"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

224 | maggio 2025

97888948401

L’Utopia della città in movimento

Luca Ronconi e La Biennale Teatro di Venezia (1974-1976)

Rosaria Ruffini

English abstract

Sono abbastanza sensibile
al fluire,
al mutamento
Luca Ronconi

Venezia 1974-1976. Il principio del movimento

1 | Luca Ronconi durante le prove di Utopia, Ex Cantieri Navali della Giudecca, 1975. Fotografia: Cameraphoto. Courtesy Archivio Storico delle Arti della Biennale di Venezia – ASAC.

Nel 1974, dopo “il volontario esilio di Vienna” (Ronconi 2019, 153), Luca Ronconi viene nominato direttore artistico del Settore Teatro e Musica della Biennale di Venezia. Come affermerà anni dopo: “Per me ha voluto dire il primo, vero, impatto da responsabile con un’istituzione culturale, anche se non mi mancavano le perplessità sul tipo di gestione dell’ente all’interno del quale mi trovavo a operare. Penso che la Biennale, dove ho messo in scena Utopia e dove ho invitato artisti come Peter Brook, Meredith Monk e Bob Wilson, sia stato un banco di prova importante, un tirocinio al Laboratorio di Prato, che di lì a poco avrei diretto” (Ronconi 2019, 154).

Il suo primo anno di attività si apre con un festival che sarà ricordato come “La Biennale per una cultura democratica e antifascista”, dove invita Victor García con i suoi Auto-Sacramentales, Memé Perlini con Otello, Richard Schechner e il Performance Group con The tooth of crime e Dacia Maraini con La donna perfetta[1] che scatenano dibattiti e polemiche[2]. Alcuni spettacoli vengono presentati al Petrolchimico di Marghera e al Dopolavoro ferroviario di Venezia, grazie alle intese con i consigli di fabbrica, i sindacati e le associazioni di base che inaugurano quel decentramento culturale dettato dalle linee progettuali del Piano quadriennale della Biennale e che era uno dei motivi per cui Ronconi aveva deciso di accettare la direzione. La ricerca sperimentale di pubblici e spazi non-teatrali trova massima espressione nella Biennale del 1975 e in quella del 1976, pensata come una sua continuazione ideale e quasi sincronica, tanto da rimanere come un avvenimento unico e memorabile nel profilo della città, dell’istituzione e, in fondo, del panorama italiano[3].

La concezione inedita dell’evento si manifesta sin dalle sue coordinate temporali e spaziali: Biennale Teatro 75 sarà la più lunga mai realizzata e per tre lunghi mesi trasformerà il tessuto urbano della città lagunare in una scena aperta e diffusa. L’area che circonda Venezia vedrà convergere giovani compagnie italiane, tre gruppi veneti[4] e nomi del panorama internazionale come Jerzy Grotowski, Peter Brook, il Living Theatre, Ariane Mnouchkine, Meredith Monk, La MaMa Theatre, Odin Teatret, Robert Wilson, il Teatro Vagante di Giuliano Scabia, in un’operazione sperimentale che mette in dialogo la scena italiana con il teatro contemporaneo di ricerca. Ronconi applica alla direzione artistica la stessa metodologia che utilizzava nella messa in scena dei testi teatrali, declinando al massimo tutte le possibili letture del fare scenico, convocandone le diverse voci, anche quelle che non gli corrispondevano.

Due sono le grandi tendenze che scaturiscono dalla direzione artistica ronconiana. La prima è quella di creare un sovvertimento degli spazi della città lagunare, servendosi sulla sua urbanistica peculiare che influenza profondamente la sfera fisica e mentale chi l’attraversa. La programmazione spaziale del festival interviene sulla percezione fisica dello spettatore e scompiglia, pur senza dichiararlo, l’immaginario mitografato di Venezia, città quasi utopica per nascita e sviluppo. E per questo sarà assai criticata. La seconda tendenza vira a trasformare il formato della Biennale in un laboratorio, che si intitola infatti Laboratorio Internazionale, confondendo e scardinando la nozione di rassegna e proponendo un’idea interlocutoria e processuale di teatro fatta di incontri e seminari in una formula allora non corrente neppure al Festival d’Avignon. Anche questa scelta fu criticatissima.

La forma del Laboratorio si nutre della convergenza di rappresentanti di forme diverse di pensare la scena. Alcune alleate. Altre contrastanti. L’incontro di interpretazioni e ricerche differenti e il loro dialogo saranno il motore di incontri pubblici, seminari, scientific sessions, stages e improvvisazioni disseminate e aperte alla partecipazione cittadina. Si vedranno le lunghe sessioni teorico-scientifiche con Grotowski e Brook nella villa comunale di Mirano, le azioni partecipative del Gruppo permanente di lavoro del territorio di Mira guidato da Giuliano Scabia, le creazioni collettive del Living Theatre nelle scuole del territorio, i laboratori di Eugenio Barba e l’Odin Teatret, in una geografia tentacolare e socialmente accurata del territorio.

Un certo strabismo della critica coeva trasuda insofferenza per i modi e i luoghi. La dimensione del Laboratorio che impone al pubblico una riflessione sulla produzione del linguaggio e non una semplice assistenza da spettatore, sembra essere incompatibile con il Festival e soprattutto con Venezia. “Non ci sono spettacoli ma laboratori” lamentano le critiche, additando un Festival “del non teatro” (Moscati 1975; Geron 1975; De Monticelli 1975b). Gli epitaffi per i registi invitati si sprecano, in particolare per Julian Beck, Jerzy Grotowski ed Eugenio Barba, colpevole quest’ultimo di non aver presentato uno spettacolo completo ma il progetto Immagini di una realtà senza teatro (Bertani 1975a; Savioli 1975b; Domenico 1975). Definizioni come “santoni reazionari”, “missionari”, “sciamani”, “guru”, “mistici e “profetici” ricorrono (Savioli 1975a; De Monticelli 1975c; Guerrieri 1975b; Boursier 1975; Blandi 1975; Cibotto 1975; Colomba 1975b). Andrei Șerban viene tacciato di essere un “apostolo del teatro incomprensibile” (Guerrieri 1975a); e persino la “scientific session” con la sua anatomia teorica sulla nozione di attore, viene letta come un “atto di misticismo” (Tian 1975). Per la critica “è il festival del teatro che non c’è” (De Monticelli 1975a).

Eppure la dimensione di questa Biennale non è esplorativa o sperimentale: gli artisti esteri invitati sono tutti portatori di pensieri maturi e di pratiche consolidate ed elaborate negli anni precedenti. Sono i “profeti dell’eresia teatrale degli anni Settanta, non tanto e non più le voci dell’avanguardia teatrale degli anni Sessanta” (Raimondo 1979, 33). La Biennale Teatro non è spazio di sperimentazione a briglia sciolta o di avanguardie pioniere, sul modello del coevo Festival di Shiraz (Gluck 2007) ma ne rappresenta una fase successiva. Vi approdano i risultati internazionali di lunghe ricerche: Grotowski, a un passo dal ritiro dalle scene, presenta la terza e ultima versione del suo spettacolo Apocalipsis cum figuris creato nel 1969 (Mango 2012). Peter Brook vi presenta uno dei suoi spettacoli più acuti e complessi, a cui ha lavorato per anni con la collaborazione di Denis Cannas, Colin Higgins, Jean-Claude Carrière e dell’antropologo Colin Turnbull. The Iks è uno dei risultati più radicali e sperimentali della sua concezione di spazio vuoto, sia a livello materiale che interpretativo (Ruffini 2020), ma che allora fu pressoché ignorato dalla critica, ad eccezione di un lungimirante Antoine Vitez che ne segnalò “l’economia sublime” (Vitez 1983, vedi anche Vitez 1976 in cui si trovano altri commenti allo spettacolo di Brook),definendolo come uno spettacolo di capitale importanza nel panorama del secondo dopoguerra. Andrei Şerban, invece, presenta la sua fortunata e potente rilettura cerimoniale della tragedia classica Fragments of a Trilogy: The Trojan Women, Electra, Medea, dimostrando di essere nella sua fase elaborativa più compiuta che segue alla collaborazione con il Centre International de recherche théâtrale di Peter Brook. Julian Beck e Judith Malina sono nel momento dell’attuazione e, come scrive allora Quadri, “il fatto di non essere più alla moda non li allontana certo dalla storia. Hanno abdicato a essere portatori del nuovo verbo estetistico, ma non alla parola. […] Ma nel liberarsi di ogni residuo di teatralità il Living è ben altrimenti sofisticato” (Quadri 1979, 6). Mentre Bob Wilson, dopo aver abbandonato la fase di sperimentazione accesa che, nel quinquennio precedente, aveva dato luce a Ka Mountain and Guardenia Terrace (1972) della durata di sette giorni a Shiraz e The Life and Times of Joseph Stalin opera silenziosa di dodici ore (1973), elabora a Venezia l’opera che forse meglio sintetizza la sua ricerca precedente, Einstein on the beach, prodotta proprio dalla Biennale.

Il corto-circuito di queste potenti visioni teatrali votate alla trasformazione è alimentato dal suo accadere in una città piccola e dotata di spazi stretti e labirintici come Venezia. Gli eventi si tengono perlopiù all’aperto. Oltre agli spettacoli, frequentatissimi soprattutto da giovani[5], ci sono incontri pubblici, conferenze, seminari, tavole rotonde, progetti speciali, dibattiti e improvvisazioni che smuovono un’inedita partecipazione cittadina fatta di abitanti, lavoratori, famiglie, bambini. Non si tratta di tentativi di teatro sociale, ma di una convergenza spaziale che mette in relazione, anzi in collisione, il teatro contemporaneo e la città.

Ronconi concepisce un festival in cui gli artisti invitati condividono la caratteristica di essere tutti sapienti pensatori dello spazio, benché in forme diverse e, a volte, contrapposte. C’è l’araldo del pensiero sullo spazio, Peter Brook, che solo qualche anno prima aveva pubblicato uno dei testi cardine della scena contemporanea, The empty space (1968)[6], elaborando una nozione che investe non tanto e non solo la dimensione materiale della scena ma l’intero processo teatrale creativo-interpretativo. Non a caso, Brook è anche membro della Commissione per il teatro della Biennale[7] e interviene due volte nei tre anni di direzione ronconiana, invitato nel 1975 alle due scientific sessions che si tengono a Mirano in occasione del Progetto speciale Grotowski, e nel 1976 presentando una serie di eventi teatrali sia in forma di pièce (The Iks), che in forma di improvvisazione semi-strutturata (A ridicoulus sack) o libera, sul modello del carpet show, che investono sia l’isola che l’area industriale e operaia di Porto Marghera (Ruffini 2010).

La direzione ronconiana sceglie di presentare la quasi interezza degli spettacoli invitati in contesti non teatrali: nel 1975, solo due titoli su 22 vengono programmati all’interno di un teatro, quello di Palazzo Grassi. Oltre ad abolire i teatri, Ronconi evita anche i numerosi luoghi teatrali o teatralizzabili presenti a Venezia, con l’unica eccezione di Campo San Trovaso in cui viene presentato L’Âge d’or di Ariane Mnouchkine e il Théâtre du Soleil, nello stesso luogo in cui Max Reinhardt aveva allestito il suo Mercante di Venezia, nel 1934, e che Mnouchkine definisce come “un lieu imaginatif” (Mnouchkine in Gervasoni 1976, 297).

Venezia non è trattata da Ronconi come scenografia funzionale o confortante. In particolare, la Biennale 75 crea un sovvertimento degli spazi urbani con una programmazione che rovescia l’immaginario convenzionale di Venezia e ne destruttura la visione attesa, storica e prevedibile. Il regista affronta la città con la stessa ottica che applica alla scena: dall’alto, in una prospettiva a pianta[8] o, meglio, a “mappa in movimento”, una superficie orizzontale dinamica in cui si negoziano relazioni: “un territorio che non coincide con i luoghi della rappresentazione, ma è costituito da rapporti tra figure che possono essere i personaggi o i concetti. Se guardiamo all’opera come a una mappa, al suo interno cogliamo un movimento, la dinamica di un viaggio di conoscenza” (Ronconi 2019, 25). Allo stesso modo, la sua direzione artistica non mira tanto a creare uno spazio per l’elaborazione di un metodo (Baravalle 2022), quanto allo scavalcamento di esso attraverso l’inserimento di elementi di discontinuità, disturbo e spiazzamento che Ronconi farà sempre più suoi negli anni successivi.

In questa visione senza centro e periferia, nessun ramo della città viene escluso. Nell’antico cuore urbano, Ronconi fa circolare il Living Theatre che, con la trilogia The Legacy of Cain, porta scompiglio nel salotto buono di Piazza San Marco, in una sorta di via crucis di carattere politico che si snoda dal campo della chiesa barocca di San Moisè alla chiesa sconsacrata di San Lorenzo. Uno spazio che Beck definisce “un museo incredibile e gigantesco, quell’architettura delle istituzioni repressive” (Beck in Quadri 1979, 67) e che fronteggia in dieci eventi performativi[9]. La direzione artistica attua un ribaltamento di affinità e attese anche rispetto al Living, che fa interrogare la critica. “Perché recitate a Venezia? Nel centro storico e non a Marghera?” (Gabrieli in Quadri 1979, 68) viene chiesto più volte a un serafico Beck che replica: “A Venezia, la vita in se stessa è divenuta uno shopping, e quando facciamo teatro qui facciamo ancora una volta teatro da shop” (Beck in Quadri, 67).

La Biennale Teatro si irradia alle isole, fin allora mai investite da eventi culturali: nella popolare Giudecca e i suoi dismessi Cantieri Navali si apre il Festival con la regia ronconiana Utopia e vi si allestiscono la prima di Education of the Girlchild di Meredith Monk e il progetto Immagini da una realtà senza teatro di Eugenio Barba; nell’isola disabitata di San Giacomo in Paludo, Grotowski e il suo gruppo si installano per settimane senza acqua, luce e gas, praticando il parateatro con giovani e artisti, e presentando otto rappresentazioni notturne di Apocalipsys cum figuris[10].

Mentre le isole sono attraversate da spettacoli e seminari, l’impossibile periferia di Venezia è ritrovata altrove: intorno all’area industriale e operaia di Porto Marghera e del Petrolchimico che in quegli anni è al culmine raggiungendo, dopo la costruzione del Petrolchimico 2, il picco di 40.000 occupati e un’importante effervescenza di lotte sindacali (Barizza, Resini 2004) destinate a deflagrare di lì a poco, trasformando Mestre e Marghera nel teatro tragico di rapimenti e omicidi delle Brigate Rosse. Come afferma Ronconi: “Cercheremo la bellezza anche, se possibile, nelle brume di Porto Marghera: e deve essere possibile, se bellezza è oggi piuttosto capacità di sintetica rappresentazione, significazione della contemporaneità” (Ronconi in Pagliarani 1974). Ed è qui tra Marghera, Malcontenta e Mira che il teatro si presenta in forme complesse e riflettute. Davanti al cortile del Petrolchimico, Peter Brook smantella irrevocabilmente la nozione di attore con le sue improvvisazioni nel vuoto, “improvisation in the dark” (Brook in Heilpern 1977, 43), in cui l’unico riferimento è costituito dallo spazio in costante rapporto con il pubblico. Dacia Maraini e Liliana Cavani aprono dibattiti sul diritto all’aborto in un capannone gremito del Petrolchimico, al termine delle rappresentazioni de La donna perfetta. Giuliano Scabia con il suo Teatro Vagante e con il Gruppo permanente di lavoro del territorio di Mira interviene per diversi mesi nell’area operaia di Mira, Miraporte e Oriago “uno dei tanti comuni dormitorio di Porto Marghera. […] Un territorio in cui i casi di cancro negli ultimi due anni sono aumentati del 2.000%, perché il fosgene e il cloruro di vinile escono dalle ciminiere della Montedison e uccidono” (Scabia in Quadri 1979, 19-20).

La drammaturgia spaziale del festival sviluppata da Ronconi smonta una lettura narrativa della città e crea un montaggio discontinuo che riflette le diverse complessità del territorio. Ma per molta critica non è degno, e scomodo: “non una di queste manifestazioni si svolge in un luogo nato e concepito per accogliere l’espressione teatrale” (De Monticelli 1975a). In molti sottolineano didascalicamente che sarebbe stato meglio utilizzare le strutture della Fenice “poiché queste strutture, poltrone comprese, riassumono 2.500 anni di esperienza nel campo del condizionamento dello spazio per rappresentare in esso uno spettacolo e metterlo di fronte ad alcuni spettatori che pretendono di fruirlo nella migliore maniera possibile” (Fàbregas 1975a). O ancora: “Tutte le ribalte di Venezia sono spente. Le immagini sceniche che ci vengono proposte dobbiamo andarle a cercarle in antiche chiese sconsacrate, in isole sulla laguna, in istituti universitari, nei capannoni di ex-cantieri navali” (De Monticelli 1975a). Una certa critica è concorde nel tacciare “l’estetica dello squallido e dello scomodo” (Arbasino 1975).

Tale insofferenza deriva dallo scollamento dall’immagine della città d’acqua e dal quadro teatrale, che spesso convergono nel tropo di Venezia scena del mondo. Snobbato da Ronconi. La sua è una Venezia spaesata, che affianca Piazza San Marco ai fosfati della Miralanza, privata dei suoi palcoscenici convenzionali, in una mappa spaziale che obbliga lo spettatore allo spostamento, alla deambulazione. Il montaggio drammaturgico del Festival afferma una percezione del fatto teatrale come evento che investe il corpo e il suo movimento. Come, d’altra parte, Ronconi era uso fare anche nei suoi spettacoli[11]. Confrontando le critiche, l’argomento trasversale più presente è la scomodità fisica (Valentini 1975; Fàbregas 1975b). Gli spettatori sono costretti a camminare: “Hanno dovuto arrancare in posti squallidi e inospitali dove sedersi male o non sedersi affatto, e inoltrarsi in laguna, accettando i rischi meteorologici e garantendosi preventivamente con certificato medico circa il proprio tasso di resistenza. È stata la Biennale-no per gli anziani e i deboli” (Bertani 1975a).

Anche i critici stranieri soffrono: “Una volta si doveva stare in piedi per tutta la serata, un’altra si doveva stare seduti con le gambe incrociate su un duro pavimento di legno, un’altra ci si doveva sistemare su delle stuoie per pulirsi le scarpe sul pavimento di lastroni marmo di qualche palazzo, un’altra volta ancora si doveva cercare qualcosa su cui sedersi in un grande cantiere navale pulito molto sommariamente, e quando, molto di rado per la verità, veniva messa a disposizione una vera e propria sala di teatro, quella di Palazzo Grassi, ci si trovano soltanto delle scomodissime sedie pieghevoli” (Seelmann-Eggebert 1975). La fruizione non in poltrona viene considerata come una mancanza di rispetto al pubblico, adducendo anche paradossali motivazioni sociologiche: allontana il popolo dal teatro, perché “in quei teatri i lavoratori andrebbero tanto volentieri” (Bertani 1975a). Il coro di insofferenza a una percezione pubblica e aperta del pensiero teatrale è la prova di quanto l’operazione ronconiana fosse allora necessaria. Per sfuggire ai condizionamenti dei palcoscenici, delle cornici sceniche e delle definizioni teatrali.

Utopia: per una drammaturgia dello spazio

Tra gli anfratti dello spazio,
gli interstizi del tempo,
vorrei presentare uno spettacolo infinito.
Luca Ronconi

Lo spaesamento non è solo urbano, è anche il principio utilizzato in scena attraverso la pratica del movimento continuo. Come confessa Ronconi stesso:

Percorrendo a ritroso il lavoro che ho fatto, mi rendo conto che lo spettacolo a cui tendo, il mio spettacolo ideale, è un obiettivo perennemente in fuga, non necessariamente quello che si coglie per intero in quel determinato spazio o in quel determinato tempo. È un oggetto teatrale che cresce e si snoda, si dilata, si divarica, si moltiplica, ma non si realizza nello stesso tempo e nello stesso luogo rispetto allo spettatore o ai gruppi di spettatori che assistono. Il palcoscenico […] è un luogo di passaggio per lo spettacolo e per il tragitto emotivo intellettuale. […] Una mappa da scoprire, uno spazio in divenire. […] Lo spettacolo in cui mi riconosco più facilmente è quello infinito, in movimento, che si distende e si dirama (Ronconi 2019, 21-22).

Questo principio si trova scenicamente concretizzato già nella produzione che inaugura la Biennale Teatro del 1975, con la Cooperativa Tuscolano e le scene di Luciano Damiani: Utopia che, come Ronconi precisa, “nasceva come drammaturgia dello spazio” (Ronconi 2019, 235). Utopia è uno spettacolo che si snoda su una scena lunga circa 50 metri, dove il movimento e lo spostamento continuo di un’intera città diventano il tema su cui innestare sei commedie di Aristofane: Le Nuvole, Gli Uccelli, I cavalieri, Pluto, Le donne in parlamento, Lisistrata. Spiega il regista:

All’inizio si era pensato a un montaggio di alcuni testi brechtiani (Nella giungla delle città; Santa Giovanna dei macelli; Arturo Ui) che ruotavano intorno alla figura della città. Ma allora ferveva tutta una polemica su chi avesse più o meno diritto a mettere in scena Brecht. Così il progetto si è arenato, lasciando però in piedi l’ambientazione. La scelta di Aristofane nasceva dal fatto che questo autore si prestava a un tipo di spettacolo che partiva proprio dall’idea della città e del condizionamento urbano (Ronconi 2019, 236).

Non potendo essere prodotto dalla Biennale per conflitto d’interessi, Utopia viene finanziato con il contributo dell’Associazione Amici dell’Unità, cosa che provocherà parecchie polemiche perché pareva che il linguaggio di Ronconi fosse incompatibile con le feste dell’Unità. Ma era il 1975, anno in cui sembrava che la spinta del PCI e del suo segretario Enrico Berlinguer fosse inesauribile. Anche questo convinse l’Associazione Amici dell’Unità ad aderire finanziariamente all’impresa, dopo la partecipazione alla produzione dell’Edinburgh International Festival, del Berliner Festspiele e del Festival d’Automne di Parigi, mentre il Teatro Stabile di Torino e la Biennale di Venezia offrirono logistica e ospitalità, pur non senza critiche (Bertani 1975b, Lori 1975). Avrebbe dovuto collaborarvi anche il Festival di Shiraz, allora fucina della sperimentazione scenica, ma l’accoppiata del Festival dell’imperatrice dell’Iran, Farah Diba, con il Festival dell’Unità venne considerata non ammissibile. Altre ancora furono le inconciliabilità rilevate rispetto alla produzione del PCI, come le polemiche relative ai testi di Aristofane letti come reazionari (Prosperi 1975; Marzullo 1975; Plebe 1975; Vita 1975), e al linguaggio “di ostica lettura” e “scarsamente popolare” del teatro di Ronconi (Surchi 1975). In realtà il PCI aveva finanziato lo spettacolo soprattutto perché doveva svolgersi “sulla strada”[12], a riprova di quanto lo spazio sia elemento politico, soprattutto in quegli anni.

Sollecitato a questo proposito, Ronconi dichiara che lo spettacolo è popolare nella misura in cui si svolge “sulla strada, con tutti i suoi significati (percorso, cammino verso qualcosa, persecuzione, fuga, progresso) tutti ben presenti nella nostra tradizione culturale” (Ronconi in Colomba 1975a). La riflessione sul tema della città come “il luogo che contiene tutto, il quadro dei rapporti sociali e del governo” (Ronconi in Colomba 1975a) è parallela a quella realizzata dalla sua direzione artistica nella città veneziana. Dunque, la lettura politica inseguita dai critici, che leggono in Utopia una nota reazionaria, non è certo da rintracciare in una interpretazione traslucida dei testi d’Aristofane, ma va piuttosto ricercata in quel fare politica “imprevedibile”, come diceva Ferdinando Taviani, attraverso un Aristofane finanziato dal PCI in strada. Un fare politica che è “affondare le mani nel teatro e rimesciare continuamente […] ovvero mettere disordine […] Uno spettacolo politico itinerante, è sulla strada, è di oggi […] [Ronconi] ha macinato e noi abbiamo visto cosa significa fare politica del teatro. Non teatro politico. Ma rimettere in moto” (Taviani in Bassignano 2019, 122-124).

Utopia è lo spettacolo che inaugura una certa visione ronconiana di direzione artistica in rapporto alla città che ospita l’istituzione. In realtà non è presentata come rappresentazione, ma come prova generale all’interno degli ex Cantieri navali della Giudecca, isola all’epoca abitata perlopiù da operai e famiglie popolari. La scena è una carreggiata stradale lunga 45 metri e larga 9, in cui scorre quella che Ida Bassignano, assistente alla regia, definisce “una fantasmagorica sfilata”, di automobili, autobus, camionette, un aereo e altri mezzi a ruote. Il pubblico, disposto su due gradoni laterali che si fronteggiano, assiste a una processione di cose che appaiono e scompaiono tra i sipari laterali, alti 8 metri, posti agli estremi della scena. Cinque ore di spettacolo. Trentacinque attori (tra cui Mauro Avogadro, Claudia Giannotti, Maria Teresa Albani, Gianfilippo Carcano)[13] che appaiono in scena trasportando o trasportati, senza sosta, in una penombra costante, quali allucinata.

Lo spettacolo si apre sullo scorrere di una città che dorme: due uomini trascinano con corde e gomene, 25 letti a rotelle in cui gli attori sono adagiati dormendo. E poi file di auto che si muovono silenziosamente e spettralmente alla sola luce fioca dei loro i fari, riempite di elementi di arredo domestico; un autobus di militari – i Cavalieri – carichi di ombre (e nel 1975 gli echi son multipli); un camion di soldati che partono alla guerra; tavoli imbanditi, vasche da bagno e lavatrici a rotelle, e un aeroplano pronto ad accogliere gli uccelli che hanno fondato una nuova società. Utopie politiche, rivoluzioni sociali, con esiti più o meno fallimentari. “L’inizio era preso dai Cavalieri e vi si rappresentava l’oppressione della corruzione politica all’interno della città, seguito da un pezzo del Pluto in cui si parlava della frenesia produttiva. Il cuore dello spettacolo derivava dagli Uccelli, cioè il tentativo di uscire da questo schema, e si concludeva con l’impossibilità per chiunque di liberarsi” (Ronconi 2019, 236). Il copione restò sempre variabile e parzialmente improvvisato. Ida Bassignano racconta che Ronconi utilizzava un copione a fisarmonica che gli permetteva di saltare da una scena all’altra, creando versioni più o meno lunghe dello spettacolo. È così che le diverse varianti offrirono soluzioni estemporanee per fronteggiare i problemi logistici che impedivano lo svolgersi di questa o quella scena. Lo spettacolo è infatti destinato a un percorso accidentato, proprio a causa del suo svolgersi all’aperto, in balia di una stagione estiva funestata da temporali incessanti che colpirono in particolare le date dei Festival dell’Unità. Anche la logistica degli spazi creò parecchi problemi, come racconta Bassignano (Bassignano 2019, 100): “Le avventurose ricerche di spazi non tradizionali erano viste allora solo come fastidiose bizzarrie” dagli organizzatori e dai critici (Bassignano 2019, 100). A Vigevano, la pavimentazione sconnessa e fangosa blocca i carrelli su cui scorre l’intero spettacolo e si interrompe la rappresentazione; a Perugia il suolo in pendenza fa scivolare la lunga fila di letti. A Milano, sotto la pioggia scrosciante, gli attori vanno in scena con gli impermeabili, mentre i letti sono bloccati nel fango. A Edimburgo, Berlino, e Torino lo spettacolo si tenne al chiuso e le cose andarono meglio, così come al Fabbricone di Prato, spazio che Ronconi aveva da poco inaugurato al teatro con Orestea. Al Festival d’Automne, la tournée si chiude al Parc Floral di Vincennes, nello stesso luogo in cui Ariane Mnouchkine e il Théâtre du Soleil avevano presentato per la prima volta in Francia 1789[14]. “Al Parc Floral, assistendo a Utopia”, dirà Georges Banu molti anni dopo – nel film documentario 75 Biennale Ronconi Venezia, regia di Jacopo Quadri (Produzione Palomar, 2022) – “ho avuto una rivelazione: Ronconi amava le macchine, ma non le macchine moderne, bensì le macchine rudimentali che portano con loro una storia, una poesia, una difficoltà. Una volta gli ho chiesto ‘Cosa succede se non funzionano?’ e lui mi ha risposta ‘Non ti preoccupare’. C’era nelle macchine di Luca qualcosa di improbabile: il fallimento, l’errore era sempre possibile” (Banu in Quadri 2022).

2 | Utopia, regia di Luca Ronconi, scenografie di Luciano Damiani, Ex Cantieri Navali della Giudecca, 1975. Fotografia: Cameraphoto. Courtesy Archivio Storico della Biennale di Venezia, ASAC.

In Utopia tutto era a rotelle, compresi gli spostamenti degli attori che attraversavano lo spazio su elementi a ruote e carrelli spinti a vista da altri attori. Ciò che era emerso già nell’Orlando furioso con i carri in continuo movimento che trasportavano attori e si combinavano e assemblavano manovrati a vista da altri attori, qui diventa costitutivo dello spettacolo. Ma la reinvenzione dello spazio attuata in Orlando furioso si inverte. Mentre in Orlando, lo spettatore era libero di muoversi per creare il suo montaggio drammaturgico, in Utopia è seduto nelle gradinate, stabile, mentre la scena scorre in un fluire costante, cinematografico, una sorta di piano sequenza infinito. Era “lo spettacolo a passargli davanti, grazie a un movimento che sembrava una processione. […] Il popolo dell’antica Atene si era motorizzato e […] aveva scoperto il consumismo” (Ronconi 2019, 238).

Il processo strutturale era mirato alla percezione visiva dello spettatore, analogamente a ciò che creava la simultaneità performativa nell’Orlando. Anche in Utopia si sperimenta lo spaesamento dello sguardo dato da un processo di fluire continuo ed estenuante che lavora sull’accumulazione di immagini, cambi di distanza e di messa a fuoco. Lo spettatore viene spinto a un montaggio indipendente che avviene non nei termini della narrazione, ma a posteriori, attraverso le multiple tracce rimaste nella memoria: “Direi che il vero spettacolo non si consuma nella sala teatrale: il vero spettacolo, se è esperienza anche per lo spettatore […] si fa nella memoria dello spettatore, in ciò che egli si porta a casa, ammesso che ciò che ha visto e sentito abbiano avuto la forza di incidere” (Ronconi, Capitta 2012, 16). Come per l’esperienza della simultaneità scenica di Orlando, non si tratta di una strategia di coinvolgimento rivolta al pubblico, quanto di “un’impaginazione visiva dell’esperienza teatrale. Nel mio lavoro registico il ricorso frequente a strutture spaziali mobili può, per esempio, essere spiegato attraverso l’esigenza di riprodurre teatralmente la ‘logica’ della percezione ottica del contemporaneo” (Ronconi 1999, 9).

Il tema della percezione dello spettatore è drammaturgicamente cruciale: “Sono convinto che, pur stando seduto in una poltrona di teatro, questo allontanarsi e avvicinarsi sia ugualmente presente come un’attività emotiva, psichica, mentale dello spettatore. Spesso, quindi, la convinzione dell’attore di essere al centro dell’attenzione del pubblico è illusoria” (Ronconi 2019, 239). Ronconi sottolineava spesso come le strutture e i sistemi percettivi teatrali siano stati modificati dall’avvento del cinema, introducendo una discontinuità che ha riplasmato il rapporto tra lo spettatore e l’evento rappresentato. E come questo mutamento si dovesse ripercuotere sul lavoro di articolazione registica e attoriale, nella consapevolezza del montaggio a posteriori che lo spettatore realizza con la memoria, a partire dalle tracce della sua attenzione “che per natura è intermittente. Questa disposizione del pubblico all’intermittenza l’ho sempre apprezzata” (Ronconi, Capitta 2012, 29).

La sensibilità al contemporaneo porta il regista a presagire e a dare forma, nel 1975, ad alcune tensioni che anni dopo saranno manifeste. La scena in moto continuo, i carrelli a rotelle spinti dagli attori, la composizione in movimento, diventeranno infatti il segno di una parte di teatro che ha fatalmente incrociato Ronconi in questa Biennale, ovvero quello di Peter Brook e Ariane Mnouchkine che, parallelamente e in forme e processi estremamente diversi, a partire dai primi anni del 2000 manifestano in scena il supporto grafico del movimento, con elementi scenici a rotelle. La scena su rotella e l’attore che la sposta diventano alfabeto teatrale, soprattutto nelle loro produzioni più politiche. Se il processo di destabilizzazione spaziale è passivo in Mnouchkine dove tutto è messo in movimento dall’esterno (Le Dernier Caravansérail 2003, Les Épheméres 2006) in una rotazione costante fino a diventare firma e stile dichiaratamente cinematografico (Une chambre en Inde 2016), in Brook il movimento è un impensabile, non misurabile, ma agito drammaturgicamente e scenicamente dagli stessi attori (Sizwe Banzi est mort 2006, Warum warum 2010, The Suit 2013, Why? 2019)[15]. Più affine, quest’ultimo, al pensiero di Ronconi che concepisce il movimento come processo di creazione non finito, registico, attorico e percettivo di una “struttura spazio-temporale drammaturgica” (Gregori, Ronconi 2002, 30) non lineare. Lo spettacolo in fuga di Ronconi che “talvolta si dilata nello spazio e nel tempo, talaltra secondo un proliferare di azioni simultanee” (Ronconi 2019, 25), sfida ed esorcizza l’opera compiuta che rischia “di esercitare una violenza sul testo, mentre uno spettacolo in fuga, in movimento, proliferante, offre una molteplicità di interpretazioni anche allo spettatore” (Ronconi 2019, 26).

Questa impossibilità alla stasi, quest’impermanenza spaziale, sono il segno dell’epoca contemporanea. Ronconi lo anticipa e concretizza fin dagli anni 1960-70, restituendo forma a un pensiero culturale che si affaccia e si verbalizza proprio in quegli anni. Come dichiarava Michel Foucault nel 1967: “L’époque actuelle serait peut-être plutôt l’époque de l’espace. Nous sommes à l’époque du simultané, nous sommes à l’époque de la juxtaposition, à l’époque du proche et du lointain, du côte à côte, du dispersé. Un réseau qui relie des points” (“L’epoca attuale sarebbe piuttosto l’era dello spazio. Siamo nell’epoca della simultaneità, siamo nell’epoca della giustapposizione, l’epoca del vicino e del lontano, dell’affiancamento, della dispersione. Una rete che collega punti”) (Foucault 1984, 46), con una lettura che ben si accorderebbe all’Orlando.

Del cosiddetto Spatial turn, la svolta spaziale che si manifesta in diversi ambiti degli studi culturali e sociologici, intesa come conoscenza del mondo e della sfera immaginativa e simbolica, Ronconi è stato pioniere. Ha annunciato uno spatial thinking in maniera precisa insinuandosi nell’istituzione e spaesandola. È il movimento, o il rimestamento come lo chiama Taviani, la chiave della sua operazione Biennale, che provocò critiche e polemiche. Lo stesso principio della moltiplicazione dello spazio e della discontinuità che attraversa il suo pensiero scenico: “C’è analogia tra il movimento dell’opera, che per me sta alla base del fatto teatrale, e la mia storia personale sempre dentro e fuori dalle istituzioni, dentro e fuori rispetto a un’idea sociale del teatro, o a un’idea più profonda e segreta di spettacolo, all’interno della quale affermazioni come centralità del regista, dell’attore o dell’autore eccetera non hanno senso. Regista, attore, autore sono semplici funzioni di un oggetto teatrale che si costituisce: è quest’ultimo il luogo della conoscenza” (Ronconi 2019, 26). Una conoscenza che può generarsi solo dal movimento.

Note

[1] Altri spettacoli presentati sono Cassio governa Cipro di Gianni Serra da un testo di Giorgio Manganelli; Cos’è il fascismo della Compagnia Stabile del Teatro Universitario Ca’ Foscari con la regia di Fabio Mauri; Le nuage amoureux del Théâtre Liberté con la regia di Ulusoy Mehmet e L’impuro folle di Giorgio Marini.

[2] Il patriarca di Venezia, Albino Luciani, condannò dal pulpito della Basilica di San Marco lo spettacolo di Dacia Maraini sull’aborto e gli Auto-Sacramentales di Victor García interpretato da attori nudi (e per questo interrotto dalla polizia). Vedi Omelia pronunciata dal Patriarca di Venezia Albino Luciani il 2 novembre 1972 nella Basilica di San Marco, in Luciani 1974.

[3] All’esperienza della Biennale Teatro 1975, il regista Jacopo Quadri ha dedicato il documentario 75 Biennale Ronconi Venezia, prodotto da Palomar, in collaborazione con il Centro Teatrale Santacristina.

[4] La Compagnia veneziana del Teatro Club diretta da Arnaldo Momo, il Collettivo Città di Mestre diretto da Dario Ventimiglia e il Teatro Laboratorio di Verona diretto da Ezio Maria Caserta.

[5] Il prezzo del biglietto era estremamente contenuto e permise l’accesso a un gran numero di spettatori. Nell’edizione del 1975 vennero venduti 15.385 biglietti (Gervasoni 1976, 290). La maggioranza del pubblico era formato da giovani, come segnala Umberto Eco che all’epoca era anche membro della Commissione per l’informazione e i mezzi di comunicazione di massa: “Mi pareva che le lunghe code di giovani che si recavano ai teatri con le loro cento lire in mano fossero la prima avanguardia di un pubblico diverso” (Eco 1974).

[6] The empty space è pubblicato per la prima volta nel 1968 e raccoglie alcuni saggi a partire da una serie di conferenze tenute da Brook nel Regno Unito. La traduzione italiana esce nello stesso anno per Feltrinelli con il titolo Il teatro e il suo spazio.

[7] La Commissione per il Teatro era composta da: Peter Brook, Bernard Dort, Natalia Ginzburg, Gian Renzo Morteo, Mario Raimondo e Bruno De Marchi.

[8] “Mentre lo preparo [lo spettacolo], io lo vedo in pianta e non ‘in alzata’, lo immagino come se lo guardassi dall’alto. So bene quale sarà la mappa” (Ronconi, Capitta 2012, 59).

[9] The Legacy of Cain era composto da tre rappresentazioni: Six Public Acts, The Money Tower, Seven Meditations on Political Sado-Masochism, per un totale di dieci date veneziane.

[10] Altri stages del gruppo di Grotowski avranno luogo nella Villa comunale di Mirano e nel Castello di Montegalda, fortezza risalente all’XI secolo nei pressi di Vicenza, messo a disposizione dei proprietari per l’intero soggiorno del regista polacco.

[11] “Ho sempre pensato alla figura dello spettatore come a un corpo completo, e non un corpo dimezzato, che seduto immobile guarda davanti a sé. Cosa che si badi bene, non ha niente a che vedere con il ‘coinvolgimento’” (Ronconi, Capitta 2012, 51).

[12] Fin dal primo progetto elaborato nell’inverno del 1974, con la scenografia di Gae Aulenti, il nodo generatore dello spettacolo era la strada, con una possibile simultaneità scenica.

[13] Gli altri interpreti erano: Myriam Acevedo, Francesco Capitano, Alberto Cracco, Maria Cumani Quasimodo, Filippo Degara, Massimo De Rossi, Sarah Di Nepi, Antonello Fassari, Nestor Garay, Cesare Gelli, Paola Granata, Nicoletta Languasco, Anita Laurenzi, Roberto Longo, Giuliano Manetti, Gabriele Martini, Lorenzo Minniti, Carlo Monni, Alessandro Quasimodo, Franco Patano, Elisabetta Pedrazzi, Giancarlo Prati, Marilù Prati, Aldo Puglisi, Rosabianca Scerrino, Carlo Valli, Tullio Valli, Nico Vassallo, Gabriella Zamparini.

[14] Il Parc Floral di Vincennes è attiguo alla Cartoucherie, vecchio sito militare abbandonato, diventato nel 1971 sede del Théâtre du Soleil.

[15] Nella sua ultima apparizione pubblica, Peter Brook afferma: “Il teatro è movimento che nasce dal movimento”. Incontro pubblico in occasione della rappresentazione Tempest Project, Théâtre Gérard Philipe, Saint Denis, 30 ottobre 2021.

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English abstract

The article addresses Luca Ronconi’s artistic direction of the Theatre and Music Section of the Venice Biennale, between 1974 and 1976. This period represented a formative experience that prepared him for his later work at the Laboratorio di Prato. The article focuses on Ronconi’s idea of space and the principle of movement, both of which deeply influenced his directorial approach, in relation to urban cultural policies, and the artistic creation of the play Utopia. The article considers the 1974 Biennale, remembered as “The Biennale for a Democratic and Anti-fascist Culture”, as well as the 1975 and 1976 editions, during which Ronconi invited Jerzy Grotowski, Peter Brook, Living Theatre, Ariane Mnouchkine, Meredith Monk, La MaMa Theatre, Odin Teatret, Robert Wilson, and Giuliano Scabia, among others. In particular, the 1975 edition subverted the traditional urban perceptions of Venice by deconstructing its mythologised and conventional imagery. Ronconi approached the city through a planimetric vision that incorporated the industrial area of Porto Marghera, Malcontenta, and Mira, conceived as part of a horizontal dynamic in which relationships are negotiated. Ronconi deliberately shifted towards the idea of “laboratory”, which undermined the notion of festival and proposed a new theatrical paradigm composed of public meetings, seminars, scientific sessions and improvisations which stimulated unprecedented forms of civic participation. The article frames these experiences through the notion of movement, a recurring motif throughout the director’s artistic career.

keywords | Utopia; Luca Ronconi; Biennale Teatro 1974-76.

La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)

Per citare questo articolo / To cite this article: Rosaria Ruffini, L’Utopia della città in movimento. Luca Ronconi e La Biennale Teatro di Venezia (1974-1976), “La Rivista di Engramma” n. 224, maggio 2025.