Fumetti, stramberie, ciack e chiacchierate
Quattro divagazioni su Ronconi e il linguaggio
Claudio Longhi
English abstract
Luca Ronconi, ©Luigi Ciminaghi/Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa.
È in occasione dell’invito a ragionare su Luca Ronconi e lo spazio delle parole durante il Convegno di studi “Ho sempre preferito non lasciare traccia. Luca Ronconi tra scena, vita e archivio”, organizzato alla Sapienza Università di Roma e dal Centro Teatrale Santacristina, a cura Roberta Carlotto, Marta Marchetti e Oliviero Ponte di Pino, che ho scelto di concentrarmi sul rapporto tra Ronconi e il linguaggio, accogliendo idealmente l’invito dello stesso Ronconi di non affidarsi a un metodo, alla logica del tractatus e della sistematizzazione, per privilegiare invece – anche in omaggio all’insegnamento di Franco Quadri – il paradigma del patalogo e della scienza della patafisica, dunque dello “sguardo dell’eccezione”. Ne è nata l’idea di presentare quattro divagazioni piuttosto che un discorso giustappunto organico.
Nel passaggio, per me, dalla teoria alla pratica, dall’ottica dello studioso a quella dell’assistente alla regia – l’inizio della mia conoscenza diretta di Luca è legato al percorso di tesi di laurea sull’Orlando furioso, poi a distanza di qualche anno, con Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1996), ho cominciato a collaborare con lui nella creazione delle messinscene –, un aspetto che personalmente mi colpì molto riguardava, almeno in sede di prova con gli attori e nel segno di una evidente inclinazione all’understatement, la quasi totale assenza di una riflessione su uno degli elementi più appariscenti degli spettacoli di Ronconi, ossia lo spazio, la scenografia, la macchina teatrale. Il lavoro con l’attore si basava, in sostanza, sul corpo a corpo con il linguaggio, sullo scavo della parola, che parevano poi destinati a incontrare accidentalmente una struttura spaziale. In realtà, non era così ma, nel percorso che si snodava, questa era la logica di avvicinamento.
In merito alla relazione di Ronconi con il linguaggio, uno spunto introduttivo che credo valga la pena di recuperare è la sua posizione nei confronti della lingua italiana e della recitazione in lingua italiana. Luca era solito ripetere che, in fondo, l’impianto della recitazione accademica italiana nasce dalla lingua francese, o meglio dalle traduzioni in italiano dalla lingua francese, perché è quello il corpus su cui si modella buona parte del repertorio dei Grandi Attori, a sua volta alla base del metodo di recitazione accademica. Da questo punto di vista, Ronconi sottolineava l’assoluta estraneità della lingua italiana alle logiche della lingua francese: la seconda – osservava sempre Ronconi – è una lingua razionale, il riflesso del sistema di pensiero di Cartesio, mentre la prima è costruita per mentire, è una lingua di azzeccagarbugli, che fino all’ultimo si riserva la possibilità di cambiare il senso della frase e di capovolgerlo a seconda della reazione dell’interlocutore. La ferrea logica, per cui il soggetto deve precedere il predicato verbale e trova un ulteriore sviluppo nei complementi, in italiano non funziona: si possono invertire il soggetto e il complemento oggetto e rovesciare, così, il significato della frase. Quindi, elaborare una tecnica di messa in voce a partire dalla lingua francese, da cui si origina il lavoro in lingua italiana, è un’evidente forzatura. Per inciso, un analogo squilibrio si produce con l’altra lingua che Ronconi frequentava, il tedesco, la cui ordinatissima architettura della sintassi si colloca agli antipodi della mobilità della sintassi della lingua italiana.
È utile ora domandarsi in che modo, nello specifico, Luca affrontava, o metteva a fuoco, il suo rapporto con il linguaggio. Una prima prospettiva può riguardare l’intreccio con il cosiddetto linguaggio della follia. Uno dei quattro sostantivi che ho scelto di usare per nominare le mie divagazioni è “stramberia”: il ricorso a questa parola, e all’orizzonte che spalanca davanti ai nostri occhi, nasce da un saggio di Ludwig Binswanger (Binswanger [1956] 1964) che Ronconi citava costantemente, Tre forme di esistenza mancata: esaltazione fissata, stramberia, manierismo. Più di una volta mi è capitato di ascoltare Luca affermare che, in fondo, lo studio di Binswanger era uno dei più straordinari manuali di recitazione che il Novecento avesse prodotto. Una simile convinzione si sposava a scelte drammaturgiche che innervavano i lavori di Ronconi: I lunatici, lo spettacolo rivelazione nel 1966, era ambientato in un manicomio, e ad esso nel giro di pochi anni si sono succeduti Candelaio (tre forme patologiche di aberrazione nella relazione con la conoscenza; 1968), Fedra (un caso di follia d’amore; 1969) e Orlando furioso (1969). Non a caso, Ronconi è stato definito “il regista della follia”, soprattutto nel primo scorcio del decennio durante il quale prende forma il suo percorso. D’altra parte, Ronconi precisava come, piuttosto che considerarsi il regista della follia, gli era “capitato” di mettere in scena testi che attraversavano la follia. L’interesse per la follia declinata in termini linguistici derivava dal fatto che il linguaggio della follia nelle sue manifestazioni patologiche aveva, per Ronconi, il valore di uno strumento per scandagliare i meccanismi del linguaggio cosiddetto “normale”.
Tale orientamento è stato uno degli snodi del lavoro, ad esempio, su Questa sera si recita a soggetto, uno dei rari incontri con Pirandello. È noto quanto la dimensione della follia sia centrale nella drammaturgia di Pirandello: ponendosi come la trascrizione di una visionarietà o allucinazione che abita lo sguardo dei personaggi, la sintassi della scrittura dell’autore siciliano non è altro che una lente di ingrandimento per osservare come ‘normalmente’ funziona il linguaggio. Proprio in questa ottica si colloca lo sforzo che di continuo Ronconi chiedeva agli attori. Per me le prove di Questa sera si recita a soggetto si sono rivelate molto importanti per capire aspetti che prima non mi erano chiari nella parabola artistica di Ronconi. Ricordo, in particolare, il monologo finale di Mommina, interpretato da Galatea Ranzi. Lavorando su quella specifica porzione di testo, Luca suggeriva di prestare attenzione alla percezione linguistica che, fin dal colpo d’occhio, si ricavava dallo sguardo sulle pagine del copione, disseminate di trattini la cui presenza è quasi prevalente rispetto a tutte le altre forme di interpunzione.
Il riferimento ai trattini è fondamentale per mettere a fuoco un secondo sostantivo che ho individuato per il titolo del mio intervento: “fumetti”. Al tavolino delle prove con Galatea Ranzi ho, infatti, compreso il senso di quanto Ronconi ribadiva con frequenza: oltre alle teorizzazioni di Binswanger, un altro suo grande modello è stato proprio il fumetto, non a caso più di una volta gli avevo sentito dire che “i fumetti sono la base per capire come si recita”. Nel fumetto ciò che gli interessava era il cortocircuito tra la parola e l’immagine. Luca chiedeva implicitamente agli attori di partire da un testo, farne un découpage e inserire dei trattini – come accennato, materialmente presenti nella sintassi pirandelliana –, isolando dei sintagmi al centro dei quali bisognava individuare un’immagine generativa del sintagma stesso. La battuta veniva, allora, costruita come un tentativo di approssimazione verbale a quell’immagine che è all’origine dell’enunciazione. Il linguaggio, dunque, quale costante forma di avvicinamento a una figura che l’attore deve riprodurre nel movimento. Da questo punto di vista, il fumetto è una guida per la recitazione perché studiare la logica che abbina la tavola alle parole può aiutare nel lavoro di decostruzione del testo e di ricostruzione delle matrici generative del linguaggio: lavoro che, nel segno di una pratica pedagogica votata al paradigma dell’“imparare facendo”, Ronconi suggeriva agli attori di sviluppare in maniera personale, indipendentemente dall'intervento del regista, in modo da elaborare un proprio montaggio di immagini mentali che reggesse il senso della battuta e trovasse una via di coesistenza con la visione registica.
L’idea del linguaggio come forma di approssimazione a un’immagine si intreccia a un ulteriore sostantivo che è parte del titolo delle mie divagazioni: “chiacchierate”. In merito, il terzo grande modello di manuale di recitazione che Ronconi citava era un breve saggio di Heinrich von Kleist Sulla graduale produzione dei pensieri in chi parla (Kleist [1878] 1986), in cui l’autore osserva come il linguaggio non sia la trascrizione ma il luogo generativo del pensiero, e come quest’ultimo si origini contemporaneamente all’atto del parlare. In fondo – ed è un’esperienza che ci accomuna tutti –, la maniera migliore per capire un concetto è spiegarlo a un’altra persona perché, nel momento in cui si parla, si genera pensiero. Per quale motivo Sulla graduale produzione dei pensieri in chi parla è un manuale di recitazione? Perché, mostrando il funzionamento del linguaggio parlato, offre la chiave per impostare la recitazione, in cui peraltro un ruolo importante è svolto dalla reazione di chi ascolta. La battuta è sempre il risultato del riflesso che proprio la reazione dell’interlocutore trasmette a chi parla. Per inciso, su un piano concettuale Ronconi negava il termine “battuta”, sebbene continuasse a utilizzarlo a livello discorsivo: era un sostantivo che non amava, perché la battuta, a suo giudizio, suggeriva la dimensione di una misura chiusa che contraddiceva il flusso aperto del parlato. La battuta ha un inizio, uno svolgimento e una fine; al contrario, il parlato non ha mai un inizio, uno svolgimento e una fine, ma è una struttura mobile, aperta, che si articola in dialogo, per l’appunto, con la reazione dell’interlocutore rispetto alla ricerca dell’immagine verbale da parte di chi parla. Un altro testo che Ronconi menzionava spesso era Viaggio in Italia di Stendhal ([1826] 1990), in particolare in riferimento all’osservazione dello scrittore francese secondo cui gli italiani non completano mai i loro discorsi. La tecnica del “levare” caratterizza il modo di parlare italiano che contraddice l’idea di battuta come misura chiusa. In questo senso, per Luca l’esperienza dei romanzi, come avviene ad esempio con il Pasticciaccio, è anche una sorta di possibilità di sviluppare quasi un manifesto di drammaturgia: nascendo dal découpage di una pagina romanzesca, l’apparente dialogo – che, in realtà, dialogo non è – delle edizioni teatrali dei romanzi si rivela essere una successione di inquadrature aperte che meglio corrispondono a quell’idea di recitazione del parlato che Ronconi persegue. Nelle prove del Pasticciaccio la scena non era una “partita di ping-pong”, sostenuta da un botta e risposta, ma assumeva i contorni di un gioco di carte in cui ci si passa le carte perché si verifica uno scorrere delle parole dei personaggi le une dentro le altre, secondo una logica di flusso discorsivo.
Qui nasce uno strano paradosso che è una prima provvisoria conclusione di queste mie sparse riflessioni. È noto come la recitazione ronconiana fosse fortemente connotata al punto da avere generato un aggettivo – giustappunto “ronconiano” – di cui lo stesso Luca riconosceva i caratteri dispregiativi. Una recitazione, per certi aspetti, manierata da cui si diramavano due binari che correvano parallelamente l’uno rispetto all’altro.
Per un verso, c’erano gli interpreti che collaboravano e cooperavano con Ronconi alla costruzione della recitazione, come nei casi di Mariangela Melato, Marisa Fabbri, Franco Branciaroli: lungo tale direttrice, lo stile ronconiano era il risultato del découpage in precedenza menzionato, che interrogava la battuta e i suoi meccanismi. Da questo punto di vista, Marisa Fabbri – la cui importanza è stata decisiva nell’aiutare Ronconi a chiarirsi tutta una serie di idee – citava spesso un episodio emblematico riguardante la modalità di approccio all’elaborazione delle battute di Clitennestra nell’Orestea, spettacolo capitale nella codificazione di un determinato linguaggio ronconiano. Tra parentesi, nel passaggio dalla traduzione commissionata a Cesare Milanese, che nelle intenzioni iniziali doveva rappresentare il modello di riferimento, a quella di Mario Untersteiner, verso cui alla fine ci si orienta, si ricordi la peculiare impaginazione grafica che Ronconi ha utilizzato per il copione: la traduzione di Untersteiner non era, infatti, data secondo l’impaginato regolare, ma per ogni pagina c’era un emistichio, al massimo uno/due versi, perché al fondo si collocava il lavoro di scansione che Luca imprimeva graficamente nella scelta di presentare il copione in quello specifico modo. Ed è la medesima scelta adottata, vari decenni dopo, nella trilogia di Siracusa (Prometeo incatenato, Le Baccanti, Le Rane; 2002), senza però spiegare agli attori il motivo della singolare impaginazione del copione ma dando semplicemente loro in mano il materiale cartaceo – dei veri e propri “mattoni”.
Per tornare all’aneddoto di Marisa: dopo lunghi mesi di prove estenuanti, non venendo a capo di come verbalizzare le battute, l’attrice racconta di avere lanciato, un giorno, delle caramelle su un tavolo e di avere cominciato a raccoglierle e a rivolgersi ad esse dicendo la battuta, quindi interrogando il testo oggettivato, inserendo una sorta di dubitativo dentro il linguaggio perché stava scandagliando e interpellando il linguaggio in fase di formazione. Paola Bigatto parlava di “dubitativo ronconiano” per spiegare questo processo di interrogazione.
Per l’altro verso, c’era il lavoro di tanti interpreti che ossessivamente e compulsivamente cercavano di riprodurre il suono che Luca produceva “recitando”, perché il suo modo di guidare l’attore era di leggergli la battuta. Rarissimamente entrava nel merito del significato. Ciò che di norma accadeva era che gli attori, sbagliando, non lo guardavano, quindi non capivano cosa passasse nei suoi occhi e, in particolare, quella ricerca di immagini di cui si diceva. Si tenga conto che, negli anni in cui ho cominciato a lavorare, si utilizzavano i registratori portatili: tutti registravano Ronconi per poi passare ore in cuffia a tentare di recuperare il “suo” suono, ovviamente tradendo il pensiero sottostante. Però, un giorno, alla mia obiezione “Ma non comprendono ciò che sta facendo Luca”, una stretta collaboratrice di Ronconi, Nunzi Gioseffi, replicò con un’osservazione folgorante: “Sì, ma in fondo a Luca piace il risultato che ne scaturisce”. En passant: durante un seminario che frequentai con Renata Molinari, ricordo una sua riflessione in merito al fatto che, mentre si recita, bisogna visualizzare ciò di cui si sta parlando; mi colpì molto come due percorsi così diversi come quelli di Luca e Renata presentassero, ovviamente in maniera singolare, delle comuni risonanze.
Dunque, l’indagine sul funzionamento del linguaggio e sulle modalità di costruzione del pensiero intersecava una dimensione musicale, la ricerca di una stilizzazione linguistica e fonetica che si sviluppava parallelamente dando vita a una recitazione in bilico tra la trascrizione di un pensiero e la raffigurazione formale del pensiero. In tutto ciò, il cinema – quindi, il ciak, a completare l’elenco dei sostantivi su cui ho preferito concentrarmi – ha un ruolo essenziale perché, nella maggior parte dei casi, Ronconi guardava il testo attraverso la lente del montaggio. Un altro grande paradigma è, di conseguenza, quello cinematografico, in rapporto non tanto allo stile della recitazione quanto alla sintassi della stessa. Luca evidenziava come, con l’avvento del cinema, cambi la tecnica di costruzione della recitazione: per l’attore “pre-cinematografico”, la questione centrale riguardava la continuità e la durata, ossia era l’arco della scena, e la possibilità di modularlo, ciò che contava; in seguito, con l’invenzione del cinema, l’asse si sposta sulla discontinuità, il problema è attivarsi subentrando a un vuoto precedente.
In merito, un’esperienza, per me, memorabile risale alle prove de Il lutto si addice ad Elettra (1997), in cui il modello cinematografico, segnatamente hitchcockiano, era evidente, per l’alternanza di vuoti – con le parole di Wolfgang Iser, blank (Iser [1976] 1987) – e interventi ex abrupto, “a secco”, dopo un vuoto, con una necessità anche di un’energia enunciativa del tutto peculiare, che poi portava al corpo al corpo con il linguaggio affine alla logica gaddiana della parola masticata. L’impressione vivida che a me ha sempre dato ascoltare la recitazione ronconiana era proprio questa sorta di masticazione della parola e l’uso della parola come la pasticca gaddiana, che va “triturata” e che, in qualche modo, oppone ostacolo all’articolazione. Non a caso, per Ronconi il nucleo della scansione del linguaggio era costituito non dalle vocali ma dalle consonanti, perché queste ultime creano intralci e innescano la possibilità di imprimere energia alla battuta.
Infine, per chiudere queste mie divagazioni, c’è un altro interlocutore che con Luca ha avuto solo degli appuntamenti episodici ma che, almeno per come io ho letto il loro rapporto, è stato fondamentale: Edoardo Sanguineti. Oltre all’esperienza dell’Orlando furioso, la collaborazione tra i due si è snodata dalla traduzione appositamente approntata dall’autore ligure per la Fedra di Ronconi del 1969 alla traduzione delle Baccanti predisposta da Sanguineti per Luigi Squarzina e di cui poi si serve Ronconi nel 1978, fino all’incontro mancato attorno a Storie naturali, che poi genera, su tre piani differenti, XX per Ronconi su testo di Rodolfo Wilcock, Stanze per Luciano Berio e giustappunto Storie naturali per Sanguineti. Per quale motivo chiamare in causa Sanguineti? Perché credo che la paraipotassi di montaggio tipica del linguaggio della neoavanguardia, teorizzata da Sanguineti nel saggio Il trattamento del materiale verbale nei testi della nuova avanguardia (Sanguineti 2001) sia la chiave di volta per comprendere il pensiero ronconiano sulla recitazione, che ho provato a ripercorrere per brevi e frammentari cenni: ossia, l’idea di mettere insieme una paraipotassi che non è quasi neanche più tale nella misura in cui è montaggio puro, quindi salta anche la coordinazione, ed è semplicemente una giustapposizione tra quella tipologia di struttura organizzativa e la verticalità dell’ipotassi che, a sua volta, però, rimane nel laboratorio privato dell’attore impegnato a costruirsi il proprio “film”, la propria immagine verbale.
Ancora una volta è paradigmatico il caso del Pasticciaccio: Ronconi sceglie una delle forme più chiuse del genere romanzo, il racconto poliziesco, ma al contempo è un lavoro non terminato, che vieppiù Gadda ci consegna con un progetto di incompiutezza di senso. Tutto ciò conduce alla nozione di “opera aperta” elaborata da Umberto Eco (1962), rispetto alla quale Ronconi aggiunge un monito: quando si è attori o registi la forma è aperta, ma bisogna sapere ciò che si sta dicendo. Ricordo come una delle “torture” maggiori delle prove per il Pasticciaccio fosse la sequenza finale con la battuta dell’Assunta: “No, sor dottò, no, no, nun so’ stata io!” (Gadda [1957] 1989, 276). Gadda offre una forma aperta al lettore a cui spetta la decisione su come porsi in relazione a quel materiale; d’altra parte, se si interpreta Assunta, bisogna essere consapevoli di cosa si sta parlando, è necessario sapere chi è, o chi non è, il colpevole nel romanzo. Si tratta esattamente della logica paraipotattica.
Riferimenti bibliografici
- Binswanger [1956] 1964
L. Binswanger, Tre forme di esistenza mancata: esaltazione fissata, stramberia, manierismo [Drei Formen missglückten Daseins. Verstiegenheit, Verschrobenheit, Manieriertheit, Tübingen 1956], trad. it. di E. Filippini, Milano 1964. - Eco 1962
U. Eco, Opera aperta: forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee, Milano 1962. - Gadda [1957] 1989
C.E. Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Milano 1957; ora nell’edizione diretta da D. Isella delle Opere, vol. II, Romanzi e racconti, II, a cura di G. Pinotti, D. Isella e R. Rodondi, Milano 1989. - Iser [1976] 1987
W. Iser, L’atto della lettura: una teoria della risposta estetica [Der Akt des Lesens. Theorie ästhetischer Wirkung, Munich 1976], traduzione di R. Granafei, Bologna, 1987. - Kleist [1878] 1986
H. von Kleist, Sulla graduale produzione dei pensieri in chi parla [Über die allmählige Verfertigung der Gedanken beim Reden, Berlin 1878], in Id., Sul teatro di marionette. Aneddoti saggi [1977], a cura di G. Cusatelli, trad. it. di E. Pocar, Parma, 1986, 104-109. - Sanguineti 2001
E. Sanguineti, Il trattamento del materiale verbale nei testi della nuova avanguardia, in Id., Ideologia e linguaggio, a cura di E. Risso, Milano 2001, 77-107. - Stendhal [1826] 1990
Stendhal, Roma, Napoli e Firenze. Viaggio in Italia da Milano a Reggio Calabria, [Rome, Naples et Florence, Paris 1826] prefazione di C. Levi, trad. it. di B. Schacherl, Roma-Bari, 1990.
English abstract
This article offers an exploratory analysis – without claiming any systematization – of the various domains in which Luca Ronconi explored the possibilities of language. Drawing on a selection of texts with which Ronconi engaged throughout his career, the article identifies key elements of his directorial practice. Among the thinkers and writers who inform this exploration are Ludwig Binswanger, Heinrich von Kleist, Wolfgang Iser, and Edoardo Sanguineti.
keywords | Luca Ronconi; language; theater direction.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo / To cite this article: Claudio Longhi, Fumetti, stramberie, ciack e chiacchierate. Quattro divagazioni su Ronconi e il linguaggio, “La Rivista di Engramma” n. 224, maggio 2025.
Per citare questo articolo / To cite this article: Claudio Longhi, Fumetti, stramberie, ciack e chiacchierate. Quattro divagazioni su Ronconi e il linguaggio, “La Rivista di Engramma” n. 224, maggio 2025, pp. xx-yy | PDF dell’articolo