"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

225 | giugno 2025

97888948401

Lisistrata e il Commissario

Dialettica comica e identità performativa

Alessandro Grilli

English abstract
I

Questo contributo si propone di approfondire in prospettiva metacritica alcuni aspetti degli scontri fra personaggi al centro di molte scene della commedia attica antica. In esse il dibattito non si limita a mettere a confronto opinioni divergenti su questioni circoscritte o occasionali, ma si configura come un vero e proprio conflitto di visioni del mondo. La questione che mi interessa mettere a fuoco riguarda appunto il rapporto tra le visioni del mondo presupposte dalle parti che si confrontano nel dibattito e le tendenze ideologiche del testo: quali tratti risultano determinanti nell’identificare la visione del mondo caratteristica di ciascun interlocutore? Quanto sono definiti e incrollabili gli assiomi su cui esse si basano? Quali sono gli addentellati etici e politici delle posizioni che vengono sostenute, e cosa ci dicono dell’ideologia della commedia – intesa come singolo dramma ma anche come codice di un genere letterario? 

In quanto azione fondata sull’antagonismo di volontà divergenti, la commedia di Aristofane concede ampio spazio alla rappresentazione degli scontri verbali, cristallizzandoli addirittura in forme tecnicamente articolate (Gelzer 1960). Il corpus aristofaneo offre quindi un terreno privilegiato per l’osservazione dei confronti dialettici, sia nel quadro dello specifico contesto storico-culturale dell’Atene classica che in senso teorico e generale. Attraverso l’analisi di specifici esempi testuali, spero di poter mostrare come in Aristofane la dimensione proposizionale delle visioni del mondo, vale a dire l’insieme dei loro contenuti (classificabili come oggetti, proprietà, relazioni: Dell’Aversano, Grilli 2005, 51 ss.), risulti tendenzialmente subordinata ad altri fattori, che possiamo definire nel complesso ‘posizionali’, cioè dipendenti dalle posizioni assunte via via dai partecipanti a un’interazione nei confronti l’uno dell’altro e in relazione agli oggetti del dibattere (van Langenhove, Harré 1999). Queste posizioni, identificabili a partire dagli impliciti pragmatici della comunicazione (Watzlawick et al. [1967] 1971), si possono ricondurre in ultima analisi al potere relativo espresso e controllato da ciascun interlocutore. Gli aspetti posizionali del discorso sono dunque un modo indiretto di confermare sul piano dialettico la propria capacità di esercizio della forza. 

Che la commedia di Aristofane organizzi i dibattiti in modo così poco ‘razionale’ non deve sorprendere: più che dalla componente logico-argomentativa dei contenuti, la felicità comunicativa della dialettica comica dipende dall’adesione empatica che il testo è in grado di sollecitare nel destinatario (Grilli 2021, 105-30). Quando Cremilo scaccia Penia gridandole dietro Οὐ γὰρ πείσεις, οὐδ’ ἢν πείσῃς, “Non mi persuadi neanche se mi persuadi” (Pluto, 600; qui e oltre le traduzioni sono mie), egli mostra fino a che punto i fattori logico-argomentativi siano marginali rispetto alle forze che esprimono e fanno appello alle componenti viscerali della psiche. Il dibattito comico finisce così per mettere in luce la prevalenza emozionale delle dinamiche persuasive, e la natura occasionalmente contraddittoria delle posizioni rappresentate dalle parti coinvolte. 

Non potendo che limitare l’analisi a un singolo tema rappresentativo, ho deciso di approfondire i modi in cui la commedia di Aristofane dà spazio a due opposte visioni dell’identità personale – quelle che oggi, con terminologia frutto di un lungo dibattito teorico-culturale, vengono definite come ‘essenzialista’ e ‘performativa’. Come tanti concetti della teoria contemporanea, anche questi non corrispondono a precisi termini del dibattito nell’Atene classica, anche se non è difficile riconoscere ampi margini di sovrapposizione tra prospettive antiche e moderne: benché descritta in termini diversi nel corso della storia, la polarità essenzialista/performativo attraversa la cultura occidentale con una costanza sorprendente, tornando a emergere oggi come fronte infuocato di dibattito filosofico e politico. Non si può negare, del resto, che la nozione di identità performativa, e la sua contrapposizione più o meno esplicita alla complementare visione essenzialista, costituisca uno degli elementi chiave del teatro in genere, e del teatro comico in particolare: dagli Acarnesi al Pluto, non a caso, l’opera di Aristofane è intessuta di elementi che enfatizzano aspetti performativi delle identità, a partire dai temi e dalla drammaturgia della dissimulazione, del travestimento, della trasformazione. Commedie intere, come le Tesmoforiazuse, sono costruite a partire da variazioni sul tema del travestimento, che dà anche l’occasione a spunti di riflessione metaletteraria, come nell’incontro di Euripide e del suo parente con il tragediografo Agatone (vv. 101 ss.; non a caso Duncan 2001 deriva proprio dall’analisi di questa scena l’idea che Aristofane sia di fatto propugnatore di una visione tendenzialmente costruzionistica del gender). 

Nelle pagine che seguono cercherò di tracciare per sommi capi una genealogia del concetto di ‘identità performativa’ e della sua connotazione ideologica, prima di passare a considerare i termini della questione nella cultura ateniese arcaica e classica, e poi nell’opera di Aristofane. Cercherò in particolare di mettere in evidenza come nella commedia attica antica la visione performativa dell’identità si presenti come un dispositivo tendenzialmente neutro, declinato positivamente o negativamente a seconda delle posizioni configurate in seno alla drammaturgia della singola commedia. In termini metacritici, cercherò di mostrare come i codici della drammaturgia comica aiutino a comprendere il ruolo che le visioni del mondo, e con esse i contenuti proposizionali, possono rivestire in uno specifico contesto dialettico. Come vedremo oltre, la commedia di Aristofane mostra la tendenziale prevalenza dei fattori posizionali sui contenuti proposizionali argomentati dalle parti in gioco – una prevalenza che può fornire un illuminante termine di confronto con contesti persuasivi anche molto disparati. 

II

Nella versione vulgata e massimamente condivisa della teoria culturale, la visione ‘performativa’ delle identità è considerata un’acquisizione della teoria queer, e si fa risalire a un importante saggio di Judith Butler in cui l’identità di genere viene smascherata come mera performance: Gender Trouble (Butler 1990) è oggi il riferimento obbligato per chi sostiene, nella sua accezione più ampia, l’idea che i ruoli di genere siano frutto di cristallizzazioni culturali, e vengano preservati e trasmessi attraverso dispositivi di socializzazione. In origine, Butler scriveva presupponendo come uditorio specifico la comunità delle femministe ‘essenzialiste’, contro le quali cerca appunto di argomentare la tesi che non esiste una base essenziale del femminile al di là degli script culturali che convenzionalmente lo definiscono. Un’idea analoga, riferita specificamente all’identità femminile, era stata avanzata di fatto da Simone de Beauvoir nel suo saggio epocale Le deuxième sexe, dove era sintetizzata nella icastica formula che apre la parte II: “Donna non si nasce, si diventa” (de Beauvoir 1949). Se il saggio di Butler è riuscito ad affermarsi rapidamente come un punto di svolta nell’ambito della gender theory, ciò non si deve tanto all’originalità delle sue idee, quanto alla loro consonanza con uno Zeitgeist costruzionista (Berger, Luckmann 1966) e anticategoriale: di fatto, le prospettive del dibattito erano state già aperte e preparate lungo altri percorsi nei decenni precedenti. 

Nella filosofia del Novecento, la svolta ‘performativa’ in ambito gender si può ricondurre a sviluppi della filosofia del linguaggio di Austin, di Searle e di Derrida (un inquadramento storico e teorico in Loxley 2007). Ma è con la filosofia di Foucault e la sua idea di potere-sapere (Foucault 1975, 32) che il processo di soggettivazione – inteso nel suo senso più ampio di costruzione dei soggetti sociali, non limitata ai parametri di identità di genere – viene attribuito all’azione di dispositivi ubiquitari impliciti nel discorso condiviso, che rendono ciascun soggetto responsabile della propria azione sociale e al tempo stesso suddito vincolato all’esecuzione di script eterodiretti (in francese il termine sujet, come l’inglese subject, conserva la pregnante ambivalenza semantica di ‘soggetto’ e ‘suddito’). 

Prima di Foucault, e per gran parte in modo indipendente, la sociologia dell’interazione faccia a faccia aveva elaborato una teoria dell’esperienza sociale come teatro, dove ai soggetti sociali competono veri e propri ruoli di un copione precisamente codificato (Goffman [1956] 1959). Lo scambio conversazionale ordinario funziona come tecnica di “routine maintenance” del sapere di cui quegli script sono espressione (Berger, Luckmann 1966, 168; ho approfondito e precisato questa nozione in Grilli 2018a). 

La metafora della vita come teatro, antica e topica (Curtius [1948] 2013, 138-44), giunge a una formulazione incisiva nell’opera di Pirandello, da cui effettivamente Goffman trae ispirazione diretta per le sue teorie. L’accentuazione delle posizioni di Goffman rispetto a Pirandello, tuttavia, permette di cogliere la rilevanza filosofica e politica della teoria performativa dell’identità così come essa si sviluppa nel pensiero del secondo Novecento. Più che a una dialettica tra un’identità profonda e una ‘maschera’ che vi si sovrappone e la occulta, infatti, Goffman, soprattutto a partire dalla sua teoria dell’azione sociale come successione di frames (Goffman 1974), fa leva sulla metafora teatrale per risolvere le identità in una serie di script definiti dalla cornice sociale che li contiene e dalle competenze dei soggetti che partecipano all’interazione. Il soggetto sociale non solo non esiste più come dato a priori, ma non ha nemmeno più bisogno di essere pensato come un contenuto stabile e coerente: il soggetto è solo la somma delle competenze che gli permettono di prendere parte ai frames in cui via via si trova convolto. 

Una visione ancora più lucida ed esplicita dell’identità come performance è quella articolata da un geniale allievo di Goffman, Harvey Sacks (1935-1975), cui la morte precoce ha impedito di portare a termine l’elaborazione di una teoria dei sistemi sociali come aggregati di categorie. La sua Membership Categorization Analysis (MCA) è ricostruibile solo in parte grazie alle trascrizioni dei suoi corsi universitari, pubblicate postume a cura della sua allieva e collaboratrice Gail Jefferson (Sacks 1992). In un breve contributo postumo, ricavato anch’esso da registrazioni di lezioni universitarie (Sacks 1984; l’articolo deriva da lezioni del 1970-1971, anteriori cioè alla pubblicazione di Frame Analysys di Goffman), lo studioso espone la sua teoria della costruzione sociale della normalità, o meglio della “ordinariness”, cioè della versione non marcata di qualunque situazione sociale. La sua premessa principale, fondamentale anche per il mio discorso, è che 

[w]hatever you may think about what it is to be an ordinary person in the world, an initial shift is not think of “an ordinary person” as some person, but as somebody having as one’s job, as one’s constant preoccupation, doing “being ordinary.” It is not that somebody is ordinary; it is perhaps that that is what one’s business is, and it takes work, as any other business does. (Sacks 1984, 414, corsivo nel testo)

La qualità più diffusa e meglio distribuita di questo mondo, vale a dire la qualità di ‘non avere alcuna qualità’, non è un tratto intrinseco dell’identità, come suggerisce il senso comune, bensì qualcosa che viene costruito laboriosamente a partire da competenze assimilate nei processi di socializzazione, e continuamente messe alla prova dallo sguardo di conferma o di critica dei propri interlocutori. Se si generalizza il discorso, è facile arrivare, dalla ‘ordinarietà’ come pratica e non come qualità, alla radice performativa di qualsiasi qualità socialmente riconosciuta: 

If you just extend the analogy of what you obviously think of as work – as whatever it is that takes analytic, intellectual, emotional energy – then you will be able to see that all sorts of nominalized things, for example, personal characteristics and the like, are jobs that are done, that took some kind of effort, training, and so on. (ibidem)

Queste affermazioni di Sacks costituiscono una vera e propria svolta in termini di antropologia filosofica: all’idea che attribuisce all’uomo un’essenza a priori, modificata solo accidentalmente da fattori ambientali, si sostituisce ora una nozione radicalmente diversa, che vede l’identità dell’uomo come un effetto delle azioni compiute, e non di qualità possedute in astratto. La portata politica, oltre che filosofica, delle teorie di Sacks emerge con la massima chiarezza nella sua teoria dell’imitazione. Sacks (1992, I, 69-71) parte da un esempio concreto, quello di due giovani educati insieme, uno dei quali (bianco) è il figlio del padrone, l’altro (nero) il figlio dei suoi schiavi: 

When one normally deals with the activities of a Member, apparently one takes it that they have a right to do some class of activities, and that when one engages in making out what they’re doing, one takes it that what one sees them doing is what they’re doing. ‘Imitation’ seems to involve a way of characterizing some action which somebody does when they’re unentitled to do that class of action. [...] So imitation becomes a category which involves the construction of a parallel set of knowledge for those unentitled Members, where it doesn’t happen that as they do something one finds that there is ‘the doing’, but as they do something one finds that they are able to imitate. One doesn’t see that thing which would, by reference to the category ‘knowledge and capacity’ be taking place; [...] one sees [an imitation].

In una visione essenzialista, il fatto che i due giovani abbiano esattamente le stesse competenze e le stesse capacità (“‘knowledge and capacity’”) ma non le stesse prerogative sociali (“a right to do some class of activities) può presentarsi come un problema logico, che è necessario ‘spiegare’, cioè neutralizzare, con una nozione di ‘senso comune’, vale a dire con l’idea che i neri sono ‘naturalmente’ portati per l’imitazione, cioè per l’esecuzione di azioni che non sono di loro pertinenza. Questa spiegazione ha il vantaggio di rendere irrilevanti i parametri di “conoscenza e capacità”, e permette così di mantenere la distinzione tra Members, che hanno titolarità all’azione, e non Members, che ne sono privi. Questa distinzione introduce del resto la pericolosa idea che nel caso delle caratteristiche identitarie esista un originale (che guarda caso coincide con il Member, il soggetto della categoria sociale dominante), rispetto al quale le identità subalterne possono essere squalificate in quanto copie. 

La dialettica originale/copia permette di capire anche come mai la visione essenzialista delle identità abbia fatto ricorso in modo così massiccio alla nozione di ‘natura’, anche quando il discorso riguarda pratiche evidentemente culturali. Non ho modo di approfondire oltre il ragionamento, ma mi limito a rimandare a una pagina di La natura è innocente in cui Walter Siti fornisce una decostruzione intensa e suggestiva di questa ‘seconda natura’ (così Siti chiama la natura dell’ideologia essenzialista, opponendola alla “Natura”, il mondo fisico e biologico, e alla “terza natura”, quella della realtà aumentata della tecnologia: Siti 2023, “Intermezzo vulcanico”, corsivi nel testo): 

La seconda natura cementa le comunità perché estende la durata e il prestigio delle leggi naturali a valori che invece appartengono totalmente alle alternative della cultura: di solito sono valori conservatori (“il Paese che i nostri nonni ci hanno lasciato”), di tradizione, perfino stereotipi: pensieri o rituali su cui la comunità stessa ha smesso da tempo di interrogarsi, dandoli per scontati una volta per tutte e contrapponendoli alle pericolose usanze “contronatura”. Così appare naturale che una famiglia sia formata da una mamma e da un papà, naturale che i maschietti giochino coi soldatini e le femminucce con le bambole, naturale essere religiosi secondo la nostra religione (“la Madonnina che sta lassù”), naturale che lo star meglio prevalga senza discussione sullo star peggio, naturale condividere con migliaia di follower il momento in cui la sera ci si lava i denti; gli italiani sono naturalmente bianchi, l’Italia nel 1938 dichiarava il proprio naturale diritto ad avere delle colonie, e così via. Appare naturale ciò che si è sempre fatto o che i più vorrebbero fare impunemente: è naturale l’istinto di sopravvivenza ma allo stesso modo si proclamano naturali il diritto di proprietà, il diritto al lavoro e quello di sparare su chiunque cerchi di forzare il nostro uscio di casa. La seconda natura è ovviamente una finzione, ma è una finzione da non svelare se si vuole che conservi la propria efficacia nell’agglutinare il consenso; la seconda natura funziona se sorvola su valori naturali ma contraddittori (la diffidenza verso l’estraneo è naturale ma i neuroni specchio sono un dato di natura, l’istinto di aggregarsi è naturale quanto il bisogno di solitudine, l’odio è naturale quanto l’amore) e solleva dalla fatica di scegliere da sé il proprio profilo di individuo. La seconda natura consegue il massimo risultato se riesce a travestirsi da “normale sentire” o addirittura da buonsenso.

III

Non stupisce constatare che, sul piano politico, l’opposizione essenzialista/performativo corrisponde grosso modo all’opposizione tra orientamenti rispettivamente conservatori e progressisti. Nel primo caso, le élites conservatrici hanno difeso il proprio privilegio in base all’idea che esso discendesse da qualità essenziali, possedute per nascita e non come conseguenza di azioni compiute dal soggetto. Il principio viene istituzionalizzato nei codici giuridici, che sul legame di sangue (e sulla sua estrinsecazione familistica) basano l’intera disciplina della successione. Non stupisce che la visione essenzialista dell’identità si traduca in una visione della società come sistema di caste impervio alla trasformazione. 

Rotture rivoluzionarie passano anche attraverso il ripudio di simili presupposti, anche se i nuovi assetti di potere finiscono spesso per riproporre su nuove basi gli stessi atteggiamenti. Il borghese si contrappone all’aristocratico, soggetto di privilegi ereditari, in quanto soggetto di un privilegio che deriva dall’azione (economica) individuale. Ma la cultura borghese ha ricostruito ben presto su basi essenzialiste la difesa ideologica della prosperità conquistata, dal momento che la ricchezza viene comunque trasmessa sulla base di istituti essenzialisti come la famiglia. I dispositivi medico-biologici messi a punto dalla cultura borghese si sono aggiornati col tempo: alla teoria lombrosiana della criminalità (Lombroso 1876) si sostituisce oggi il paradigma geneticista come spiegazione ‘ultima’ dei più vari tratti di comportamento (sulla matrice ideologica della visione genocentrica si veda almeno Lewontin 1991), ma l’idea è sempre che dalle qualità intrinseche della biologia si possono ricavare le motivazioni che legittimano la posizione del soggetto nella sua posizione di privilegio. 

Anche in ambito psicosociale il senso comune borghese sembra incline a recuperare assiomi essenzialisti. Il darwinismo sociale, ad esempio, ha forzato la teoria evolutiva di Darwin fino a ricavarne una giustificazione retroattiva della sperequazione sociale, in nome di maggiori capacità adattive (dunque innate) di alcuni soggetti rispetto ad altri (Wilson 1975). Allo stesso modo, la nozione conservatrice di ‘merito’ non è che l’ennesimo esempio dei modi in cui la cultura borghese si riappropria dell’ideologia essenzialista del sangue. La mentalità meritocratica (non è un caso che il termine ‘meritocrazia’ sia stato inizialmente popolarizzato da uno scritto satirico: Young 1958) tende infatti a misconoscere i fattori ambientali e sistemici considerando il merito come espressione di qualità intrinseche dell’individuo, e non come il prodotto di un’interazione fra attitudini idiosincratiche del soggetto e l’azione dell’ambiente in cui si trova a svilupparle (ambiente in cui si manifesta ovviamente l’apporto di fattori legati al capitale economico o simbolico: Piketty 2014). 

Nel momento presente, almeno in Italia, lo scontro atavico tra l’ideologia del privilegio e la fiducia nella modificabilità del mondo attraverso i comportamenti si lega, in modo tutto sommato piuttosto riduttivo, al dibattito sulla cosiddetta ‘ideologia gender’. Lo scontro è occasionato dalle prospettive sull’identità performativa elaborate negli ultimi decenni ma è evidente che a monte della preoccupazione per la stabilità dell’identità di genere c’è il timore più ampio che il ripensamento performativo del mondo porti a una radicale ridiscussione dei modelli di ordine sociale e dei correlati assetti di potere. La visione del mondo essenzialista è espressa da un fronte conservatore che include tanto le destre tradizionali quanto le componenti cattoliche, che su altre questioni sono inclini peraltro a posizioni più moderate. La visione del mondo performativa è promossa invece dal fronte progressista, che include appunto voci politiche della sinistra (intesa in senso lato) come anche espressioni di pensiero critico o alternativo di vario orientamento. Com’è ovvio (e inevitabile), la posizione performativa caratterizza tutti i movimenti impegnati sul fronte dei diritti civili e per una più radicale trasformazione dei sistemi sociali. 

Considerando con distacco le due visioni del mondo, non si può fare a meno di riscontrare in ciascuna occasionali criticità logiche, che confermano, anche in quest’ambito, la rilevanza di fattori pregiudiziali e viscerali nell’adesione di parte: la visione del mondo essenzialista ritiene ad esempio che l’identità sia un dato di natura non modificabile e indipendente dalle azioni del soggetto. Al tempo stesso, però, la parte conservatrice motiva la sua richiesta di eliminare contenuti “gender” dall’insegnamento per il timore che essi possano orientare le identità dei giovani in direzioni non convenzionali. Inutile dire che postulare la natura essenziale delle identità e dell’orientamento sessuale, e al tempo stesso temere che un discorso teorico o l’esposizione a un esempio concreto possano modificarli, è di per sé contraddittorio: se le identità sono essenze date, nessuna persuasione o nessun esempio concreto potranno scalfirle; viceversa, se la parola o l’esempio arrivano a modificare l’orientamento sessuale, allora sarà difficile sostenerne la natura fissa e a priori. Anche nella posizione performativa non è difficile riscontrare posizioni logicamente contraddittorie: nella definizione di identità trans, ad esempio, vengono essenzializzate come nucleo di autenticità profonda, come ‘vero io’, i tratti dell’identità che costituisce il punto d’arrivo della transizione, a dispetto del loro carattere estrinseco e culturalmente determinato (abbigliamento, acconciatura, gestualità). 

Inutile dire che queste incrinature permettono di intuire la rilevanza di fattori diversi dalla pura adesione a una linea logico-argomentativa: anche nel dibattito filosofico e politico le posizioni appaiono determinate, al di là della qualità e del rigore logico delle argomentazioni, da fattori ulteriori, legati a elementi imponderabili o alla semplice conformità a schemi di pensiero più familiari. È interessante in proposito richiamare una proprietà dei proverbi osservata da Harvey Sacks. Secondo Sacks un problema interessante posto dai repertori proverbiali consiste nel fatto che “for almost any proverbial expression it’s possible to take another proverbial expression, counterpose it to the first, and see their inconsistency” (1992, II, 422). La spiegazione di Sacks sottolinea la funzione sociale e conversazionale dei proverbi, che si configurano come “ideal objects to do understanding with, since they have an appropriate way of being heard” (ivi, II, 426). In altre parole, i proverbi sono strumenti conversazionali di costruzione e di rafforzamento del consenso, che funzionano perché, al di là del loro significato letterale, essi possono sempre essere compresi in senso simbolico e riferiti alla situazione presente. Mi sembra peraltro che il discorso di Sacks si possa generalizzare ed estendere all’intero repertorio di credenze che costituiscono il senso comune. Anche se non cristallizzate in espressioni proverbiali, le affermazioni di senso comune condividono la stessa proprietà conversazionali dei proverbi, funzionano cioè come strumenti di espressione del consenso in relazione a un sapere condiviso. Il fatto che il senso comune sia costituito da credenze occasionalmente contraddittore non pone problemi. La funzione principale del senso comune, infatti, è fornire in ogni data situazione sociale un punto di appoggio e un avallo teorico a qualsiasi opinione rispecchi il consenso di volta in volta prevalente – a riprova del fatto che nell’organizzazione del dibattito basata sul ‘buon senso’ i fattori proposizionali, cioè il significato proprio degli enunciati e la tenuta logica delle loro concatenazioni, non sono l’elemento determinante, ma soggiacciano all’azione di fattori più stringenti come la necessità di adeguamento alla prassi comune, o semplicemente la necessità di giustificare a posteriori decisioni dettate da logiche di forza. 

IV

Dopo questa premessa teorica e storico-culturale, possiamo ora tornare a focalizzare l’attenzione sulla Grecia antica, cercando di armonizzare i termini del dibattito contemporaneo con le categorie emiche (Pyke 1954) dell’Atene arcaica e classica. Anche in quel contesto, come oggi, la contrapposizione si esprime su un piano filosofico e politico. Nel dibattito intellettuale dell’Atene classica, le teorie che più richiamano l’attuale definizione di identità performativa sono quelle dei sofisti, che insistono sul carattere convenzionale del linguaggio (con la fiera opposizione di Platone nel Cratilo), sulla prevalenza della percezione e del giudizio soggettivo in ambito gnoseologico (comunque si voglia interpretare il celeberrimo attacco di Protagora nel suo Verità, ovvero: su ciò che è, DK 80 B1 ), e sull’impossibilità di cogliere la realtà per i limiti intrinseci del linguaggio e delle capacità umane (le famose tre negazioni gorgiane). Sul piano metafisico, invece, la polarità essenzialista/performativo è implicita nella contrapposizione tra l’ontologia parmenidea (e i suoi sviluppi platonici e poi neoplatico-cristiani) e quella di Eraclito, primo pensatore occidentale a cogliere la matrice dialettica e relazionale dell’essere come essere nel tempo. 

In termini socio-politici, invece, la visione essenzialista corrisponde alle posizioni conservatrici dell’élite aristocratica, in cui le qualità dell’individuo non sono altro che il riflesso di prerogative familiari e castali. L’individuo καλὸς κἀγαθός è tale perché esprime la continuità e la stabilità della sua stirpe, confermata dalla sua ‘attitudine’ all’azione politica e all’eccellenza sociale. Le manifestazioni del valore individuale non sono altro, in questa prospettiva, che corollario di un valore intrinseco al gruppo da cui il soggetto deriva la sua titolarità all’azione. Le dimostrazioni di capacità individuale sono benvenute e celebrate, ma più come conferma di un presupposto essenzialista, appunto, che come superamento di una verifica selettiva (quasi superfluo il rimando alla retorica pindarica dell’epinicio, che inquadra immancabilmente le virtù del vincitore in una linea che comprende a ritroso i principali esponenti della stirpe, fino ai loro mitici progenitori). 

Viceversa, la nozione di identità performativa, anche se non ancora articolata in modo esplicito e teoricamente consapevole, è congruente con la visione del mondo democratica, al cui interno l’individuo viene concepito per la prima volta come soggetto plastico e totipotente. Beninteso, l’‘individuo’ in questione è solo il ‘Full Member’, vale a dire, nella terminologia sociologica di Harvey Sacks (1992), il soggetto che appartiene alla categoria centrale di un sistema sociale. Nel caso dell’Atene classica, questa categoria esclude le “boundary categories” rappresentate da donne e minori, come pure da schiavi e stranieri residenti (meteci). Nel corso della storia, la composizione della categoria centrale si estende progressivamente, rispetto agli assetti istituzionali più antichi, riducendo e poi eliminando la variabile del censo come criterio per la determinazione dei diritti. In un sistema di questo tipo, il cittadino di pieno diritto può svolgere funzioni diverse in base alle sue capacità e a una logica di distribuzione e condivisione delle prerogative, e non più in quanto membro di una stirpe o di una consorteria aristocratica.

Questo spostamento del baricentro dal genos all’individuo, da un lato, e alle categorie sociali in genere, dall’altro, valorizza inevitabilmente non solo le capacità di azione e di negoziazione dei singoli soggetti, ma rafforza in ciascun individuo un impulso, anche se solo latente, all’affermazione di sé. Questa affermazione non è più la stessa dell’etica aristocratica arcaica: lì l’eroe è mosso da un desiderio di kleos che consiste nel mostrarsi effettivamente conforme all’identità che la posizione di nascita gli ha attribuito (come si dice di Anfiarao nei Sette contro Tebe, 592: οὐ γὰρ δοκεῖν ἄριστος ἀλλ’ εἶναι θέλει, “Non vuole sembrare il migliore, ma esserlo”). Com’è ovvio, il problema del kleos non riguarda e non può riguardare Tersite o i suoi pari. Al contrario, il soggetto di diritti all’interno di un sistema democratico non nasce con l’idea di dover morire nella condizione sociale che la sorte gli ha assegnato, ma interiorizza l’esistenza di una mobilità che gli consente di trasformare la propria vita in base alle proprie esigenze e grazie alle proprie azioni. 

Il passaggio dalla prevalenza dell’etica aristocratica al regime democratico maturo non è né lineare né discreto: le due visioni politiche convivono a lungo, determinando tensioni e confronti che si protraggono ben oltre il collasso della polis. I testi letterari riflettono queste tensioni in vari modi, soprattutto in contesto teatrale, dove le specificità dei codici drammatici favoriscono l’emergere di faglie o discontinuità nelle visioni del mondo dei personaggi contrapposti, o nel sistema di valori sotteso al singolo testo. La dialettica di fondo tra le due visioni del mondo si apprezza con particolare chiarezza nelle tragedie di Eschilo, dove intere tragedie ruotano intorno al conflitto tra il determinismo essenzialista del ghenos e del destino e lo spazio di libertà concesso all’azione dell’individuo e dei gruppi sociali (Grilli 2018b). La conclusione delle Eumenidi, ad esempio, aggiorna la visione etico-politica arcaica (vincolata al rispetto di leggi divine immutabili, e non negoziabili nemmeno di fronte all’evidente aporia della vicenda atridica) in nome di principi che accolgono ormai come prevalenti le ragioni di una comunità istituzionalmente organizzata. Nei termini del mio discorso, il superamento delle leggi di sangue, propugnate e difese dalle Erinni fino allo scontro persuasivo che le trasforma in divinità benevole, va inteso come superamento di una visione del mondo religiosa non modificabile dall’azione umana nella storia; la novità di cui è segno la fondazione del tribunale dell’Areopago consiste invece nella creazione di uno spazio per l’azione condivisa, cristallizzata in un istituto la cui fondazione divina ne maschera appena le prerogative strutturalmente laiche. L’avallo rappresentato dal voto di Atena garantisce la continuità dei nuovi istituti umani rispetto a un regime in cui la prerogativa religiosa sottraeva a priori i criteri del giudizio morale a qualsiasi dimensione negoziale. Ora, nell’esercizio delle loro prerogative politiche (immanenti e performative), gli uomini sono finalmente dotati di piena titolarità. 

V

Nel teatro, l’identità performativa è inscritta, com’è ovvio, al centro stesso del codice: il teatro si definisce come intermittenza, interferenza, sovrapposizione delle identità – da un personaggio all’altro come pure tra interprete e personaggio – e suggerisce implicitamente la nozione che le identità, ammesso che siano essenze, sono quanto meno plastiche, imitabili, scambievoli, se non addirittura illusorie. Questo aspetto è ancor più accentuato nella commedia attica antica, dove le trasformazioni identitarie non si limitano a riflettere il nucleo di pratiche rituali dionisiache fondate sull’uscita da sé (ekstasis), ma sostengono un discorso che mira a una complessiva trasformazione del mondo. Il teatro di Aristofane ruota intorno a nuclei drammatici e simbolici che implicano la messa in discussione del mondo nella sua stabilità ontologica, e che evidenziano, con le insistite interruzioni metateatrali dell’illusione scenica e il richiamo al parallelismo tra il mondo e la scena (Slater 2002), la precarietà convenzionale delle situazioni sociali ordinarie, di cui la derisione comica mostra in tanti modi il carattere intrinsecamente instabile o insostenibile. 

Non sorprende dunque che la commedia di Aristofane offra altresì numerosi spunti tematici e drammaturgici che rimandano alla nozione di identità performativa, in primo luogo con la messa in scena di vere e proprie situazioni meta-performative (sulla differenza tra metateatrale e metaperformativo vd. Grilli, Morosi 2023, 42 ss.), ma anche con l’insistenza sui temi del travestimento e dello scambio/trasformazione di personalità. Un esame sistematico di tutte le occorrenze richiederebbe uno studio molto esteso, ma forse già una semplice analisi a campione permette di rispondere alle domande che qui ci stanno a cuore: che ruolo svolgono questi spunti di identità performativa nelle situazioni di scontro dialettico? È possibile far leva sulla visione performativa dell’identità per interpretare specifici personaggi o categorie di personaggi? E – ammesso che sia possibile identificarla con precisione – è possibile individuare nel macrotesto aristofaneo una tendenza ideologica generale in relazione alla visione performativa? 

Rispondere a queste domande non è semplice, in primo luogo per la difficoltà di riconoscere specifiche posture ideologiche in un enunciato come il testo drammatico, che si fonda sulla contrapposizione di punti di vista strutturalmente contrapposti. Ma è anche la specificità delle dinamiche comiche a complicare le cose, dal momento che i dispositivi del riso, dalla parodia all’ironia, dalla battuta aggressiva al paradosso, presuppongono sempre lo sdoppiamento e la stratificazione di livelli logici ed espressivi, con un’embricatura dei piani enunciativi ineguagliata nel discorso serio. 

Se considerata nel suo complesso in base ai tratti di codice, la commedia (non solo di Aristofane) risulta allineata in prima battuta a presupposti essenzialisti. Per quanto sorprendente, questa affermazione è facile da argomentare: ridotta al suo nucleo più primitivo, infatti, la commedia si fonda sul riso aggressivo, che a sua volta si basa sulla complicità che si crea tra derisore e co-ridenti (Ceccarelli 1988) ai danni di una vittima (Freud [1905] 1972). Questa contrapposizione, che replica in miniatura i connotati della dinamica vittimaria teorizzata e descritta da René Girard ([1972] 1980), si manifesta come sanzione di tratti o di comportamenti trasgressivi, che isolano la vittima rispetto all’orizzonte solidale di derisore e astanti. Nei termini della polarità che qui ci interessa, le regole di cui si sanziona col riso l’infrazione vengono presupposte come qualità essenziali, e l’irrisione fa leva appunto sul degrado che scaturisce dal loro mancato rispetto da parte della vittima. 

Un esempio eloquente è la rappresentazione comica dell’effeminatezza e dell’inversione sessuale, che nella commedia di Aristofane affiora implacabile da un capo all’altro della sua produzione conservata (si pensi solo al dileggio di cui è oggetto Clistene in Acarnesi, 117-21; Cavalieri, 1373-4; Nuvole, 355; Uccelli, 829-31; Tesmoforiazuse, 235 e 574-5 e 582-3; Lisistrata, 1092; Rane, 57 e 422-4). È evidente che nella rappresentazione censoria di Clistene o di analoghi κωμῳδούμενοι tutto fa leva sulla fiducia condivisa (tra testo e destinatario) in un profilo stabile e ‘naturale’ delle identità di genere. Se il testo non potesse far leva su una visione essenzialista dell’identità maschile, e su una gerarchizzazione delle categorie di genere (Sacks 1992), la derisione non sarebbe possibile, perché non sarebbe possibile assumere una postura di superiorità su una vittima inchiodata al suo ‘scadimento’ categoriale. 

Tuttavia, anche se questa considerazione preliminare induce a leggere come essenzialista la postura di fondo della commedia, le cose non sono così semplici: è chiaro infatti che il riso aggressivo è un tratto elementare del codice comico, una componente tanto necessaria quanto convenzionale e stereotipa; sarebbe immetodico, dunque, considerarla come un indizio di una specifica tendenza ideologica. Il prologo delle Rane (vv. 1-18), con la sua straordinaria retorica della preterizione, dimostra ad abundantiam la difficile posizione del poeta ‘impegnato’: nel processo di costruzione di un rapporto empatico con il pubblico, Aristofane sa benissimo di non poter prescindere dal repertorio tradizionale di lazzi volgari, che continua a impiegare senza remore, pur prendendone contestualmente le distanze. 

Anche astraendo dalla considerazione di elementi stereotipi del codice comico, tuttavia, la commedia mostra in più occasioni una tendenziale inclinazione a rappresentare negativamente la dimensione performativa dell’identità. In molti passi, come nell’assemblea all’inizio degli Acarnesi, i tratti performativi emergono come orpello e mistificazione, e suscitano lo sdegno del protagonista, che è mosso in primo luogo dall’impulso a smascherarli (vv. 61-64): 

ΚΗ. Οἱ πρέσβεις οἱ παρὰ βασιλέως.
ΔΙ. Ποίου βασιλέως; ῎Αχθομαι ’γὼ πρέσβεσιν
καὶ τοῖς ταὧσι τοῖς τ’ ἀλαζονεύμασιν. ΚΗ. Σίγα.
ΔΙ. Βαβαιάξ. ῏Ωκβάτανα τοῦ σχήματος.

ARALDO | Ecco gli ambasciatori al Re di Persia. DICEOPOLI Ma quale Re di Persia! Scoppio di rabbia a vedere gli ambasciatori, con tutta la loro pompa e i loro imbrogli! ARALDO Sta’ zitto!
DICEOPOLI | (Vedendo entrare in scena gli ambasciatori) Mamma mia! Che apparato esotico!

Rispetto agli ambasciatori inviati da Atene in Persia, che nel loro discorso pervertono il significato stesso del linguaggio, presentando il privilegio e il piacere come sofferenza (Acarnesi, 70-9), Diceopoli è invece sorretto fin dall’inizio da un’istanza di trasparenza e di onestà, che si rivela come sua qualità intrinseca nel momento in cui il personaggio finalmente esplicita il suo nome (Δικαιόπολις καλῶ σ' ὁ Χολλῄδης ἐγώ, “Sono Diceopoli, del demo di Collide”: Acarnesi, 406). Se Diceopoli incarna già nel nome un principio di giustizia, il suo carattere non può che essere percepito come un dato ‘naturale’, stabile ed essenziale. Anche questo elemento, insomma, spingerebbe a ritenere essenzialista l’ideologia di fondo della commedia: le qualità intrinseche del protagonista non possono certo essere liquidate come tratto stereotipo e irrilevante. 

Ma proprio la considerazione della figura al centro dell’azione drammatica mostra i limiti di questa conclusione provvisoria: la drammaturgia aristofanea, infatti, ruota intorno a un progetto fantastico e utopistico che scaturisce dal desiderio e dalle esigenze di un personaggio, che assume il ruolo protagonistico precisamente nel momento in cui afferma la propria volontà con energie sufficienti a dar seguito e realizzare la sua ‘idea’. Il tratto definitorio dell’‘eroe comico’, insomma (Whitman 1964; Grilli 2021), consiste precisamente nel dar prova di una capacità trasformativa che investe non solo il personaggio, ma il suo intero universo: alla fine della commedia di Aristofane, l’eroe non è più l’individuo conculcato e perdente dai cui lamenti prende avvio il dramma, ma ‘un’altra persona’, definita dalla capacità metamorfica del proprio desiderio e dalle azioni che è stato in grado di realizzare.

La conferma più lampante di questa proprietà dell’eroismo comico si trova negli Uccelli. Lì il protagonista Pisetero e il suo compagno Evelpide entrano in scena come rispettabili cittadini che la polypragmosyne di Atene ha spinto a fuggire dalla madrepatria. In realtà i due fuggono la loro stessa debolezza: sono vecchi, aspettano solo di andare ἐς κόρακας (“ai corvi”, cioè all’altro mondo: Av. 28), hanno debiti che preferirebbero non pagare (vv. 115-6). Non appena formulata l’idea comica (vv. 162-93), Pisetero inizia la sua parabola ascendente e non arretra nemmeno di fronte allo scontro con la divinità suprema, di cui alla fine prende il posto (v. 1765). Interessante osservare come il suo progetto di trasformazione coinvolga non solo la sua persona, ma il suo intero contesto, senza limitazioni: il mondo stesso verrà trasformato dalla sua capacità di affabulazione, forte del potere magico-poetico del discorso fantastico (questo il senso profondo del gioco di parole πόλος/πόλις ai vv. 179-84). Anche gli uccelli, inizialmente ostili o riluttanti, finiranno per abbracciare una nuova identità grazie alle parole dell’eroe, che li convince di avere tutti i diritti per recuperare una perduta posizione di primato universale (vv. 466 ss.).

La vicenda drammatica, in altre parole, non è altro che la cronaca di una trasformazione, dove le scelte e le energie dispiegate dal personaggio sono il fattore determinante nella costruzione della sua nuova identità. Questa lettura del protagonista eroico si inscrive senza residui in un’ottica performativa: l’eroe comico non è altro che l’effetto delle sue proprie azioni, e conferma dunque la tendenziale adesione della commedia aristofanea a una visione performativa dell’identità. 

Un corollario della mia argomentazione potrà riuscire forse gradito agli studiosi che considerano legittimi solo i ragionamenti storicisti: se torniamo alla contrapposizione abbozzata sopra tra la connotazione in ultima analisi aristocratica dell’essenzialismo, e la performatività tipica invece della prospettiva democratica, constatiamo con forse non troppo grande sorpresa che il profilo dell’eroe comico di Aristofane risulta di fatto pensabile solo all’interno di una polis democratica come l’Atene del V secolo. A distanza di solo pochi decenni dall’apogeo della commedia attica antica, cioè a partire dalla sconfitta di Atene nella guerra contro Sparta, quel tipo di identità (performativa) avrebbe smesso di essere non solo attraente e popolare, ma anche solo pensabile. Lo rivela il conformismo etico dell’eroe della commedia nuova, dove il protagonista (che non è più un individuo eroico, ma una funzione scissa nella diade servo/padrone: Grilli 2020-2021, in particolare 200-1) si muove lungo un percorso che lo porta non a trasformare se stesso e il mondo in base alle proprie esigenze idiosincratiche, ma ad adattarsi a esigenze codificate e stereotipe, che gli permetteranno alla fine di diventare solo una copia conforme dei suoi predecessori. 

VI

La prova più eloquente di questa intima connessione tra energia eroica del(la) protagonista e visione performativa dell’identità si trova nell’agone di Lisistrata, dove Lisistrata si trova a difendere le proprie posizioni di fronte a un Commissario che rappresenta non tanto la comunità politica ateniese quanto l’insieme degli uomini contro cui viene portato avanti il progetto sovversivo delle donne (sviluppo qui un discorso già avviato nel capitolo 4 di Grilli 2021). Il dibattito tra i due personaggi culmina in uno scambio particolarmente significativo (vv. 530-8):

ΠΡ. σοί γ᾽, ὦ κατάρατε, σιωπῶ ’γώ, καὶ ταῦτα κάλυμμα ϕορούσῃ 
περὶ τὴν κεϕαλήν; μή νυν ζῴην. ΛΥ. ἀλλ’ εἰ τοῦτ’ ἐμπόδιόν σοι, 
παρ’ ἐμοῦ τουτὶ τὸ κάλυμμα λαβὼν 
ἔχε καὶ περίθου περὶ τὴν κεϕαλήν, 
κᾆτα σιώπα. 
ΚA. Καὶ τουτονγὶ τὸν καλαθίσκον. 
ΛΥ. Κᾆτα ξαίνειν ξυζωσάμενος 
κυάμους τρώγων· 
   πόλεμος δὲ γυναιξὶ μελήσει.

COMMISSARIO Dovrei stare zitto di fronte a te, maledetta? A te che porti addirittura un fazzoletto in capo? Piuttosto morire. 
LISISTRATA Ma se ti dà fastidio il fazzoletto, eccolo, prendilo e mettitelo in testa tu, e poi sta’ zitto! 
CALONICE E prendi anche questo cestino. 
LISISTRATA E poi tirati su il vestito e mettiti a filare, con le fave in bocca. “Alla guerra penseranno le donne!”

Dopo che lo scambio precedente aveva reso saliente la sua perdita di titolarità (Sacks 1992, I, 242 ss.), il Commissario fa appello alla struttura gerarchica delle categorie sociali con una battuta ispirata a un essenzialismo radicale: poiché tacere è una prerogativa delle donne, e poiché l’appartenenza alla categoria delle donne è segnalata tra l’altro dai loro indumenti, e poiché in commedia si può spesso far leva sullo scambio di accessorio e necessario (in base alle prerogative della logica dell’inconscio: Matte Blanco 1975, su cui torneremo tra poco), al Commissario basta contestare la sola presenza dell’accessorio per implicare il necessario e rifiutarsi di tacere. Nelle sue parole è infatti implicito il seguente ragionamento: tacere di fronte agli altri è una Category Bound Activity delle donne (Sacks 1992, I, 40), cioè una prerogativa categoriale che definisce l’identità femminile, esattamente come lo è indossare il fazzoletto che copre i capelli; queste prerogative non sono casuali, ma rispecchiano l’essenza identitaria della donna, e la rispecchiano allo stesso titolo. La donna pertanto non può mai smettere di essere quello che è in quanto la sua identità naturale e inalterabile consiste tanto nel portare fazzoletti in testa quanto nel tacere di fronte agli uomini. Poiché le prerogative sono in distribuzione differenziale, e il tacere è connaturato alla condizione femminile, che un soggetto maschile come me possa tacere di fronte a una donna è semplicemente incompatibile con la logica (oltre che con la conservazione dell’identità: donde Μή νυν ζῴην, “Piuttosto morire”).

La visione progressista/sovversiva portata avanti da Lisistrata in questo passo è invece chiaramente conforme a una visione performativa dell’identità. In questa prospettiva l’identità non è definita a priori da connotati essenziali e connaturati ai soggetti sociali; essa è pensata invece come un semplice effetto delle azioni eseguite da quei soggetti. La posizione di Lisistrata è congruente con il sostrato carnevalesco proprio della commedia (Bachtin [1965] 1979; Carrière 1979), e di cui questa scena ci offre un esempio smagliante. Come sa bene qualunque lettore di Aristofane, il mondo della commedia è fondato precisamente sull’inversione e lo scambio di prerogative, che vengono dunque considerate e trattate come elementi mobili di identità risolte nella performance. Come ho accennato sopra, la trasformazione del protagonista, che da individuo vessato e risentito finisce per incarnare l’idea stessa dell’appagamento, conferma più di ogni altro elemento il quadro performativo entro cui si inscrive la drammaturgia aristofanea. Peraltro questo non è incompatibile col paradigma essenzialista cui sappiamo ispirate le visioni del mondo di quasi tutte le epoche passate, Atene classica compresa. La performance carnevalizzata esplora infatti con finalità sublimatoria i paradossi di un mondo in cui le cose non sono più quello che sono, come tutti pensano nella serietà della vita quotidiana, ma che per un momento si spogliano dei loro tratti essenziali e li lasciano fluttuare liberamente, generando gli universi alternativi della commedia. 

L’ipotesi performativa trionfa nell’agone di Lisistrata: di fronte all’obiezione essenzialista del Commissario, Lisistrata risponde in un modo che non ha bisogno di ulteriori commenti: la condizione femminile, cioè la titolarità che ne definisce gli angusti limiti identitari, non è altro che un fazzoletto da capo, che come tale si può togliere e passare ad altri senza problemi. Se stare zitti è prerogativa delle donne, basta trasformare in donna il Commissario e il gioco è fatto. Segue il travestimento forzoso del Commissario, che inutilmente cerca di sottrarsi. Al di là della ridicola degradazione del Commissario, la comicità di questa scena si rivela ispirata a una sorta di logica alternativa, ‘magica’, che non ha problemi a invertire tratti accessori e necessari, o a trattare elementi contingenti come sostanziali. Questa logica alternativa, che, in quanto principio di aggregazione fantastica, è implicita in ogni discorso letterario, agisce anche nella realtà primaria, pur se limitata a situazioni sociali o psichiche particolari come il gioco, il pensiero infantile, le occasionali manifestazioni dell’inconscio. 

Un remoto parallelo letterario illustra al meglio lo spirito al cuore del travestimento imposto al Commissario: in un romanzo inglese contemporaneo, The Cement Garden di Ian McEwan (1978), uno dei personaggi, il bambino Tom, decide di trasformarsi in una bambina per evitare di essere picchiato dai compagni di scuola. La motivazione che Tom adduce ai suoi fratelli (“you don’t get hit when you’re a girl”, McEwan 1978, 47) è conforme a un pensiero tipicamente infantile; nell’orizzonte della narrazione essa risulta comicamente incongrua (Tom finirà per essere picchiato lo stesso) ma ai nostri occhi essa si rivela straordinariamente illuminante sul piano teorico-letterario: la letteratura, infatti, è uno dei luoghi privilegiati per l’emersione di logiche alternative come quella dell’inconscio, identificata a studiata dallo psicoanalista cileno Ignacio Matte Blanco (1975), il cui tratto principale, come in questi casi, è precisamente prescindere dalla nozione di una ‘essenza’ delle cose, perché ogni attributo, non importa quanto occasionale, può essere trattato come la cosa stessa. L’inconscio è senz’altro performativo, perché, come sottolinea Matte Blanco, non fa distinzione tra significante e significato, tra prima e dopo, tra classi ed elementi. Questo spiega come mai in letteratura – e in Aristofane in particolare – le metafore letteralizzate siano un dispositivo di così grande rilievo. Se la logica razionale è fondata sull’asimmetria (e distingue pertanto tra prima e dopo, effetto e causa, accessorio e necessario, classe ed elemento), la logica inconscia funziona solo in base a un principio di simmetria (Matte Blanco 1975, 61 ss.). Per questo motivo i tratti performativi, che in base a una logica razionale sarebbero solo elementi accessori e irrilevanti per la determinazione delle identità, finiscono per risultare essenziali sul piano della fantasia comica, tanto più che essi permettono di concretizzare il punto di vista eroico sottolineandone la pregnanza e la capacità demiurgica. 

Lo conferma il confronto con la vicenda degli Uccelli: di fronte all’argomentazione di Pisetero, che li sta convincendo di poter essere i nuovi dei, gli uccelli si mostrano titubanti, perché sanno che l’identità dipende da ciò che gli altri pensano di noi (Καὶ πῶς ἡμᾶς νομιοῦσι θεοὺς ἄνθρωποι κοὐχὶ κολοιούς, | οἳ πετόμεσθα πτέρυγάς τ' ἔχομεν; “Ma come faranno gli uomini a considerarci divinità, e non un branco di corbacci? Noi voliamo e abbiamo le ali...”: vv. 571-2). In modo del tutto conforme con la logica paradossale della fantasia, Pisetero risponde con un paralogismo del tutto simile a quello di Lisistrata con il Commissario: voi avete le ali, alcuni dei hanno le ali, dunque tra voi e gli dei non c’è nessuna differenza, anche voi siete dei (vv. 572-6)!

Ecco perché in Lisistrata è possibile quello che non potrebbe mai esserlo in un mondo essenzialista come quello governato dal ‘buon senso’: nel mondo performativo della commedia basta passare al Commissario un “fazzoletto” (κάλυμμα), un “cestino” pieno di lana (καλαθίσκον) e le “fave” usate dalle filatrici per stimolare la produzione di saliva (κυάμους τρώγων: da notare che il corpo estraneo in bocca è anche un ostacolo alla parola), ed ecco trasformato un uomo pubblico in una timida e silente donna di casa. Nella situazione così rovesciata, le donne potranno finalmente affermare a gran voce la conquista della titolarità politica: πόλεμος δὲ γυναιξὶ μελήσει (“Alla guerra penseranno le donne”, v. 538). 

La dinamica di questa scena mostra infine al di là di ogni dubbio che la titolarità è un bene esclusivo (Lombardi Vallauri 1981, 456-88), ovverosia un gioco a somma zero: il suo godimento è basato su un regime differenziale, dove la categoria dotata di titolarità si definisce per opposizione rispetto a una categoria che ne è priva (e che dunque, all’occorrenza, ne deve essere privata). Nell’inversione realizzata dal progetto di Lisistrata, la titolarità conquistata dalle donne non può essere pacificamente condivisa con gli uomini, ma implica logicamente che essi ne vengano estromessi, come in effetti avviene nel momento dello scambio di ruoli. Anche nella presentazione del programma ‘politico’, Lisistrata mostra chiaramente che il recupero di agency da parte di un soggetto implica in primo luogo la riduzione e la riconfigurazione di quella altrui: una volta messa fine alla guerra, dice Lisistrata al Commissario, le donne impediranno agli uomini di andare a far compere in armatura, come matti (Lys., 555-6). La prima manifestazione di agentività eroica è infatti impedire l’azione altrui, come avviene appunto nel caso di Pisetero che, contestualmente alla prima anticipazione del suo progetto utopico, si premura di ingiungere agli uccelli di smettere di fare ciò che li qualifica (svolazzare qua e là: Av., 165-70). L’azione delle donne punta dunque a sostituirsi a quella degli uomini: il rovesciamento della gerarchia precedente non ha la forma di un’utopia ‘gilanica’ in cui uomini e donne hanno pari dignità e doveri (Eisler [1987] 2014, cap. 8), ma la forma di un patriarcato capovolto, con il vertice occupato (esclusivamente, seppure pro tempore) dalle donne. 

Questa connotazione ‘matriarcale’ è confermata dal fatto che il Coro apre la seconda metà dell’agone apostrofando l’eroina come “la più valorosa tra le balie” (al verso 549: τηθῶν ἀνδρειοτάτη, confermato al verso 1108: πασῶν ἀνδρειοτάτη, “la più valorosa di tutte”), con un attributo che etimologicamente evidenzia l’ossimorica maschilizzazione implicita nel femminile eroico. Non solo: il riferimento alla balia evoca connotativamente la critica rivolta dal Salsicciaio al Paflagone nei Cavalieri (ai versi 716-8), in cui le balie non sono un termine di confronto positivo, ma rappresentano un caso di cattiva tutela: κᾆθ’ ὥσπερ αἱ τίτθαι γε σιτίζεις κακῶς. | μασώμενος γὰρ τῷ μὲν ὀλίγον ἐντίθης, | αὐτὸς δ’ ἐκείνου τριπλάσιον κατέσπακας (“E allora nel nutrire sei pessimo come le balie: del boccone che mastichi ne metti in bocca un po’ al bambino quando tu ne trangugi tre volte tanto”). Naturalmente il rapporto tra Lisistrata e Cavalieri non è di allusione diretta (tanto più che i termini per ‘balia’ sono diversi), ma ci interessa perché mostra come la balia, in quanto soggetto deputato alla cura, fosse un termine di confronto metaforico per le figure di autorità politica. Lisistrata acquista dunque lo statuto di un politico che, in quanto tale, potrebbe abusare della sua autorità, ma rivela il suo valore proprio perché non lo fa.

Sempre a livello di impliciti, l’espressione assimila il Commissario (e con lui la collettività maschile che egli rappresenta) a un bambino, cosa congruente, come abbiamo visto, con diversi elementi di questa scena. Lisistrata riceve infine da questo appellativo una sorta di investitura che colloca la sua autorità all’insegna del ruolo materno. L’opportunità dell’accenno è evidente: quello materno è l’unico ruolo sociale in cui la cultura attribuisca alla donna un’autorità sull’uomo in termini esenti da demonizzazione (Grilli 2012, 127 ss.). La figura di Lisistrata viene dunque connotata come autoritaria ma di un’autorità benevola e responsabile, dedita al bene della città come lo sono alla prole le figure materne (e affini).

Un ultimo elemento di interesse emerge dall’agone tra Lisistrata e il Commissario per quanto attiene i rapporti tra titolarità e gerarchie sociali. La simmetria delle due metà agonali (Lys., 476-538 ~ 541-607) mette infatti in evidenza che al forzoso travestimento del Commissario da donna realizzato nello pnigos (vv. 532-8) corrisponde, alla fine dell’antipnigos, un travestimento da cadavere (vv. 599-607). Nella logica dello scontro questo non è altro che un’uccisione eufemistica del nemico, nemmeno troppo stilizzata, per giunta (v. 599: σὺ δὲ δὴ τί μαθὼν οὐκ ἀποθνῄσκεις; “Ma perché non muori?”). Se ci si riferisce ai sistemi gerarchizzati di categorie sociali questa corrispondenza formale risulta tuttavia particolarmente illuminante perché accentua e permette di cogliere la logica simbolica sottesa all’intero scontro agonale. Nel trasformare il Commissario da full Member a cadavere, Lisistrata e le altre donne delineano un percorso in tre tappe la cui tappa intermedia è la condizione femminile: full Member ⇒ donna ⇒ cadavere. È chiaro che il cadavere sta per il non-soggetto, cioè per quel soggetto che, in quanto letteralmente de-funto, cioè cessato dalla carica, non può più occupare alcuna posizione all’interno del sistema delle gerarchie sociali. Ma il percorso in tre tappe ha anche un’articolazione formale: alla prima corrisponde l’identità del Commissario prima dello scontro. Le altre due, invece (i travestimenti da donna e da morto), si rispecchiano nella simmetria della struttura agonale: la prima è il ‘botto’ con cui termina la prima metà (pnigos), mentre la seconda è il fuoco d’artificio con cui si conclude l’intero agone (antipnigos). I parafernalia del morto si configurano così, in base alla semiotica delle corrispondenze formali e alla logica del rincaro iperbolico e del fulmen in clausula, come una sorta di svelamento di ciò che il travestimento da filatrice suggeriva soltanto: la categoria stessa delle donne, in rapporto a quella dei soggetti full Members, si trova in una condizione di cosiddetta ‘morte sociale’. 

La nozione di “social death”, che mi sembra sia associata qui alla condizione femminile in termini di richiamo connotativo, è stata introdotta da uno studio epocale sulla sociologia della schiavitù (Patterson [1982] 2018). Il suo autore sostiene, sulla base di un’analisi comparativa della condizione di schiavo in decine e decine di culture antiche e moderne, che lo specifico della condizione schiavile è dato da una vera e propria soppressione della persona come soggetto sociale: in un sistema sociale lo schiavo occupa a tutti gli effetti la stessa posizione del defunto. Il confronto agonale tra Lisistrata e il Commissario, e in particolare l’equivalenza implicita tra femminilizzare e sopprimere, rivelano dunque che la distanza tra la donna e lo schiavo è molto minore di quella che separa l’uomo dalla donna. Questo spiega come mai nel tafferuglio che precede l’agone vero e proprio, Lisistrata fronteggi il Commissario cominciando proprio col prendere le distanze dalla categoria estrema (vv. 463-5): πότερον ἐπὶ δούλας τινὰς | ἥκειν ἐνόμισας, ἢ γυναιξὶν οὐκ οἴει | χολὴν ἐνεῖναι; “Pensavi di trovarti di fronte delle schiave? Credi che le donne non abbiano fegato?”. Nella sua conquista della condizione di full Member il primo passo è scrollarsi di dosso il peso della ‘morte sociale’ che aleggia sulla donna come categoria.

VII

L’analisi dello scontro tra Lisistrata e il Commissario sembra una netta conferma del rilievo che la visione performativa dell’identità assume nella commedia di Aristofane: la vittoria della protagonista sull’avversario si traduce in un travestimento forzoso che rivela, al di là degli spunti di comicità farsesca, un presupposto fondamentale: le identità sono il prodotto di attributi convenzionali, di cui non è metodico postulare la necessità essenziale. A trasformare i soggetti basta l’azione intrapresa: lo spostamento degli attributi che sancisce il compimento di quell’azione non fa che estrinsecare sul piano semiotico il nuovo assetto delle identità. 

Ma la commedia si sostanzia di negazione e ambivalenza, requisiti indispensabili per il distanziamento che si realizza nel riso. Ancora una volta, temo, la conclusione raggiunta va messa in discussione. Siamo partiti infatti dall’osservazione che la commedia è essenzialista perché il riso aggressivo non funziona se non agganciato a una visione stabile e ‘naturale’ delle identità e l’abbiamo poi aggiornata per dar conto del carattere performativo proprio dell’impianto drammaturgico della commedia attica antica: l’eroe di Aristofane non si limita a realizzare l’idea comica, ma si trasforma per effetto delle sue azioni e perfeziona il suo successo con un vero e proprio aggiornamento identitario. Non resta che verificare l’ipotesi che queste conclusioni ‘performative’ di Lisistrata (a loro volta rappresentative di tanti altri luoghi del corpus aristofaneo) si possano considerare valide in generale e espressione della tendenza ideologica dell’intera commedia aristofanea. 

Dovremo a quel punto fare i conti con un evidente controesempio. Mi riferisco alla scena postparabatica delle Vespe (ai versi 1122 ss.), in cui Bdelicleone, dopo aver trionfato dialetticamente di suo padre nella seconda parte dell’agone epirrematico (ai versi 650 ss.), cerca di familiarizzarlo con gli usi del simposio, a partire da un’illustrazione pratica delle regole vestimentarie da seguire in quel contesto. Sul piano drammaturgico, il dialogo tra Bdelicleone e Filocleone è affine alla scena di Lisistrata: un personaggio, portatore del messaggio ideologicamente ‘legittimo’ sotteso al testo, cerca di trasformare l’identità del suo interlocutore a partire dagli attributi esterni del suo abbigliamento: 

Φι. τί οὖν κελεύεις δρᾶν με; 
Βδ.                                          τὸν τρίβων’ ἄϕες, 
τηνδὶ δὲ χλαῖναν ἀναβαλοῦ τριβωνικῶς.
Φι. ἔπειτα παῖδας χρὴ ϕυτεύειν καὶ τρέϕειν, 
ὅθ’ οὑτοσί με νῦν ἀποπνῖξαι βούλεται; 
Βδ. ἔχ’, ἀναβαλοῦ τηνδὶ λαβών, καὶ μὴ λάλει.
 


FILOCLEONE Agli ordini! Cosa devo fare? 
BDELICLEONE Togliti il vestitino, e mettiti invece questo mantello, e portalo come un damerino. 
FILOCLEONE Dopo uno dice: “Fate figli!”: questo qua mi vuole far morire soffocato!
BDELICLEONE Tieni, mettitelo e stai zitto!

Gli elementi affini sono evidenti, nei versi citati e nel resto della scena: il ‘vestitore’ ha acquisito agency rispetto alla controparte (κελεύεις), e ne approfitta per esercitare il suo potere (la scena presuppone un atteggiamento piuttosto brusco in Bdelicleone, segnalato da dettagli come μὴ λάλει). Il personaggio che subisce la trasformazione, da parte sua, si mostra perfettamente consapevole degli impliciti posizionali: la prima reazione di Filocleone arriva addirittura a ipotizzare una volontà omicida (οὑτοσί με νῦν ἀποπνῖξαι βούλεται). Ma al di là di queste analogie formali la pragmatica della scena è totalmente diversa da quella dell’agone di Lisistrata. Nel primo caso la femminilizzazione imposta al Commissario realizza il progetto della protagonista, che si afferma finalmente contro il suo avversario, mentre nelle Vespe il tentato travestimento si configura come una prevaricazione inaccettabile, intrapresa da un personaggio cui fa difetto, nonostante la ragione ‘teorica’, precisamente il supporto che l’adesione empatica del destinatario garantisce al protagonista drammatico. 

Come messo in evidenza da un’approfondita analisi di Guido Paduano (1974), le Vespe sono una commedia paradossale in cui la ragione politica, che è tutta dalla parte di Bdelicleone, è scissa e indipendente dal ruolo drammaturgico: l’indiscusso protagonista drammatico è il vecchio Filocleone, che catalizza l’empatia del destinatario nonostante la sua aberrante e miope adesione alla parte democratica. Ma questo non deve stupire: alla radice dei ruoli drammatici aristofanei non c’è necessariamente un’idea politica razionalmente condivisibile, anche se nella maggior parte delle commedie il protagonista drammatico è anche portavoce di un progetto razionalmente condiviso (Grilli 2021,144 ss.). Ciò che più conta è l’energia pulsionale ed ‘esistenziale’ del personaggio, la sua forza vitale, rispetto alla quale tutti gli altri fattori passano in secondo piano (ivi, 188 ss.). Anche l’opinione politica ‘sbagliata’ di Filocleone, insomma, si presta a essere compresa, in termini di strutture drammatiche, come uno dei tanti fattori che ostacolano l’affermazione libidica del vecchio protagonista, unico fattore in grado di elicitare nel destinatario un’adesione emozionale senza riserve. 

Ecco perché la scena del travestimento di Filocleone, pur configurandosi come scenicamente affine all’agone di Lisistrata, determina una risposta emozionale completamente diversa: il travestimento da aristocratico bempensante, con cui Bdelicleone si illude di poter inserire suo padre nel raffinato contesto del simposio, non è la concretizzazione della sua vittoria argomentativa di poco prima, ma si configura al contrario come un tentativo di soffocare (ἀποπνῖξαι) le peculiarità irriducibili di Filocleone, rispetto alle quali non è mai venuta meno l’adesione emotiva e la simpatia ideologica del destinatario. 

Questi tratti del personaggio verranno fuori nel modo più squillante proprio nel suo mancato rispetto delle regole inutilmente presentate da suo figlio: ubriacandosi senza misura, e fuggendo poi via dal simposio insieme alla flautista (ἔπειτ’, ἐπειδὴ ’μέθυεν, οἴκαδ’ ἔρχεται | τύπτων ἅπαντας, ἤν τις αὐτῷ ξυντύχῃ. “E poi, completamente ubriaco, se ne torna a casa, picchiando tutti quelli che gli capita di incontrare”: Vespe, 1322-1323), Filocleone dimostra che lo strato più profondo della sua identità, delineato da esigenze e pulsioni irriducibili, non è negoziabile né plastico, non importa quanto ‘giuste’ siano le ragioni di chi aspira a trasformarlo.

In sintesi: questi due tentativi di travestimento in scena, così vicini per tanti aspetti, sembrerebbero suggerire l’adesione della commedia di Aristofane a una visione performativa dell’identità; a ben vedere, tuttavia, essi si risolvono in due opposte reazioni emozionali del destinatario, che rendono impossibile leggerli come indizio di una tendenza ideologica omogenea o anche solo prevalente in commedia. 

Come possiamo spiegare questa discrasia? La risposta va cercata a mio parere nel rapporto che i tratti performativi intrattengono con le nervature drammatiche del testo. La visione performativa dell’identità va considerata pregnante solo finché risulta alleata della funzione eroica, e dell’adesione empatica che di quella funzione è sostegno e misura. Solo quando la trasformazione performativa esprime la tendenza immanente al ruolo eroico il testo la propone come dinamica positiva che perfeziona sul piano semiotico il successo dell’eroe, rendendola di fatto leggibile come espressione della tendenza generale del dramma (Lisistrata è senz’altro un dramma che avalla la nozione performativa di identità). Quando invece la trasformazione è contraria alla linea di sviluppo che conduce il personaggio principale verso la realizzazione delle proprie istanze, allora la visione performativa si limita a manifestare il carattere illusorio, ingannevole e precario delle identità da superare (le Vespe, a differenza di Lisistrata, sono decisamente una commedia essenzialista). 

In generale, nel quadro del codice comico aristofaneo la visione performativa dell’identità si può considerare un indicatore semiotico neutro. Finché la trasformazione messa in scena realizza o avalla un’evoluzione drammaticamente positiva, come nel caso di Lisistrata, allora la visione performativa dell’identità è coerente con la tendenza ideologica complessiva del dramma. Quando invece il travestimento va contro le linee di sviluppo delineate dal progetto del protagonista, allora l’opzione performativa si configura come mistificazione, orpello, velleità. 

Altri esempi, che non ho modo qui di analizzare in dettaglio, danno tuttavia un’idea della regola che ho sommariamente enunciato: la dimensione performativa dell’identità appare come sostanziale e pregnante solo nella misura in cui concretizza la visione più o meno idiosincratica del protagonista. Negli altri casi è solo accidente e mistificazione. La cosa risulta in modo molto chiaro nell’interazione tra Carione e il Sicofante nel Pluto (vv. 926-43). Dopo aver prosperato in un regime in cui la cecità di Pluto ha impedito la realizzazione della giustizia retributiva, il Sicofante si trova a fare i conti con il rovesciamento utopistico promosso da Cremilo e dai suoi alleati, a seguito del quale i giusti sono premiati con una ricchezza etica e meritata. Gli ingiusti, per converso, sono tagliati fuori dai nuovi percorsi della prosperità. In questo nuovo regime è del tutto ‘naturale’ che il Sicofante si trovi spogliato dei suoi abiti da ricco, e venga invitato a indossare gli stracci che l’Uomo Giusto era venuto a consacrare al Dio come pegno di gratitudine per la prosperità finalmente conquistata (ai versi 935-9): 

ΚΑ.                       Δὸς σύ μοι τὸ τριβώνιον,
ἵν' ἀμφιέσω τὸν συκοφάντην τουτονί.
ΔΙ. Μὴ δῆθ'· ἱερὸν γάρ ἐστι τοῦ Πλούτου πάλαι. 
ΚΑ. ῎Επειτα ποῦ κάλλιον ἀνατεθήσεται
ἢ περὶ πονηρὸν ἄνδρα καὶ τοιχωρύχον;
Πλοῦτον δὲ κοσμεῖν ἱματίοις σεμνοῖς πρέπει.

CARIONE Dammi il mantello vecchio, lo voglio mettere addosso proprio a questo qui (accenna al Sicofante). 
L’UOMO GIUSTO No no: ho già promesso di consacrarla a Pluto! 
CARIONE E quale posto migliore per consacrarla se non addosso a un farabutto rapinatore? A Pluto invece sta bene offrire capi di pregio. 

Anche in questo caso emergono gli stessi presupposti dello scontro di Lisistrata con il Commissario: i tratti esteriori rivelano l’essenza della persona (gli abiti sono o sembrano inscindibili dall’identità di chi li indossa), ma nel mondo ‘carnevalesco’ della commedia possono felicemente essere attribuiti ad altri, in un’inversione delle parti che è essa stessa una forma di giustizia distributiva (la povertà dell’Uomo giusto viene trasferita su un individuo antonomasticamente ingiusto come il Sicofante, esattamente come Lisistrata trasferisce la propria debolezza categoriale sul Commissario mettendogli addosso il proprio fazzoletto).

Va osservato in proposito che il travestimento, se operato dal protagonista drammatico o da chi ne fa le veci (come Carione nei confronti di Cremilo: Grilli 2021, 169 ss.), funziona come un dispositivo di ‘riallineamento etico-semiotico’: dal momento che il cancro sociale più diffuso nella realtà primaria è la discrasia tra merito e remunerazione (deprecato da Aristofane con straordinaria costanza dal prologo degli Acarnesi al Pluto, appunto), o tra capacità e titolarità all’azione, l’identità performativa permette finalmente di concretizzare l’utopia di un mondo in cui le qualità interiori non sono più occultate o misconosciute, ma risultano visibili anche dall’esterno. Le vesti femminili che fanno finalmente tacere il Commissario, come gli abiti da povero che mortificano il Sicofante, sono il risultato di un processo fantastico che permette finalmente ai significanti (cioè agli attributi identitari) di essere in totale armonia con i significati (cioè con le capacità e le qualità morali dei soggetti). 

Il confronto tra Lisistrata e Pluto mette in evidenza anche un altro aspetto importante: anche se l’oggetto del contendere sembra diverso nei due casi (dato che in Lisistrata esso coincide con la titolarità all’azione politica, mentre nel Pluto il punto è il successo economico), la drammatizzazione del conflitto in Aristofane li riduce comunque a una dinamica elementare di potere. Più precisamente, il testo dà vita a una situazione in cui la dimensione performativa si fa strumento di riequilibrio rispetto all’esperienza primaria: mentre nel mondo reale le situazioni di squilibrio sono ancorate a fattori inamovibili, come le leggi o le prerogative sociali, in quel mondo di soddisfacimento vicario che è la commedia attica antica lo squilibrio può essere risolto grazie alla stessa azione fantastica della messa in scena.

Sulla stessa linea, il dono del mantello al Poeta degli Uccelli, che entra in scena chiedendo un aiuto materiale a Pisetero, allude in termini di logica simbolica alla frigidità della poesia di quello scocciatore (Paduano 1973), e si configura pertanto ancora una volta come una forma di riallineamento etico-semiotico (Uccelli 931-5): 

ΠΙ. Τουτὶ παρέξει τὸ κακὸν ἡμῖν πράγματα,
εἰ μή τι τούτῳ δόντες ἀποφευξούμεθα.
Οὗτος, σὺ μέντοι σπολάδα καὶ χιτῶν’ ἔχεις, 
ἀπόδυθι καὶ δὸς τῷ ποητῇ τῷ σοφῷ.
῎Εχε τὴν σπολάδα· πάντως δέ μοι ῥιγῶν δοκεῖς.

PISETERO Questo qui ci darà del filo da torcere, se non gli diamo qualcosa e ce ne liberiamo. (A un uomo del seguito) Tu, tu che porti il pellicciotto sopra la tunica, toglitelo e dallo al poeta sapiente. (Al poeta) Eccoti il pellicciotto: mi sembra davvero che tu muoia di freddo!

Come nel caso delle vesti imposte al Commissario o al Sicofante, l’accessorio performativo esplicita o conferma le qualità che vengono attribuite al cattivo poeta dalla prospettiva del protagonista. Ancora una volta, insomma, i tratti performativi non sono altro che una concretizzazione dell’energia plastica dell’eroe comico, che si conferma individuo privilegiato anche in virtù della sua capacità ‘adamitica’ di (ri)definire il mondo a suo arbitrio e in base alla forza creatrice del proprio punto di vista idiosincratico. 

Anche la scena del Megarese negli Acarnesi si può interpretare in questa direzione: la fame ha spinto un povero cittadino di Megara, fedelissima alleata di Atene, a portare al mercato le figlie, che l’uomo cerca di vendere travestendole da maialine (vv. 731-41): 

ΜΕ. ’Αλλ', ὦ πόνηρα κώρι' ἀθλίω πατρός, 
ἄμβατε ποττὰν μᾶδδαν, αἴ χ’ εὕρητέ πα.
Ακούετε δή, ποτέχετ’ ἐμὶν τὰν γαστέρα·
πότερα πεπρᾶσθαι χρῄδδετ’ ἢ πεινῆν κακῶς; 
ΚΟΡΑ Πεπρᾶσθαι πεπρᾶσθαι.
ΜΕ. ’Εγώνγα καὐτός φαμι. Τίς δ’ οὕτως ἄνους
ὃς ὑμέ κα πρίαιτο, φανερὰν ζαμίαν; 
’Αλλ’ ἔστι γάρ μοι Μεγαρικά τις μαχανά· 
χοίρως γὰρ ὑμὲ σκευάσας φασῶ φέρειν.
Περίθεσθε τάσδε τὰς ὁπλὰς τῶν χοιρίων· 
ὅπως δὲ δοξεῖτ’ εἶμεν ἐξ ἀγαθᾶς ὑός· 

MEGARESE Figlie disgraziate di un padre infelice, venite a prendere la pagnotta – se riuscite a trovarla. State a sentire, prestatemi bene… lo stomaco: preferite essere vendute o morire di fame?
FIGLIE Vendute, vendute! 
MEGARESE Eh sì, lo penso anch’io. Ma chi sarebbe così sciocco da comprarsi un accollo come voi? Io però ho trucco megarese: vi travesto e dico che vendo due porcelle. Mettetevi questi zoccoletti da maiale; e fate in modo di sembrare figlie di una troia di razza!

Al di là della comicità farsesca, enfatizzata anche nella traduzione, questo episodio è notevole per la sua capacità di illustrare la logica e la poetica proprie della commedia di Aristofane. Il travestimento da maialine si configura in tutta evidenza come un inganno maldestro e disperato, dettato dalla fame che rischia di sterminare la famiglia del Megarese. La scena acquista però tutto il suo sapore solo se si considera l’ambiguità semantica del greco χοῖρος, che significa, con polisemia non estranea ad altre lingue, sia “maialino” che “fica” (Henderson [1975] 1991, 60-1). Il ‘travestimento’ delle figlie, così, finisce per portare alla luce, dietro la pretestuosità pastorale della tentata vendita, la natura sessuale dello scambio: le due bambine non sono altro che potenziali oggetti sessuali offerti allo sguardo tutt’altro che indifferente del protagonista Diceopoli e del destinatario teatrale, già ben sintonizzato sul punto di vista dell’eroe. La nozione performativa dell’identità, in altre parole, si configura come uno strumento della tavolozza a disposizione del poeta comico, che se ne serve per portare alla luce, cristallizzandoli in elementi concreti dell’aspetto esteriore o del costume, aspetti profondi, nascosti, inediti delle identità, con un’operazione di svelamento che è di fatto una sorta di azione creativa sulle essenze (lo stesso Henderson – ivi, 43 n. 11 – interpreta la scena del Megarese come una letteralizzazione del doppio senso osceno, affine alla logica dei sogni e delle battute di spirito).

Queste considerazioni confermano, mi pare, l’iniziale ipotesi di lavoro che i contenuti propri della visione del mondo performativa non siano tanto espressione di una specifica ideologia dell’autore o del genere letterario, quanto piuttosto strumento a disposizione del drammaturgo, che con essi avalla sul piano espressivo e poetico solo ciò che è già inscritto nella struttura della commedia e nelle sue linee di forza drammatiche. 

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English abstract

This article explores the dynamics of comic dialectics in Aristophanes’ Lysistrata, focusing on the agon between the title character and the Commissioner. Far from being a mere comedic confrontation, their exchange reveals a deeper ideological conflict between two worldviews: one grounded in essentialist assumptions about identity, and the other rooted in a performative conception of subjectivity. Drawing on theoretical frameworks from contemporary gender and performance studies (notably Butler, Goffman, Sacks), the essay demonstrates how Aristophanic comedy anticipates key aspects of modern debates by staging identity as the effect of discursive and social positioning rather than of innate attributes. The scene in question—where Lysistrata symbolically feminizes the Commissioner by dressing him in women’s clothing—dramatizes the reversibility and constructedness of social categories, especially gender roles. This performative turn is not merely theatrical but political: it inverts power relations, reconfigures agency, and underscores the contingent nature of identity. However, the analysis also cautions against reading Aristophanes’ use of performativity as ideologically coherent or univocal. Through comparison with other scenes from the Aristophanic corpus (e.g., Wasps, Plutus, Acharnians), the essay argues that performative identity functions as a dramaturgical device rather than a stable ideological position. It is validated or delegitimized depending on its alignment with the heroic energy and transformative project of the comic protagonist. Thus, while the Lysistrata-Commissioner agon exemplifies a progressive, performative vision of identity, Aristophanic comedy as a whole accommodates both essentialist and performative logics, mobilizing them according to dramaturgical needs rather than ideological consistency. This ambivalence reflects the genre’s core reliance on rhetorical inversion, symbolic violence, and the carnivalesque suspension of social norms.

keywords | Aristophanes; Performativity; Identity; Gender; Lysistrata; Greek Comedy.

La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)

Per citare questo articolo / To cite this article: Alessandro Grilli, Lisistrata e il Commissario. Dialettica comica e identità performativa, “La Rivista di Engramma” n. 225, giugno 2025.

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2025.225.0008