"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

182 | giugno 2021

97888948401

Il passo della Ninfa fiorentina

Lettura interpretativa di Mnemosyne Atlas, Tavola 46

a cura del Seminario Mnemosyne, coordinato da Monica Centanni e Sara Agnoletto, con Maria Bergamo, Ilaria Grippa, Ada Naval, Alessandra Pedersoli, Filippo Perfetti, Daniela Sacco, Filippo Rizzonelli, Giulia Zanon*

*al lavoro di ricognizione e recupero dei materiali e alle varie fasi di lettura di Mnemosyne Atlas, Tavola 46, hanno collaborato attivamente: Giacomo Confortin, Elena Lunghi, Vittoria Magnoler, Flavia Mazzarino, Alice Mestriner, Ahad Moslemi, Alba Nannini, Tommaso Pandolfi, Pierpaolo Petruzzelli, Chiara Velicogna.

Materiali Tavola 46 | appunti di Warburg e collaboratori e didascalie

English abstract

§ Saggio interpretativo
§ Appendice I. La Dovizia di Donatello come modello della Ninfa fiorentina
§ Appendice II. Una (sola) fotografia (46_24). La materiale immaterialità delle forme
§ Dettagli, schede e didascalie delle immagini in Mnemosyne Atlas, Tavola 46
§ Bibliografia su Mnemosyne Atlas, Tavola 46 e sulla Ninfa in Warburg

Saggio interpretativo

I. incipit: il tema
II. coordinate
III. strategie del montaggio
IV. dialogo sintattico e semantico tra le figure
V. Ninfa fiorentina: l’ancella, la signora, la ninfa
VI. Ninfa moderna: la campagnola di Settignano
VII. Ninfa gradiva: il passo della Ninfa è una Pathosformel?
VIII. relazione con Tavola 45 e Tavola 47
IX. explicit

“Tu ti senti pronto a seguirla come una idea alata attraverso tutte le sfere in una amorosa ebbrezza platonica;
mentre io mi accontento di volgere il mio sguardo filologico sul terreno dal quale è emersa,
e a chiedermi con stupore: questa strana e delicata pianta ha davvero le sue radici nell’austera terra fiorentina?”
Aby Warburg, Epistolario con André Jolles, “Ninfa fiorentina” 1900

I. incipit: il tema

“Ninfa. ‘Eilbringitte’ im Tornabuoni-Kreise. Domestizierung” [Ninfa. L’ancella “Brigitta-porta-in-fretta” nella cerchia Tornabuoni. Addomesticamento].

Gli scarni appunti apposti da Warburg e collaboratori su Tavola 46 danno un’indicazione soltanto parziale (e quasi criptica, per ‘parole chiave’) sul tema del montaggio. Certamente al centro è l’immagine della Ninfa, pre-formazione antica della figura femminile in movimento, che riemerge nei dipinti della committenza Tornabuoni, e più in generale nel contesto del Rinascimento fiorentino, prevalentemente in ruolo domestico e ancillare. Ma la vitalità dell’immagine antica della Ninfa trova nella Tavola anche altre declinazioni, in dialettica con la rappresentazione composta e dignitosa della nobile ‘Signora’: si manifesta nelle diverse facies di Venere, nelle pose leggiadre delle Grazie, fino a perdere pregnanza e carica semantica nelle immagini di repertorio e nei modelli di bottega, o a riattivarsi, facendo epifania anche nella realtà quotidiana, come l’engramma catturato dallo sguardo contemporaneo nell’istantanea fotografica posta in chiusura del pannello.

II. coordinate

Le immagini che compongono Tavola 46 sono prevalentemente di ambito rinascimentale e fiorentino. In alto a sinistra del pannello, immagini medievali presentano una discordanza stilistica e cronologica rispetto al resto degli elementi in Tavola.

In basso a destra, la foto di una campagnola a Settignano, scattata dallo stesso Warburg, propone un salto, non solo cronologico ma concettuale, verso la contemporaneità (vedi Appendice II).

Immagine incipitaria e immagini finale, in forza di questo sensibile scarto, creano due fratture nel corpus delle immagini, e così tracciano la griglia di significato primario di Tavola 46. Le immagini medievali e quella della ‘villana’ di Settignano costituiscono i due poli temporali che racchiudono il nucleo degli elementi del montaggio. 

III. strategie del montaggio

Tavola 46 è organizzata su tre assi verticali che l’attraversano nella sua interezza, e una fascia orizzontale all’altezza di tre quarti. Le tre colonne sono omogenee tanto per il supporto o tecnica dell’oggetto rappresentato quanto per il soggetto.

La prima colonna di sinistra, composta dalle figure 46_1, 46_4, 46_5, 46_16a, 46_16b, 46_21, 46_22, è interamente composta da bassorilievi e altorilievi in pietra o in metallo.

La figura della Ninfa è qui per lo più rappresentata in ruoli di servizio, sia per la funzione strutturale o similstrutturale dell’oggetto in cui è raffigurata [46_4, 46_5, 46_16a, 46_16b, 46_21, 46_22], sia come portatrice di qualcosa: doni, cesti di frutti, vasi d’acqua.

In una sezione centrale, composta da immagini di dipinti e affreschi, Tavola 46 presenta il tema della Ninfa in relazione con la Signora fiorentina, l’aristocratica Giovanna degli Albizzi in Tornabuoni. Giovanna compare più volte: nella Nascita di San Giovanni Battista del Ghirlandaio [46_3], passando per il suo ritratto funebre [46_13] e la sua medaglia [46_14]. Poi ritorna nella scena della Visitazione dello stesso ciclo di affreschi della cappella Tornabuoni [46_19] e, infine, nell'affresco di Villa Lemmi, in cui la giovane sposa accoglie cortesemente Venere e le Grazie [46_25].

In questa sezione i soggetti rappresentati sono quasi tutte ‘visitazioni’, in cui è in evidenza l’ingresso della Ninfa nel lessico estetico del Rinascimento, come figura-ponte rispetto all’antichità classica. In questo senso la sezione offre anche una visualizzazione del tema, caro a Warburg, della dialettica tra l’immagine statica, ‘alla franzese’, e l’immagine in movimento, che fa riemergere nel contemporaneo la vitalità delle forme antiche.

La terza sezione è costituita da una serie di immagini poste in colonna sul lato destro del pannello [46_7, 46_15, 46_20, 46_26]. Si tratta, esclusivamente, di immagini di riproduzioni o disegni che riportano figure estrapolate dal contesto: la Ninfa risulta una figura autonoma, emancipata, quanto meno sul piano formale.

Leggendo la composizione di Tavola 46 in direzione da sinistra a destra, e in particolare ponendo attenzione ai supporti materiali delle opere presentate nel montaggio, si ha l’impressione di una strategia di progressivo, e ponderato (concettualmente e materialmente), alleggerimento del ‘peso’ delle immagini. Da una colonna di materiali in pietra (sulla sinistra del pannello) si passa a una serie verticale di materiali cartacei (al centro e sulla destra del pannello), attraversando un gruppo centrale di opere pittoriche che fanno da medium tra il supporto più duro e la leggerezza del monocromo su carta. In questo senso, Tavola 46 si offre anche come una dimostrazione per immagini del processo di tradizione delle formule patetiche dall’antico al Rinascimento, secondo la lezione di Warburg. È prima la pietra, con i suoi bassorilievi, a offrirsi come veicolo in cui stanno trattenute e conservate (o rievocate) le forme antiche; poi il passo successivo per la riemersione dell’antico è nella grisaille che orna le strutture architettoniche sul fondo degli affreschi (come esempio significativo del processo, si veda, sulla sinistra del pannello, il gruppo che comprende le figure 46_16a, 46_16b, 46_17, 46_18).

Infine, è il primo piano sulle forme antiche che le autonomizza e le rende contemporanee, e coincide con la presa di possesso delle figure anticheggianti nel repertorio del pieno Rinascimento, come testimoniano prima gli affreschi e poi i disegni sul lato destro, ultima tappa del processo di riemersione della Ninfa: in particolare, si assiste a una sua emancipazione, dalla prigionia della pietra alla libertà e autonomia dell’immagine riprodotta sulla superficie della carta, passando per lo strato di pittura a fresco su muro e per la scultura alleggerita e simulata in pittura della grisaille. Dalla pietra dello spolium romano [46_16a, 46_16b] alla libertà della piena figura in epoca rinascimentale [46_18], passando per la pittura [46_17], in cui la Ninfa, secondo la lezione warburghiana, è in grisaille, ancora legata al suo contesto antico ma pronta ad emergere in primo piano. Le due immagini sottostanti [46_21, 46_22] denunciano il ritorno della Ninfa all’imprigionamento nella pietra, secondo lo stile dei bassorilievi “alla maniera antica” eseguiti nel XVI secolo per il Portale di sinistra di San Petronio a Bologna.

Un altro elemento portante nell’architettura di Tavola 46 è la fascia che a mo’ di trabeazione l’attraversa all’altezza di tre quarti, tra cui spiccano le pagine delle Istorie in rima di Lucrezia Tornabuoni [46_8, 46_9, 46_10, 46_11, 46_12: vedi la recente edizione critica a cura di Luca Mazzoni].

Un altro sotto-insieme è formato dalle figure 46_18, 46_23, 46_25.

Si tratta di un trittico botticelliano: tre affreschi, tutti dell’artista fiorentino, legati dal fatto che la Ninfa è sempre accompagnata da un putto. Nella figura 46_18 vediamo un dettaglio dell’affresco della Sistina raffigurante Le tentazioni di Cristo (significativo anche per l’esportazione della Ninfa in ambiente romano, alla corte vaticana): ai piedi della Ninfa che porta una fascina per il sacrificio, si trova un putto con in mano un grappolo d’uva, insidiato da una serpe, che per la postura, il movimento delle braccia e quello del capo, pare essere un’anticipazione (invertita) del Cristo serpentino del Giudizio michelangiolesco. Negli altri due affreschi, realizzati per la fiorentina Villa Lemmi, i putti sono ai piedi dei loro signori, a reggere uno stemma nel tempo cancellato. Entrambi i putti siglano dunque con l’emblema gentilizio l’identità dei committenti e della loro famiglia: il primo sta ai piedi della Signora che accoglie Venere che con le Grazie le porta un omaggio di fiori; il secondo è a fianco del Signore condotto da una ninfa-Grammatica al cospetto della Venus Virgo, venatrix e insieme magistra (v. Perfetti 2021).

Nel montaggio spiccano inoltre alcune immagini particolarmente significative che funzionano come poli energetici rispetto a sottogruppi di immagini in qualche modo da esse proiettate e comunque in relazione semantica o formale tra loro.

Il primo polo energetico è l’immagine-guida di Tavola 46, la Nascita del Battista del Ghirlandaio della Cappella Tornabuoni in Santa Maria Novella. La figura della Ninfa ingrediente sulla destra dell’affresco è presa da Warburg e assolutizzata nella figura 46_7, in una immagine che a prima vista potrebbe apparire un semplice zoom sulla Ninfa del Ghirlandaio, mentre si tratta invece di una copia di bottega del dettaglio della canefora: una presenza che è anche testimonianza della diffusione del soggetto per vie autonome rispetto alla comparsa della Ninfa come comprimaria nell’opera monumentale (sul dispositivo dello zoom nel Mnemosyne Atlas, si rimanda al saggio di Giulia Zanon di prossima pubblicazione in Engramma). Sul lato opposto, l’interno borghese della visita alla puerpera è assolutizzato nel tondo di Filippo Lippi [46_2], che denuncia la genealogia formale del soggetto.

Accostato, sotto al tondo di Lippi e ad esso coevo, l’esempio della miniatura di Fouquet [46_6] mostra l’elaborazione dello stesso tema della visita della puerpera con ninfe in funzione ancillare, alla stessa altezza cronologica ma alla diversa latitudine stilistica della cultura d’Oltralpe: nella sua rigidità ancora tutta medievale, rende evidente lo scarto rispetto alla temperatura culturale del Rinascimento fiorentino. Come abbiamo imparato da Warburg, si tratta di interpretare le diverse velocità storiche in ambiti culturali differenti come “sintomi di un’epoca critica di transizione”, tracce della “inarmonica convivenza [...] di un realismo dei costumi ‘alla franzese’ con un ispirato idealismo anticheggiante espresso nella mimica e negli abiti mossi” (Scambi di civiltà artistica fra Nord e Sud nel secolo XV, RPA, alla pagina 173).

Altra immagine polo è la figura 46_14 che mostra diritto e rovescio della medaglia realizzata da Niccolò Fiorentino per Giovanna Tornabuoni. Le due facce della medaglia presentano l’una Giovanna Tornabuoni come Signora, l’altra come Ninfa (v. Perfetti 2021); da un lato il ritratto composto, in abiti sontuosi, rigido e immobile, dall'altra l’immagine all’antica, dinamica ed esuberante. La medaglia è un fulcro che proietta energia tanto su un asse verticale quanto su uno orizzontale.

In orizzontale la medaglia proietta le figure del diritto e del rovescio su due immagini poste ai suoi lati: il diritto della medaglia, con il ritratto di profilo secondo il modello della monetazione imperiale romana, si proietta sul ritratto ufficiale di Giovanna Tornabuoni del Ghirlandaio, eseguito in morte della Signora, in abiti cortesi [46_13]; mentre il rovescio della medaglia – la Venus Virgo mossa dal vento dell’antico – si proietta nella Ninfa con ventilata veste del disegno di Giuliano da Sangallo [46_15]. Sull’asse verticale, il diritto e il rovescio della medaglia di Giovanna sono in relazione, sul lato superiore, con la postura delle due protagoniste femminili dell’affresco della Nascita di Giovanni Battista – la Signora e la Ninfa canefora [46_3]; sul lato inferiore, sono in relazione con l’altro pannello a fresco della Cappella Tornabuoni, la Visitazione [46_19], in cui la Signora è in primo piano, mentre la Ninfa gradiva compare sullo sfondo. Nell’insieme la serie che ha al centro i due lati della medaglia crea così un campo che, secondo una figura geometrica cara a Warburg, si lascia pensare come un’ellissi a due fuochi: l’immagine della Signora e quella della Ninfa.

IV. dialogo sintattico e semantico tra le figure

Il dialogo tra le immagini in Tavola si svolge anche nella torsione destrorsa o sinistrorsa (o, in altri termini, centripeta o centrifuga) della postura delle figure presenti nel montaggio. Si assiste a una convergenza delle figure che, sul lato sinistro del pannello, in postura sinistrorsa guardano al centro, così come al centro guardano anche quasi tutte le figure di Ninfa poste sul lato destro.

Interessante notare come nella figura incipitaria – il rilievo della piastra medievale dell’elmo di Agilulfo [46_1] – lo schema iconografico si giochi sulla convergenza degli offerenti, da destra e da sinistra volti verso la frontalità fissa del Re in maestà.

Anche la Signora e la Venus Virgo, che campeggiano rispettivamente su dritto e rovescio della medaglia di Giovanna Tornabuoni, presentano una postura inversa e convergente. Le due facce della medaglia sono giustapposte in Tavola e quindi risultano visibili non alternativamente, come accade nella fruizione reale dell’oggetto-medaglia, ma simultaneamente: e le due facies della Signora e della Ninfa, separate da uno sguardo su orizzonti lontani e incomunicanti, nella Tavola si confrontano, guardandosi.

La posizione delle figure in atto di omaggio o servizio, spesso in coppia, è un altro filo che traccia un percorso nel montaggio, con impliciti nessi di collegamento da un’immagine all’altra: Agilulfo in trono [46_1] è affiancato e scortato da due figure stanti; Anna sullo sfondo [46_2] è vegliata e assistita da due ancelle; nell’immagine di Fouquet [46_3] la balia con in braccio il Battista in fasce ripete la postura della Vergine con il Bambino, in primo piano nel tondo di Lippi; due sono le donne che assistono alla nascita di Esaù e Giacobbe [46_22].

46_1 | Agilulfo  in trono e  scena  di  omaggio con vittorie frettolose. Elmo di Agilulfo,  lamina di  rame  lavorata  a  sbalzo  (ca. 6,7 x 18,9 cm.),  VII sec., Firenze, Museo Nazionale del Bargello.  Riproduzione fotografica (ca. 6,7 x 18,9 cm).
46_2 | Ninfe gradive/canefore in scena di natività. Filippo Lippi, Tondo Bartolini (Madonna con Bambino; sullo sfondo nascita della Vergine e incontro di Gioacchino e Anna), tempera su tavola (135 cm di diametro), 1452-1453, Firenze, Palazzo Pitti. Riproduzione fotografica (12,2 cm di diametro).
46_6 | Natività alla franzese (senza ninfe). Jean Fouquet,  Nascita di San Giovanni Battista, tempera su pergamena (21 x 15 cm), 1452-1460, miniatura dal Libro d’Ore di Etienne Chevalier, ms. 71, folio 28 r., Chantilly, Musée Condé. Riproduzione fotografica (ca. 8,2 x 6 cm).
46_22 | Ninfe astanti. Alfonso Lombardi,  Nascita di Esaù e di Giacobbe, altorilievo in pietra d’Istria, 1524-1525, Bologna, Chiesa di San Petronio, portale sinistro. Riproduzione fotografica (ca. 17,8 x 13,7 cm).

V. Ninfa fiorentina: l’ancella, la signora, la ninfa

All’interno delle coordinate di Tavola 46, il fuoco della composizione è l’opera del Ghirlandaio: la Nascita di San Giovanni Battista.

46_3 | Irruzione della Ninfa gradiva in scena di visitazione. Domenico Ghirlandaio,  Nascita di San Giovanni Battista,  affresco, 1485-1490, Firenze, Chiesa di Santa Maria Novella, Cappella Tornabuoni. Riproduzione fotografica (ca. 28,8 x 38,1 cm).

Nell’affresco compaiono tutte le figure del femminile – legate ai contesti della profezia, della natività, della cura, della salvezza – nelle diverse varianti posturali che descrivono due linee convergenti verso il centro del dipinto: da sinistra a destra, la statica solennità della Madre, che si scioglie nella gestualità affettuosa delle balie; da destra a sinistra, il seducente e libero incedere della Ninfa canefora, sottolineato dal movimento della ventilata veste, che si raccoglie via via, passando per le dame comitanti, fino a chiudersi nel contegno austero della Signora Tornabuoni, tutto evidente nelle pesanti e rigide pieghe della sua veste.

Nell’opera del Ghirlandaio, fra i personaggi – le donne in visita alla puerpera Elisabetta – troviamo i ritratti delle composte signore Tornabuoni con un abbigliamento e una postura che denunciano tutta la convenzionalità perbenista della classe di appartenenza. La Tornabuoni che entra nella stanza per una solenne visita di felicitazione – nota Warburg – si distingue “per il riserbo austero, un po’ filisteo, della moglie di un notabile che deve accentuare le buone maniere e che conosce soltanto quelli cui è stata già presentata” (Warburg in Gombrich [1970] 1983, 98).

Il brano è tratto da una delle Three Lectures on Leonardo (1899), pubblicate per la prima volta in lingua inglese da Bill Sherman:

She [Mrs Tornabuoni] stepping into the nursery on a formal visit – Warburg writes – shows “the conventional, austere insularity of the patrician’s wife who is required to stick to form and only knows those who are presented to her ... (Warburg in Sherman 2020, 49)

Ma nella scena non c’è solo la Signora: fa il suo ingresso anche la ‘ancella gradiva’, vestita con i sottili veli all’antica che svelano, anziché coprire, le forme del suo corpo. È la Ninfa che irrompe nell’intimità domestica affermando, con il suo stesso passo aggraziato e sicuro, tutta la sua libertà.

Come è stato notato, la Ninfa che irrompe nella scena della Nascita del Battista proviene da una dimensione estranea sia alle figure protagoniste dell’episodio evangelico sia alla consorteria delle signore in visita. Si chiede Massimo Cacciari: “Da quale origine proviene quella figura? […] quale vento la muove, che le altre figure neppure sfiora? Perché il presto di quel passo così ‘dissonante’ con il tempo delle altre figure?” (Dell’inizio, Milano 1990, 347). La Ninfa certo proviene da un ‘altrove’, da un altro cielo culturale, prima che cronologico: è un fantasma dell’antico che irrompe nel Rinascimento, la disinibita seduzione del femminile contrapposta all’algido contegno delle signore. Ma l’Altrove da cui la Ninfa emerge, portando nel mondo delle immagini la freschezza e l’energia della vita in movimento, non è, genericamente, il repertorio archeologico dell’antichità classica, riscoperto in quegli anni e guardato con occhi nuovi dagli artisti e dagli intellettuali del Rinascimento, vi erano infatti altri esempi contemporanei. Un ‘testo mediatore’ importante (come è stato suggerito da uno studio delle fonti che sintetizziamo e rilanciamo nell’Appendice I di questa lettura) è la Dovizia che Donatello aveva realizzato negli anni ’30 del XV secolo e che era posta su un’alta colonna al centro della piazza del Mercato Vecchio, all’incrocio delle vie principali della città, come figura allegorica di protezione e insieme di buon augurio per la prosperità economica della città.

La Ninfa gradiva, con il cesto di frutta in testa, per le sue vesti svolazzanti, per l’accociatura e per la sua stessa aria libera e indipendente, porta una ventata di antichità – e quindi, nella concezione del tempo, di vitale ‘modernità’ – nella scena di genere della Visita alla puerpera (nel caso, Elisabetta) che incrocia un tema biblico con la rappresentazione della committenza Tornabuoni.

Si tratta pertanto certamente di una trasposizione in chiave contemporanea dell’immagine della Ninfa del mito, oggetto di desiderio erotico, in quanto per l’appunto, nymphe, giovane donna fiorente rappresentata al culmine della grazia e della bellezza.

A partire dalla sezione centrale di Tavola 46, occupata dai fogli del codice di Lucrezia Tornabuoni e dai ritratti di Giovanna degli Albizzi [46_8-14], la Ninfa emerge con l’evidenza della figura-guida del montaggio. Nettamente predominanti, rispetto alla dialettica con la statica Maestà (del Re Agilulfo, 46_1; della Madonna di Filippo Lippi, 46_2), le epifanie della Ninfa, nelle varianti di dettaglio proposte dalla sequenza verticale sul margine destro del montaggio, disegnano una precisa figura e sono espressioni del suo polo benefico (canefora, ancella, vergine, eroina, angelo) [46_7, 46_15, 46_20, 46_26].

Scrive Warburg:

Nella cappella Tornabuoni si può osservare il tentativo, svolto in due diversi modi, di esorcizzare il demoniaco della vita in movimento. Da una parte ci sono le favole di Lucrezia Tornabuoni, che sanno cancellare il lato oscuro delle figure umane che corrono, incedono, portano cose, nonostante sia tragica la loro provenienza. D’altro canto, dal punto di vista dell'artista, è necessario che la figura della Vittoria dell’arco trionfale romano sia reintrodotta come addetta alla dispensa ‘alla casalinga’, figura utile nella vita quotidiana di Firenze (dalla Conferenza alla Biblioteca Hertziana di Roma, 19 gennaio 1929, edizione e traduzione a cura di Silvia De Laude in Engramma).

Una delle vie della riemersione che la Ninfa subisce nel corso del Quattrocento, quindi, secondo Warburg, passa per la sua Domestizierung (come annota negli appunti a Tavola 46), ovvero un ‘addomesticamento’. Può essere un assoggettamento servile, o comunque funzionale, come ancella canefora [46_2, 46_19, 46_26], o portatrice d’acqua per l’incendio di Borgo [46_20], o portatrice di fascine di legna per un sacrificio [46_18], o di masserizie nel trasloco da Sodoma [46_21]. Oppure ancora può ‘servire’, ma in un altro senso, a reggere un’architrave nella chiesa di San Zeno [46_16b], messa in orizzontale (così scherza, con una battuta sessista, Warburg in un appunto su una cartolina [46_16a]), ridotta a oggetto-portante della struttura architettonica e, in quel caso, non più oggetto del desiderio ma, del tutto desemantizzata, ricondotta alla pura consistenza della sua materia. Un’altra via di ‘addomesticamento’ è il suo ingresso nell’ambito domestico negli oggetti di arredamento, o in forma di ‘oggetto’ se stessa, sia essa rappresentata sui deschi da parto, cassoni nuziali, o diventi una statuetta portafortuna nelle case fiorentine (vedi Appendice I).

Ma non è solo così. Dal montaggio di Tavola 46 è evidente che la Ninfa rappresenta quelle figure di giovani donne che si contrappongono alle pose più composte e ‘perbeniste’ delle signore fiorentine, laddove la Ninfa – sia essa l’ancella o la giovane sposa – appare più libera, nel movimento e nei costumi all’‘antica’, rispetto alle convenzioni sociali della borghesia fiorentina. La Ninfa non si ‘addomestica’ nel momento in cui le fanciulle fiorentine con i loro costumi, i capelli, le movenze ispirate all’antico, escono per strada: la Ninfa pervade il costume del tempo. È la grazia piena di gioia di vivere delle giovani fiorentine per le quali la bottega del ‘Ghirlandaio’ produce ‘ghirlande’ di metallo da mettere fra i capelli (Warburg, RPA 134); le ninfe – che nei sermoni di Savonarola saranno oggetto di attacchi violenti per le loro vesti e per i loro modi: capelli sciolti al vento, vestiti leggeri e svolazzanti attraverso le quali si vedono le membra del corpo – sono le ragazze fiorentine, richiamandosi all’antico, ‘fanno rivoluzione’, prefigurando quella che sarà la liberazione del corpo e l’emancipazione femminile nella rivoluzione del ’68 (v. Seminario Mnemosyne 2008, in particolare il capitolo Hair: i capelli delle Ninfe; e per gli “strali di Savonarola”, v. Pedersoli 2008).

L’addomesticamento della Ninfa segue per Warburg una doppia via, come mostra uno schema nel suo Diario Romano (ed. Ghelardi, alla pagina 100).

“Ninfa / Secolarizzazione casalinga [sic!] / della / cacciatrice di teste della donatrice di vittoria / Agave Victoria / Botticelli - Ghirlandaio”. Aby Warburg [1928-29] 2005, in Ghelardi 2005, 101.

Secondo l’appunto di Warburg, la secolarizzazione della Ninfa è da intendere anche nel senso di un suo “addomesticamento”: da Menade e cacciatrice di teste nella Firenze del Quattrocento fa la sua epifania come leggiadra fanciulla in fiore, pronta a riprendere il volto feroce della ‘giusta’ Giuditta, che è lo stesso della crudele Salomè: e in questa veste sarà la protagonista della successiva Tavola 47 dedicata all’Angelo e la cacciatrice di teste.

Contrapposta e compresente alla figura della Ninfa “addomesticata”, possiamo vedere la Ninfa come “addomesticatrice”, in funzione di guida e con ruolo di maestra. Nella Tavola abbiamo diversi esempi di donna autorevole, impegnata nella vita activa, capace di addomesticare la figura maschile, istruirla e iniziarla alla vita civile. Abbiamo le Istorie in rima composte da Lucrezia Tornabuoni, madre di Lorenzo de’ Medici [46_8, 46_9, 46_10, 46_11, 46_12, 46_13, 46_14], scritte per istruire ed educare alle storie antiche i suoi bambini; la Venus Virgo della medaglia di Giovanna degli Albizzi [46_14]; la Venus-Magistra presente nell’affresco di Villa Lemmi che presiede le Arti liberali ed è con la mano in posizione di ammaestramento, rivolta al giovane portatole innanzi da una ninfa-Grammatica, anch’essa figura di Donna che conduce per mano l’uomo verso l’humanitas.

Il montaggio di Tavola 46 rivela che Warburg sa bene che la Ninfa è, anche, l’altra faccia della Signora. La medaglia nuziale di Giovanna degli Albizi Tornabuoni mostra chiaramente, sul diritto e sul rovescio, le due figure, diverse e complementari, della nymphe/sposa: la Signora e la Ninfa.

46_14 | La Signora e la Ninfa: due facce della medaglia. Niccolò Fiorentino (attribuzione), Medaglia di Giovanna Tornabuoni, bronzo fuso e argentato (8 cm di diametro), 1486 ca. Riproduzione fotografica (5,2 cm di diametro).

Sul diritto, il ritratto di profilo del busto di Giovanna, raffigurata come una elegante Signora fiorentina: il filo di perle al collo sottolinea il suo stato di sposa; l’acconciatura, composta ed elaborata, è la stessa che si ritroverà nel ritratto funebre eseguito soltanto due anni dopo da Domenico Ghirlandaio. Ma sul rovescio, la stessa donna è raffigurata in vesti mitologiche, a figura intera, come Ninfa: Venus Virgo, secondo l’ispirazione di un verso dell’Eneide che corre intorno alla figura; Venere e Diana, contemporaneamente – libera nei capelli sciolti, nelle vesti svolazzanti all’antica, nella postura fiera con con cui impugna l’arco della cacciatrice (v. saggio Perfetti). È la polarità energetica che ha un riscontro geometrico nella figura dell’ellissi; e proprio sull’idea del doppio fuoco dell’ellissi Warburg costruisce un dispositivo ermeneutico cruciale nell’Atlante, che altro non è che la rielaborazione concettuale di un’idea cardine della filosofia del Rinascimento – la coincidentia oppositorum.

VI. Ninfa moderna: la campagnola a Settignano

L’unico elemento contemporaneo di Tavola 46 è lo scatto fotografico della ‘villana’ di Settignano eseguito intorno al 1900, nella frazione di campagna nei pressi di Firenze, dallo stesso Warburg [46_24]. La fotografia spicca tra le immagini del pannello per una sua apparente estraneità, misurabile nello scarto cronologico e nella natura del supporto fotografico. Lo scarto sensibile rispetto agli altri elementi del montaggio e la collocazione in chiusura di Tavola 46, conferisce alla fotografia una posizione forte che parrebbe contrastare con la debolezza semantica dell’immagine: l’immagine della donna, in sé, non è altro che una qualsiasi figura femminile in movimento, su uno sfondo rurale. Inoltre, la campagnola a Settignano non porta certo le ariose e leggere vesti anticheggianti delle ‘ninfe’ fiorentine del Quattrocento: è vestita dei pesanti e anonimi abiti che al tempo indossavano abitualmente le popolane italiane, e anche i capelli appaiono raccolti, non sciolti né mossi dal vento. Un apparentamento con le altre ‘ninfe’ di Tavola 46 è richiamabile soltanto per la postura: la donna cammina, il piede sinistro avanzato, e purtuttavia il suo incedere non è certo il passo libero della Ninfa gradiva. Il legame con il resto dei materiali in Tavola potrebbe ridursi al mero dato della contiguità geografica, dato che anche la “Ninfa moderna” di Settignano è ascrivibile al corpus delle figure femminili in Tavola, prevalentemente fiorentino (o riconducibile a modelli artistici che da Firenze derivano).

Ma proprio la debolezza, tecnica e contenutistica, dell’immagine, ci sollecita a trovare un senso a questa intrusione: Warburg pare conferire alla foto della ‘villana’ di Settignano un ruolo di controcanto rispetto alla riemersione forte e chiara dell’antico, e in particolare della figura della Ninfa nel Quattrocento fiorentino. Inserita, in nome di una latente parentela, nel consesso delle ninfe presenti nel montaggio, la donna di Settignano nella sua semplicità è portatrice inconsapevole di un segno della sopravvivenza della Ninfa e, in questo senso, diventa cruciale nel discorso di Tavola 46: serve a dire l’eccezionalità della riemersione dell’antico nel Rinascimento, e quindi in qualche misura dice la fine non solo di Tavola 46, ma della storia della Ninfa. E forse dello stesso Rinascimento per il processo di “umanizzazione esteriore degli dèi pagani” (Warburg, Diario Romano, alla pagina 99). E purtuttavia racconta, contemporaneamente, l’occasione di un ritorno della Ninfa e la sua possibilità, mai esaurita, di riapparire ovunque. Come la Ninfa fiorentina nel Quattrocento andava cercata tra le donne al mercato con in testa i cesti di frutta (così Vasari), o tra le ragazze vestite all’antica in festa per le vie della città (così Warburg che legge Burckhardt), anche oggi il passo della Ninfa va cercato nella vita reale, anche nell’abito e nel passo dimesso della donna che passa per caso davanti alla macchina fotografica del ricercatore in un paese della campagna fiorentina. Perché anche la ‘villana’ di Settignano potrebbe smettere, in qualsiasi momento, i suoi modesti abiti ‘secolari’ e riconquistare la grazia e la libertà del passo antico. La cesura che la foto in chiusura di Tavola 46 sigla è il segno di una fine, ma anche la promessa di un nuovo inizio.

In questo senso la foto, che Warburg con una mossa inattesa pone nella posizione strategica di explicit del montaggio, acquista il valore di una chiave ermeneutica non solo per la composizione di Tavola 46, ma per il meccanismo di funzionamento generale del dispositivo-Atlante. La semantizzazione è tutta contestuale: ciò che vale in questo caso non è la postura, bensì il supporto tecnico che rimanda alla contemporaneità (v. Appendice II). Ciò che conta qui è l’intenzione di segnalare, proprio in grazia dell’istantanea, l’impressione dell’engramma che resiste a dispetto del trascorrere del tempo e della progressiva neutralizzazione del significato, in una concatenazione di immagini che, nel contesto, risulta significante, e conferisce una precisa dote di significato anche ai singoli elementi. Nello scatto fotografico, appare in controluce il fantasma della Ninfa e, nell’accostamento con le altre, più eloquenti, immagini del montaggio, si scatena il demone dell’immaginario.

VII. Ninfa gradiva: il passo della Ninfa è una Pathosformel?

Lo scatto fotografico in chiusura di Tavola 46 pone anche una, più generale, questione ermeneutica. Il passo della Ninfa è una Pathosformel?

Warburg definisce in modo esplicito la Pathosformel come identificazione nell’immagine di forma e contenuto in una superiore unità di valenza espressiva, al di là delle modificazioni stilistiche: “gesto al grado superlativo”, la Pathosformel è una postura che coinvolge tutto il corpo e che è espressione di una vitalità fisica e psichica che trova proprio in quella forma – non in altre – la sua rappresentazione esemplare (così nell’Einleitung a Mnemosyne, v. l’edizione e traduzione di Maurizio Ghelardi in Engramma). Pathosformel è dunque una marca impressa e riemergente nella tradizione culturale occidentale e, in quanto tale, se non istintiva, pur tuttavia sempre potenzialmente leggibile. Le formule di pathos coinvolgono tutto il corpo e riemergono di epoca in epoca, in quanto espressione di una qualità psico-fisica dell’energia vitale. Le formule di pathos sono innanzitutto ‘engrammi’: segni impressi nella memoria culturale dell’Occidente, che riaffiorano fin nel cuore della contemporaneità nelle forme più inattese, mediate o meno dalla sensibilità e dalla tecnica dell’artista. In questo senso, nella vita – culturale prima che biologica – dei corpi, le Pathosformeln ‘avvengono’, si re-innescano, non si imparano dai modelli. E anche l’artista, che certo impara dai modelli antichi le formule di pathos più efficaci, impara anche la lezione delle forme vive, dall’estetica del suo tempo. L’artista rinascimentale, ad esempio, impara bensì dalle forme imprigionate negli spolia archeologici, ma riesce a colorarle di vita perché impara anche dalle movenze dei corpi, dalle vesti, dalle acconciature, dei suoi contemporanei. In questo senso, il passo della Ninfa fiorentina sarebbe un caso perfetto che si lascia iscrivere nel repertorio delle Pathosformeln – così come la postura estatica della Menade (vedi Tavola 47), la postura depressiva del malinconico (vedi Tavola 58), le varie declinazioni del pathos della dolente (vedi Tavola 53), la postura dell’aggressione violenta (vedi Tavola 5; Tavola 47).

Ma c’è una questione che lo scatto fotografico in chiusura di Tavola 46 ci pone: il passo e la grazia vitale della Ninfa fiorentina, agitata dal vento, reale e allegorico, che soffia dall’antichità classica, una volta che subisce il depotenziamento obiettivo che registriamo nella versione contemporanea della ‘villana’ di Settignano, si lascia ancora leggere come Pathosformel? E andando a ritroso, risalendo dalla rustica figura di popolana novecentesca all’ancella canefora che irrompe, con la sua vita piena di grazia, a turbare il quadro borghese della visita delle signore Tornabuoni, si potrebbe sostenere che è l’investimento semantico sul passo della Gradiva è un eccesso ermeneutico. Nel passo della Ninfa non è certo riconoscibile, infatti, un “grado superlativo” del pathos, dal momento che, in fondo, chiunque cammina, cammina, mettendo in movimento (più o meno) vesti e accessori (i bewegtes Beiwerk citati da Warburg), mettendo in modo (più o meno) aggraziato un passo davanti all’altro. Una risposta sta in un passaggio dell’Einleitung scritta da Warburg per il Mnemosyne Atlas:

[A4] Der Entdämonisierungsprozess der phobisch geprägten Eindruckserbmasse, der die ganze Skala des Ergriffenseins gebärdensprachlich umspannt, von der hilflosen Versunkenheit bis zum mörderischen Menschenfrass, verleiht der humanen Bewegungsdynamik auch in den Stadien, die zwischen den Grenzpolen des Orgiasmus liegen dem Kämpfen, Gehen, Laufen, Tanzen, Greifen.

[A4] Il processo di de-demonizzazione dell’eredità delle impressioni fobiche comprende, dal punto di vista gestuale, l’intera scala delle emozioni, dalla prostrazione inerme al cannibalismo omicida, e conferisce alla dinamica del movimento umano – anche a quegli stadi che si collocano tra i poli-limite dell'orgiasmo, come il combattere, il camminare, il correre, il danzare, l’afferrare – la cifra dell'esperienza inquietante (Einleitung a Mnemosyne).

La rappresentazione ha la funzione di “de-demonizzare” le impressioni fobiche originarie che però non coincidono, soltanto, con i picchi del pathos, con il “grado superlativo” della passione. Tutti i gesti e i movimenti dell’essere umano si lasciano descrivere come una gamma di progressione dinamica, che scorre tra il grado minimo e il grado massimo di intensità del pathos: dai gesti e movimenti più normali come il ‘camminare’, al grado più intenso, quantitativamente o qualititativamente dello stesso passo, che è il ‘correre’ o il ‘danzare’; dal grado passivo della ‘prostrazione’ a quello attivo della ‘aggressione’; dal grado fisiologico del ‘mangiare’ al grado esasperato del nutrimento allogeno che coincide al limite con il “cannibalismo omicida”. In virtù della loro carica patetica ed espressiva, le formule, spesso resilienti in forma di engrammi, possono variare e cambiare di segno e di intensità, a seconda del campo energetico in cui tornano a riattivarsi.

In questo schema anche il passo della Ninfa che, mutuato dai rilievi romani, ricompare come ancella, come Ninfa o come Angelo nel milieu della Firenze medicea, può fare una nuova, sbiadita e scarica, apparizione nel passo della ‘villana’ di Settignano. Per poi, magari, ricomparire in figura di “fanciulla in fiore” non solo nell’immaginario letterario di Proust, ma poi, soprattutto, come fanciulle ribelli del ’68 (anche nella versione ‘Flora’ come ‘figlia dei fiori’). 

Il passo della Ninfa sarà dunque da considerarsi una ‘formula di pathos’ a pieno titolo: una Pathosformel che, nella progressione indicata dallo stesso Warburg, può essere declinata a bassa intensità semantica e formale, ma che è pronta a riacquistare tutta la sua potenza.

VIII. relazione con le Tavole 45 e 47

Uno sguardo alle tavole vicine nella composizione dell’Atlante, aiuta a illuminare i temi proposti in Tavola 46.

L’immagine guida – la Nascita del Battista del Ghirlandaio – è già presente in dimensioni ridotte [45_8] e in posizione secondaria in Tavola 45: da lì dunque si apre una finestra sul tema della Ninfa gradiva. Sempre in Tavola 45 già trovava ampio spazio il motivo della committenza Tornabuoni, essendo presenti quasi tutti gli affreschi eseguiti dal Ghirlandaio per la Cappella di famiglia in Santa Maria Novella a Firenze; in particolare nella sequenza verticale sinistra la ventilata veste è indossata da una giovane che assiste alla Presentazione della Vergine [45_1], da Salomè che danza per Erode [45_4], dalla Canefora della Nascita del Battista [45_8] e dall’Angelo di S. Zaccaria [45_12, 45_14].

45_1 | Domenico Ghirlandaio, La presentazione della Vergine al tempio, affresco, 1485-1490, Firenze, Chiesa di Santa Maria Novella, Cappella Tornabuoni.
45_4 | Domenico Ghirlandaio, Banchetto di Erode, affresco, 1485-1490, Firenze, Chiesa di Santa Maria Novella, Cappella Tornabuoni
45_12 | Domenico Ghirlandaio, Un angelo annuncia a Zaccaria la nascita di suo figlio Giovanni, affresco, 1485-1490, Firenze, Chiesa di Santa Maria Novella, Cappella Tornabuoni.
45_14 | Domenico Ghirlandaio, Un angelo annuncia a Zaccaria la nascita di suo figlio Giovanni, disegno preparatorio per l'affresco a Firenze, Santa Maria Novella, Cappella Tornabuoni, Wien, Graphische Sammlung Albertina.

Da notare che alcuni di questi soggetti sono presenti in secondo piano anche in Tavola 46, in particolare nelle miniature del codice di Lucrezia Tornabuoni e nell’illustrazione del Libro d’Ore di Fouquet [46_9: l’Angelo con Tobia; 46_6 e 46_10: Giuditta con la testa di Oloferne].

L’analogia formale tra l’apparizione della figura dell’Angelo e quella della Ninfa, enfatizzata dal movimento delle vesti sottili e mosse dal vento, è già sottolineata da Warburg nel saggio su Botticelli (1893), laddove cita il passo del Trattato sulla pittura di Leonardo:

Ma solo farai scoprire la quasi vera grossezza delle membra à una ninfa, o’ uno angello, li quali si figurino vestiti di sotili vestimenti, sospinti o’ inpressi dal soffiare de venti; a questi tali et simili si potra benissimo far scoprire la forma delle membra loro.

L’espediente del riflesso delle forme antiche nei rilievi en grisaille delle architetture che inquadrano la scena principale (in Tavola 46 riscontrato nella Presentazione della Vergine al Tempio di Fra’ Carnevale: 46_17) viene svelato da Warburg già in Tavola 45 e proposto come uno dei dispositivi centrali di quel montaggio, reso più evidente nel richiamo ad altre due opere del Ghirlandaio: la Strage degli Innocenti [45_9] e il Sacrificio di Zaccaria [45_12].

Che la Ninfa ingrediente sia figura di Salomè (e viceversa) è comprovato dalla accorta giustapposizione delle immagini della fanciulla del Banchetto di Erode [45_4] e della canefora della Nascita del Battista [45_8].

45_1 | Domenico Ghirlandaio, La Strage degli Innocenti, affresco, 1485-1490, Firenze, Chiesa di Santa Maria Novella, Cappella Tornabuoni.
45_4 | Domenico Ghirlandaio, Un angelo annuncia a Zaccaria la nascita di suo figlio Giovanni, affresco, 1485-1490, Firenze, Chiesa di Santa Maria Novella, Cappella Tornabuoni.
45_12 | Domenico Ghirlandaio, Banchetto di Erode, affresco, 1485-1490, Firenze, Chiesa di Santa Maria Novella, Cappella Tornabuoni.
45_8 | Domenico Ghirlandaio, La nascita di San Giovanni Battista, affresco, 1485-1490, Firenze, Chiesa di Santa Maria Novella, Cappella Tornabuoni.

Giuditta che compare in Tavola 46 come ‘eroina buona’ delle favole domestiche di Lucrezia Tornabuoni, riacquista il suo ruolo forte di “cacciatrice di teste” nelle figure della successiva Tavola 47. La fanciulla, sia essa Giuditta [47_20, 47_21, 47_22a, 47_23, 47_24, 47_25, 47_26] o Salomè [47_16, 47_17, 47_18, 47_19], nel cesto sopra il capo – o sul vassoio – trasporta non più offerte di frutta ma la testa di un uomo.

47_20 | Giuditta con la testa di Oloferne, disegno di anonimo.
47_21 | Donatello, Giuditta e Oloferne, bronzo, 1446-1460, Firenze, Piazza della Signoria.
47_22a |Giuditta con la testa di Oloferne, acquaforte fiorentina su rame, 1465 ca., London, The British Museum.
47_23 | Sandro Botticelli, Giuditta torna dall'accampamento con il capo di Oloferne, tempera su tavola, parte di un dittico, dipinto, 1470 ca., Firenze, Galleria degli Uffizi.
47_24 | Sandro Botticelli, Giuditta con la testa di Oloferne, tempera su tavola, 1497-1500 ca., Amsterdam, Rijksmuseum.
45_25 | Scuola del Ghirlandaio, Giuditta con la testa di Oloferne, olio su tavola, 1489, Berlin, Staatliche Museen, Gemäldegalerie.
45_26 | Pianta e prospetto di una fontana con Sansone uccide un Filisteo di Giambologna, disegno a penna, 1601 ca., Firenze.

47_16 | Donatello, Salomè dinanzi al banchetto di Erode, bassorilievo in bronzo, 1423-1427, Siena, Battistero, fonte battesimale.
47_17 | Donatello, Salomè danza per Erode, bassorilievo in marmo, 1435 ca., Lille, Musée des Beaux-Arts.
47_18 | Filippo Lippi, Salomè danza per Erode, affresco, 1464 ca., Prato, Duomo, parete sud del coro.
47_19 | Antonio Pollaiolo (autore del disegno), Erodiade riceve il capo di S. Giovanni Battista, paliotto d'altare con ciclo delle Storie del Battista , 1470 ca., Firenze, Museo dell'Opera del Duomo.

Anche l’immagine di Tobia con l’angelo – presente in Tavola 46 tra le miniature del libro di Lucrezia Tornabuoni [46_9] – ritorna in Tavola 47 [47_10, 47_11, 47_12, 47_13, 47_15], ma qui un particolare scioglie l’apparente contrasto tra composta ritualità e agitazione patetica di alcune figure delle due tavole precedenti: la stretta di mano e il gesto dell’indicare e dell’offrire.

47_10 | Francesco Botticini, Tobia e l'Arcangelo Raffaele con giovane donatore (figlio del committente Raffaello Doni), tempera su legno, 1495 ca., Firenze, Santa Maria del Fiore, Sacrestia vecchia.
47_11 | Giulio Campagnola, Tobia e l'Angelo Raffaele, acquaforte su rame, 1500 ca.
47_12 | Guercino, Tobia e l'angelo Raffaele, olio su rame, 1624-1626, Roma, Galleria Colonna.
47_13 | Tobia e l’Angelo, stampa da Giorgio Nicodemi, I legni incisi dei Musei Bresciani, Brescia 1921, 32.
47_15 | Francesco Botticini, Tobia e i tre Arcangeli, tempera su tavola, 1467, Firenze, Galleria degli Uffizi.

Scambio di gesti che esprimono cura, guida, sollecitudine e creano trame di relazioni tra i protagonisti delle scene bibliche ed evangeliche, ad esempio: l’Angelo che tiene per mano Tobiolo e la Vergine che prende per mano Gesù [47_8b e 47_9] corrisponde alla ninfa-Grammatica che conduce per mano Lorenzo Tornabuoni nell’affresco di Villa Lemmi [46_23]; la muta eloquenza gestuale, così importante in Tavola 47, spiega ed evidenzia gesti solo accennati in Tavola 46 (l’Angelo che tiene per mano Tobia – 46_9; la Vergine che stringe la mano a Elisabetta – 46_19; la gentildonna che porge le mani a Venere e alle Muse – 46_25).

47_8b | Gesù tra i Dottori. Il ritorno della sacra famiglia dall'Egitto, bassorilievi dallo zoccolo della facciata ovest della Cattedrale di Amiens, 1220-1230, Portale di Maria, Cattedrale di Amiens.
47_9 | Agostino di Duccio (attribuzione), Il congedo di Cristo dalla madre (?), bassorilievo, 1473 ca., New York, Metropolitan Museum of Art.
47_10 | Francesco Botticini, Tobia e l'Arcangelo Raffaele con giovane donatore (figlio del committente Raffaello Doni), tempera su legno, 1495 ca., Firenze, Santa Maria del Fiore, Sacrestia vecchia.
47_11 | Giulio Campagnola, Tobia e l'angelo Raffaele, acquaforte su rame, 1500 ca.
47_12 | Guercino, Tobia e l'angelo Raffaele, olio su rame, 1624-1626, Roma, Galleria Colonna.
45_13 | Tobia e l'angelo, stampa da Giorgio Nicodemi, I legni incisi dei Musei Bresciani, Brescia 1921, 32.
45_15 | Francesco Botticini, Tobia e i tre Arcangeli, tempera su tavola, 1467, Firenze, Galleria degli Uffizi.
46_19 | Domenico Ghirlandaio, La visitazione, affresco, 1485-1490, Firenze, Chiesa di Santa Maria Novella, Cappella Tornabuoni.
46_25 | Sandro Botticelli, Venere e le tre Grazie portano un omaggio a una giovane signora (Giovanna Albizzi Tornabuoni?), affresco da Villa Lemmi presso Firenze, 1485-1490, Paris, Musée du Louvre.
46_23 | Ninfa-arte conduce il Signore alla scuola di Venere | Sandro Botticelli, Giovane introdotto tra le Arti Liberali, affresco staccato (237×269 cm), 1486 ca., Paris, Musée du Louvre.

Così Warburg:

E così si mostravano le Vittorie alate sugli archi trionfali romani o quelle menadi danzanti che, coscienziosamente imitate, appariscono per la prima volta nelle opere di Donatello o di Fra Filippo e ridestarono l’antico stile più nobile ed esprimente una vita più movimentata: quella vita che anima Giuditta o Raffaele che accompagna Tobiolo o la Salomè danzante, figure alate che volarono via dalle botteghe del Verrocchio, del Botticelli e del Ghirlandajo, prodotti di un felice innesto del ramo sempreverde dell’antichità pagana sull’albero inaridito della pittura borghese “fiandreggiante” (Warburg, RPA, 187-188).

In un orizzonte tutto formale e libero da giudizi morali, l’Angelo dunque corrisponde alla Ninfa per ruolo e postura: angeli (concentrati nella sezione sinistra) e “cacciatrici di teste” (nella parte destra) movimentano, con le loro ventilate vesti, Tavola 47 (v. L’Angelo e la Cacciatrice di teste).

IX. explicit

“[La Ninfa], questa strana e delicata pianta, ha davvero le sue radici nell’austera terra fiorentina?” – così si chiede Warburg nel dialogo ‘platonico’ che intreccia con l’amico Jolles. Ma quel che Warburg sa è che la Ninfa non ha radici e, se ne ha, sono rizomi che rifioriscono dal sottosuolo dell’antico. La Ninfa non è un archetipo e non va presa tanto come oggetto di indagine, bensì piuttosto come figura di ‘Philologia’, maestra e guida della ricerca: “Io mi accontento di volgere il mio sguardo filologico sul terreno dal quale è emersa” – così si risponde lo stesso Warburg. E la sua risposta trova un riscontro puntuale e prezioso nel lavoro di Tavola 46. 

Ma Filologia non è solo “amor di conoscenza”, è anche desiderio, è anche Voluptas. Ha ragione Warburg, ma ha ragione anche, forse di più, l’amico Jolles che vede nel gioco della Ninfa, un “flirt intellettuale”, un “gioco crudele”: una magnifica ossessione che annulla la distanza tra il ricercatore e l’oggetto della sua ricerca. “La rincorro, o piuttosto è lei a rincorrermi? Non lo so più” – così il 23 dicembre 1900 Andrè Jolles scrive ad Aby Warburg. E la domanda è rivolta a tutti noi.

Appendice I. La Dovizia di Donatello come modello per la Ninfa fiorentina

a cura di Sara Agnoletto e Monica Centanni

Tavola 46 del Mnemsoyne Atlas è costellata da immagini di ancelle indaffarate, che avanzano speditamente, le vesti sottili mosse dal vento, reggendo chi un canestro (46_2, 46_3, 46_7, 46_10, 46_17, 46_19, 46_21), chi un recipiente di terracotta per l’acqua (46_16, 46_20, 46_21, 46_26), chi una fascina di legna (46_18). Ma nel montaggio compare anche l’immagine dell’allegoresi mitica di Giovanna Degli Albizi Tornabuoni, raffigurata nel verso di una delle sue medaglie come una ‘Venere cacciatrice’, con le vesti mosse e il passo atletico di una “fanciulla spartana” (così nei versi virgiliani da cui è tratta l’immagine e il motto della medaglia (Eneide I, v. 315). Warburg riconosce in questa serie di immagini diverse epifanie della Ninfa gradiva, tutte caratterizzate dagli stessi elementi: fogge e capigliature, ornamenti, veli e tessuti, tutti dettagli, che Warburg definisce, con una locuzione divenuta celebre, bewegtes Beiwerk: “accessori in movimento”. Come noto, Warburg ritrova nel Trattato sulla pittura di Alberti e da Leonardo, l’indicazione di questa particolare cifra dell’antico che gli artisti rinascimentali sono chiamati a restituire: è l’intensificazione cinetica, è il movimento che “fa antico” – un espediente per rendere il movimento delle figure consiste proprio nell’enfatizzare il movimento degli accessori che velano/svelano le forme e la grazia dei corpi femminili.

Così Alberti nel Della Pittura:

Dilettano nei capelli, nei crini, né rami, frondi et veste vedere qualche movimento. Quanto certo a me piace nei capelli vedere quale io dissi sette movimenti: volgansi in un giro quasi volendo annodarsi ed ondeggino in aria simile alle fiamme, parte quasi come serpe si tessano fra li altri, parte crescano in qua e parte in là [...]. Ma siano, quanto spesso ricordo i movimenti moderati e dolci, piuttosto quali porgano gratia a chi miri, che meraviglia di faticha alcuna. Ma dove così vogliamo ad i panni suoi movimenti sendo panni di natura gravi et continuo cadendo a terra, per questo starà bene in la pictura porvi la faccia del vento Zefiro o Austro che soffi fra le nuvole onde i panni volteggino. Et quinci verrà ad quella gratia, che i corpi da questa parte percossi dal vento sotto i panni in buona parte mostreranno il nudo dall’altra parte i panni gettati al vento dolce voleranno per arie, ed in questo ventoleggiare guardi il pictore non spiegare alcuno panno contro vento (Leon Battista Alberti, Della pittura [1435], a cura di Luigi Mallè, Firenze 1950, 90).

Mentre nel Trattato della pittura, Leonardo da Vinci

Ammonisce gli artisti a non dimenticare lo spessore dei drappi e dei mantelli nella resa delle figure, con la sola eccezione della raffigurazione degli arti di “ninfe ed angeli che sono rappresentati in vesti molto leggere, spinte e incalzate dal soffio dei venti” (E.H. Gombrich, Aby Warburg. Una biografia Intellettuale [Aby Warburg: An Intellectual Biography, London 1970], tr. it. di A. Dal Lago e P.A. Rovatti, Milano [1984] 2003, 64).

E non si tratta, soltanto, di un movimento esteriore: la ricorrenza della movimentazione delle figure all’antica nell’arte rinascimentale suggerisce a Warburg un’idea fondamentale nell’evoluzione del suo pensiero. Il movimento degli accessori è anche la manifestazione di un pathos interiore: di qui l’attenzione alle Pathosformeln, le “formule di pathos” che senza prestarsi all’incasellamento in una rigida tassonomia, costituiscono il repertorio che l’artista trae dall’antico per dar forma all’esperienza estetica della “vita intensificata”.

All'interno del carteggio fittizio che, al volgere del secolo, scambia con Jolles, Warburg si interroga su quale sia l'origine di questa figura che l'amico definisce come “il movimento personificato”.

Ti senti pronto a seguirla come una idea alata attraverso tutte le sfere in una amorosa ebrezza platonica; mentre io mi accontento di volgere il mio sguardo filologico sul terreno dal quale è emersa, e a chiedermi con stupore: questa strana e delicata pianta ha davvero le sue radici nell’austera terra fiorentina?
Forse un astuto giardiniere – con una segreta propensione per l’elevata cultura rinascimentale – ha insinuato nei riluttanti Tornabuoni l’idea che adesso tutti devono avere un simile fiore alla moda, un tale gioioso e fantastico punto di attrazione al centro del proprio sobrio giardino privato?
Oppure, non è piuttosto che il mercante e il suo giardiniere, animati dalla stessa elementare volontà di vita, per la loro rigogliosa pianta ornamentale hanno strappato un pezzo della oscura terra che circonda la chiesa al cupo rigore dei fanatici domenicani?” (Aby Warburg a André Jolles [senza data] (Warburg [1929] 2007, 822).

Warburg torna a interrogarsi sulla genealogia dell’epifania dell’antica immagine della Nike, in vesti di “vittoria fiorentina casalinga”, in particolare per la Ninfa gradiva che entra in scena nella Nascita del Battista della Cappella Tornabuoni a Santa Maria Novella, e ipotizza che il Ghirlandaio abbia elaborato questa immagine a partire dalla visione, in Piazza san Pietro, di un sarcofago romano con una scena bacchica in cui è ritratta una ninfa gradiva con un mazzo di fiori in mano:

Dietro ad esse [le imponenti dame della famiglia Tornabuoni] entra frettolosa una servente con un fiasco in mano e sul capo un piatto di frutta. Malgrado questo compito prosaico essa è stilizzata idealmente: la sua veste è cinta e svolazza come quella della Vittoria, e benché i suoi piedi ornati di sandali debbano soffermarsi su questa terra, pure la veste, simile a vela gonfiata dal vento, che le scende dalla spalla, le conferisce un surrogato terreno, seppure solo ornamentale, degli olimpici attrezzi.
Una differenza fra la dea della Vittoria traianea e la “Vittoria fiorentina casalinga” si ha nel fatto che questa è presentata di profilo; ma anche questa posizione la bottega del Ghirlandajo la trovò già esistente nel suo libro di disegni da modelli antichi: una donna dalle vesti svolazzanti che porta addirittura anche una cesta di frutta, si trova nel libro con l’annotazione: “in sulla piaza di sancto pietro”.
Questa cesta può essere un’aggiunta; tutta la figura si ritrova uguale come ninfa su un sarcofago di tipo bacchico, dove al posto della cesta essa ha in mano un mazzo di fiori. Ma solo in seconda linea si tratta dell’archeologia della figura; siamo autorizzati a interpretare questa ninfa come simbolo dell’affermazione della vita così com’era concepita dal Quattrocento (Lo stile ideale anticheggiante, in La rinascita del paganesimo antico, 1966, 299-300).

Warburg, con una attenzione puntuale, da “filologo”, richiama dunque come modello un disegno presente in un taccuino della bottega del Ghirlandaio [Fig. 1] che con tutta probabilità è da mettere in serie con queste immagini.

I.1 | Illustrazioni tratte da Aby Warburg, La rinascita del paganesimo antico, Firenze 1966.

Ma Warburg non conosceva – non poteva conoscere – un modello ben più importante della sua “Ninfa fiorentina”, un modello del quale al suo tempo si era di fatto persa quasi totalmente la memoria: la statua di Dovizia che Donatello aveva realizzato intorno al 1430 per gli Ufficiali della Torre e che si trovava collocata al centro della piazza del Mercato Vecchio. La Dovizia che sovrastava la piazza del mercato era materialmente assente ai tempi di Warburg in quanto la statua quattrocentesca era andata distrutta nel 1721: in quell’anno l’opera di Donatello, già molto degradata nei secoli per la fragilità del suo materiale, era caduta a terra frantumandosi. L’opera era stata infatti realizzata in pietra serena, una pregiata varietà di roccia arenaria di colore grigio, che però risulta vulnerabile alle intemperie e soprattutto all’erosione causata dal vento e ai cicli di gelo e disgelo. Un anno dopo il crollo, l’opera – irrecuperabile nei suoi frammenti – fu sostituita con un’altra scultura della stessa personificazione allegorica, opera di Giovan Battista Foggini, che rimase in situ fino a quando, tra il 1885 e il 1891 il Mercato Vecchio venne demolito insieme al vecchio Ghetto per creare la piazza della Repubblica. Un dipinto di Giuseppe Moricci riporta un’immagine dell’opera del Foggini [Fig. 2].

I.2 | Giuseppe Moricci, Veduta del Mercato Vecchio di Firenze, olio su tela, 1860. Firenze, Palazzo Pitti; a destra, sulla colonna, la statua ripristinata da Foggini.

La nuova opera settecentesca appare molto distante dall’originale di Donatello, del quale negli anni ’30 del secolo scorso è stata ricostruita, per tracce, l’immagine. Adrian Randolph (lo studioso che è autore dell’approfondimento più preciso e completo sul tema della statua di Dovizia, dal quale derivano molti degli spunti di questa nota Randolph 2002, 19-75; ma vedi anche Wilkins 1983; Haines 1984, 347-359; Blake Wills 1986; Chrzanowska 2018, 177-191), ricostruisce lo status quaestionis e come l’immagine della perduta opera donatelliana è stata rintracciata all’interno di alcuni dipinti, antecedenti alla distruzione della statua [Figg. 3 e 4].

I.3-4 | Filippo Napoletano (attr.), Piazza del Mercato Vecchio a Firenze, olio su tela, 1600-30 ca., Firenze, Collezione della Cassa di Risparmio; a destra: dettaglio della statua di Dovizia sulla colonna.

I.5-6 | Anonimo [Fra’ Carnevale?], The Ideal City, olio e tempera su tavola, 1480-1484 ca., Baltimora, Walter Arts Museum; a destra, dettaglio della colonna posteriore di destra con Dovizia.

Il primo a riportare all’attenzione della critica l’opera di Donatello e a recuperarne l’aspetto fu Hans Kauffmann: la monografia in cui è contenuta anche la ricostruzione della DoviziaDonatello. Eine Einführung in seine Bilden und Denken – fu pubblicata a Berlino soltanto nel 1935, sei anni dopo la scomparsa di Warburg. Qualche anno più tardi, Werner Haftmann riconosce esplicitamente nella statua donatelliana il modello del “passo della Ninfa” fiorentina:

Die erste Darstellung der beliebtesten antikischen Idealfigur des Quattrocento, der schreitenden Nymphe, die mit flatterndem Gewand als antikische Pathosfigur auf so vielen Bildern und Stichen des Quattrocento dahereilt (Haftmann 1939, 139).

Il riferimento che fa Haftmann alla “antikische Pathosfigur” risente evidentemente della lettura dei saggi di Warburg, che nel 1939 erano accessibili grazie all’edizione delle Gesamellte Schriften pubblicate da Teubner per la cura di Fritz Saxl e Gertrud Bing nel 1932. Se dunque Haftmann nel suo lavoro sui Säulenmonument italiani accoglie le suggestioni warburghiane sulle Pathosformeln e i loro modelli antichi, Warburg invece, non poteva avere contezza né documentaria né iconografica dell’opera di Donatello né all’altezza cronologica delle ricerche sulla Ninfa fiorentina, né negli anni 1927-1929, quando viene ideato e progressivamente realizzato il Mnemosyne Atlas. E infatti la statua di Dovizia non risulta menzionata negli scritti di Warburg, né nei saggi editi, né nei frammenti, e non è presente nel montaggio di Tavola 46.

Importante, ai fini della nostra lettura, è ricostruire il contesto di realizzazione dell’opera: la statua viene commissionata a Donatello, intorno al 1430 dagli Ufficiali della Torre, una magistratura pubblica incaricata, tra l'altro, degli spazi esterni pubblici della città. La paternità donatelliana dell'opera è attestata da una scena comica della Rappresentazione di Nabucodonosor Re di Babilonia – pervenutaci solo in edizioni cinquecentesche ma probabilmente da far risalire alla metà del Quattrocento – in cui Donatello, condotto al cospetto del re che gli vuole affidare la realizzazione di una sua immagine colossale in oro, si lamenta di essere già sovraccarico di impegni: “Io ho fornire el pergamo di Prato”; e ancora, “E ho a fare la Dovitia di Mercato / la qual in sulla colonna s'ha a porre / E hor più lavorio non posso torre” (cfr. Haines 1984, 352-353).

Una volta terminata, la scultura fu collocata sopra un fusto di colonna in granito di formato gigante (circa sei metri), in uno scenario urbano di programmatica riscrittura ‘all’antica’: la colonna è uno spolium romano, forse proveniente dalla distrutta cattedrale di Santa Reparata, anche se “una tradizione antica voleva che […] fosse stata una volta subito a sinistra entrando per la Porta del Paradiso” (Haines 1984, 354) nel Battistero. Il luogo scelto per la collocazione dell’opera è il centro “dell'antico foro, all'incrocio delle due principali arterie della città romana, precisamente sopra quanto sorgeva ancora, dall'accresciuto livello del suolo del Mercato, di un’altra colonna romana” (Haines 1984, 355). Il tutto all'insegna di un programma prettamente archeologico che mirava a celebrare la romanitas fiorentina:

Attestata fin dal XII-XIII secolo in una gamma disparata di testi, la consapevolezza che nelle vene dei fiorentini scorra sangue romano […] è il cardine del patriottismo locale: anche assai prima, o fuori dai confini dell’“umanesimo civile”. Con l'avvento del Salutati alla cancelleria, la romanitas di Firenze diventa Leitmotiv anche delle corrispondenze ufficiali della signoria, fulcro della sua immagine propagandistica. L'accompagna, costante, il ricorso agli exempla che, per chi dei romani si sente non solo emulo, ma discendente, assume anche chiare valenze autocelebrative (M.M. Donato, Gli eroi romani tra storia ed “exemplum”. I primi cicli umanistici di eroi famosi, in S. Settis (a cura di) Memoria dell’antico nell’arte italiana, II, Torino 1985, 97-172: 144).

La scelta dell’iconografia di Dovizia rispondeva perfettamente all’ideologia e agli interessi della classe dirigente fiorentina che, a partire da Leonardo Bruni, ribaltava la dottrina e l’etica della paupertas predicata dagli ordini mendicanti che si fondava sull'insegnamento cristiano contenuto nella parabola di Matteo: “Dopo aver parlato con il giovane ricco, affermò che è più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel regno di Dio“ (Matteo 19:24).

In 1420-21 Bruni translated and commented on the Pseudo-Aristotle Economics for Cosimo de’ Medici. As a result, Bruni came to insist that wealth is as crucial to a city as blood is to an individual, and in his History of the Florentine People, the first six books of which were completed and published in 1429, wealth became the most often cited source for the power of the city of Florence (Wilkins 1983, 417).

La posizione di Leonardo Bruni sulla esaltazione della ricchezza come presupposto necessario del mecenatismo (e quindi della fioritura, anche in senso culturale, della città) era condivisa con altri umanisti, come Matteo Palmieri e Poggio Bracciolini:

Others soon came to share Bruni’s opinions. Matteo Palmieri, writing on the civil life, states that the power and abundant richness of the civil body come from profit, and Poggio Bracciolini's “Dialogue on Avarice” from the late 1420’s provides concerted support for Bruni's new attitudes about wealth. “What type is it better to have populate the city?” he asks: “The rich, who with their means can protect themselves and others, or the poor, who can support neither themselves nor others? … [The rich] do not amass wealth out of weakness of mind but out of strength of character, not out of error, but on account of prudence, the mistress of this lile” (Wilkins 1983, 417).

La classe dei ricchi mercanti fiorentini arruola dunque, dal repertorio antico, l’immagine della ‘Ricchezza’ personificata come figura allegorica dell’abbondanza e della prosperità, e la statua di Donatello campeggia sul Mercato, sede della maggior parte delle attività commerciali di Firenze (così come Piazza Duomo era il centro delle attività religiose e Piazza della Signoria di quelle civili): la città non può essere ‘florida’ – Firenze tutta non potrebbe essere ‘fiorente’ – se non per mezzo delle attività economiche e commerciali e, quindi, grazie alla ricchezza (dovitia) dei mecenati fiorentini, che rende possibile insieme la floridezza economica, il buon governo, la stessa fioritura delle arti.

Donatello, dunque, interpreta il mandato ideologico della committenza, nobilitandolo grazie al ricorso al repertorio classico: formalmente per la sua Dovizia, proposta come una statua ‘all’antica’, adotta il linguaggio del corpo in movimento che era considerato come la cifra distintiva dell’antichità e in particolare di quella “vita intensificata” che la contemporaneità era chiamata a imparare dalle forme del passato. Quanto ai modelli, per inventare la nuova iconografia della sua opera “all’antica”, combina due diversi figure: l’immagine di una giovane con un cesto di frutta sulla testa e l’iconografia dell’Abbondanza con cornucopia.

Con tutta probabilità, l’immagine dell’ancella canefora trae ispirazione anche dalla vita reale, dalle donne che popolavano il ‘Foro’ cittadino, portando le merci da vendere. Una figura simile si trova nell'affresco di Ambrogio Lorenzetti che illustra gli effetti del Buon Governo in città, nel Palazzo Pubblico di Siena (1338-39): è una giovane donna che, giunta in città dalla campagna per vendere i prodotti della terra, cammina lungo le mura cittadine. E pure è affollato di paggi e signori che vanno a fare la spesa al mercato, e di contadine che portano galline e cesti di frutta sulla testa il disegno di Ciriaco d'Ancona che, secondo Christian Hülsen, “si può considerare come la più antica ricostruzione del Foro Romano”, sebbene sempre secondo Hülsen “tutta la scena dà l'impressione di essere presa dal vivo in qualche città italiana del Quattrocento” (C. Hülsen, La Roma antica di Ciriaco d'Ancona: disegni inedite del secolo XV, Roma 1907: tav. 5).

I.7 | Ambrogio Lorenzetti, Effetti del Buon Governo in città, affresco, 1338-1339. Siena, Palazzo Pubblico, sala della pace (dettaglio di paesana che porta il cesto sulla testa).
I.8 | Ciriaco d’Ancona, Mercato dell'antica Roma, penna e inchiostro su pergamena (?), XV sec.; in Ms. Iohannes Marcanova. Collectio antiquitatum (ALFA.L.5.15 = LAT.992), Modena, Biblioteca Estense Universitaria.
I.9| Anonimo [Fra’ Carnevale?], The Ideal City, olio e tempera su tavola, 1480-1484 ca., Baltimora, Walter Arts Museum (dettaglio della colonna posteriore di destra con Dovizia).

Anche per quanto riguarda il modello della figura femminile con cornucopia, forse non è necessario chiamare in causa direttamente un modello antico, dal momento che, nello strombo destro della porta della Mandorla, ovvero la porta laterale sinistra della fiancata nord del Duomo di Firenze, alla base dello strombo destro, tra i racemi e le girali d'acanto, si trova scolpita una figura di ‘Abundantia’, che ha probabilmente il suo modello, anche se non ancora precisamente identificato, in una moneta romana (per l’accostamento di Abundantia alla moneta romana si veda N. Himmelmann, Nudità ideale, in S. Settis (a cura di), Memoria dell’antico nell’arte italiana, II, Torino 1985, 202-278, in particolare pagina 233). Come noto, la Porta della Mandorla, fu realizzata tra il 1391 e il 1422 da diversi artisti, compreso Donatello che vi lavorò tra il 1404 e il 1409 (quando scolpì al centro dell’archivolto Cristo secondo l’iconografia del “Vir Dolorum”). Le facce mediane dell’imbotte esterno, a strombo, del portale, furono invece scolpite tra il 1391 e il 1397, e accolgono alcune figure nude tra i racemi, che sono tra le primissime opere di ispirazione espressamente antica a Firenze. Tra queste, l’Abbondanza appunto, ma anche diverse rappresentazioni di Ercole e una di Apollo che suona la viola. L’allegoria dell’Abbondanza è rappresentata come una figura femminile stante, con un panno che le copre solo le gambe lasciandola nuda fin sotto il grembo: nel braccio sinistro reca una cornucopia, mentre con la mano destra rovescia il contenuto di una patera, riproducendo un atto di offerta comune nell’iconografia antica.

I.10| Porta della Mandorla: Abundantia (strombo destro), Firenze, Cattedrale di Santa Maria del Fiore.
I.11| Anonimo [Fra’ Carnevale?], The Ideal City, olio e tempera su tavola, 1480-1484 ca., Baltimora, Walter Arts Museum (dettaglio della colonna posteriore destra con Dovizia).

Donatello per la sua statua ‘all’antica’ produce così un ibrido: una figura femminile che avanza con passo rapido, reggendo con la mano destra un cesto di frutta sulla testa e con la sinistra una cornucopia. La Dovizia di Donatello, sostenuta dalle ragioni ideologiche della classe più attiva della vita politica fiorentina e perciò posta in un luogo semanticamente significativo, era presentata come un esempio formalmente eccellente dell’estetica dell’antico, e del collegamento per via di una ben riconoscibile allegoria di prosperità, tra Firenze e Roma. Perciò la statua non tardò a diventare uno dei simboli cittadini. Ma la figura della Dovizia di Donatello risultante dall’ibridazione della Ninfa canefora e dell’allegoria dell’Abbondanza che sovrasta il Mercato Vecchio dall’alto della colonna romana, ha un notevole successo popolare anche in contesto domestico, in repliche miniaturizzate di varia qualità che moltiplicano l’immagine della Ninfa fiorentina, che protegge i commerci economici ma anche nei contesti privati è un’immagine beneaugurante, in quanto portatrice di vita e di doni. La miniaturizzazione e la traduzione dall’ambito pubblico al contesto domestico è testimoniata da una serie di statuine ispirate alla Dovizia, realizzate nella bottega di Giovanni della Robbia tra il 1494 e il 1513, delle quali alcune recano l’eloquente iscrizione GLORIA • ET DIVITIE/IN • DOMO TVA.

I.12 | Filippo Napoletano (attr.), Piazza del Mercato Vecchio a Firenze, olio su tela, 1600-1630 ca., Firenze, Collezione della Cassa di Risparmio (dettaglio della statua di Dovizia sulla colonna).
I.13 | Giovanni della Robbia, Dovizia, terracotta invetriata policroma, 1520 ca., Minneapolis Institute of Art.
I.14 | Fra Mattia della Robbia, Dovizia, terracotta invetriata policroma, 1520 ca., Firenze, Casa museo Buonarroti.
I.15 | Bottega di Fra Mattia della Robbia, Dovizia, terracotta invetriata policroma, 1520 ca., The Cleveland Museum of Art.
I.16 | Bottega di Giovanni della Robbia, Dovizia, terracotta invetriata policroma, 1520 ca., New York, Metropoitan Museum of Art.

Si tratta dello stesso significato che l'ancella canefora assume nell'affresco del Ghirlandaio della Cappella Tornabuoni: il cesto di frutta che la giovane, al seguito delle signore in visita, porta in dono a Elisabetta, non è solo un segno di deferente omaggio e cortesia, ma è simbolo benaugurale di salute, benessere e prosperità, che ben si accorda con motivo della nascita. Un buon auspicio rivolto certo alla famiglia Tornabuoni, ma che si estende anche alla florida Florentia, di cui Giovanni Battista è il santo patrono, e di cui la ‘doviziosa’ ancella è la personificazione allegorica.

Ma chiudiamo questa nota tornando alla Ninfa gradiva che irrompe nella scena della Nascita del Battista del Ghirlandaio nella cappella Tornabuoni, in Santa Maria Novella (1485-90): il confronto tra gli scritti di Warburg e il montaggio di Tavola 46 del Mnemosyne Atlas conferma che a questa immagine Warburg conferisce un ruolo guida nella costellazione che ruota intorno alla Ninfa fiorentina, ma – come si è qui argomentato – Warburg non sa, non poteva sapere, che quella figure non emerge per epifania o per copia diretta da un modello antico, ma genealogicamente è figlia della Dovizia di Donatello, un’immagine per noi perduta (sia fisicamente, sia dal repertorio della nostra memoria iconografica, fino al recente recupero critico) ma del tutto riconoscibile per i fiorentini del tempo. Un’immagine che era quasi pervasiva, dall’opera monumentale di Donatello ‘patrona’ del Mercato, fino alla minuta oggettistica domestica. E ricordiamo che lo stesso Vasari, non fa riferimento al modello artistico maggiore di Donatello, ma riporta la Ninfa della Cappella Tornabuoni alla dimensione quotidiana della vita fiorentina, descrivendola come “una femmina che porta a l’usanza fiorentina frutte e fiaschi da la villa” (Vasari, Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori, I, 1568, 461).

Riferimenti bibliografici essenziali sulla Dovizia di Donatello
  • Kaufmann 1935
    H. Kauffmann, Donatello. Eine Einführung in seine Bilden und Denken, Berlin 1935.
  • Haftmann 1939
    W. Haftmann, Das italienische Säulenmonument: Versuch zur Geschichte einer antiken Form des Denkmals und Kultmonuments und ihrer Wirksamkeit für die Antikenvorstellung des Mittelalters und für die Ausbildung des öffentlichen Denkmals in der Frührenaissance, Leipzig 1939.
  • Wilkins 1983
    D.G. Wilkins, Donatello’s Lost Dovizia for the Mercato Vecchio: Wealth and Charity as Florentine Civic Virtues, “Art Bulletin” 65 (1983), 401-23.
  • Haines 1984
    M. Haines, La colonna della Dovizia di Donatello, “Rivista d'arte” 37, 4 (1984), 347-359.
  • Masahiko Mori 1984
    Masahiko Mori, First Public Sculpture in the Early Renaissance Florence. Donatello’s LostDovizia,Bijutsu shigaku” 6 (1984), 39-71.
  • Blake Wilk 1986
    S. Blake Wilk, Donatello's "Dovizia" as an Image of Florentine Political Propaganda, “Artibus et Historiae” 7, 14 (1986), 9-28.
  • Randolph 2002
    A.W.B. Randolph, Engaging Symbols: Gender, Politics, and Public Art in Fifteenth-Century Florence, New Haven-London 2002.
  • Chrzanowska 2018.
    A.A. Chrzanowska, ‘Who, Then, is the “Nympha”?’ An Iconographic Analysis of the Figure of the Maid in the Tornabuoni Frescoes, in K.A.E. Enenkel and A. Traninger (eds.), The Figure of the Nymph in Early Modern Culture, Leiden 2018, 177-191.

Appendice II. Una (sola) fotografia (46_24). La materialità immateriale delle forme

a cura di Filippo Rizzonelli

L’unico elemento contemporaneo di Tavola 46 dell’Atlante Mnemosyne è lo scatto fotografico (1900 ca.) della “campagnola a Settignano” [46_24]. La collocazione forte, in chiusura del montaggio, parrebbe contrastare con l’effettiva debolezza semantica dell’immagine. Infatti essa, in sé per sé, non è altro che una figura femminile in movimento su uno sfondo rurale, priva di particolari attributi patemici e giusto connotata dal proprio essere semplicemente ciò che di fatto ci mostra: un’abitante del luogo, intenta in una qualche quotidiana e deambulante attività, il cui senso è ormai perduto, e a noi di fatto resta ignoto.

Questo scatto – enigmatico nella sua semplicità e catturato dal gesto fotografico dello stesso Warburg – più che rappresentare un’idea o un ideale, ci presenta una situazione, plausibilmente comune, visivamente banale. In tal contesto, è ben difficile ravvisare una precisa o particolare Pathosformel; infatti: “chiunque cammina, cammina” (così in Seminario Mnemosyne 2000).

La fotografia, posta da Warburg in tale importante posizione nell’economia di Tavola 46, va pertanto considerata rispetto alla complessità relazionale e figurale nella quale si trova inserita e collocata; si presta, infatti, a una lettura ambivalente, tanto come uno spunto meta-riflessivo (rispetto al ruolo dell’osservatore attento, e alla sua capacità e disponibilità nel ravvisare e documentare l’incedere della Ninfa nel quotidiano e banale flusso cinetico del mondo) quanto come un indizio metamediale (la presentazione fattuale delle possibilità tecniche a disposizione dello stesso osservatore per catturare immagini altrimenti sempre sfuggenti nel tempo). In tale ottica, lo scatto va interrogato per il suo possibile valore di chiave ermeneutica, non solo per la composizione del pannello nel quale è incluso, ma fors’anche per l’intero meccanismo di funzionamento della macchina-Atlante warburghiana.

La semantizzazione che caratterizza la “campagnola di Settignano” è infatti tutta contestuale: ciò che vale in questo caso non sono la postura o i rimandi iconografici che essa può evocare, bensì lo stesso supporto tecnico e la situazione nella quale è immersa. Ad essere chiamato in causa è proprio il tempo: il contingente, cioè l’istante dell’osservatore nell’atto del catturare l’osservato, e l’eternità, la fallace cristallizzazione di una particolare forma di movimento e sentimento su di un supporto tecnico deliberatamente predisposto allo scopo.

Il punctum saliens di questa immagine è la relazione: quella tra cacciatore e mondo; tra medium fotografico e tempo; tra movimento di un essere vivente e la sua cristallizzazione in un’immagine; tra unicità e moltitudine, evidenziata con il – e grazie al – dispositivo-Atlante.

Ciò che conta qui è l’intenzione di segnalare, proprio in forza dell’istantanea, l’impressione dell’engramma: nella campagnola di Settignano (un paesello di poche centinaia di abitanti, posto in collina a quattro chilometri a oriente di Firenze e a due dalla riva destra dell’Arno, noto soprattutto per aver prodotto e nutrito nei secoli schiere di scultori e scalpellini) viene catturato il fantasma della Ninfa e, nell’accostamento con le altre più eloquenti immagini di Tavola 46, si scatena il demone dell’immaginario.

La donna di Settignano appare a Warburg come un fantasma: forse la sua postura in un qualche momento – un attimo prima o un attimo dopo lo scatto – attiva l’immagine della Ninfa gradiva. O forse quel che Warburg cattura con il suo scatto non è tanto l’energia della postura – la vera e propria Pathosformel – quanto piuttosto il retaggio dell’engramma. Portato quindi, non (solo) portamento o postura. La Ninfa di Settignano vuole essere un ponte temporale tra l’antico e il presente: anacronistica congiunzione, capace di sottolineare il meccanismo di coincidenza degli opposti, attraverso l’affermazione e il rinvenimento delle sue possibilità tecniche fattuali e, in potenza, icasticamente rigenerative.

Il medium ora esplicita sé stesso: la fotografia della donna è de facto la Ninfa manifesta, incarnata nella e dall’attualità per mezzo di furtivi sguardi e carte emulsionate con l’argento. Il rapporto qui sottolineato non è tra la forma e il significato cui essa allude, ma è indizio e contrassegno di un nesso causale che travalica i confini del tempo nello spazio. L’istantanea, si propone quindi come esempio del suo essere traccia nel contemporaneo di una costante antropologica, pista o sentiero percorribile in cerca d’una mèta sfuggente quale può essere la memoria mitica, persistente e immanente al reale – cioè ai luoghi e ai tempi di vita del e nel quotidiano. Il significante rappresentato dalla donna comune ri-attualizza nella sua complessa semplicità l’enigma della Ninfa , e alla Ninfa fornisce un supporto materiale per riprodursi e manifestarsi nel qui e nell’ora.

L’immagine viene filtrata dal prisma opaco del dispositivo fotografico e, attraverso un gioco di specchi, porta a visibilità i suoi caratteri simbolici per analogia, facendosi ri-conoscere attraverso una fisica manifestazione mondana (la campagnola di Settignano), materialmente messa in luce (fatta fotografia).

La lente ermeneutica del meccanismo fotografico può apparirci quindi come un berillo capace di innescare il movimento del pensiero, che purtuttavia, senza garantirci alcun appagamento immediato nel riconoscimento di una data forma del divino, allude al piacere scatenato dall’eterno inseguimento di un varco che apre a una dimensione ulteriore rispetto al sensibile. L’istantanea impressa su celluloide – e poi stampata su cellulosa – assume quindi lo statuto di affermazione, profezia e promessa: indizio dell’esistenza persistente della Ninfa nel quotidiano e numinosa prova di una sua possibile visione come luce, quindi traccia di un percorso sempre potenzialmente rinvenibile nell’oggi – nella ricerca d’una radura di significato che, improvvisamente, ci si potrebbe aprire innanzi – attraverso l’inseguimento nell’imperscrutabile, ma percorribile, bosco delle infinite temporalità possibili.

Una radura che, come dimostra l’affresco di Villa Lemmi – presente in Tavola 46 (e analizzato, in questo stesso numero di Engramma, da Filippo Perfetti) – altro non è che il regno di Mnemosyne. È un luogo della venatio sapientiae, un modo attraverso cui l’ambita – e invisibile – preda inseguita, è per sempre da inseguire, seguendo le visibili impronte disseminate dal suo continuo passaggio nell’oscura selva delle esperienze umane: intime non solo pubbliche, quotidiane e personali, non solo sociali e storiche.

Se nel montaggio di Tavola 46 è infatti possibile rilevare la matrice figurale della Ninfa gradiva attraverso la trasversale comparazione dalle sue diverse manifestazioni, non dobbiamo però dimenticare che tutto ciò che possiamo osservare nell’Atlante è a sua volta riproduzione fotografica degli “originali” da esso catturati: immagini, liberamente ed arbitrariamente sottratte – in forma di dettagli o di frammenti – ai contesti storico-culturali in cui esistevano e da cui erano precedentemente temporalmente state imprigionate. 

L’immagine della donna di Settignano – unica fotografia esplicitamente documentaria del montaggio, con un soggetto contemporaneo selezionato dallo stesso Warburg, e unica fotografia che si presenta non come riproduzione/rappresentazione ma come presenza in sé – ci appare quindi come una chiave di lettura ermeneutica ambivalente, capace di sottolineare il meccanismo affatto dicotomico di cattura-liberazione del “metodo Atlante” warburghiano.

Marmorei frontespizi, cartacei incunaboli e metalliche medaglie… La materialità dei supporti originali permetteva e al contempo limitava la manifestazione della Ninfa, inscrivendola in un monumentale archivio della memoria, determinandone e condizionandone perciò i regimi di visibilità e sopravvivenza (nell’immagine come nell’immaginario) e quindi, di fatto, escludendola dal reale flusso del divenire e della libera espressione delle sue forme.

Warburg, però, produce uno scarto sostanziale avvalendosi della moderna tecnica fotografica: sottrae discretamente le immagini della Ninfa ai contesti (opere o cronologie) programmaticamente deputati alla sua cattura, e le condensa nell’impaginazione della Tavola dell’Atlante e così, di fatto, ‘libera la Ninfa’ dalla staticità della dimensione museale, permettendole di vagare e manifestarsi in altre Tavole, di incontrarsi con altre sue, varie, declinazioni, quindi di negoziare nuove strategie di sopravvivenza.

Questo è il Mnemosyne Atlas. La nera anti-cornice di presentazione delle tavole è infatti un tentativo di negazione di sé stessa (del proprio ruolo di ‘congelatore’ iconologico) e, al contempo, è una operazione di scorniciatura della finestra rappresentativa nella quale – e per tramite della quale – la Ninfa si era precedentemente potuta palesare.

La fotografia, in tal modo, grazie alla propria connaturata capacità di riproducibilità e democratizzazione figurale, appare come uno strumento in grado di prelevare le ninfe dai con-testi discorsivi (ed ergastolari) nei quali precedentemente si trovavano recluse (per opportunità e necessità storico-culturali), restituendo loro, eucaristicamente, la fluidità e i liberi (e libertari) movimenti che da sempre le contraddistinguono.

In questo quadro, la grazia del femminile non necessariamente significa innocenza ma, all’esatto opposto, e ben più frequentemente e problematicamente, è aperta sfida allo status quo della narrazione storico-temporale del potere disciplinante ed etero-direzionato (vedi in Engramma il saggio sulle ninfe del ’68, intese come menadica e libertaria riemersione della violenza rivoluzionaria femminile). 

Strappare al soggiogante conformismo estetico-politico la visione delle cose del mondo – così come balenano in un attimo di pericolo – significa impossessarsi di un ricordo per liberarlo dalle convenzioni che storicamente lo tiranneggiano. L’indomabile e lunatica eccedenza del desiderio femminile, incarnata simbolicamente e visivamente dall’incedenza e dall’indecenza della Ninfa, viene quindi rilevata dall’attento amante della luce per tramite di precisi e artificiali procedimenti tecnici – materialmente composti di lenti e carte emulsionate con il mercuriale metallo – determinando l’emersione di alcuni aspetti ‘dell’originale’, altrimenti preclusi a un’ottica naturale (in una sua canonica e/o banalizzante visione), e altresì permettendo il riconoscimento della sua autenticità e differenza nell’essere assolutamente identico alle altre sue più – grezze e banali – manifestazioni ed espressioni temporali. Tanto basta a giustificare l’introduzione di un’immagine in un montaggio a cui altrimenti – da sola – non avrebbe potuto accedere.

L’Atlante, in tal senso, potrebbe essere inteso non solo come un orizzontale spazio di presentazione e scorniciatura delle immagini simboleggianti l’irriducibilità storica e culturale del daimon femminile, ma come un’agorà ad uso delle ninfe stesse: imaginale e autonomo parlamento deputato a mettere in scena la loro presenza politica, capace di anticipare le conquiste sociali, estetiche e intellettuali dei movimenti suffragisti, femministi e libertari del Novecento.

L’Atlante, dunque, anche come luogo di liberazione collettiva dal giogo della materialità e del consumo/abuso delle immagini ad opera del potere, come incubatore di memoria del passato e – al contempo – cospirativo spazio di polarizzazione per la re-immaginazione del futuro.

Ipotesi ardua, certo, forse azzardata ed esuberante rispetto al senso che Warburg conferisce alla Tavola dedicata alla Ninfa. Ma l’Atlante è anche un gioco fatto per i posteri, un dispositivo attuale per noi. E, dopotutto, la scelta di conferire alla semplice e modesta campagnola di Settignano un ruolo così importante nella Tavola 46 ci restituisce anche questo, malgrado e oltre le intenzioni dello stesso Warburg. È una traccia dell’inarrestabile democratizzazione dello sguardo e dell’interesse per il femminile nello Zeitgeist del XX secolo; il riconoscimento, il ritorno e la perpetuazione del suo spirito mitico nella marcia del futuro che avanza attraverso il quotidiano. È la riproduzione bio-politica della Ninfa che, prima ancora di essere catturata e imprigionata nei marmi, nei colori e negli ori delle immagini del potere, appartiene alla vita in quanto tale. E il flaneur, con la sua immaginifica capacità di visione, anche a passeggio per le strade di un paesello toscano (o tra le rovine di Pompei), se segue Hermes e Afrodite può incontrarla, la Ninfa, in una delle sue infinite e imprevedibili metamorfosi.

Questo è l’Atlante. E a dire tutto questo, basta una (sola) fotografia.

Riferimenti bibliografici essenziali
  • Benjamin [1940] 1997
    W. Benjamin, Sul concetto di storia [1940], a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Torino 1997.
  • Centanni 2017
    M. Centanni, Fantasmi dell’antico. La tradizione classica nel Rinascimento, Rimini 2017.
  • Hillman [2009] 2013
    J. Hillman, Psicologia alchemica [Alchemical Psychology, Washington 2009], trad. it. di A. Bottini, Milano 2013.
  • Zucconi 2020
    F. Zucconi, La sopravvivenza delle immagini nel cinema. Archivio, montaggio, intermedialità, Milano-Udine 2020.

Dettagli, schede e didascalie delle immagini in Tavola 46

a cura del Seminario Mnemosyne

Bibliografia su Mnemosyne Atlas, Tavola 46

a cura di Ada Naval García

La Bibliografia è strutturata secondo quanto descritto nella scheda Metodo di composizione delle schede, delle immagini, delle didascalie e della Bibliografia.
Per garantire autonomia alla Bibliografia relativa alla Tavola e la specificità che si propone, riferimenti a passi o citazioni presenti nel Saggio, tratti da contributi funzionali all’argomentazione o illuminanti su singoli spunti ermeneutici, ma non specificamente dedicati a Tavola 46, non compaiono nella Bibliografia specifica sulla Tavola, ma sono citati infratesto per esteso nel Saggio interpretativo.

1. Saggi e frammenti di Aby Warburg sulla Ninfa, e altri scritti con note sul tema
2. Letture critiche di Tavola 46
3. Saggi critici e contributi su Tavola 46 e Ninfa
4. Convegni, seminari e mostre

English abstract

The proposed work is the result of the Seminario Mnemosyne’s work on panel 46, "Nymph", of Aby Warburg’s Atlas. The essay consists of an interpretative reading of the Panel, where the focus has been shifted to the relationship between two of the figurative manifestations of the Florentine Nymph. The carrying servant and the lady, their connection with panel 47 and an analysis of their movement, questioning if their dynamism should be considered a Pathosformel, are the object of the study. As a result, we present here the re-edition of a technical sheet on the captions and a reference bibliography, edited by Ada Naval. Some methodological readings connected with the panel have been included: Appendix I by Sara Agnoletto analyses Donatello's lost “Dovizia” and its legacy on Florentine visual culture and Appendix II by Filippo Rizzonelli reflects on photography and editing and their semantic values within the panel.

keywords | Mnemosyne Atlas; Warburg; Nymph; Giovanna degli Albizzi; Lucrezia Tornabuoni; Ghirlandaio; Botticelli; Dovizia

Per citare questo articolo/ To cite this article: Seminario Mnemosyne, Il passo della Ninfa fiorentina. Lettura interpretativa di Mnemosyne Atlas, Tavola 46 , “La Rivista di Engramma” n. 182, giugno 2021, pp. 51-196 | PDF dell’articolo

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2021.182.0009