"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

Editoriale: Engramma, da 0 a 100

Monica Centanni

English abstract


 

Il 24 febbraio 2000 Salvatore Settis, a Venezia, in un’auletta dell’allora Dipartimento di Storia dell’arte dell’Università Ca’ Foscari, tenne un seminario sull’Atlante Mnemosyne di Aby Warburg. A Ca’ Foscari, grazie all’interessamento di Lionello Puppi, dal 1996 era stato attivato un corso di Storia della tradizione classica nell’arte europea. Dovendomi preparare per tenere quell’insegnamento – da filologo qual ero e sono, affatto ignorante di immagini, del tutto inabile a vederle e non educato a studiarle e interpretarle – avevo impostato gran parte delle lezioni sulla tradizione delle fonti letterarie greche e latine. Dato però che non potevo evitare di trattare di immagini, per l’inquadramento generale, la storia delle idee e della cultura, e soprattutto per il metodo, mi feci aiutare da una guida d’eccezione.

Avevo avuto la fortuna di imbattermi in Aby Warburg per due vie, entrambe molto indirette. Il primo viatico era stato lo scritto di Giorgio Pasquali, pubblicato nel 1930 nella rivista “Pegaso” a pochi mesi dalla morte di Warburg. Lo avevo letto nella raccolta Pagine stravaganti di un filologo classico e, in effetti, ‘stravagante’ mi era sembrata la stima e l’ammirazione che le parole di Pasquali riflettevano. Ma ciò che mi aveva più colpito erano stati l’entusiasmo e la passione che Pasquali, a conclusione di quello scritto, esprimeva nei confronti dell’ultima opera di Aby Warburg:

Egli lascia pronto per la pubblicazione un atlante figurativo, che prende nome dalla memoria, Mnemosyne, e deve mostrare come i diversi paesi e le diverse generazioni […] abbiano successivamente concepito, e concependo trasformato, l’eredità ’patetica’, dionisiaca dell’antichità. In quell’atlante egli ha voluto vivere per i posteri. Gli studiosi giovani opereranno secondo le sue intenzioni, secondo il suo spirito, se non accetteranno senz’altro concezioni che sono strettamente legate con la potente personalità di lui, se invece di quell’atlante si serviranno come di una pietra di paragone dei propri pensieri. Gli storici dell’arte e gli scienziati della cultura hanno il dovere di rendere fruttifera l’opera del Warburg, lasciando che essa operi su loro, cioè trasformandola.

Il secondo filo che mi aveva portato a Warburg era stata la lettura di Arte e Anarchia di Edgard Wind, un libro di cui Enrico Filippini mi fece dono, nel 1987, dicendomi: “Anche se dici che non capisci niente di storia delle immagini e di arte, e se forse hai ragione che la tua vis imaginalis è molto difettosa; anche se da filologo cerchi e capisci solo le parole, prova a leggere questo, e vedrai che ti piacerà”. Mi era piaciuto, molto, e mi ero procurata tutto quanto era edito fino ad allora di Wind – ma non al punto da distrarmi dai miei studi sulla Poetica di Aristotele, sul Romanzo di Alessandro, su Eschilo (i miei studi, che porto avanti tuttora).

È stata dunque Fortuna – la fortuna del mio accidentato e tortuoso percorso accademico – che mi ha portato, soltanto nella seconda metà degli anni ’90, a studiare Warburg per cercare, innanzitutto per me, un riferimento e un metodo di studio, e poi un modo di insegnare la Storia della tradizione classica.

Il 24 febbraio 2000 Salvatore Settis si trovò a parlare in quell’auletta che era affollata di studenti attenti e appassionati: in quegli anni (dopo due miei prolungati soggiorni al Warburg Institute di Londra, dove avevo studiato gli scritti editi e inediti di Warburg e della sua scuola, cercando una via diretta alla sua lezione, scansando le incomprensioni e le misinterpretazioni di cui da subito mi parve fossero oggetto il suo pensiero e le sue opere) avevo coinvolto quanti erano disposti a lasciarsi coinvolgere nello studio dell’Atlante. Studio in presa diretta, dentro il labirinto di quella macchina mirabile, in cui io, da filologo, mettevo in gioco tutto quanto potevo sapere delle fonti, della mitografia, dell’iconografia antica, e tutto quanto del Rinascimento avevo imparato dagli scritti dei grandi del pensiero italiano, come Eugenio Garin; e in cui molti bravissimi studenti di Storia dell’arte, di Filosofia, di Tradizione classica, mettevano i loro occhi, e tutto il sapere teorico e tecnico che andavano imparando nei corsi eccellenti offerti, in quegli stessi anni fortunati, da Lettere e Beni culturali di Ca’ Foscari: i corsi di Metodologia della ricerca storico artistica e di Iconologia e iconografia di Lionello Puppi; di Storia dell’arte moderna di Augusto Gentili; di Storia della musica (ovvero di storia delle idee attraverso la storia della musica) di Giovanni Morelli; di Storia della miniatura di Fabrizio Lollini; di Filosofia di Romano Madera; di Archeologia e Storia dell’arte antica di Luigi Sperti; di Storia moderna di Giovanni Levi, di Filologia romanza di Luigi Milone. Cercavo di coinvolgere i miei studenti in un gioco difficilissimo: studiare la ‘rinascita dell’antico’ andando a lezione da Warburg, e prendendo come testo di riferimento il suo criptico (e fino ad allora ben poco studiato) Atlante. Gioco difficilissimo, sì, ma insieme, eccitante e appassionante.

Con la guida di Warburg imparavamo – insieme – che il Rinascimento anziché avere, come nei manuali, la patina lucida e retorica, la politezza imperturbata e idealizzante delle opere di Raffaello, era materia viva – colori, passioni, psicomachie tra diverse concezioni del mondo e dell’arte. Nella lezione di Warburg il Rinascimento è recupero e rinascenza delle antiche forme, chiamate a interpretare l’attualità della vita delle corti italiane; ma ha anche a che fare, direttamente, con il nostro presente. Studiavamo insieme, io e i miei studenti, i grandi soggetti del repertorio warburghiano – Botticelli, Ghirlandaio, Dürer – ma anche, e sempre grazie agli spunti ricavati dalla lezione degli scritti e dell’Atlante di Warburg – imprese e medaglie, cassoni nuziali e moda rinascimentale. E poi, sul versante contemporaneo, la pubblicità come veicolo di tradizione classica e le trasformazioni del repertorio folclorico nelle opere di Walt Disney e nella filmografia contemporanea.

Era iconologia ma non come caccia ai misteri da scoprire, o svelamento di enigmi a soluzione unica. Era iconologia e studio della tradizione classica intesa come lettura totale: lettura storica contro la pedanteria delle classificazioni iconografiche; filologia del dettaglio, ma anche tentativo di ricostruire, per campionature significative, il quadro culturale, quando non ideologico, in cui gli artisti del passato, come quelli del nostro presente si muovevano e operavano. I testi base erano La Rinascita del paganesimo antico, la splendida edizione del 1966 degli scritti di Warburg a cura di Gertrud Bing, con la traduzione di Emma Cantimori; il numero monografico di “aut aut” del 1984, in cui per la prima volta, e non per caso in Italia, intellettuali e filosofi si interrogavano sul lascito della “scienza senza nome” di Warburg; I Misteri pagani del Rinascimento, di Edgard Wind. E infine la ‘scatola blu’, ovvero l’edizione delle tavole del Bilderatlas Mnemosyne, pubblicata a Vienna nel 1993.

In particolare, per quanto riguarda lo studio dell’Atlante provavamo a entrarci dentro, per vedere se l’analisi puntuale del singolo pannello, e dentro il pannello della singola opera poteva portare a comprendere la ratio dell’operazione ermeneutica warburghiana. Dentro il labirinto: nel montaggio delle singole tavole ma anche, tavola per tavola, cercando di capire il senso dei raggruppamenti e dell’intero dispositivo che Warburg proponeva (Iter per labyrinthum è il titolo che abbiamo dato alla mostra sul Bilderatlas, Venezia 2004, i cui materiali sono pubblicati in “Engramma”).

Quanto avevo imparato al Warburg Institute di Londra sul modo in cui tra il 1924 e il 1929 erano stati concepiti, costruiti e presentati i pannelli da Warburg e dai suoi collaboratori, mi confermava che per questa analisi così difficile era giusto, anzi era possibile, soltanto procedere in gruppo. Dalle note appuntate nei Tagebuchen di Warburg e di Gertrud Bing, dalle centinaia di appunti su Mnemosyne, avevo capito soprattutto una cosa: che l’Atlante non era né l’opera incompiuta (e perciò indecifrabile) di un’unica intelligenza né, tanto meno (come di fatto suggeriva Gombrich) un passatempo lussuoso, solitario, idiosincratico, il prodotto – forse geniale ma comunque incomprensibile e inutilizzabile – della fase finale di una demenza un po’ visionaria, che risentiva di una grave compromissione delle facoltà mentali dello studioso amburghese. Il Bilderatlas in verità era stato costruito, e pertanto andava studiato, come un gioco di gruppo per studiosi capaci di giocare insieme: un ludus contemporaneamente scientifico e creativo, erudito e di alta divulgazione, generoso e complicatissimo – che comunque era possibile fare e studiare soltanto in squadra. Fra studiosi legati dall’‘amicizia dell’intelligenza’, ovvero fra compagni di un’avventura intellettuale.

Quel giovedì 24 febbraio 2000 Salvatore Settis era reduce da una lectio magistralis che aveva tenuto il giorno prima nell’Aula Tafuri di Palazzo Badoer (lo stesso palazzo dove poi, dal 2002, avrebbero trovato casa il Centro studi classicA e la redazione di “Engramma”, dopo essere stata ospitata da Giorgio Busetto presso la Fondazione Querini Stampalia, e da Girolamo Marcello). La traccia del suo seminario era una lettura dell’Atlante nel contesto complessivo dell’opera di Warburg (gli scritti editi e inediti, la Biblioteca). Il saggio che pubblichiamo in questo numero 100 di “Engramma” è il testo di quel seminario, che fra i molti contributi importanti che Settis ha dato agli studi warburghiani, a partire dagli anni ’80 – ne cito soltanto due, e.g. l’Introduzione a Seznec, La sopravvivenza degli antichi dei, del 1990, e Pathos und Ethos, del 1997 (2006, in traduzione italiana) – è rimasto nel suo complesso inedito. Nei dodici anni trascorsi dal 2000 a oggi gli studi sull’Atlante e su Warburg si sono moltiplicati (vedi in “Engramma” l’aggiornamento bibliografico), anche se resta vero quel che Settis stigmatizzava più di quindici anni fa (e Pasquali già scriveva nel 1930): che Warburg è molto più nominato e citato che studiato – soprattutto per quanto riguarda l’Atlante.

In questo saggio Settis introduce alcune idee chiave per penetrare nel labirinto del Bilderatlas: l’idea delle ‘serie politetiche’; la dinamica tra ethos e pathos, e la tensione che anima internamente le Pathosformeln; e, ancora, le relazioni tra il lavoro di Warburg e le avanguardie artistiche europee di quegli anni. Da quegli spunti il nostro modo, del tutto empirico e pionieristico, di entrare nelle tavole di Mnemosyne, di attraversarle passo per passo, e di scandagliare immagine per immagine, pannello per pannello, il funzionamento di quella macchina, ha trovato un ben più ampio inquadramento teorico. E da quel seminario è nata l’idea di provare a ‘studiare Atlante’ e a ‘fare Atlante’, mettendo in forma quel che andavamo via via comprendendo. La forma più adeguata (anche alle non-risorse economiche di cui eravamo, e siamo, dotati) era una rivista on line. Mercoledì 8 marzo 2000, in quella stessa auletta del Dipartimento di Storia dell’arte Giuseppe Mazzariol, nasceva il progetto de “La Rivista di Engramma”. Il nome ‘engramma’ era preso dal lessico warburghiano. Il motto ‘FULGOR ILLE’ da un passo di Giordano Bruno: “Nihil vincitur, nisi aptissime praeparatum, quia fulgor ille non eodem rebus omnibus communicatur modo” [De vinculis in genere 33, II]. Il numero 0 di “Engramma” usciva nel giugno 2000; il numero 1 nel settembre 2000.

Con questa edizione, il 10 ottobre 2012, “Engramma” arriva a pubblicare il suo centesimo numero, e tutto quello che è stato prodotto in questi anni è disponibile on line, dalla pagina Archivio, e dagli indici tematici e per autore. Molti di quei giovanissimi e appassionati studenti che il 24 febbraio 2000 erano ad ascoltare Settis sono ora valentissimi studiosi, sempre impegnati nella ricerca; molti di loro fanno parte tuttora della redazione di “Engramma”, anche se alcuni hanno dovuto andare a cercare fortuna (e risorse per studiare e per vivere) all’estero, via dal cielo chiaroscuro di questa Italia che mostra verso lo studio e la ricerca il suo volto più inospitale. Il team della redazione, nel frattempo, si è arricchito dell’apporto di studiosi di varie discipline – Storia dell’arte contemporanea, Storia del teatro e del cinema – che insegnano in varie Università italiane. Da quando nel 2002 (grazie ai buoni uffici di Francesco Dal Co, Alberto Ferlenga, Paolo Morachiello, Carlo Magnani, Amerigo Restucci) sono stata chiamata a insegnare all’Università Iuav di Venezia, e la Rivista è diventata l’organo di divulgazione scientifica delle ricerche del Centro studi classicA, la redazione si è arricchita delle energie e delle diverse prospettive disciplinari di giovani studiosi di storia dell’architettura, nonché di un Comitato scientifico che onora “Engramma” con la firma di grandi protagonisti della cultura contemporanea, non solo italiana.

Ma il dato di cui “Engramma” può andare più orgogliosa è la presenza in Redazione, fin dai suoi inizi, di studenti, dottorandi, giovani e giovanissimi studiosi, che con gli studiosi più adulti condividono appieno tutte le responsabilità redazionali, scientifiche e tecniche: dalla programmazione alla curatela dei numeri; dalla prima valutazione sui saggi alla scelta dei referees; dai rapporti con gli autori, agli aspetti più minuti del mestiere redazionale – l’impaginazione, la bozzatura, il lavoro sulle immagini.

In redazione di “Engramma” si gioca insieme, si gioca tutti per tutti, impegnandosi su tutto quanto per strada c’è da fare. Ma perché “Engramma” funzioni ciascuno sa che ha, anche, l’impegno e il dovere di fare il gioco suo. Nella scelta dei temi e degli autori, nella programmazione dei numeri, ciascuno in “Engramma” impara che deve difendere, anche, la sua linea di ricerca, trovando i modi e le declinazioni perché, secondo le regole non scritte del serio ludere, la sua passione di studioso diventi il gioco di tutti. Come nella composizione di una tavola dell’Atlante Mnemosyne – e come avviene nello studio delle stesse tavole e dell’organatura di insieme di quell’opera – lo stile che in “Engramma” si cerca di praticare è quello di una ricerca non solitaria, non romanticamente autosufficiente. Una redazione variegata – complicata, perché sollecitata da tanti diversi temperamenti, da tante centrifughe passioni di ricerca – in cui ciascuno è chiamato a trovare la sua posizione, a guadagnare tempo e attenzione per gli oggetti del suo amore di studioso. Vince chi, numero dopo numero, riesce a imporre a tutti come necessario il suo proprio studium, il fronte della propria ricerca: chi esercita, insieme, più passione e più rigore, più intelligenza e più tenacia. Nella libera gara del serio ludere ciascuno sa che deve giocare per dimostrare agli altri – e al mondo – che la sua ricerca è più necessaria delle altre. E che, perciò, può diventare ‘pubblicabile’, ovvero importante per tutti.

Contenuto e forma – insegna Warburg – si tengono insieme. Nelle varie fasi della sua vita, che coincidono con le sue ‘serie’, non sarebbe stato possibile pubblicare “Engramma” se giovani studiosi, di formazione umanistica o scientifica, non si fossero generosamente applicati per costruire un sistema operativo e un layout grafico via via sempre più efficiente e sofisticato, che fosse in grado di supportare le svariate e indisciplinate esigenze di una redazione che procede trattando insieme forme e contenuti, con la stessa cura e passione artigianale e insieme filologica di una tipografia rinascimentale. La sperimentazione progressiva di soluzioni tecniche e grafiche ci hanno portato oggi fino alla versione eOS2 che inaugura la settima serie di "“Engramma” con il numero 100.

In questo numero 100 abbiamo invitato a intervenire sul tema ‘Pensare per immagini’ diversi amici, vicini a “Engramma” e ai temi della rivista, con i quali in questi anni abbiamo avuto modo di incontrarci, incrociando i nostri interessi di ricerca, i nostri studi e le nostre passioni. Pochissimi hanno declinato l’invito, e solo perché il tempo era ristretto (“Engramma” nasce veloce, sotto il segno di Mercurio). Hanno risposto in molti, amici recenti o di antica data, e il numero 100 ospita così voci di studiosi di provata esperienza accanto a interventi di giovani autori che affrontano il tema da vari prospettive, tematiche e metodologiche. Presentiamo letture ermeneutiche dell’opera-Atlante o su singole tavole del Bilderatlas warburghiano (Bordignon, Pedersoli, Settis); esperimenti sulla composizione di immagini a partire dall’Atlante (Didi-Huberman, Maj); riflessioni sul rapporto di Warburg e della cultura del Novecento con le immagini (Barale, Bertozzi, Forster, Franzoni, Scafi), o dei suoi eredi (Grazioli); sulla riemersione dell’engramma della Ninfa (Kirchmayr, Roberti); su altri Atlanti, intesi anche come collezioni di immagini, e ’pensiero per immagini’, di filosofi, artisti e architetti contemporanei (Baldacci, De Maio, Mengoni, Somaini, Vettese); un contributo sulla storia, terminologica e iconografica, di ’Atlante’ (Bartezzaghi); approfondimenti sul tema delle mappe ottocentesche come nuove macchine mnemotecniche, per esempio in Mark Twain (Castelli). E ancora: riflessioni teoretiche sui dispositivi dell’accostamento e del montaggio in Bataille e in Brecht (Rebecchi, Sacco); sul collage come dispositivo ermeneutico, prima ancora che artistico, da Balzac a Max Ernst (Sbrilli); sul primato della parola come forma privilegiata di espressione, a partire dai frammenti eraclitei (Cacciari); sulla interazione tra idea e immagine nella filologia di dettaglio dell’iconologia, della mitografia e della storia delle immagini, della storia dell’arte al cinema (Agnoletto, Cataluccio, Lollini, Puppi, Zadra); sull’architettura contemporanea, a partire dalla lezione di Carlo Scarpa (Los).

Dodici anni di vita e 100 numeri. Ha scritto un amico: “I cento numeri di “Engramma” sono già da soli una bella narrazione, un atlante potente, e un evento da festeggiare!”. Qualcuno potrebbe pensare che è anche un bel traguardo. In redazione di “Engramma” – citando il bell’esperimento sul modello di Mnemosyne che abbiamo fatto con la tavola e il saggio sul ’68 – diciamo: “Ce n’est que un début!”.

English abstract

Engramma issue no. 100 “Pensare per immagini” includes contributions by Monica Centanni, Sara Agnoletto, Cristina Baldacci, Alice Barale, Stefano Bartezzaghi, Marco Bertozzi, Giulia Bordignon, Massimo Cacciari, Paolo Castelli, Francesco M. Cataluccio, Fernanda De Maio, Claudio Franzoni, Marta Grazioli, Raoul Kirchmayr, Fabrizio Lollini, Sergio Los, Barnaba Maj, Angela Mengoni, Alessandra Pedersoli, Lionello Luppi, Marie Rebecchi, Bruno Roberti, Daniela Sacco, Antonella Sbrilli, Alessandro Scafi, Salvatore Settis, Angela Vettese, Matteo Zadra, .

 

keywords | Images; Fortune; Hermes, Darboven; Richter; Mnemosyne Atlas; Nomen omen omenon; Warburg; Schifanoia palace; Logos; Diana and Actaeon; Plate 42; Plate 37; Plate 44; Plate 45; Plate 49; Memory; Wölfflin; Schwitters; Sebald; Nymph; Brecht; Benjamin; Rossellini.

Per citare questo articolo / To cite this article: M. Centanni, Editoriale: Engramma, da 0 a 100, “La Rivista di Engramma” n. 100, settembre-ottobre 2012, pp. 5-8 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2012.100.0034