"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

230 | Natale 2025

97888948401

Γάζα διηρπασμένη. Storia naturale della distruzione

Editoriale di Engramma 230

a cura della redazione di Engramma, con contributi di Monica Centanni, Giorgiomaria Cornelio, Mario Farina, Nicolas Martino, Peppe Nanni, Filippo Perfetti, Christian Toson, Giulia Zanon


§ I. Il titolo e i contenuti
§ II. Le coordinate filosofiche

Scrivi mi dico, odia
chi con dolcezza guida al niente
gli uomini e le donne che con te si accompagnano
e credono di non sapere. Fra quelli dei nemici
scrivi anche il tuo nome.
Il temporale
è sparito con enfasi. La natura
per imitare battaglie è troppo debole.
La poesia
non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi.
Franco Fortini 1978

I. Il titolo e i contenuti 

Naturalis historia

Naturalis historia: dell’opera incompiuta di Plinio i libri più letti, quanto meno dai letterati e dagli umanisti, sono gli ultimi, che offrono le testimonianze più preziose che ci siano giunte sugli artisti, sulle tecniche, sulle opere d’arte e di architettura greca e romana. Come nota Maurizio Harari:

La natura è l’oggetto, sterminato e “ritmico”, multiforme della ricognizione pliniana, con approccio che è stato definito positivista, in quanto identifica nella tassonomia la garanzia di conoscibilità del reale e ne individua i caratteri fondanti nei diversi aspetti assunti dalla materia.

Nella concezione generale dell’opera sulla multiforme varietà della natura, del tutto inattesa è la via da cui Plinio arriva a parlare delle opere d’arte. I libri XXXIV-XXXVI sono programmaticamente dedicati al regno minerale – pietre, minerali, pimenti, metalli preziosi. Scultura, pittura, oreficeria, le tecniche atte a produrre le opere d’arte, sono trattate come procedure di elaborazioni degli elementi materiali della composizione. “L’opera d’arte – scrive Harari – è per Plinio un prodotto in un certo senso naturale”. In questo senso la storia delle arti – ovvero la storia della cultura umana – è un capitolo della storia della natura. E anche sul fronte del pensiero, di nuovo il punto di partenza è l’analisi della natura: περὶ φύσεως – questo è il titolo del primo e dell’ultimo capitolo della filosofia greca e romana, dai presocratici al De rerum natura di Lucrezio.

Historia naturalis è dunque anche la “storia naturale” dell’invenzione artistica. Invertendo il senso della visione pliniana, ma mantenendone l’essenziale ispirazione materialistica, anche la distruzione è un capitolo della “storia naturale”. Se è vero che le arti altro non sono che un esito dei processi di trasformazione della materia, “una natura illusoria reinventata dentro quella reale”, il processo è anche reversibile. Non solo in natura ma anche nelle arti tutto si crea e tutto si distrugge, secondo il ritmo alterno di “generazione e corruzione” che già Aristotele vedeva come proprio di tutto quanto è κατὰ φύσιν, ‘secondo natura’.

Γάζα διηρπασμένη ἔσται 

In uno dei libri profetici minori dell’Antico Testamento, il Libro di Sofonia, risuona uno dei moniti più violenti rivolti contro Gaza e ciò che essa rappresenta in quanto alterità radicale rispetto al regno di Giuda. In Sofonia 2,4 il destino di Gaza, città dei Filistei, è preconizzato con una formula di brutale evidenza: Γάζα διηρπασμένη ἔσται, “Gaza sarà dilaniata, saccheggiata, fatta a pezzi”. La violenza del linguaggio profetico va letta all’interno di una teologia della storia in cui la distruzione non è mai arbitraria ma sempre inscritta in un ordine cosmico-morale. Tuttavia, proprio questa pretesa di necessità rende il passo particolarmente inquietante. Γάζα διηρπασμένη ἔσται: la profezia naturalizza la distruzione, la rende indebitale, e risuona oggi con un tono apocalittico che non ammette via di scampo al destino di catastrofe. Come riecheggia in maniera non così esplicita anche in passi di Amos e Zaccaria, prima o poi, Gaza dovrà essere naturalmente distrutta, punita. Ma come possiamo ripensare oggi, in forma critica, il dispositivo di questa naturalità?

Winfried Georg Sebald e Anselm Kiefer. Storia naturale della distruzione europea

Parlare di una storia naturale della distruzione significa nominare la virata che questo processo compie: un passaggio di stato in cui l’artefatto – elemento proprio della storia, dell’uomo, del suo corpo o della sua casa, della sua città e della sua civiltà – cessa di funzionare come forma dotata di significato e, ridotto a maceria, ritorna a essere elemento. È in questo scarto, in questa inversione di rotta, che la distruzione va pensata come trauma persistente, un deposito di tempo in crepe che si propagano nella nostra memoria.

Riferimento imprescindibile per questo numero di Engramma è rappresentato da Storia naturale della distruzione, la raccolta di conferenze pubblicata con il titolo Luftkrieg und Literatur, “Guerra aerea e letteratura”, in cui W.G. Sebald – nato in Germania nel 1944 – riflette sul paesaggio di devastazione lasciato dai bombardamenti subiti dalle città tedesche durante la Seconda guerra mondiale.

Da che cosa sarebbe dovuta cominciare una storia naturale della distruzione? Da uno sguardo d’insieme sulle premesse tecniche, organizzative e politiche che consentono di realizzare attacchi aerei su larga scala? O da una descrizione scientifica del fenomeno – sino allora sconosciuto – delle tempeste di fuoco, che tracciasse la mappa, in termini patologici, delle specifiche cause di morte? Oppure da studi comportamentali sull’istinto di fuga e su quello del ritorno? (Storia naturale della distruzione, p. 31).

In altri termini, Sebald si chiede come possa iniziare una “storia naturale della distruzione” se l’annientamento è escluso dalla coscienza collettiva, e se la stessa letteratura si è rivelata incapace di sostenere il peso del reale. La distruzione totale – incomprensibile nella sua contingenza – impallidisce dietro un lessico convenzionale che ha la funzione di rendere dicibile ciò che, in realtà, eccede la capacità di comprensione. Il fatto stesso che il linguaggio corrente sembri restare intatto dopo un evento che ha annientato, in poche ore, “un’intera città con tutti i suoi edifici e tutti i suoi alberi, con i suoi abitanti, gli animali domestici, le attrezzature e gli impianti di ogni genere”, non può che condurre “a un sovraccarico e a una paralisi della capacità razionale ed emotiva in quanti riuscirono a salvarsi” (Storia naturale della distruzione, p. 26).

Sebald parte da una condizione di impotenza, come anche noi, pietrificati da una subitanea afasia, posti dinnanzi a una distruzione che si manifesta paradossalmente nelle forme di “un problema botanico” misurabile in “base all’altezza delle piante cresciute sopra le rovine”, come se la natura fosse capace, da sempre, di metabolizzare la distruzione (Storia naturale della distruzione, p. 35).

Per questo motivo la copertina di questo numero propone uno dei lavori di Anselm Kiefer della serie Lilith: “Lilith, creatura notturna che vive nelle rovine abbandonate, Lilith che vive il luogo che i profeti hanno decretato come non-luogo; Lilith, l’antitesi di Dio che contraddice il mondo presuntamente perfetto da lui creato” (dalle conversazioni tra Anselm Kiefer e Klaus Dermutz, Die Kunst geht knapp nicht unter). Con piombo, sabbia, olio e cenere, Kiefer raggruma la memoria e la rende superficie, come se fosse la crosta di una ferita che non guarisce e non si può mai completamente cicatrizzare. Nel suo lavoro, la pelle inspessita delle cose è una forma di trattenimento di tutte le mancanze a cui il nostro sguardo non può sopperire, che non può guarire ma può solo accumularsi. “La storia è stata sempre, per me, un materiale come lo è l’argilla per lo scultore”, così lo stesso Kiefer, che sostiene che l’artista debba essere “minatore alla ricerca di monumenti di un mondo primordiale, a indagare gli effetti molteplici derivanti dalle stratificazioni della terra e delle rocce, come se si trattasse di un’astronomia o di un’astrologia al contrario” (Anselm Kiefer, Lectio magistralis, nella monografia a cura di E.C. Corriero, D. Eccher, F. Vercellone, Torino 2022, p. 44).

Come la critica ha spesso sottolineato (fra tutti, Anselm Kiefer and Art after Auschwitz di Lisa Saltzman), le immagini di Kiefer sono esito di un’archeologia che procede in senso inverso, che consiste in un continuo depositare, ricoprire, seppellire i frammenti e le schegge della storia in un sedimento stratificato (sul tema, vedi il contributo di Salvatore Settis pubblicato in Engramma 191). Per Kiefer, la rovina è condizione materiale del pensare e soprattutto della storia. In quanto storia della distruzione, non può essere raccontata senza esporsi continuamente al pericolo di diventare narrazione consolatoria o rimozione edulcorante. L’unica soluzione che pare praticabile consiste nel decifrare la rovina, registrare la distruzione, seguire il processo della memoria che, in un andamento oscillatorio, instancabilmente fa affiorare e contemporaneamente seppellisce. Assumere la distruzione come fatto materiale – come ciò che ritorna sotto forma di polvere e rovina, di corpi e città ridotte a maceria, a elemento primordiale – significa affidarsi alla resistenza naturale della materia, per far sì che la memoria possa depositarsi dove il discorso fallisce, aspettando fiduciosamente che essa si stratifichi in grumi e crepe.

Quando lo sterminio – come quello che si dispiega oggi a Gaza, davanti agli occhi del mondo – è presentato come immagine normalizzata nella quotidianità, siamo irrimediabilmente dinnanzi alla forma più alta di annientamento: la neutralizzazione estetica. Allora parlare di una Storia naturale della distruzione significa interrompere l’incantesimo mediatico, non cercare redenzione, non sublimare, non consolare.

Come già ricordavamo nel numero 190 “Figli di Marte 2022”, dedicato al conflitto tra Russia e Ucraina, citando un passo tratto da Figure del mito di James Hillman, “La storia dell’iconoclastia, della paura delle immagini e dei tentativi di disciplinarla, dice chiaramente che tutte le immagini sono pornografiche nella loro capacità di suscitare eccitamento, un eccitamento che dà riconoscimento all’animazione libidica, alla potenza demoniaca, all’anima attiva, propria dell’immagine” (Figure del mito, p. 190). Se questa prospettiva viene innestata nella storia di Engramma, il punto di torsione diventa evidente: fin dai primi numeri sulle questioni delle immagini in guerra (pensiamo al numero 12 di Engramma “Occidente negli echi di guerra”, dedicato all’11 settembre), la rivista ha lavorato contro l’idea dell’immagine come superficie pacificata, immediata, leggibile in maniera univoca. L’engramma – traccia di memoria, iscrizione traumatica, sopravvivenza di un urto – è già in sé una figura di conflitto. Non v’è inerzia, bensì carica latente, pronta a riattivarsi. In questo senso, l’assunto hillmaniano secondo cui ogni immagine è pornografica trova in Engramma un terreno teorico già dissodato: pornografia come intensità che insiste, che bussa alle porte (della memoria, del tempo presente). È in questa chiave che va riformulata la questione dei numeri “in guerra”: non siamo noi a proiettare ossessivamente il conflitto sulle immagini; è la guerra che già vibra dentro di esse. L’immagine, in quanto concentrato di forze, è sempre una scena di conflitto. Sta a noi saperla leggere, scioglierla in riflessioni senza pacificarla in risposte assolutorie.

Rilievi Sgranature Incisioni Materiali

In apertura due saggi di complemento al pensiero e alla direzione del numero; a seguire una partizione dei saggi in quattro sezioni: Rilievi Sgranature Incisioni Materiali.

A rendere la profondità e la problematicità del concetto di storia naturale della distruzione è Mario Farina, dove Malgrado tutto affronta il dibattito del pensiero filosofico tedesco interrogando ciascuno dei tre termini: la storicità dei fenomeni – compresi quelli naturali –; come alcuni eventi siano naturalizzati dall’uomo; e come la distruzione venga implicata come evento che separa e segna la distinzione tra storia e natura, ma anche la loro indefinita inestricabilità ultima, se è vero che “La distruzione ha colpa, anche quando è apparentemente tanto più naturale da sembrare ineluttabile: la natura non è mai solo natura, è sempre già storia e ne ha la sua filosofia”. Il saggio di Farina, partendo da Sebald e Adorno con il suo L’idea della storia naturale (1932), fissa lo scenario di Gaza richiamando l’impellenza di una filosofia che entri nella storia. Nella stessa tensione è il contributo di Georges Didi-Huberman, “ Loué sois-tu, personne… : un’interrogazione sul concetto di radice – partendo dalla poesia di Paul Celan – laddove non c’è modo di esentarsi dal testimoniare per chi non ha più voce, implicando, nei tempi che lo richiedono, la propria stessa origine.

Dopo i due saggi di apertura, la prima sezione è Rilevamenti, dedicata agli studi su Gaza e da Gaza, dal punto di vista archeologico, architettonico e spaziale. Apre la sezione Tra i resti del passato e le macerie del presente Tesori archeologici di Gaza: 5000 anni di storia salvati dalla distruzione un contributo in cui Valentina Porcheddu ripercorre la stratificata storia archeologica di Gaza, a partire dal fortunato e fortuito salvataggio della collezione archeologica in mostra a Parigi, fino a dicembre 2025, a cura dell’Institut du Mond Arabe. Cartografia di un genocidio è l’intervista a Davide Piscitelli condotta da Michela Maguolo e Christian Garavello, dove si approfondiscono le strategie del gruppo di lavoro di Forensic Architecture in relazione alla distruzione e allo sterminio applicati nella Striscia di Gaza dall’esercito israeliano. Il quadro sull’operato di Forensic Architecture, sul modo di analisi e di divulgazione delle sue indagini, è approfondito in Abitare l’evidenza. Distruzione, immagine e controforensica, la recensione che Mattia Angeletti dedica alla loro mostra Looking for Palestine attualmente in corso a Bologna. Completa il quadro su Forensic Architecture la prefazione che Eyal Weizman, fondatore del gruppo, ha realizzato per la raccolta di scritti di Paul Virilio La fin du monde est un concept sans avenir (Paris 2023); come sottolinea nella presentazione Michela Maguolo – la curatrice della traduzione realizzata in esclusiva per Engramma – il legame del gruppo con Virilio è stretto e si riconosce nella comune “impresa di scandaglio del mondo contemporaneo, delle sue dinamiche, tra l’accelerazione delle catastrofi e la nostra incapacità di prenderne coscienza, ancora prima che di comprenderne il senso”. La sezione prosegue con Non pianta, non prospetto, né alzato. Il gruppo di ricerca Iuav per UNDP per Gaza, a cura di Andrea Fantin, Jacopo Galli ed Elisa Vendemini: la testimonianza del loro lavoro da architetti e urbanisti sul campo, in supporto per UNDP in un contesto in continuo mutamento, pone la questione di quali siano i limiti del progetto contemporaneo, e sul senso del progettare pensando a una possibile ricostruzione mentre si continua a perpetrare la distruzione. Infine, Bernardo Prieto con Restitutio ad integrum. On the impossibility of reconstruction, interpella il concetto di ricostruzione partendo dal dibattito teologico attorno al tema dell’apocatastasi introdotto da Origene e ripreso da Hans Urs von Balthasar; cogliendo la carica messianica che muove parte del pensiero di Israele, Prieto compie un a fondo intorno alle forze e alle ideologie che muovono il tentativo di realizzare una Terra promessa nel tempo secolare e di come questo sia una aberrazione, uno specchio perverso dell’idea della ricostruzione del Tempio da parte ebraica. In questo senso, conclude Prieto, non è possibile alcun ritorno al prima, se non “Only in words and music do we find something like our restitutio ad integrum”.

Sgranature è la sezione dedicata agli esercizi sul vedere e sulla messa a fuoco di quanto avviene a Gaza e in Cisgiordania. Carmelo Marabello, con Case, rovine, memoria, futuro. Oracoli dal libro di Amos, oracoli dai film di Gitai, oracoli su Gaza utilizza il cinema di Amos Gitai – regista israeliano in conflitto con le politiche coloniali e sterminatrici del suo Stato – per leggere col campo lungo della storia i drammi che insistono sulla Palestina: come in quei luoghi si attui una violenza sullo spazio pubblico e domestico, comune e individuale, che compromette senza eccezioni vite e biografie di tutti gli attori in gioco, oppressori e oppressi, vinti e vincitori. I materiali dell’installazione di Gitai Home, ruins, memory, future, esposta alla Biennale di Venezia del 2023, ha trovato casa nell’isola di san Servolo a Venezia – come memoria, come rovina, come futuro in attesa di ridiventare presente: l’archivio stesso si fa diaspora, Venezia ne conserva traccia.

Lorenzo Donghi, con Gaza, il buio e l’eloquenza muta dell’immagine. Un laboratorio visuale del contemporaneo, affronta il tema della percezione manipolata su quanto avviene a Gaza e su come i regimi di visione siano limitati da una doppia cecità: quella imposta dal governo di Israele che ad esempio acceca le camere presenti a bordo della Global Sumud Flotilla, e la cecità dell’intelligenza artificiale che, estrapolando immagini di puntamento come in un wargame, produce paradossalmente ‘visioni cieche’, orientate su un taglio strategico che decide arbitrariamente, ad excludendum, del regime di visibilità. Infine, pulvis Gaza di Patrizio Esposito racconta il lavoro fatto negli ultimi due anni assieme ad Ali Rashid per l’archivio gaza_fuorifuoco_palestina: continuare nonostante tutto a conservare, identificare e contestualizzare le fotografie provenienti da Gaza in cui “polvere e cenere sono la grana stessa delle fotografie”.

Incisioni raccoglie le testimonianze di registi e artisti che hanno cercato di corrispondere con le loro opere agli avvenimenti in corso in Palestina: Cesare Pietroiusti nel suo Sessantasettemila ricostruisce una performance realizzata a Roma tra l’1 e il 3 novembre 2025, nel corso di quarantasei ore, e trasmessa in diretta streaming online, che consisteva nel contare ad alta voce, senza commenti né accompagnamento, da uno a 67.000, il numero ufficiale dei morti a Gaza al 22 ottobre 2025: privilegiando i numeri rispetto ai nomi, Pietroiusti indaga come i regimi mediatici “alterino la morte” e propone, invece, un confronto condiviso con la finitezza come fragile base per la solidarietà e la comunità umana. Mario Martone, in una intensa intervista, racconta le ragioni dell’ambientazione a Gaza di alcune scene del suo recente Macbeth; Gabriele Vacis ripercorre un’esperienza di lavoro alla fondazione di una scuola di teatro presso El-Hakawati, il Teatro Nazionale Palestinese, a Gerusalemme Est, e racconta come quell'esperienza abbia portato alla creazione di Amleto a Gerusalemme, uno spettacolo teatrale con attori e attrici palestinesi che ha debuttato nel 2016. Un’appendice amplia questa riflessione sul conflitto a Gaza attraverso la prospettiva del gruppo PoEM, la compagnia teatrale con cui Vacis ha messo in scena la Trilogia della guerra, intrecciando il dialogo tra la tragedia greca – in particolare i Sette contro Tebe Antigone – e le immagini contemporanee delle proteste di solidarietà con la Palestina. Compito dell’arte è non lenire, né plastificare le ferite della storia: nel suo saggio Arte è cicatrice. Alberto Burri, Anselm Kiefer, Ariane Littman, Emily Jacir, Elea Mitrano prospetta una genealogia di artisti in cui “nel monumento levigato, nella crepa, nella nuda terra e nella garza che sutura senza guarire, la ferita non viene superata ma mantenuta in tensione, chiamando in causa il presente come campo di responsabilità”.

Chiude il numero la sezione Materiali. Irene Calabrò in Se la cultura è genocidaria presenta i contenuti e racconta la direzione di pensiero dell'ultimo numero della rivista “K”, Grandeur de Mahmoud Darwish, interamente dedicato al genocidio palestinese. Calabrò spiega i presupposti “dell’impegno politico-poetico” della redazione che ha avuto come esito il ricchissimo numero monografico della rivista. Una reazione in nome dell’intelligenza critica militante alla barbarie in corso e alla correlata omertà dei fiancheggiatori. Il dialogo tra Giorgiomaria Cornelio e Franco Bifo Berardi si interroga sulle possibilità del pensiero intorno a Gaza: partendo dal discusso libro di Bifo Pensare dopo Gaza (Palermo 2025), si mette a fuoco il modo in cui l’intero mondo occidentale è implicato negli avvenimenti della Striscia di Gaza. Chiude il numero Gaza. Materiali per una tavola warburghianaricordando che ogni guerra è anche un conflitto tra immagini. Il lavoro presenta un esercizio che mutua gli strumenti di pensiero e di parola da Aby Warburg e dal suo Bilderatlas Mnemosyne. L’esperimento condotto all’interno del Seminario Mnemosyne, che ha coinvolto studenti del corso di Iconologia dell’Università Iuav di Venezia, fa precipitare alcuni dei poli di tensione che sono emersi durante i seminari preparatori in cinque capitoli: Dioniso Technoraver. Il rave come inizio; Cartografia distopica; Stranamore. Soldati israeliani su Tinder; Horcynus Orca a Gaza; Ninfa con armi improprie. Si tratta di appunti per un saggio iconografico che attraversano le tensioni e le oscillazioni mosse dall’orrore in atto in Palestina: una Tavola sulla psicostoria della distruzione.

II. Le coordinate filosofiche

Afasia

La paralisi del linguaggio che accompagna lo sterminio è immediata conseguenza di una continua esposizione a immagini e informazioni che non riesce a tradursi in parola. Come dimostra Sebald guardando al Dopoguerra tedesco, la distruzione non è muta perché invisibile, bensì perché satura: siamo succubi di un flusso incessante di fotografie, di notizie, di dati che hanno un effetto sospendente a dispetto dell’orrore che comportano. Eppure, noi oggi siamo i non-innocenti spettatori di ciò che sta succedendo a Gaza, e abitiamo il disagio di una implicazione inevitabile. Ogni tentativo di neutralità, ogni appello astratto alla “pace”, ogni sospensione del conflitto nel linguaggio contribuisce a mantenere intatto il dispositivo che rende la distruzione amministrabile. L’afasia allora va affrontata e non aggirata, evitando la deriva retorica dell’apofatico, per sottrarre la parola e l’immagine alla loro funzione potenzialmente consolatoria e alla conseguente deriva verso l’anestesia delle passioni e del pensiero. 

Il taglio che Engramma rivendica è per questo obliquo. Parlare con gli strumenti della propria cultura, della tradizione classica che di Engramma costituisce l’oggetto privilegiato di ricerca, significa assumere una precisa posizione dalla quale porsi davanti a Gaza. Non si tratta di estendere universalmente il nostro linguaggio, né di adottare lessici e cornici interpretative allogene in modo surrettizio, come se il problema fosse una mancanza di competenza da colmare. Al contrario, è proprio restando nel nostro campo d’azione, utilizzando una lingua, una strumentazione ermeneutica che ci è possibile riconoscere come nostra, che possiamo misurare fino in fondo che cosa Gaza può dire su di noi. Il rischio dell’appropriazione critica è speculare a quello del silenzio: entrambi eludono l’implicazione in prima persona. Adottare icone, colonizzare linguaggi – magari indossando una kefia, una kefia qualsiasi, come attributo di una generica, tutta esibita, solidarietà, già pronta per la spettacolarizzazione – può diventare una forma di delega morale, un modo per sottrarsi a una responsabilità storica e politica che ci riguarda direttamente.

Un taglio angolato, dunque, con una solida presa di posizione sul punto di prospettiva. Che è il nostro – italiani, mediterranei, ‘occidentali’, per così dire. Ma di quale ‘occidente’? Forse Gaza è l’occasione per mettere, una volta per tutte, in discussione la determinazione geografica e geopolitica di ‘occidente’? Dove sta Gaza, nella geografia culturale greco-romana e poi medievale, araba e moderna? Nei lunghi secoli dell’età tardo-antica e post-antica, l’idea di una partizione del mondo in ‘oriente’ e in ‘occidente’ sarebbe parsa assai stravagante: ‘oriente’ o ‘occidente’ sono concetti che nascono, a sostegno del razzismo e del nazionalismo, con l’avvento del colonialismo degli stati europei nel XVI secolo. Dove stava Gaza quando l’‘oriente’ arabo si estendeva fino al limite delle colonne d’Ercole, et plus ultra, a sud su tutta la costa nordafricana, a nord, fino alla Vienna sotto assedio nel XVII secolo? L’orientalismo, ce l’ha insegnato Edward Said, non è soltanto una moda culturale estetizzante in voga tra classi privilegiate e capricciose a partire dalla fine del XVI secolo: è una categoria cruciale per la catastrofe del pensiero della nostra cultura. 

Un taglio angolato per trovare le parole adeguate, che sono solo quelle che sappiamo dire, contro l’ineluttabilità dell’afasia. Nessuno può parlare al posto di nessuno. Ma tutti quanti esercitano il mestiere intellettuale hanno il dovere di prendere la parola, disegnare, pensare, scrivere. “Tu scrivi” – come ci intima Fortini. Facile sarebbe leggere Gaza secondo le lenti del paradigma vittimario, seguendo la piega del transfert psicostorico che induce la vittima del genocidio epocale a cambiar parte in commedia e indossare i panni del genocida. Facile cedere alla seduzione gratificante del moto duplice dell’eleos e del phobos che lo spettacolo tragico provoca, trovando forme di condivisione fittizia – o di esibita compassione del dolore o di scontata repulsione degli orrori. Nessuna catarsi. Non siamo noi a commuoverci o a tremare. È l’aria stessa, come mostra Georges Didi-Huberman citando GarcÍa Lorca, che si muove e si commuove: il pensiero sta in quella spaziatura – “en el aire conmovido”. Si tratta di misurarsi con le fratture che Gaza impone all’immaginario contemporaneo e alla nostra responsabilità di intellettuali, facendo i conti con una cesura che muta le condizioni stesse del pensiero. Si tratta di riattivare una antropologia profonda delle emozioni che si faccia parola politica: “Rendere sensibile – scrive Didi-Huberman – la dialettica tra il lamento (quell’emozione, quell’impotenza, quel pathos) e la rivendicazione politica. Vedremo qui come i popoli in lacrime possano all’occasione diventare popoli in armi, o comunque persone che non si accontentano di lamentarsi di fronte alla morte, ma che chiedono giustizia”.

Sentire la commozione dell’aria, prendere le misure, cercare il taglio, mettere a fuoco quel che sapevamo e potevamo fare: è stato questo a cui ha lavorato il cuore della redazione di Engramma negli ultimi mesi. Abbiamo tracciato alcune coordinate su cui si è accordata una prima sintonia: non un taglio storico, non un taglio geopolitico. Filosofia, antropologia, architettura, storia delle arti, del teatro, del cinema, filologia, archeologia e storia della cultura antica: la strumentazione è questa. L’oggetto ruota intorno a un perché: perché questo genocidio è diverso – ci pare diverso – dagli altri avvenuti in passato, e che sono in corso anche in questo momento in tante parti del mondo? Non è, sempre, la furia inconsulta di Ares che cerca campi di morte, e spesso di sterminio, in cui fare orrido commercio di corpi? Non è, da sempre, la storia della civiltà umana che è storia naturale della distruzione? 

Variabile-tempo 

Wilfried Sebald cerca di dare parola – e Anselm Kiefer di tracciare segni e di agglutinare materia pittorica – per lasciare tracce della loro (della nostra) memoria del paesaggio di rovine e di morte che i bombardamenti anglo-americani avevano preventivamente programmato e strategicamente ‘costruito’ nel cuore dell’Europa durante la Seconda guerra mondiale. Sebald e Kiefer scrivono e dipingono a partire dagli anni ’70 del Novecento, quando da almeno quindici anni impera la Nato e la pax americana. Noi stiamo cercando di comporre e di pubblicare questo numero della rivista a Natale del 2025, quando la distruzione e il genocidio, fisico e culturale, della Palestina, a dispetto di ogni dichiarazione di pace, è ancora in corso. Ed è questo il problema. Dal giugno 2025, quando abbiamo aperto il cantiere di questo numero di Engramma, il paesaggio esteriore dei fatti e delle immagini, e il paesaggio interiore delle nostre passioni e tensioni, è cambiato molte volte, così come più volte è cambiata la temperatura del nostro sentire, personale e collettivo, e il disegno delle coordinate che cercavamo via via di tracciare per questo lavoro. Afasie, si diceva; ma anche parole ritrovate in libri che, una volta di più, è ben vero che vale sempre la pena di rileggere; vuoti disperanti, troppo uguali a tutte le catastrofi naturali e innaturali dell’umanità, ma anche l’affollamento fastidioso di troppe immagini. Pensieri di sollevazione, di vergogna, al ritmo alterno dell’impulso alla rivolta e dell’attrazione maligna, insinuante e sempre in agguato, verso il baratro dell’accidia depressiva. Problema ma anche un'opportunità di intervenire sulla materia ancora incandescente, suscettibile di diversi esiti, anche interpretativi, che possono essere oggetto di contesa sul nascere, prima che si solidifichi una versione memoriale canonizzata e quindi neutralizzata. 

Pensare a un numero su Gaza, sulla strage in corso a Gaza, significa ineludibilmente votarsi alla variabile del tempo. Ogni sguardo deve essere costantemente rimodulato, ogni punto di vista è destinato a diventare rapidamente obsoleto: non già perché la questione si esaurisca – al contrario, essa è strutturalmente inestinguibile, perdurante – ma perché le forme in cui si manifesta sono incessantemente messe in crisi e l’urgenza, l’indignazione, la mobilitazione sono costantemente esposte al rischio di imbolsimento. In questo senso, così è stato per la Global Sumud Flotilla con la sua grande esposizione mediatica, il forte portato simbolico iniziale, affievolitosi e consumatosi così rapidamente fino a essere derubricato a mero episodio mediatico. Diversa è invece la persistenza delle energie sprigionate nelle manifestazioni in piazza per la Palestina: una tensione di forze che non si esaurisce nell’eccezionalità dell’azione, ma lavora nella durata – nell’atto di occupare uno spazio, prenderlo collettivamente, farne parte, grazie a un attrito anche violento che tiene aperta la ferita.

Archeologia del sapere 

Nel 1985, Gilles Deleuze torna a interrogarsi sulla questione di cosa sia un popolo, prendendo proprio la questione palestinese come caso esemplare:

I popoli non preesistono. Il popolo, in un certo senso, è ciò che manca, come diceva Paul Klee. C’era forse un popolo palestinese? Israele dice di no. Magari ce n’è stato uno, ma questo non è essenziale; invece, dal momento in cui i Palestinesi sono stati espulsi dal loro territorio, nella misura in cui resistono, entrano nel processo di costituzione di un popolo (Pourparler, p. 144).

Popolo dunque è ciò che, mancandosi, non fa altro che costituirsi in un processo interminabile. Tale definizione, oggi, continua a offrirci una riflessione importante: se Israele è considerata “l’unica vera democrazia del Medio Oriente” da opporre mediaticamente alla barbarie araba, proprio l’idea di un popolo come quello palestinese, che per resistere (per conservarsi) deve riavviare radicalmente il proprio processo di formazione, costituisce un laboratorio politico formidabile, in cui vengono rimesse in discussione tutte le usurate categorie occidentali. Allo stesso tempo, a differenza del 1985, l’idea di territorio, di fondatezza (l’esser fondati in un luogo come definizione identitaria), che in parte abbiamo pensato di superare, trova oggi nella resistenza palestinese un’altra dimensione: rivendicare la propria terra, stare nello spazio che non si vuole lasciare, appartenersi. Il carattere in parte reazionario di ogni resistenza (come la questione del continuare a generare figli a Gaza, criticata da Bifo nell’intervista in questo numero) ci pone di fronte a un’ambiguità feconda: il conflitto smuove inevitabilmente ogni idea di “popolo”, anche in linee non progressive, non unilaterali, ma instabili, dove si mischiano atteggiamenti rivoluzionari e altri di forte conservatorismo, contribuendo in ogni caso a quel processo di ricostituzione il cui esito è (e deve rimanere) politicamente imprevisto. Sempre a venire. 

Il numero ha quindi a che fare non con un’entità astratta, con una categoria modellabile secondo il proprio piacimento o sentimento: ha a che fare con un insieme – forse una comunità – di esseri viventi. È così che questo numero non può fare a meno di considerare come ci sia un secondo gruppo, un noi di chi lo scrive, che si confronta a un loro. Non riassumibili nello stesso insieme, possiamo però ritenere possibile un affratellamento. È infatti richiesto – come scrivono Deleuze e Guattari – averci a che fare, diventare parte del medesimo processo. Artaud diceva: scrivere per gli analfabeti, parlare per gli afasici, pensare per gli acefali. Ma cosa significa “per”? Non “in favore di...” né “al posto di...” Ma “davanti a...”. È una questione di divenire. Il pensatore non è acefalo, afasico o analfabeta, ma lo diventa (Che cos’è la filosofia?, 103).

Nessuno può parlare al posto di nessuno. Ma anche i protagonisti della storia che stiamo vivendo devono essere convocati per trasformare la rabbia, o peggio la disperazione degli sconfitti, in energia rivoluzionaria. Anche noi, allo stesso modo, dobbiamo parlare non al posto o in favore di Gaza e del suo popolo, ma davanti a Gaza: confrontarci con Gaza, mettersi viso a viso con Gaza, e assumere quello stesso processo di divenire, “in cui qualcosa dell’uno passa nell’altro”, in cui c’è una possibile reciproca contaminazione, dove si può trovare “il popolo futuro e la nuova terra”, accompagnarlo senza sostituirlo ma standogli di fronte. In questo numero, tramite l’esercizio del pensiero e raccogliendo le testimonianze di artisti, abbiamo provato a farci parte. A prendere parola per questa parte.

Essere allora davanti al presente di Gaza, non sublimare e assolutizzare lo sterminio e la distruzione, ma cogliere nell’avvenimento catastrofico l’avvento di quel popolo, di chi resiste a morte, schiavitù, al proprio presente: il suo natale.

Colonialismo, Europa e modernità del razzismo

Per gli esponenti dell’espansionismo sionista che governano Israele, è fondamentale sgombrare il campo della prospettiva, negare ontologicamente l’ostacolo rappresentato dall’esistenza di un antico insediamento fittamente popolato, che ostruisce la loro avanzata potenzialmente illimitata oltre i confini (confini volutamente mai delineati):

Uno Stato palestinese non può esistere perché non esiste qualcosa che si chiami popolo palestinese. Noi abbiamo bisogno di iniziare dalle radici. Storicamente, non c’era alcun popolo. Legalmente, internazionalmente, non c’è alcun popolo. Ci sono, nelle definizioni del diritto internazionale, alcuni parametri certi per definire un popolo: lingua, moneta, re, governante. Io mi domando sempre, chi è stato il primo re palestinese? Eredità, storia? Non c’è mai stato nulla di ciò! Noi abbiamo bisogno di raccontare la verità. Voi sapete che a volte vale la pena dire la verità? Il movimento nazionale palestinese è stato creato dal Gran Mufti come un movimento contrario al movimento sionista. C’erano gli arabi. Arabi come tutti gli arabi. Ci sono molti arabi intorno a noi. Musulmani, non-musulmani. Loro immigrarono verso la Terra di Israele. A proposito, la maggioranza di loro venivano per seguire il processo di Shivat Zion, ovvero il ritorno degli ebrei nella Terra di Israele. Gli ebrei arrivano nella Terra di Israele e fanno fiorire il deserto. E poi, all’improvviso, ci sono mezzi di sostentamento, c’è occupazione. Improvvisamente la sabbia e la malaria e le paludi si trasformano.

È il passaggio di un discorso alla Knesset del Ministro delle Finanze di Israele, Bezael Smotrich, che capeggia la fazione etnonazionalista del governo Netanjahu. Traspare dalle sue parole non solo la vaghezza dell’impostazione giuridica – nessuna dottrina costituzionale moderna, per esempio, esige una pregiudiziale monarchica di fondazione – ma anche la volontà di proclamare una narrazione ideologica aggressiva, calibrata per legittimare l’impresa coloniale che farà, immancabilmente, “fiorire il deserto”: che è uno spazio vuoto per definizione. Ma se, come nel caso concreto, l’area presa di mira risulta essere densamente abitata, occorre preliminarmente modificare quelle che Foucault chiamava le condizioni di visibilità del reale: far sparire i Palestinesi dalla vista, o almeno squalificare il loro statuto ontologico, renderli impresentabili agli occhi della cosiddetta “comunità internazionale”, il perimetro di omologazione dell’umanità a pieno titolo. Ma non basta il degrado nella percezione estetica, “la partizione del sensibile” (secondo la lezione di Jacques Ranciere) in due zone nettamente distinte che confina i Palestinesi tra gli impresentabili o tra gli “animali umani”, come si compiace di dire, con la silenziosa approvazione dei media occidentali, il ministro della difesa israeliano. Anche il linguaggio viene arruolato in questa rappresentazione asimmetrica: i (300) prigionieri di guerra israeliani sono “ostaggi”, civili o militari ma sempre presuntivamente innocenti, i (9.000) sequestrati palestinesi sono “detenuti”, civili o militari, ma sempre “terroristi” a prescindere, nella cornice propagandista della guerra “Israele-Hamas” che non è cortese chiamare con il più appropriato nome di invasione della Palestina. Mohammed El-Kurd ha descritto nel suo libro Vittime perfette e la politica del gradimento il comportamento che si pretende dalla popolazione palestinese.

Qui in Occidente (qualsiasi cosa significhi adesso “occidente”) sugli schermi televisivi, nei campus universitari, nelle istituzioni pubbliche nonché nell’immaginazione collettiva, i Palestinesi esistono in una dicotomia falsa e rigida: o siamo vittime o siamo terroristi. I Palestinesi ritenuti terroristi non hanno mai l’opportunità di esprimere le proprie opinioni […]. D’altro canto le vittime devono essere ferite e deboli: troppo ferite per combattere verbalmente e troppo deboli per corrucciare o aggrottare le sopracciglia. E se hanno subìto un lutto, devono essere le vedove urlanti il cui dolore è troppo inspiegabile da contestualizzare o gli orfani di quei genitori massacrati i cui necrologi omettono la “causa di morte”. Le loro grida disperate esistono al di fuori della storia e della politica, le loro ferite vengono narrate senza un colpevole [...]. La loro testimonianza “deve cercare di rimediare alle crisi umanitarie che, come i terremoti e le eclissi, si verificano isolate dal contesto mondiale […]. Una volta raggiunti quei criteri, come per magia, il palestinese può infine fuggire dalla categoria circoscritta del terrorista e trovare rifugio nell’etichetta ancor più soffocante della vittima (Vittime perfette, pp. 21-23).

Questa discriminazione, geolocalizzata nell’orizzonte di Gaza, accompagna l’espunzione verticale della stratificazione storica e delle testimonianze archeologiche che attestano la lunga durata della permanenza di civiltà nell’area palestinese, perché, ci ha ricordato il ministro Smotrich, “Noi abbiamo bisogno di iniziare dalle radici”.

La Confederazione Italiana Archeologi – che ha parlato senza mezzi termini di “cancellazione culturale” – ha ricordato che il conflitto ha già causato la distruzione di entrambi i musei di Gaza e che l’UNESCO, analizzando immagini satellitari, ha contato danni a 94 siti di archeologia ellenistico-romana ma anche al palazzo del Pacha del XIII secolo e a molte chiese e moschee (vedi in questo numero di Engramma il contributo di Valentina Porcheddu). “Ci chiediamo se i 5000 anni di storia di Gaza — ha dichiarato la CIA — siano parte di ciò che verrà selettivamente sradicato insieme ai suoi abitanti”.

Accanto alla deumanizzazione del palestinese, la cancellazione e lo sradicamento culturale del patrimonio di Gaza e della Cisgiordania costituisce il secondo elemento del dispositivo di dominio che pretende di ridurre tutta l’area a un territorio disponibile per “l’appropriazione originaria”, già descritta da Marx e inaugurata con la recinzione, come proprietà privata, dei pascoli e degli altri beni comuni nell’Inghilterra del XVI secolo. Una pratica e una teoria poi affermate su larga scala nell’età del colonialismo: non per caso i sionisti che stanno occupando progressivamente i territori palestinesi si autodefiniscono “coloni” e non per caso le comunità dei nativi americani sono fortemente solidali con i Palestinesi, riconoscendo la perfetta analogia tra le due vicende storiche.

A Gaza si ripete la stessa logica che costituisce il “cuore di tenebra” di una certa idea di occidente liberale e democratico: esportare sé stesso dappertutto, ed eliminare tutto ciò che si oppone alla sua espansione indiscriminata. I Palestinesi sono oggi la nuova figura dell’Untermensch, “terroristi” da eliminare, come già un tempo i poveri e le cosiddette “classi pericolose” di marxiana memoria. Non si capisce, insomma, cosa sia veramente il liberalismo europeo con il suo portato di diritti e pace se non si ricorda la sua vocazione espansionista e conquistatrice, sostenuta da una convinzione di supposta superiorità che si radica, comunque, in una qualche forma di fanatismo religioso.

I dannati della Pace

La guerra è la cifra stessa della pace.
Michel Foucault, Bisogna difendere la società, p. 49.

Allora, in quello che scrivo, o che altri scriverà, ci potrà essere come la lima fine di acciaio
nascosta nella pagnotta dell’ergastolano, una parte metallica.
Che possa appropriarsene solo chi l’abbia chiesta e per questo meritata. 
Contrabbandata sotto specie in che tutti, anche i nemici, possono comunicare; ma solo a lui e a quelli come lui destinati.
Franco Fortini, Due momenti, in Mi pare un secolo, p. 126

Rappresentare i Palestinesi come vittime innocenti significa designarli come innocue comparse, consegnando da un lato quel popolo alla passività e dall’altro chi solidarizza all’impotenza compassionevole di un tiepido moralismo umanitario. Significa rinunciare alla trasformazione del reale, cioè alla politica, riducendosi alla rassegnata accettazione delle condizioni esistenti e ai rapporti di forza attuali che sanciscono una situazione di dominio avvertita, più o meno esplicitamente, come immodificabile, sforzando di illudersi che l’astratta proclamazione di una vaporosa trattativa di pace in conto terzi – che esclude qualsiasi protagonismo palestinese – possa sublimare la concreta prosecuzione della campagna stragista e indurre i manifestanti a tornare a casa e riporre bandiere e kefie, soffocando quella nuova e promettente onda energetica che ha percorso le città e preoccupato i governanti. E che non può afflosciarsi nelle logore categorie dell’umanitarismo pacifista. La pace è il nome di copertura di una società eterodiretta dalle strutture tecnologiche e mediatiche di un dispositivo militarizzato, votato alla guerra ibrida permanente sia contro i “dannati della Terra” – non si contano, fuori dall’Occidente, le incursioni aeree, missilistiche e navali e gli omicidi mirati che quotidianamente costellano questa “pace” – sia contro la maggioranza della popolazione interna, narcotizzata dal sistema informativo e minacciata ormai di arruolamento generale, in attesa di guerre evocate in modo sempre più martellante.

Solo l’assunzione di un atteggiamento apertamente conflittuale sarà all’altezza della situazione. La stessa dicotomia manichea tra guerra e pace non regge più: occorre generare, anche sul piano intellettuale, un attrito sufficiente a scardinare le categorie vigenti di lettura e interpretazione del mondo, “prendere partito” e dotarsi di una strategia della rottura del senso comune dominante. A ben vedere, tutte le conquiste della conoscenza non sono maturate nel tiepido quanto ipocrita clima della “razionalità discorsiva”, irrealisticamente vagheggiata da Jürgen Habermas (che intanto ha tenuto a farci sapere che “le reazioni di Israele sono giustificate”), ma come rotture epistemologiche, sovversioni gnoseologiche irrelate a ricadute politiche. E viceversa. E ancora, quando Fortini afferma: “Tra quelli dei nemici, scrivi anche il tuo nome”, sembra ricordarci che il conflitto si prolunga in interiore homine, perché occorre combattere la vigliacca prudenza che suggerisce di non esporsi nella contesa e ancor di più l’accomodante inerzia che ci trattiene rannicchiati su certezze culturali invecchiate, nel timore che la dinamica del movimento intellettuale possa provocare perdita dell’orientamento, spaesamento. Contro questa senilità del pensiero e questa sclerosi dell’azione, Hannah Arendt raccomandava di “uscire dall’asilo di casa” e coltivare “un coraggio a bassa intensità”.

Si tratta di misurarsi con le fratture che Gaza impone all’immaginario contemporaneo e alla nostra responsabilità di intellettuali, facendo i conti con una cesura che muta le condizioni stesse del pensiero. Si tratta di riattivare una antropologia profonda delle emozioni che si faccia parola politica, quindi immediatamente conflittuale. Ripudiare l’ideale della pace che ha infestato – anche nei suoi emblemi e nei suoi colori esteticamente tristi, nelle sue bandiere multicolori, tristemente scolorite, da asilo infantile dell’umanità – decenni di cultura, neutralizzando la necessità del conflitto come dispositivo politico. Se l’azione politica e intellettuale avviene attraverso l’apertura di un fronte di lotta per la modificazione dell’esistente, allora essa implica sempre una scelta di campo che rende problematica la pacificazione, e anzi la incomoda in ogni senso possibile. È in questo senso che il testo di Fortini del 1990, Extrema ratio sulla prima Intifada, va sottratto a ogni lettura moralistica o umanitaria e ricollocato nel suo statuto propriamente politico. I Palestinesi dell’Intifada, ben lontani da essere elementi di una vittimizzazione neutralizzante, sono soggetti storici che agiscono una rottura dell’ordine imposto, assumendone (e subendone) il costo. Fortini li pensa come i “combattenti dei ghetti”: non destinatari di pietà, bensì di una decisione — indifferenza, ostilità o aiuto — che chiama in causa chi guarda, provocando in noi la fiducia “poco paradossale” che competa ai Palestinesi “di rappresentare e richiamare noi ai principi di libertà di coscienza e di diritto alla insurrezione contro la tirannia, che hanno celebrato a Parigi il proprio secondo centenario”. Scrive Fortini:

I Palestinesi dell’Intifada non sono vittime, sono gente che si ribella a una condizione che è stata a loro imposta e che pagano per la loro ribellione. Non sono vittime, almeno fino a quando si ribellano. Debbono essere considerati come i combattenti dei ghetti. Non dobbiamo loro pietà ma – e se possiamo scegliere – indifferenza o ostilità o aiuto […]. Per me, stare dalla parte dei Palestinesi, quindi contro la politica militare del governo israeliano, e chiedere pronunce di parte immediatamente prima che di pace, vuol dire ricordare ai miei connazionali — non dunque solo agli ebrei, anzi e soprattutto non a costoro ma a chi, nella sinistra italiana, è loro amico – che esistono cause (di giustizia o di solidarietà, di lotta anticolonialista o antimperialista internazionale; e ognuno scelga fra queste quella che meglio gli si confà) per le quali può essere necessario rompere i legami più cari e ardui; ossia scegliere che cosa mettere al primo posto: la fedeltà a una patria, a una etnia, a una cultura, a una tradizione religiosa o familiare, ai propri morti oppure altro. Questo “altro”, io che scrivo l’ho messo al primo posto, ogni volta che mi si è presentato un conflitto di doveri e di fedeltà. Non vorrei che si scambiasse, ancora una volta e secondo l’andazzo pseudo democratico oggi di moda, il rispetto per l’espressione del pensiero altrui col rispetto per un pensiero, o per azioni, che si ritiene sbagliate o false. E aggiungo che, poco paradossalmente, compete ai palestinesi, alla loro cultura assai diversa (nel senso di non-europea) da quella cui si richiama Israele, di rappresentare e richiamare noi ai principi di libertà di coscienza e di diritto alla insurrezione contro la tirannia, che hanno celebrato a Parigi il proprio secondo centenario.

Allo stesso modo, l’intera distruzione della storia palestinese ci chiama in causa in questa dissipazione (programmata) del patrimonio memoriale. Leggiamo in I cani del Sinai di Fortini:

La nostra vita non è solo diminuita dal sangue e dalla disperazione palestinese; lo è, ripeto, dalla dissipazione che Israele viene facendo di un tesoro comune. Non c’è laggiù università o istituto di ricerca, non biblioteca o museo, non auditorio o luogo di studio e di preghiera capaci di compensare l’accumulo di mala coscienza e di colpe rimosse che la pratica della sopraffazione induce nella vita e nella educazione degli israeliani.

“Tu scrivi” 

La storia della distruzione è forse naturale, ma – oltre alla natura, e forse contro la natura – la guerra è essenzialmente umana. Polemos è padre di tutto ciò che esiste. Ma la madre del mondo è l’Alma Venus, che con lo stesso Ares partorisce Armonia. Madre del mondo che ogni anno, dopo che la terra si è congelata e tutti i frutti sono distrutti, per amore fa rinascere Adone: così si racconta a Gaza.

Lunga è la storia di Gaza, che è stata una delle capitali culturali del nostro Mediterraneo. Tra la fine del V secolo d.C. e l’inizio del VI fiorisce la Scuola di Gaza che per un breve tempo entra in competizione con Alessandria e con Costantinopoli, nell’ambizioso progetto di “far rivivere Atene”. Dura solo per qualche decennio, finché non saranno chiuse, per editto imperiale, le scuole pagane ad Atene e su tutto il territorio dell’Impero. Fra i poeti e gli intellettuali di Gaza ci sono Procopio, Enea, Corciro, Zaccaria, Giovanni di Gaza che, sulle tracce del maestro Nonno di Panopoli, fa sintesi di elementi della tradizione classica e del nuovo pensiero cristiano, intrecciando la visione greca del divino con la filosofia neoplatonica.

L’opera più nota di Giovanni è la Tabula Mundi, la descrizione di un affresco che decorava una volta delle terme di Gaza: il cosmo ha il suo fulcro nell’immagine dei legni della Croce, per cantare i quali sono convocati Apollo, le Sirene, le Muse – e poi il Sole, il Tempo, gli Astri, i Venti, Oceano, Aurora, la Terra, il Mare. La luce è la cifra di Gaza e del suo mare, in cui fa epifania Afrodite, anima mundi che regge con calma il timone sulla cresta dell’onda, un dito teso sulle labbra a esprimere il silenzio di fronte allo splendore del cosmo. 

Tra i componimenti poetici della Scuola di Gaza, varie volte ricorre il mito di Afrodite e di Adone. Con tutta probabilità la versione del mito secondo cui Adone sarebbe stato ucciso dal cinghiale, ipostasi del feroce dio della guerra – Ares geloso dell’amore dolce e vitale di Afrodite per Adone –, fiorì proprio a Gaza, in collegamento con il Giorno delle Rose, festa di maggio in cui si ricordavano i fiori che Maria porta in dono a Elisabetta nella Visitazione, quando i bambini sussultano nel ventre delle madri. Il rosso della rosa bagnato dal sangue di Afrodite e il rosso del vino di Dioniso sono simboli del sangue di Cristo: Dioniso e Afrodite, come Cristo – scrive Procopio di Gaza – sono la salvezza dei mortali, sono la vita che rinasce.

È inverno, fa freddo a Gaza. Perché, per ora, ha vinto la zanna di Ares e Adone è sottoterra. Tutto è avvolto in un sonno di morte, tutto è congelato e in rovina. Ma “Il fanciullo è il frutto, / potente profezia di vita: / è il parto di natura, / è danza d’Afrodite” (Giovanni di Gaza, Anacreontica V). Gaza è bella, luminosa della luce del suo mare – dicevano allora, e ripetono ancora oggi, con coraggio visionario, i poeti e il popolo di Gaza. 

Scrivono in ultimo Deleuze e Guattari:

L’artista o il filosofo sono incapaci di creare un popolo, possono solo invocarlo, con tutte le loro forze. Un popolo può crearsi solo attraverso sofferenze abominevoli e non può nemmeno occuparsi d’arte o di filosofia. Ma i libri di filosofia e le opere d’arte contengono a loro volta una somma inimmaginabile di sofferenza che fa presentire l’avvento di un popolo. Essi hanno in comune il fatto di resistere, resistere alla morte, alla schiavitù, all’intollerabile, alla vergogna, al presente (Che cos’è la filosofia?, p. 103).

E, se i poeti continuano a cantare, ci sarà – non può che esserci – Μαϊουμάς, la festa delle rose, il giorno della rinascita.

English abstract

This issue of Engramma explores the “natural history of destruction,” linking Pliny’s materialist view of art with contemporary violence, particularly in Gaza. Drawing on Sebald and Kiefer, it examines how destruction—physical, cultural, and symbolic—can be documented, remembered, and reflected upon without aesthetic neutralization or consolatory narratives. Contributors from philosophy, art, archaeology, theater, and architecture consider how memory, testimony, and creative practice confront catastrophe, emphasizing witnessing “in front of” rather than speaking for the affected. Gaza is treated as a site where history, culture, and resistance intersect, challenging conventional Western categories of people, territory, and victimhood. The volume highlights destruction as both natural and historical, showing how art and scholarship can trace trauma, register memory, and engage ethically with catastrophe, while resisting simplified narratives or moral absolution.
The issue features two introductory papers by Mario Farina and Georges Didi-Huberman. Four sections follow: Rilievi (Reliefs); Sgranature (Grainy images); Incisioni (Engravings), and Materiali (Materials). These sections contain contributions from: Mattia Angeletti; Andreas Arias Pineda; Franco Bifo Berardi; Barbara Biscotti; Irene Calabrò; Monica Centanni; Clara Conturso; Giorgiomaria Cornelio; Brenno Damiani; Lorenzo Donghi; Patrizio Esposito; Andrea Fantin; Simone Fraschini; Jacopo Galli; Christian Garavello; Marco Lanzerotti; Michela Maguolo; Carmelo Marabello; Nicolas Martino; Mario Martone; Elea Mitrano; Gaia Molin Pradel; Peppe Nanni; Erica Nava; Filippo Perfetti; Cesare Pietroiusti; Valentina Porcheddu; Bernardo Prieto; Carolina Tascione; Lorenzo Tombesi; Gabriele Vacis; Elisa Vendemini; Nicolò Vinetti; and Giulia Zanon. 

keywords | Gaza; Palestine; Winfred Sebald; Anselm Kiefer; Fortini; Deleuze; Guattari; Israel; School of Gaza.

Per citare questo articolo / To cite this article: Redazione di Engramma (a cura di), Γάζα διηρπασμένη. Storia naturale della distruzione. Editoriale di Engramma 230, “La Rivista di Engramma” n. 230, Natale 2025.