa che, come in tutti i casi di ricostruzione di patrimoni perduti, non si continui a discutere sulle implicazioni più o meno tradite del principio di autenticità che, secondo alcuni, sarebbe oggi disatteso a Nemi se effettivamente si procedesse a costruire una replica ‘esatta’ dei relitti recuperati in fondo al lago. Ma si tratta in realtà di una discussione che risale nel tempo: un’altra nave di legno, più antica e importante di quelle di Nemi, ha goduto di una fama imperitura proprio grazie al rimpallo incessante dei ragionamenti sulla persistenza della sua identità originaria, alla prova di infiniti rifacimenti. La nave di Teseo e il suo paradosso sono diventati nel tempo uno dei paradigmi dell’autenticità.

Il paradosso della nave di Teseo

2 | “Rilievo di Lenormant”, bassorilievo in marmo pentelico con nave a tre ordini di remi. Museo dell’Acropoli, Atene (n. inv. Akr. 1339); ca. 410-400 a.C.

Il paradosso è riportato da Plutarco (46-120 ca d.C.), in una delle sue Vite parallele, quella dedicata a Teseo e a Romolo, e recita come segue:

Fino ai tempi di Demetrio Falereo gli Ateniesi conservavano la nave su cui Teseo partì insieme coi giovani ostaggi e poi ritornò salvo: una trireme. Toglievano le parti vecchie del legname e le sostituivano con altre robuste, saldamente connettendole fra loro, in modo che essa serviva di esempio anche ai filosofi quando discutevano il problema della crescita, sostenendo alcuni che era la stessa nave, altri che non restava la stessa (Plutarco, Vita di Teseo 23, 1; traduzione di Monica Centanni).

La nave di Teseo era stata quindi conservata in vita per quasi 1000 anni, dall’età di Teseo fino ai tempi del filosofo Demetrio Falereo (345-282 a.C. circa).

Per alcuni tra i filosofi cui Plutarco allude (Platone, indirettamente Aristotele e la scuola degli scettici), la nave era più importante della sopravvivenza del suo legno: sostituendone progressivamente le parti ammalorate con altre nuove, uguali o simili, si sarebbe garantita la sopravvivenza del significato di un’imbarcazione gloriosa che rappresentava forse più di ogni altro oggetto la vita straordinaria di Teseo, l’eroe dei Dori e degli Ioni, considerato il fondatore di Atene, il padre della patria e l’inventore della democrazia di quella città. Per questo motivo la nave doveva rimanere in vita il più possibile uguale a sé stessa almeno nella forma racchiusa dalle assi di legno, vecchie o nuove che fossero.

Il paradosso si riaccende nel XVII secolo, quando Thomas Hobbes, nel De Corpore del 1655 (Hobbes [1655] 1972), immagina due navi: una interamente sostituita nel tempo da materiale nuovo, che rimane comunque sé stessa in quanto permane la stessa struttura formale; l’altra ricomposta nuovamente ma utilizzando i pezzi ammalorati, che ugualmente rimane sé stessa in quanto possiede la stessa organizzazione interna e lo stesso sostrato materiale. E si chiede, lo stesso Hobbes, se possono esistere due navi autentiche in quanto identiche all’originale.

Estendo le riflessioni citate al caso delle navi antiche di Nemi che, come è noto, hanno perduto sott’acqua (e sicuramente anche prima di inabissarsi), in un tempo molto lungo, numerosi elementi, e alla fine, per di più, hanno anche perso repentinamente l’intero insieme dei pezzi superstiti nel corso del tragico incendio del 1944. Come si è detto, affrontare il tema di una loro possibile ricostruzione può stimolare alcuni interrogativi riguardanti il tema della copia e quello della replica, in relazione alla complessa categoria culturale che riguarda l’autenticità di un’opera (o al contrario la sua realtà falsificata): una categoria felicemente ambigua che si è prestata invece a essere declinata in modo piuttosto dogmatico e semplificato nel secondo Novecento, specialmente in Italia e soprattutto nel campo dei progetti di restauro architettonico e di ricostruzione. Laddove invece, in altri domini di elaborazione sia teorica che operativa, la stessa categoria è stata affrontata in modo più problematico e propulsivo.

Alcuni paradigmi dell’autenticità

Why is authenticity wanted? Who can say what it is? Are there useful guidelines for what is or is not authentic? No one is sure. And no one has cast more doubt on authenticity and its confusions than I myself over the past half century (Lowenthal 2008, 6).

Con queste parole, in Authenticities Past and Present del 2008, David Lowenthal (1923-2018), un protagonista delle culture del patrimonio del secondo Novecento, dà conto della relatività e dell’inafferrabilità del termine autenticità, sulla base delle esperienze maturate nel tempo: nei suoi precedenti scritti sul tema, con la mostra Fakes al British Museum del 1990 e soprattutto con la partecipazione, in qualità di Consigliere Unesco, alla Conferenza mondiale che nel 1994 portò alla definizione del documento di Nara sull’autenticità, espressione di una svolta internazionale verso l’adozione di criteri relativi, in nome della diversità culturale e della diversità di patrimonio. Per Lowenthal, in quel contesto, “Authenticity inhered in continuity of form and process, not in the survival of original material” (Lowenthal 2008, 7).

Una forma di relativismo costruita intorno al tema dell’autenticità nelle arti era già stata proposta a metà Novecento, nell’ambito della filosofia analitica americana: in Languages of arts (Goodman 1968), il filosofo statunitense Nelson Goodman (1906-1998), in cerca di un criterio utile a distinguere le arti proprio in base alla loro maggiore o minore predisposizione a essere falsificate, si chiedeva perché “nella musica diversamente dalla pittura non esistono falsificazioni di un’opera nota” dal momento che “tutte le esecuzioni sono esemplari ugualmente autentici dell’opera” laddove invece “anche le copie più fedeli di un Rembrandt sono semplicemente imitazioni o contraffazioni …” (Goodman [1968] 2017, 101-102). La risposta, come è noto, è nella distinzione tra arti autografiche, come la pittura e la scultura, che, in quanto uniche e irripetibili, non possono dare luogo a nuovi esemplari (ma soltanto a copie non autentiche) e arti allografiche, come la musica e, in parte, anche l’architettura, che sono definite da una notazione (uno spartito, una partitura, potremmo dire anche un disegno architettonico, sulla scia degli studi di estetica di Paolo D’Angelo: vedi in particolare Ricci 2024 sull’eccezionalità dell’architettura). Questa notazione può dare luogo a un’esecuzione ripetuta – cioè a un nuovo esemplare, a una replica – soltanto quando notazione ed esecuzione sono tra loro completamente (o parzialmente) disgiunte. Sull’eccezionalità dell’architettura (e ancora di più degli artefatti) rispetto alle altre arti, tornerò brevemente più avanti.

Se introduciamo il fattore tempo (la copia nel tempo, la replica nel tempo), i ragionamenti sull’autenticità si trovano a intercettare le dinamiche di riproduzione culturale che danno corpo alle tradizioni. Per poterle tenere in vita, secondo la caratterizzazione attribuita alla tradizione classica in L’originale assente, a cura di Monica Centanni, va assecondato un processo evolutivo che replica continuamente sé stesso procedendo però, con “variazioni controllate” – un termine prezioso –, per “accrescimento” anzi per “autoaccrescimento” (così Aristotele: epídosis ed epídosis eis hautó) (Centanni 2021, 2)[1] verso un originale assente in sé ma sempre presente nell’atto della sua incessante rifondazione. E ancora sul tempo: se ritorniamo alle parole di Plutarco sulla nave di Teseo, rimanendo sempre all’interno del parametro temporale, a richiamare esplicitamente il relativo paradosso sono stati di recente due storici dell’arte e ancora un filosofo.

Nei loro studi sul Rinascimento e sulla “temporalità plurale dell’opera d’arte” (Nagel Wood [2010] 2024), gli storici dell’arte Christopher Wood e Alexander Nagel vedono nella nave di Teseo, citata esplicitamente in Rinascimento anacronico,

un paradigma dell’oggetto definito dalla sua struttura, piuttosto che dalla sua costruzione materiale. Il tempo d’origine delle parti sostitutive è accidentale, essenziale è la forma. Cogliere la struttura di un oggetto significa astrarre dall’oggetto in quanto semplicemente offerto ai sensi. L’identità di tale oggetto è sorretta, nel corso del tempo, dal suo nome e dalla tacita sostituzione delle sue parti. […] Pensare “strutturalmente”, allora e adesso, significa rifiutare la cronologia lineare come matrice inevitabile di esperienza e conoscenza (Nagel Wood [2010] 2024, 13).

E infine, a partire dalle più recenti teorie del movimento analitico elaborate da David Wiggins e dalle riflessioni di Maurizio Ferraris, e sempre in riferimento alla dimensione temporale, in uno studio dedicato specificatamente al rompicapo della nave di Teseo (Angelone 2015), Luca Angelone ha proposto una possibile soluzione del paradosso: porre l’accento sul ruolo centrale del progetto originario, sia esso documentato o implicito, nella persistenza di identità di un’opera. L’identità persisterebbe nel tempo grazie a una “sostituzione prolungante”, fedele al progetto originario anche in caso di sostituzione integrale del sostrato materiale. L’identità della nave di Teseo sarebbe riconoscibile in entrambe le navi immaginate da Hobbes.

Ai due casi evocati da Hobbes potremmo oggi aggiungerne un terzo, il nostro: quello cioè di un’ipotetica ricostruzione integrale dei relitti delle navi di Nemi con materiale ovviamente nuovo, non originale ma neanche sostituito gradualmente nel tempo. La fedeltà al ‘progetto originale’ degli scheletri delle navi nemorensi, come garanzia della loro persistenza identitaria, sarebbe assicurata dallo studio dei disegni di Luigi Giammiti e Guglielmo Gatti (Ucelli [1950] 1983, Tavole a nero I-III, VI-VIII) che farebbero qui egregiamente le veci di un progetto scritto, di una notazione, anzi diciamo meglio: sostituirebbero a tutti gli effetti lo stesso progetto mai esistito in traccia.

Architettura, artefatti e filologie

Secondo Goodman, come già in parte anticipato, l’esistenza più o meno compiuta di sistemi notazionali nelle arti ne definisce di volta in volta il carattere autografico, oppure allografico o anche misto. Lo studio della presenza o dell’assenza di questi sistemi e del loro modo di relazionarsi con il prodotto artistico permette di definire l’architettura come “un caso misto e di transizione” (Goodman [1968] 2017, 191) dall’autografia verso l’allografia perché, pur essendo presente un sistema di notazioni (quali potrebbero essere ad esempio i disegni del progetto), tali notazioni non sono completamente indipendenti dalle possibili realizzazioni dell’opera, come avviene in musica con lo spartito.

L’opera di architettura, nondimeno, non è sempre e con altrettanta sicurezza svincolata da un edificio particolare come un’opera musicale da un’esecuzione particolare. Il prodotto finale dell’architettura, a differenza della musica, non è effimero; e il linguaggio notazionale è stato elaborato semmai in vista della necessità di una partecipazione collettiva alla costruzione. Il linguaggio gode perciò di minori garanzie, e incontra una maggiore resistenza, a superare l’originario stadio autografico dell’arte. […] In quanto l’architettura possiede un sistema relazionale ragionevolmente appropriato, e in quanto alcune delle sue opere sono indiscutibilmente allografiche, si tratta di un’arte allografica. Ma, nella misura in cui il suo linguaggio notazionale non ha ancora acquistato la piena autorità per poter creare in ogni caso un divorzio fra l’identità dell’opera e la sua produzione particolare, l’architettura è un caso misto e di transizione (Goodman [1968] 2017, 190-191). 

Il tema dell’autenticità si presenta soltanto in assenza di notazione quando la fase ideativa si identifica in toto con quella realizzativa, dando luogo a quella che chiamiamo autografia: e solo in questo caso, la riproduzione – la copia – può essere considerata un falso. La copia di un’architettura somiglia piuttosto a una replica anche se di repliche non ce n’è quasi mai più di una e quasi mai essa è effimera come sono le esecuzioni musicali. In quanto unica, questo tipo di replica si riavvicina quindi al campo specifico delle arti autografiche, venendo così a coincidere, per altre vie (cioè non statutariamente), ideazione e realizzazione.

Abbandonando ora il campo del ragionamento filosofico e rivolgendoci ai progetti di ricostruzione architettonica (anche navale) e alla prassi del restauro, la sostanziale estraneità del concetto di autenticità nel campo delle possibili riproduzioni di architetture e di oggetti è stata in più occasioni sottolineata nel corso del secondo Novecento: da Giovanni Urbani (Urbani [1990] 2000, 87-91) e su un altro fronte anche da Saverio Muratori (Muratori 1950 e 1956), da Paolo Marconi (Marconi 1993; Marconi 1999; Pallottino 2017), da Gianfranco Caniggia (Maffei 2006) e dagli ingegneri che hanno studiato – e studiano – le strutture storiche, come Antonino Giuffrè (Giuffrè 1993). Ognuno di loro, nel proprio ambito di riflessione, ha messo in evidenza che l’architettura, anche quella ruderizzata, e gli artefatti sono sostanzialmente privi di autografia diretta: non è la materia a veicolare il significato di un’opera che invece sta altrove, nello spazio, nei volumi e nella luce, nell’appartenenza a una tradizione costruttiva e nell’adesione a un programma funzionale e distributivo. E certamente, possiamo aggiungere, non potevano testimoniare alcuna autografia i resti scheletrici delle navi di Nemi. Anche la relazione con il tempo, in un’architettura come in un artefatto, è ben diversa da quella che di regola caratterizza gli oggetti d’arte: nessuna originalità può darsi per opere in continua trasformazione e generalmente esposte ai rischi dell’ambiente esterno e alle normali aggressioni della vita circostante.

A guidare, in architettura, i processi di ricostruzione, di riprogettazione e di replica (Eco [2003] 2024, Marconi 2010), in quanto processi liberi per loro stessa natura da ogni possibile esito falsificatorio, sono i tradizionali strumenti della filologia: a essi spetta il compito di garantire soprattutto la permanenza dell’“identità strutturale” richiamata da Nagel e Wood, cioè del significato, piuttosto che della materia. È avvenuto di recente a Notre Dame (anche grazie alle straordinarie ricostruzioni digitali di Livio De Luca, De Luca 2024) e avviene ogni qual volta siano predisposti corpora linguistici storico-geografici, in grado di suggerire rispettose “variazioni controllate” nelle opere di ricostruzione o di restauro sia puntuali che contestuali. Possiamo trovare due diversi esempi di questo procedimento metodologico nella manualistica tecnica di approfondimento sulle tradizioni costruttive di epoca premoderna e anche novecentesca: i Manuali del recupero promossi, tra gli altri, da Paolo Marconi, o l’Enciclopedia del XX secolo, promossa da Bruno Reichlin (Reichlin 2011).

Il procedimento di riproposizione filologica è al tempo stesso scientifico e creativo, come a suo tempo è stato sottolineato da grandi filologi come Friedrich Nietzsche (“ […] Filologia è quella onorevole arte che esige dal suo cultore soprattutto una cosa, trarsi da parte, lasciarsi tempo, divenire silenzioso, divenire lento, essendo un’arte e una perizia da orafi della parola […]”, Nietzsche [1879-1881] 2013, 8-9), come Giorgio Pasquali (“ […] questa facoltà non può essere sostituita da alcuna regola meccanica. […] No, essa è metodica che è quasi l’opposto […]”, Pasquali [1934] 1988, XI; “[…] La parola è come acqua di rivo che riunisce in sé i sapori della roccia dalla quale sgorga e dei terreni per i quali è passata. […]”, Pasquali [1942] 1968, 275) e come lo stesso Jorge Luis Borges che, in uno dei più noti racconti di Finzioni – Pierre Menard, autore del Don Chisciotte, 1939 (Borges 1944), confrontava l’originale di Cervantes con la riscrittura di Pierre Menard, un immaginario scrittore francese: una riscrittura in tutto identica al suo originale ma presentata come completamente nuova proprio in quanto riscrittura. Questo racconto piaceva tanto a Sergio Poretti perché gli indicava la strada sicura della filologia per i restauri invisibili del moderno, in risposta alla vocazione di ogni luogo e allo scopo di ripristinare l’originaria espressione architettonica (sul restauro del moderno secondo Sergio Poretti, vedi Capurso, Iori 2023). E una simile riscrittura si presta oggi a essere considerata il parallelo analogico dei testi generati ‘alla maniera di’ dall’intelligenza artificiale, qualora questi si trovassero nella condizione ipotetica di raggiungere il loro più completo sviluppo organico (sul modello oracolare-probabilistico, proprio delle intelligenze artificiali generative, vedi Roncaglia 2023).

* * *

Se ci predisponiamo a pensare “strutturalmente”, alla luce di questi precedenti sia teorici che operativi, e di tanti altri che potremmo aggiungere, la ricostruzione filologica della forma/struttura dei relitti recuperati in fondo al lago di Nemi e perduti poi per sempre nella loro materialità distrutta dall’incendio, può non apparire come una forzatura.

Sappiamo per via indiretta che, nel mese di febbraio del 1949, la loro ricostruzione era stata proposta dallo stesso Consiglio Superiore delle Antichità e Belle Arti del Ministero della Pubblica Istruzione, presieduto da Mario Salmi (Archivio Centrale dello Stato, Fondo Mario Salmi, 1926-1979, bb. 71 e 122), in previsione della riapertura del Museo. Ne avevano discusso le tre sezioni riunite per l’archeologia, la paletnologia e l’etnografia; per l’arte medievale e moderna e per gli edifici monumentali, l’urbanistica e le bellezze naturali, impegnate tra l’altro in quei mesi a individuare le modalità della ricostruzione postbellica italiana, tra Cassino e Firenze (testate urbane di ponte Vecchio e soprattutto Ponte Santa Trinita). Informato delle possibili intenzioni ministeriali, Guido Ucelli si era detto fortemente contrario all’ipotesi di “ricostruzione di una nave ‘al vero’” (ASMUST, Archivio Carla e Guido Ucelli di Nemi, Vita professionale, attività e imprese,  b.47, fasc. 2), impegnato com’era nel promuovere una rinascita realistica del Museo: al riparo di costi troppo ingenti e di insormontabili difficoltà cantieristiche e in nome di una rinnovata testimonianza del patrimonio di conoscenza che, nonostante l’incendio, il recupero dei relitti e la loro musealizzazione avevano comunque lasciato in eredità. La proposta di Ucelli fu quindi saggiamente limitata alla salvaguardia immediata di quanto era rimasto e alla sola evocazione – ma esattissima – delle navi originali, con la costruzione di due modelli lignei, realizzati dal Ministero della Marina in scala 1:5 [2].

Scartata a priori, per ragioni funzionali, ogni ipotesi di ricostruzione dei relitti incendiati, l’interesse per la peculiare soluzione spaziale ideata da Vittorio Morpurgo passava di fatto in secondo piano né poteva evidentemente essere chiamato in causa alcun ragionamento sull’effettiva autenticità di eventuali ripristini degli oggetti per i quali era stato appositamente costruito il Museo. Nel proporre una ricucitura visiva, con profilo schematico, di alcune porzioni delle navi originali, l’ipotesi di composizione del nuovo assetto spaziale diventava il risultato ragionevole di alcuni provvedimenti dal carattere prevalentemente scientifico-didattico [3].

A ottant’anni dall’incendio delle navi e dopo una lunga serie di allestimenti (1953, 1988, 2000), tutti rassegnati a presentare esposizioni frammentarie e molto lontane dalla concezione museale di Morpurgo, possiamo tornare almeno a immaginare un possibile ritorno alla straordinaria spazialità originale del 1940, da realizzare necessariamente grazie alla ricostruzione filologica di almeno uno dei due relitti perduti, tutta da studiare e verificare (vedi anche i contributi di Incutti, Porretta e Grippa, Toson in questo numero di Engramma).

Una simile replica lignea di un artefatto minuziosamente documentato e non dotato di particolare autografia, oltre a testimoniare fedelmente la struttura delle due particolarissime navi antiche di Nemi, sarebbe in grado di far emergere, come anticipato in premessa, almeno tre orizzonti di significato oggi in parte irriconoscibili: la storia secolare del loro recupero, il valore della loro prestigiosa musealizzazione e la forza della memoria, quale risposta in differita al complesso disastro bellico del 1944.

Adottando le parole di Nagel e Wood, sarebbe un’opera anacronica – e non storicisticamente anacronistica – un’opera oltre/sopra il tempo, che è in ritardo, che ripete ed esita, che ricorda ma che è anche intenzionata a progettare un futuro o un ideale (Nagel, Wood 2024, 20). Sarebbe anche la replica di un’opera allografa e quindi come tale sempre autentica, non falsificabile. Se realizzata, una simile opera tornerebbe anche a essere felicemente un semiòforo, cioè un oggetto portatore di semi, ma anche un oggetto capace di evocazioni multiple secondo la definizione di Krzysztof Pomian (Pomian 1997).

Note

[1] Aristotele, De anima 417b 3-ss, tratta delll’accrescimento come di un processo che non altera ma realizza la natura dell’opera: οὐκ ἔστι δ' ἁπλοῦν οὐδὲ τὸ πάσχειν, ἀλλὰ τὸ μὲν φθορά τις ὑπὸ τοῦ ἐναντίου, τὸ δὲ σωτηρία μᾶλλον ὑπὸ τοῦ ἐντελεχείᾳ ὄντος τοῦ δυνάμει ὄντος καὶ ὁμοίου οὕτως ὡς δύναμις ἔχει πρὸς ἐντελέχειαν· θεωροῦν γὰρ γίνεται τὸ ἔχον τὴν ἐπιστήμην, ὅπερ ἢ οὐκ ἔστιν ἀλλοιοῦσθαι (εἰς αὑτὸ γὰρ ἡ ἐπίδοσις καὶ εἰς ἐντελέχειαν) ἢ ἕτερον γένος ἀλλοιώσεως. διὸ οὐ καλῶς ἔχει λέγειν τὸ φρονοῦν, ὅταν φρονῇ, ἀλλοιοῦσθαι, ὥσπερ οὐδὲ τὸν οἰκοδόμον ὅταν οἰκοδομῇ. τὸ μὲν οὖν εἰς ἐντελέχειαν ἄγειν ἐκ δυνάμει ὄντος [κατὰ] τὸ νοοῦν καὶ φρονοῦν οὐ διδασκαλίαν ἀλλ' ἑτέραν ἐπωνυμίαν ἔχειν δίκαιον. “L’azione del subire non è di un’unico tipo: da una parte può essere una forma di distruzione da parte di un elemento contrario, dall’altra invece è la stessa sopravvivenza [salvezza] che opera ciò che è in atto verso quel che è in potenza e che gli è simile, proprio come la potenza è in relazione con l’atto [della sua realizzazione]. Chi possiede la conoscenza, la esercita e non per questo la altera – perché si tratta di un accrescimento rivolto a se stesso che mira alla propria realizzazione in atto, oppure si tratta di un genere diverso di alterazione. In questo senso non è bello dire che chiprogetta quando pensa altera, così come di un architetto non è bello dire che quando costruisce altera il suo progetto. È giusto perciò trovare un altro nome per questo passaggio di chi pensa e progetta dalla potenza all’atto, in quanto non si tratta di un’applicazione didascalica ma di cosa diversa” (traduzione di Monica Centanni). Interessante che il filosofo trovi una metafora nell’azione del costruttore/architetto che dal progetto (in potenza) alla sua realizzazione (in atto) non altera il pensiero ma lo realizza. Ringrazio Monica Centanni per la segnalazione di questo passo di Aristotele.

[2] “Comunque si potrebbero limitare i lavori di riparazione completa a uno dei grandi capannoni, nel quale dovrebbero essere sistemati i modelli eseguiti dalla Marina e i cimeli salvati dall’incendio: l’altro capannone potrebbe essere lasciato, quale documento della distruzione, nello stato in cui si trova, salvo la esecuzione delle opere di presidio indispensabili ad evitare maggiori danni” (ASMUST, Archivio Carla e Guido Ucelli di Nemi, Vita professionale, attività e imprese, fasc. 2).

[3] “È invece prevista, oltre all’esecuzione dei due modelli in scala 1.5 […] pei quali sarà già un serio problema il trasporto da Castellamare al lago, la costruzione di una porzione della prua e di una costruzione della poppa al vero, che potrebbero essere sistemate lungo un lato d’una navata, fra loro distanziate come in origine (e possibilmente collegate con un profilo schematico) onde dare la sensazione della immensa mole dei cimeli distrutti” (ASMUST, Archivio Carla e Guido Ucelli di Nemi, Vita professionale, attività e imprese, fasc. 2).

*Ringrazio Agostina Incutti per aver condiviso i documenti relativi all’Archivio Carla e Guido Ucelli di Nemi. 

Bibliografia
Fonti d’archivio
  • Archivio centrale dello Stato, Fondo Mario Salmi, 1926-1979, buste 71 e 122. 
  • ASMUST, Archivio Carla e Guido Ucelli di Nemi, Vita professionale, attività e imprese, b. 47, fasc. 2, Allegato 1, lettera 1°marzo 1949. 
  • ASMUST, Archivio Carla e Guido Ucelli di Nemi, Vita professionale, attività e imprese, b. 47, fasc. 2, Allegato A, 2 marzo 1949.
  • ASMUST, Archivio Carla e Guido Ucelli di Nemi, Vita professionale, attività e imprese, b. 47, fasc. 2, Allegato C, 2 marzo 1949.
Riferimenti
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    F. Di Frischia, Navi di Caligola a Nemi, Piero Angela: “Appello a Musk e Gates per ricostruirle”, “Il Corriere della Sera” (03.05.2022). 
  • Eco [2003] 2024
    U. Eco, Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Milano 2024.
  • Goodman 1968
    N. Goodman, Languages of arts. An approach to a theory of symbols, Indianapolis 1968. 
  • Goodman [1968] 2017
    N. Goodman, I linguaggi dell’arte, trad. it. a cura di F. Brioschi, Milano 2017.
  • Giuffrè 1993
    A. Giuffrè (a cura di), Sicurezza e conservazione dei centri storici. Il caso Ortigia, Bari 1993.
  • Grippa, Toson 2025
    I. Grippa, C. Toson, Interiorizzare la rovina. Il riallestimento del Museo delle Navi romane di Nemi alla luce di nuove fonti d’archivio (1945-1953), “La Rivista di Engramma” 228 (ottobre 2025).
  • Hobbes [1655] 1972
    T. Hobbes, De Corpore [1655], trad. it. a cura di A. Negri, Il corpo, Torino 1972.
  • Incutti, Porretta 2025
    A. Incutti, P. Porretta, Architettura e allestimenti del Museo delle Navi romane di Nemi. Il progetto di Vittorio Morpurgo, le successive fasi di trasformazione e il paesaggio nemorense (1940-2000), “La Rivista di Engramma” 228 (ottobre 2025).
  • Ippolito 2024
    M. Ippolito, L’Italia dona all’Iraq una replica del Toro di Nimrud distrutto dall’Isis, “Exibart” (16.02.2024).
  • Lowenthal 2008
    D. Lowenthal, Authenticities Past and Present, “CRM: The Journal of Heritage Stewardship” 5/1 (2008).
  • Maffei 2006
    G. Maffei (a cura di), Gianfranco Caniggia Architetto. Disegni, progetti, opere (Roma 1933-1987), Firenze 2006. 
  • Marconi [1993] 1994
    P. Marconi, Il restauro e l’architetto. Teoria e pratica in due secoli di dibattito, Venezia [1993] 1994. 
  • Marconi 1999
    P. Marconi, Materia e significato. La questione del restauro architettonico, Bari 1999.
  • Marconi 2010
    P. Marconi, Conservare e restaurare, voce Enciclopedia Treccani XXI secolo (2010).
  • Muratori 1950
    S. Muratori, Vita e storia delle città, “Rassegna critica di Architettura” III/11-12 (1950), 1-52.  
  • Muratori 1956
    S. Muratori, Commento al I tema: conservazione e restauri, Atti del VII congresso nazionale di Storia dell’architettura (Palermo 24-30 settembre 1950), Palermo 1956, 103-106.
  • Nagel, Wood [2010] 2024
    A. Nagel, C.S. Wood, Rinascimento anacronico [Anachronic Renaissance, Princeton 2010], S.Chiodi (a cura di), trad. it. di G. Lucchesini, Macerata 2024.
  • Nietzsche [1879-1881] 2013
    F. Nietzsche, Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali [Morgenröte. Gedanken über die moralischen Vorurteile, 1879-1881], trad. it a cura di F. Masini, Milano 2013.
  • Pallottino 2017
    E. Pallottino, Lacune urbane o “evoluzione vitale”? Cultura e progetto dei centri storici, in Le lacune urbane tra presente e futuro, Atti della Giornata di studi (Pescara, 4 marzo 2015), R. Dalla Negra, C. Varagnoli (a cura di), Roma 2017, 105-116.
  • Pasquali [1934] 1988 
    G. Pasquali, Storia della tradizione e critica del testo, Firenze 1988, XI.
  • Pasquali [1942] 1968 
    G. Pasquali, Arte allusiva, ”L’italia che scrive”, 1942; in G. Pasquali, Pagine stravaganti, 2, Firenze 1968, 275-282. 
  • Pomian 1997
    K. Pomian, Les archives. Du Trésor des chartes au Caran, in P. Nora, a cura di, Les lieux de mémoire, vol. III: Les France. De l’archive à l’emblème. Enregistrement, Paris 1997, 3999-4006.
  • Reichlin 2011
    B. Reichlin, Riflessioni sulla conservazione del patrimonio architettonico del XX secolo. Tra fare storia e fare progetto, in B. Reichlin, B. Pedretti (a cura di), Riuso del patrimonio architettonico, Università della Svizzera italiana 2011, 11-29.
  • Ricci 2024 
    M. Ricci (a cura di), Sul concetto di ‘copia’ in architettura: teoria e storia, “Aesthetica edizioni” 125 (2024), 7-8, 9-30. 
  • Roncaglia 2023
    G. Roncaglia, L’architetto e l’oracolo. Forme digitali del sapere da Wikipedia a ChatGPT, Bari 2023.
  • Sebastiani et al. 2018
    R. Sebastiani, C. Collettini, S. Borghini, G. Boetto, I relitti e il museo delle navi di Fiumicino, in De l’épave au musée : étude, conservation, restauration et exposition des navires antiques en Italie et en Europe / Dal relitto al museo: studio, conservazione, restauro e esposizione di navi antiche in Italia e in Europa, Workshop internazionale, G. Boetto, B. Davidde Pietraggi (a cura di), organizzato dall’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro, l’Ecole française de Rome e il Centre Camille Jullian, Roma, marzo 2018. 
  • Ucelli 1940
    G. Ucelli, Le navi di Nemi, I. ed., Roma 1940.
  • Ucelli [1950] 1983
    G. Ucelli, Le navi di Nemi, II. ed., Roma [1950], ristampa integrale, Roma 1983.
  • Urbani [1990] 2000
    G. Urbani, I fondamenti pittorici del restauro architettonico, in Scritti in onore di Giuliano Briganti, Milano 1990, ora in G. Urbani, Intorno al restauro, a cura di B. Zanardi, Milano 2000, 87-91.
English abstract

The absence of the wrecks of the Roman imperial ships in a museum specifically built to house them cannot leave anyone indifferent. It would therefore be desirable to re-propose the original museum-ship complex, designed and built by Vittorio Morpurgo in 1940 and destroyed by fire in 1944. The famous paradox of Theseus’ ship is here invoked and discussed in the light of certain authenticity paradigms, in order to encourage, from a theoretical and methodological point of view, a study of a philological reconstruction of at least one of the two hulls, thereby reclaiming the architectural, historical, technical, and memorial significance of the Nemi Ship Museum.

keywords | Nemi Ship Museum; Theseus’ ship; Roman shipwrecks; Architectural reconstruction; Autenticity paradigms.

questo numero di Engramma è a invito: la revisione dei saggi è stata affidata al comitato editoriale e all'international advisory board della rivista

Per citare questo articolo / To cite this article: Elisabetta Pallottino, Le navi di Nemi e la nave di Teseo, “La Rivista di Engramma” n. 228, ottobre 2025.