"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

Drammaturgia dell’azione sospesa

Trasformazioni della carica gestuale e riattivazione dell’Antico nelle Tavole su Rembrandt del Mnemosyne Atlas

Lucamatteo Rossi

English abstract

§ Le coordinate e i ‘testi a fronte’
§ Riattivazione e rielaborazione barocca dell’Antico al Nord 
§ Poli di forze e drammaturgia della sospensione
§ Polo I | Proserpina
§ Polo II | Medea
§ Polo III | Giulio Civile 
§ L’opera di Rembrandt come teatro dell’azione sospesa

§ Appendice I  | L’Antico italiano nell’epoca di Rembrandt
§ Appendice II | Lettera di Aby Warburg a Carl Neumann del 22 gennaio 1927
§ Riferimenti bibliografici

Le coordinate e i ‘testi a fronte’

Nel Mnemosyne Atlas un gruppo compatto di pannelli – da Tavola 70 a Tavola 76 – è dedicato a Rembrandt e al contesto in cui l’artista opera. Un dato colpisce l’attenzione: si tratta di più del dieci per cento del totale dei 63 pannelli rimasti del progetto lasciato incompiuto da Warburg alla sua morte. Dal dato numerico risulta dunque che il gruppo dedicato ai processi di migrazione e riattivazione delle forme dell’Antico nel Barocco olandese progressivamente si espande, in controtendenza ad altri temi e percorsi di ricerca che sembrano condensarsi in un numero sempre più ridotto di tavole via via che l’Atlante prende forma. Dalle quattro tavole dedicate a Rembrandt e l’arte della sua epoca presenti nella prima versione dell’Atlante del 1928 (numerate 40-43), nella seconda versione dell’opera datata all’agosto/settembre del 1928 le tavole diventano sei (numerate 58-63), per raggiungere il numero di sette nell’ultima versione dell’ottobre del 1929 (numerate 70-76). Essendo come noto l’ultima versione di Mnemosyne tutt’altro che compiuta, rimane in dubbio se Warburg avesse soltanto appuntato i materiali per poi successivamente scremarli e raccoglierli in modo più sintetico, o se l’interesse verso il Barocco olandese avesse acquisito una tale rilevanza da occupare uno spazio maggiore rispetto ad altri soggetti (per il processo di sintesi progressiva che avviene in altre sezioni dell’Atlante, si veda ad esempio il caso dalle diverse redazioni della tavola dedicata a Dürer esaminate nel contributo Grippa 2023 in questo stesso numero di Engramma).

Gli ultimi anni della ricerca di Aby Warburg, dal 1924 al 1929, sono segnati dal suo interesse verso il Barocco olandese – e in particolare verso Rembrandt – che egli affronta con gli strumenti ermeneutici propri del metodo che aveva messo a punto fino a quel momento: Warburg infatti aveva studiato la migrazione temporale e geografica delle Pathosformeln dall’Antico al Rinascimento italiano, dal Sud al Nord Europa, e l’incrocio tra il teatro e le arti figurative.

Data la mancanza di un saggio compiuto di Warburg sul tema, risulta difficile interpretare le tavole dedicate alle modalità di riemersione dell’Antico nell’arte olandese del XVII secolo. Tuttavia, considerando i materiali di lavoro sul tema e gli appunti di quegli anni per alcuni saggi e conferenze, e mettendoli a fronte  delle immagini incluse in Tavole 70-76, si aprono spiragli sul senso della ricerca di Warburg e, di riflesso, sul senso della composizione della sezione di tavole dedicata a Rembrandt. In particolare i testi di maggior rilevanza per questa ricostruzione fanno capo a tre conferenze:

• la conferenza tenuta da Warburg il 29 maggio 1926 presso la Kulturwissenschaftliche Bibliothek Warburg (KBW) dal titolo L’antico italiano nell’epoca di Rembrandt che è anche la prima esposizione pubblica della sua ricerca sul Barocco olandese. Si tratta di appunti frammentari e di una selezione di immagini (in parte destinate a essere proiettate durante la conferenza) molte delle quali si ritrovano nelle tavole oggetto di questo studio. Di questa prima conferenza si ripubblica in Appendice I il testo, secondo l’edizione Ghelardi 2007. A questa stessa conferenza si riferisce una lettera inviata il 22 gennaio 1927 in risposta al collega Neumann, in cui Warburg offre delucidazioni sulle sue tesi: il testo originale della lettera a Neumann, edito da Pinotti 2005, è pubblicato in prima versione italiana nell’Appendice II;

Nettuno sul carro, Pieter Nolpe, Amsterdam, Nicolaes van Ravesteyn, Ontschakingh van Proserpina

Lesensaal della Kulturwissenschaftliche Bibliothek Warburg
in occasione della mostra su Ovidio, febbraio 1927.

• la conferenza tenuta il 29 gennaio del 1927 presso la KBW da Max Dittmar Henkel (storico dell’arte olandese e direttore del Gabinetto delle stampe del Rijksmuseum di Amsterdam) sulle edizioni illustrate delle Metamorfosi di Ovidio tra il XV e XVII secolo (la conferenza sarà pubblicata nei “Vorträge” della Biblioteca Warburg: Henkel 1927). Per la conferenza di Henkel, la Biblioteca Warburg contribuisce procurando, grazie alla collaborazione di numerose biblioteche tedesche, il maggior numero possibile di edizioni illustrate di Ovidio. L’occasione di questa conferenza viene colta da Aby Warburg per allestire nella Biblioteca una mostra aperta al pubblico: si tratta di un’esposizione di pannelli su supporti lignei di formato orizzontale con immagini basate su temi ovidiani e libri illustrati, di sei delle quali abbiamo una riproduzione fotografica datata 6 febbraio 1927 (giorno di una delle varie visite guidate da Warburg alla mostra); nel periodo di apertura della mostra i pannelli ovidiani esposti potrebbero aver subito variazioni nel contenuto e nel numero (che potrebbe essere aumentato fino a otto). Ognuno dei pannelli di cui possediamo documentazione fotografica si incentra su un singolo tema esplicitato da una targa posta al centro del lato superiore: “Persecuzione (Dafne)” [Verfolgung (Daphne)], “Ratto (Proserpina)” [Raub (Proserpina)], “Trasformazione (Atteone)” [Verwandlung (Actaeon)], “Morte sacrificale (Orfeo)” [Opfertod (Orpheus)], “Sacrificio umano (Medea)” [Menschenopfer (Medea)], “Danza sacrificale / Lamento” [Opfertanz / Klage] (v. Woldt 2012b, 102; Cieri Via 2017). Già il 24 ottobre 1924, nella stessa KBW di Amburgo, il filologo classico Karl Ludwig Reinhardt aveva parlato delle illustrazioni di Ovidio; come si può leggere negli appunti dell’introduzione a questa conferenza conservati nell’Archivio del Warburg Institute di Londra (WIA III. 101 2.1. fol 20), Warburg esprimeva il principio-guida della sua ricerca e delle attività promosse dalla sua Biblioteca: “Una certa questione, che fin dal mio primo soggiorno a Firenze nel 1888 mi è sembrata di vasta portata e non sufficientemente studiata, doveva servire come stella-guida: la questione dell’influenza dell’antichità sulle epoche culturali successive” (Woldt 2012b, 102; WIA III. 101 2.1. fol 20).

• la conferenza del 10 aprile 1927 tenuta da Warburg presso la KBW per una delegazione di bibliotecari dell’Associazione delle Biblioteche della Bassa Sassonia che aveva lo scopo di illustrare il suo metodo di ricerca e l’importanza della KBW per lo studio di “materie di confine” (wissenschaftlichen Grenzgebiete) e argomenti secondari ardui da indagare. Per gli ospiti, fra i quali vi erano i direttori delle più importanti biblioteche della Germania settentrionale, Warburg non solo organizzò una visita guidata alle sale della Biblioteca, ma tenne anche una conferenza dal titolo Die Bedeutung des “seltenen Buches” für eine unversell und geisteswissenschaftlich orientierte Kunstgeschichte [Il significato del "libro raro" per una storia dell'arte universale e orientata alle discipline umanistiche] in cui si serviva di alcune delle argomentazioni della sua ricerca su Rembrandt per illustrare due aspetti fondamentali del suo lavoro: il significato della stampa per i processi di scambio della storia dell'arte, da un lato, e gli obiettivi della sua biblioteca specializzata dall’altro (della conferenza esiste una relazione scritta da Gertrud Bing indirizzata a Max Warburg in data 12 aprile 1927 e conservata presso l’Archivio del Warburg Institute di Londra): in questa occasione, organizzò anche una mostra con tre tavole illustrate, che allestì – come in altre occasioni – sugli scaffali della libreria della sala di lettura (Woldt 2012a, 99).

Un altro testo importante per ricostruire il tavolo di lavoro da cui sortiscono anche le Tavole 70-76 del Mnemosyne Atlas, è il saggio Rembrandt en Vondel del direttore del Rijksmuseum di Amsterdam, Frederik Schmidt-Degener, pubblicato sulla rivista olandese “De Gids” nel 1919, di cui Warburg promuove la traduzione in tedesco ad opera di Alfred Pauli, pubblicata per i tipi di Teubner nel 1928 con il titolo Rembrandt und der Holländische Barock.

Questi testi costituiscono la nostra griglia di orientamento per ripercorrere gli esiti degli studi di Warburg sul Barocco olandese. Gli studiosi che si sono occupati dei materiali di Warburg su Rembrandt, oltre ai già citati lavori di Woldt 2012a, Woldt 2012b, sono: Andrea Pinotti (Pinotti 2005); Maurizio Ghelardi (Ghelardi 2007, 406-654; Ghelardi 2022, 189-200); Claudia Cieri Via (Cieri Via 2012; Cieri Via 2013; Cieri Via 2017), Yannis Hadjinicolaou (Hadjinicolaou 2018). Una lettura di Tavola 70 è stata proposta da Jane O. Newman e Laura Hatch: nel contributo viene proposta un’interpretazione generale del tema della migrazione dal Rinascimento al Barocco, anche rispetto al contesto storico in cui Warburg operava, ma non viene fatto riferimento specifico ad alcuni importanti materiali presenti nella Tavola, fra i quali i frontespizi delle opere teatrali olandesi e le rappresentazioni ovidiane di Antonio Tempesta, e alle specifiche modalità di riemersione e riattivazione dell’Antico nel contesto del Seicento olandese di temi già indagati nelle tavole precedenti in riferimento al Rinascimento italiano quali la Fortuna, la Ninfa, lo sparagmòs di Orfeo (Newman, Hatch 2013). 

In questo contributo non si troverà una lettura completa del gruppo delle Tavole dell’Atlante Mnemosyne dedicato a Rembrandt e al Barocco nordico (Tavole 70-76), ma si tratterà del tema della riattivazione dell’Antico ad opera di Rembrandt nelle Tavole 70-73, con un focus sulla retorica rappresentativa della sospensione dell’azione, declinata su tre soggetti antichi: il rapimento di Proserpina, l’infanticidio di Medea, il giuramento di Giulio Civile.

Riattivazione e rielaborazione barocca dell’Antico al Nord 

Il teatro come forma di passaggio tra vita e arte (in continuità con gli studi di Jakob Burckhardt) e il testo mediatore come vettore fisico e strumento di migrazione delle Pathosformeln tra Nord e Sud. Questi temi, che avevano già alimentato la ricerca di Warburg, si ripropongono nel 1924, anno in cui inizia a occuparsi di Rembrandt e della sua epoca: i filoni di studi precedenti, che avevano contribuito a consolidare i tratti essenziali del suo metodo, si dimostrano una valida piattaforma di partenza per lo studio del Barocco olandese. Warburg concentra la sua attenzione sull’osservazione delle modalità di migrazione delle formule dell’Antico – che in Olanda giunge in vari modi: per esperienza diretta delle matrici classiche, ma anche delle loro riproduzioni, sia quelle grafiche nei libri stampati sia negli apparati delle feste rinascimentali. Warburg afferma di essere il primo a studiare la migrazione delle Pathosformeln dall’Italia all’Olanda per mezzo delle copie grafiche di opere d’arte, ma anche il fondamentale rapporto dell’arte figurativa con il teatro. Ma nelle Tavole del Mnemosyne Atlas dedicate al tema del Barocco olandese emergono anche altri temi dell’Antico: nell’Accecamento di Sansone di Rembrandt presente in Tavola 72, si attesta anche la sopravvivenza della Ninfa (a cui è dedicata Tavola 46); in Tavola 70 si presenta anche la riemersione del tema di Fortuna (a cui è dedicata Tavola 48).

L’ipotesi è che la carica energetica con cui le Pathosformeln arrivano al Barocco olandese risulti depotenziata rispetto alla qualità della stessa tensione patetica espressa nel Rinascimento italiano. Una illustrazione di questo processo di depotenziamento della carica energetica, con riferimento particolare ai soggetti mitologici ovidiani, si trova in un passaggio del testo della conferenza di Henkel in cui lo storico dell’arte olandese evidenzia la mancanza di “immaginazione e di pensiero” nella lunga catena di opere raffiguranti soggetti mitologici ovidiani che riprendono gli stessi modelli assunti in precedenza senza sostanziali variazioni:

A fronte del gran numero di illustrazioni ovidiane, bisogna notare che esse non presentano grandi variazioni tra loro. Una volta individuato un certo soggetto iconografico, esso si manifesta con grande facilità e, a parte piccole sfumature, si ripete identico quasi sempre. Ci sono raffigurazioni, come la caccia al cinghiale calidonio, il ratto di Proserpina, lo scorticamento di Marsia, la caduta di Fetonte, che si discostano di poco dalle forme che avevano già assunto nell’antichità. L’inventiva, l’originalità degli illustratori si ridurrà quindi a un livello molto modesto […]. Artisti veramente importanti non si sono sentiti chiamati a illustrare l’intero Ovidio e, come accade in molti episodi, a fornire cento cinquanta o anche più illustrazioni. […] È abbastanza sorprendente quanto la maggior parte degli illustratori si dimostri priva di immaginazione e di pensiero, perché per lo più si accontentano di prendere modelli esistenti. La storia delle illustrazioni di Ovidio è quindi una successione infinita di riproduzioni, prestiti e furti. […] La prima edizione illustrata di Ovidio non è apparsa in Italia, come ci si poteva aspettare, ma nei Paesi Bassi meridionali, nell'area culturale franco-olandese, e precisamente a Bruges nel 1484 ad opera del primo stampatore della città, Colard Mansion (Henkel 1927, 60-61).

L’immagine può migrare in epoche successive grazie alla sua riproduzione e riproposizione e arriva in altri contesti per mezzo dei testi mediatori: emblematico è il caso del carro trainato dai cavalli marini tipico delle feste rinascimentali fiorentine e veneziane ripreso da Antonio Tempesta nell’incisione Plutone, Venere e Amore e che poi riappare nelle feste olandesi (e che Warburg riprende in Tavola 60 e in Tavola 70).

Nettuno sul carro, Pieter Nolpe, Amsterdam, Nicolaes van Ravesteyn, Ontschakingh van Proserpina

a sinistra: Accursio Baldi e Bastiano Marsili, Galere come simbolo di Venezia, la patria di Bianca, acquaforte su rame (22,8 x 15,5 cm). Tratta da: Raffaello Gualterotti, Feste nelle nozze del serenissimo Don Francesco Medici Gran Duca di Toscana; Et della Sereniss. sua Consorte la Sig. Bianca Cappello, Firenze 1579, 76 [presente in Mnemosyne Atlas, Tavola 60].
al centro | Etiam servamur in undis, illustrazione da Pieter Nolpe, Beschrivinge vande Blyde Inkoomste […] van Haare Majesteyt van GrootBritanien, Vrankryk, en Jerland. Tot Amsterdam, Den 20 May, 1642, Amsterdam 1642 [presente in Mnemosyne Atlas, Tavola 60].
a destra: Antonio Tempesta, Plutone, Venere e Amore, incisione (18,3x14 cm), 1634. Tratto da: Jacob Struys, Ontschakingh van Proserpina, met de met de Brugloft van Pluto. Ghespeelt op de Amsterdamsche, Amsterdam 1634, A [presente in Mnemosyne Atlas, Tavola 70 ].

Ogni riproduzione priva di inventiva – come stigmatizzava Henkel rispetto alle illustrazioni ovidiane – depotenzia l’immagine, e in genere ciò avviene o per eccesso di elegante ricercatezza formale o per eccesso di pathos: il risultato è il dissipamento della forza dell’immagine che nel passaggio dei secoli risulta scarica. Cosa succede dunque quando quelli che Henkel definisce “artisti importanti” sono chiamati a illustrare tali soggetti ovidiani e tacitiani già svuotati della loro carica energetica? Secondo Warburg un artista come Rembrandt è una sorta di “condensatore elettrico” (è suo il paragone con la “bottiglia di Leida” nella lettera a Neumann: v. Appendice II), che sa accumulare l’energia dell’Antico per poi rilasciarla, rinnovata nella temperie del proprio tempo. L’artista dunque tradisce la natura dell’immagine con innesti a essa estranei – elementi e stilemi propri della sua area geografica e culturale di appartenenza, che hanno una risonanza particolare nella sensibilità della sua epoca. Il risultato è una nuova immagine “classica”, il cui senso e la cui forza resistono oltre il tempo in cui l’opera è stata concepita, pur esprimendo l’essenza dell’epoca in cui è nata. 

Nel cammino verso l’affermazione dell’identità olandese a seguito della vittoria della Guerra degli Ottant’anni e la liberazione dal dominio spagnolo, l’arte ufficiale finanziata dalla nascente Olanda è condizionata dagli esempi del Rinascimento italiano del secolo precedente che, attraverso le incisioni di Antonio Tempesta, risultano tradotti in forme viete, che ostentano un’eleganza ingessata e una ridondante intensità patetica. L’arte di stato del secolo d’oro olandese tende alla ripetizione pedissequa dei modelli antichi e rinascimentali, e perciò risulta sterile e spenta rispetto all’accensione – stilistica e tematica – che avviene quando forze contrapposte si caricano in duplice assonanza con il patrimonio ereditario dell’Antico e con elementi attuali. Warburg identifica in Rembrandt il caso in cui si verifica questa condizione energetica di doppio innesco e di ricerca di un nuovo punto di equilibrio: solo in quel caso, ogni affettata eleganza, ogni esibizionismo cessa, il gesto si contrae e si polarizza e si fa moto concentrato. È un punto apparentemente immobile, che, se osservato da vicino, si rivela essere in uno stato di oscillazione frenetica, sulla soglia tra atto e potenza: è una forza formidabile, sempre in procinto di esplodere anche in modo devastante, ma che in Rembrandt si manifesta come potenza silenziosa e come moto interiore. 

Prima dunque di addentrarsi nel percorso tracciato da Warburg, che è storico e “psicostorico” come ama definirsi, è necessario soffermarsi per l’appunto sul contesto geografico e storico-culturale in cui si verifica l’innesco dell’Antico nel Barocco olandese; tracciare il percorso di migrazione delle immagini dal Sud al Nord Europa; riconoscere le connessioni “naturali e formali tra arte figurativa e dramma” (Warburg [1926] 2007, 407); e “tener conto di una reciproca fecondazione, […] tra una vita modellata dalle feste e l’arte figurativa” (Warburg [1926] 2007, 437). 

Poli di forze e drammaturgia della sospensione

Warburg teorizza il processo di riattivazione dell’Antico nel Barocco olandese isolando nell’opera di Rembrandt la rappresentazione di tre mitemi – Proserpina, Medea, Giulio Civile – che ricadono nell’Atlante rispettivamente in Tavola 70, Tavola 73 e Tavola 72. La lettura delle tre Tavole procederà attraverso la doppia griglia ermeneutica costituita dal campo di forze generato dalle tre opere di Rembrandt e indicato da Warburg nella lettera a Neumann, e dalla sospensione tra impulso e azione, elemento rivoluzionario del teatro di fine Cinquecento introdotto da Shakespeare il cui principio appare ripreso da Rembrandt e applicato all’ambito dell’immagine. 

Il primo percorso di lettura si concentra sul campo di forze descritto da Warburg è costituito da due poli contrapposti (Gegenpolen): l’energia del dipinto del Ratto di Proserpina che è “polo della dinamica drammatica prensile della rappresentazione ovidiana del Ratto” (Polo I), e quella dell’incisione in cui Medea assiste alle nozze di Giasone e Creusa, polo della “compostezza tragica trattenuta, classicamente greca di Medea” (Polo III). Le opposte energie scaturite dai due poli fanno frizione in un punto di convergenza che è il Giuramento di Giulio Civile, che esprime “il pathos tacitiano, che incombe sull’azione, della tensione più intima dell'essere” (Polo II), e che è l’opera che dimostra “l’evento sorprendente di una trasformazione organicamente riuscita del patrimonio dell’Antico”. Nel Giulio Civile vediamo quindi una restituzione esemplare della sintesi dei due poli energetici, qualitativamente contrapposti. Di ciascuno di questi tre poli ripercorreremo lo schema per come emerge nelle tavole dell’Atlante, come dimostrazione del processo di migrazione, depotenziamento e riattivazione di queste immagini.

Il secondo percorso di lettura è l’idea della “sospensione drammaturgica” – così Warburg descrive il concetto nella lettera a Neumann – come “il momento shakespeariano del ritardo della vendetta, che ci tiene col fiato sospeso come messaggio della sua tragica umanità”. La drammaturgia shakespeariana, nella lettura di Warburg, non si occupa di intrattenere il pubblico con virtuosismi e con effetti patetici o spettacolari. Piuttosto il teatro accade nel differimento dell’atto drammatico e nei moti intimi del personaggio, di cui la terza scena del terzo atto dell’Amleto è un esempio emblematico; qui Polonio si nasconde dietro un arazzo e Amleto, che si ritrova alle spalle dello zio genuflesso in preghiera, sguaina la spada per compiere la sua vendetta: 

Amleto:
Ora lo potrei fare pulito pulito, ora che sta pregando; e ora lo faccio…
[Sfodera la spada]
… e così lui se ne va in cielo, e questa sarebbe la mia vendetta? Qui c’è bisogno di riflessione. Un manigoldo mi uccide il padre, e perciò io, suo unico figlio, mando in paradiso quello stesso manigoldo. Ma allora è un compenso, una remunerazione, non una vendetta! Lui ha sorpreso mio padre nel pieno del peccato, satollo di pane, nel pieno delle sue colpe rigogliose come il maggio: e a che punto stia il suo rendiconto, chi può saperlo se non il cielo? Ma per quanto ne sappiamo e pensiamo, gli deve gravare addosso. Mi devo dunque vendicare mentre si purga l’anima, quando è pronto, maturo per il trapasso? No. 
[Rinfodera la spada]
Ti distolgo, spada, fino a quando troverai una più terribile occasione, quando lui dorme ubriaco, o in piena collera, o nel piacere incestuoso del suo letto, al gioco, mentre bestemmia, o intento a qualche atto privo di qualsiasi sapore di salvezza – allora fallo inciampare, che scalci il cielo con i calcagni, con l’anima dannata e nera come l’inferno cui è diretta. Ma madre aspetta. Questa medicina non fa che prolungare i giorni della tua malattia.
(William Shakespeare, Amleto, III.3. Trad. it. di F. Marenco). 

La parola di Amleto preannuncia l’atto: “E ora lo faccio…”. I tre punti di sospensione indicano un vuoto non soltanto della parola che lascia spazio al gesto sospeso (la spada sguainata, pronta a sferrare il colpo), ma anche alla riflessione che avviene internamente a quell’atto: Amleto non uccide Claudio e le parole pronunciate subito dopo la pausa si posizionano nella sospensione tra impulso e riflessione. “… And so he goes to heaven, / And so am I revenged”. Qui la locuzione “goes to heaven” può essere doppiamente intesa sia come un’ulteriore dichiarazione d’intenti nel senso di “egli morrà”, ma anche nel senso “egli si salverà”, come si evince dall’inizio del monologo che segue e nel quale questa riflessione viene esplicitata. Il senso si stratifica, perché la parola è di per sé ambigua e la riflessione è insita nell’azione ben prima di essere evocata a parole; e l’atto si contraddice nel momento stesso in cui sta per compiersi. Tale dinamica è ben resa nella traduzione di Franco Marenco a cui ci affidiamo per il passo in questione, che trasforma in domanda l’esclamazione “And so am I revenged”: la frase, sebbene nell’originale lasci la risoluzione della sua ambiguità all’attore che la recita, viene resa in italiano come esplicitamente interrogativa. In questo senso, l’interpretazione di Shakespeare da parte del traduttore contribuisce a rendere più evidente lo scatto dello stato d’animo interiore che consente il differimento dell’azione. 

Amleto, come sarà poi per Medea che nell’incisione di Rembrandt tiene il pugnale assistendo alle nozze di Giasone, attende “una più terribile occasione” di quella che gli si presenta in quel momento perché, rammenta, chi muore pregando può salvarsi, a prescindere dalle colpe e dalle atrocità che la vittima può aver compiuto in vita (proprio come le anime nell’Antipurgatorio della Commedia, salvate perché pentite soltanto un attimo prima della morte terrena). Dunque, con il gesto di sfoderare la spada Amleto denuncia il fatto di sentirsi in preda a un doppio impulso: l’uno che lo spinge verso l’azione, l’altro che porta a un moto opposto di pausa, frenato dal pensiero. Di fatto si genera una stasi apparente che è un moto concentrato, pur immobile in apparenza e, tuttavia, principio motore di tutto il dramma. Nella sospensione però non è il polo statico a prevalere, ma il doppio moto, verso l’azione e verso la riflessione, è compresente e ben bilanciato: quella di Amleto non è una rinuncia, quanto piuttosto la modalità di costruzione del gesto, che tarda a compiersi ma che, in questo ritardo controllato acquista la ponderatezza necessaria affinché l’atto stesso sia, in ultima istanza, definitivo e irresolubile: prolungare “i giorni della malattia” dello zio fino alla morte e oltre.

Come si legge in uno degli appunti di Warburg per la conferenza del maggio 1926:

All’Inghilterra fu donato il genio di Shakespeare, il quale impose al pubblico ad un tempo la duplicità della commozione passionale e del sommo distacco come Leitmotiv delle sue creazioni di caratteri. Si trattava di un pubblico che voleva essere costretto a passare dalla delizia degli occhi della recita in maschera alla condivisione della tragedia del distacco (vedi Appendice II).

“Tragedia del distacco”: il gesto si contrae non soltanto nella prospettiva dell’impulso trattenuto, con l’azione che giunge al limite dell’espressione per ritirarsi repentinamente e compiersi più tardi, ma conquista anche un suo spazio d’azione in rapporto alla sua incisività. In questo senso, suggerisce Warburg, Rembrandt restituisce nell’arte figurativa l’insegnamento di Shakespeare, in quanto asciuga le immagini “annacquate” dell’Antico giunte in Olanda passando per il Rinascimento italiano, e ne elimina qualsiasi ornamento, qualsiasi espressione affettata, qualsiasi eccesso. Questa operazione produce in sé un principio di riattivazione dell’energia del gesto, in vista della sua nuova espressione e polarizzazione.

Polo I | Rembrandt, Ratto di Proserpina (dettaglio), olio su tavola (84,8 x 79,7 cm), 1630 ca., Berlin, Staatliche Museen [presente in Mnemosyne Atlas, Tavola 70].
Polo II | Rembrandt, Giuramento di Giulio Civile (dettaglio), olio su tela (196x309 cm), 1661-1662. Stockholm, Nationalmuseum, [presente in Mnemosyne Atlas, Tavola 72].
Polo III | Rembrandt, Matrimonio di Giasone e Creusa (dettaglio), illustrazione per il dramma di Jan Six, Medea, acquaforte (24,3 x 18,2 cm), 1648 [presente in Mnemosyne Atlas, Tavola 73].

Le tre immagini-polo sono qui di seguito analizzate in sequenza, lasciando in ultima posizione la rappresentazione di Giulio Civile come punto focale di sintesi che si trova concettualmente al centro rispetto alle due derive energetiche che portano alla sospensione: il dinamismo dell’azione in corso (I. Proserpina) e la staticità dell’azione differita (II. Medea).

Polo I | Proserpina

Mnemosyne Atlas, Tavola 70. Gli elementi evidenziati corrispondono alle immagini che presentano il Ratto di Proserpina: il testo mediatore (l’incisione di Tempesta), l’innesto nell’opera teatrale di Struys, le versioni depotenziate nello stesso secolo di altri artisti del Nord e la riattivazione di Rembrandt.

Ratto di Proserpina, Sarcofago Museo delle Statue, Roma

Ratto di Proserpina, marmo, frammento di un sarcofago romano, 140-150 d.C., Roma, Musei Vaticani, Galleria delle Statue [presente in Mnemosyne Atlan, Tavola 5].

a sinistra | Antonio Tempesta, Ratto di Proserpina, incisione (10,2 x 11,6 cm), 1606 [presente, specchiata, in Mnemosyne Atlas, Tavola 70].
a destra | Antonio Tempesta, Ratto di Proserpina, incisione (18,3 x 14 cm), 1634 in Jacob Struys, Ontschakingh van Proserpina, Amsterdam 1634, frontespizio [presente in Mnemosyne Atlas, Tavola 70].

Claes Cornelisz Moeyaert, Ratto di Proserpina, olio su tavola (41,2 x 67,5 cm), 1644 ca., collocazione sconosciuta [presente in Mnemosyne Atlas, Tavola 70].

Peter Paul Rubens, Ratto di Proserpina, olio su tela (181 x 271,2 cm), 1636-1637, Madrid, Museo Nacional del Prado [presente in Mnemosyne Atlas, Tavola 70].

Il Ratto di Proserpina di Rembrandt, inserito da Warburg nel montaggio della Tavola 70 del Bilderatlas Mnemosyne, rappresenta il polo dinamico della riemersione dell’Antico: la forza peculiare dell’opera di Rembrandt si delinea attraverso la comparazione con le versioni dello stesso soggetto proposte dai suoi contemporanei. Tra questi Claes Cornelisz Moeyaert, che si rifà ad Antonio Tempesta (entrambi sono presenti con le loro opere in Tavola 70; in particolare del Ratto di Proserpina di Tempesta si registra la presenza di una doppia copia). Moeyaert e Tempesta dipendono entrambi da un modello comune: il bassorilievo di un sarcofago romano conservato nella Galleria delle statue dei Musei Vaticani (presente nell’Atlante in Tavola 5, nel gruppo di Tavole che presentano i modelli archeologici). 

Nella stessa Tavola 70 sono incluse anche alcune riproduzioni di pagine di libretti illustrati di opere teatrali: il libro è proposto come un supporto importante in quanto rappresenta materialmente il legame tra parola, arte figurativa e messa in scena nelle feste e negli spettacoli teatrali del Nord; inoltre, la presenza di pagine tratte dai volumi a stampa del testo teatrale con illustrazioni garantisce la connessione con le opere grafiche riferibili agli stessi contesti di feste e teatro (i libretti da cui sono tratte le pagine presenti in Tavola sono: Jacob Struys, Ontschakingh van Proserpina, Amsterdam: Cornelis Danckertsz, 1634; Samuel Costers, Polyxena: treur-spel, Amsterdam: Abraham deWees, 1630; Joost van den Vandel, De Amsteldamsche Hecuba, TreurSpel, Amsterdam: Iacob Aertsz. Calom, 1626). È significativa in questo senso una ripetizione apparentemente tautologica: in aggiunta alla riproduzione dell’originale del Ratto di Proserpina di Tempesta, in Tavola 70 compare anche la versione a stampa del frontespizio dell’opera teatrale di Struys, Ontschakingh van Proserpina. Da un lato la riproduzione dell’incisione originale designa il testo mediatore che ha consentito all’immagine di approdare al nord; dall’altro lato, Warburg si chiede se la riproduzione sul frontespizio del libro illustrato con il testo del dramma di Struys indichi la sua relazione, “seppur alla lontana” (così Warburg [1926] 2007, 417) con “l’antica scenografia italiana”. Notiamo che nell’opera originale di Tempesta i cavalli sono diretti verso destra: l’originale dell’incisione compare dunque nell’Atlante in forma specchiata, e con l’immagine specchiata è anche l’iscrizione inferiore che così però viene a corrispondere alla stampa dell’opera teatrale di Struys che, nel frontespizio, presenta l’immagine ugualmente specchiata (evidentemente come conseguenza della stampa dalla stessa incisione):

Se consideriamo per un momento che tali mezzi [si riferisce agli artifici scenici tipici del Teatro di Amsterdam all’epoca della direzione di Jan Vos] dovevano essere utilizzati già nel 1634 nel dramma olandese Ontschaking van Proserpina di Struys perché li vediamo comparire nelle illustrazioni contemporanee dei libri che, tra l'altro, prendono come modello l’illustrazione ovidiana di Tempesta (Warburg 1927).

Warburg dà per certa l’influenza di Tempesta anche sulla versione del Ratto di Moeyaert per via della ripresa pedissequa del gesto della rapita: il braccio alzato di Proserpina non è l’espressione della disperazione ma è la sua rappresentazione, e l’ostentazione del suo moto interiore risulta del tutto stereotipato. La stessa lettura può essere applicata alla posa dei cavalli che, con una nota carica di ironia, Warburg dice che fanno “eroicamente un civettuolo salto al galoppo” (Warburg [1926] 2007, 440).

Secondo la lettura di Warburg, la “forza peculiare” di Moeyaert si manifesterebbe soltanto nella caratterizzazione nordica del paesaggio e nell’estremo gesto di soccorso di una delle compagne di Proserpina che è ritratta nell’atto di avvolgere un drappo attorno al corpo della rapita, tirandone energicamente a sé i lembi con l’aiuto delle altre compagne. Warburg dà una sua definizione di questa azione, denominandola “gesto batavo”: si tratterebbe di un gesto che risente della cultura olandese che si innesta tra gli elementi ripresi dal modello romano. 

Sullo stesso piano di Moeyaert si colloca il Ratto di Proserpina di Rubens (Tavola 70). Ritratta curva all’indietro, Proserpina, anziché tentare di liberarsi, piega il braccio verso il capo toccandosi leggiadramente la fronte con la punta delle dita. La posa risulta ulteriormente artefatta per le decorazioni e gli elementi retorici: due putti sono indaffarati a prendere il controllo dei cavalli del carro; Diana e Venere alzano elegantemente le mani al cielo in quello che dovrebbe essere un inseguimento, e Minerva, armata con tanto di elmo con pennacchio, si limita ad afferrare per la spalla il dio, che reagisce con un’espressione esageratamente patetica del volto.

Diverse altre rappresentazioni del Ratto di Proserpina si trovano in Tavola 70. Si tratta di opere che sono accomunate dalla derivazione dall’acquaforte di Tempesta, che provengono da diversi paesi: Claes Moeyaert e Peter Claesz Soutman dall’Olanda; Bernard Picart dalla Francia; Willem Van Haecht dal Belgio; Christoph Schwarz dalla Germania. Nella scelta si può leggere un’intenzione di presentare la diffusione del soggetto nei vari paesi del Nordeuropa; comune a tutto il gruppo è lo stile di restituzione della gestualità di Proserpina.

In contrappunto rispetto a tutta la serie, il Ratto di Proserpina di Rembrandt scarta invece dal “triste linguaggio affettato dei sarcofagi” (così Warburg [1926] 2007, 440), e mantiene viva la forza poietica del mito per mezzo di una rappresentazione più vicina al racconto di Ovidio:

Haec quoque virgineum movit iactura dolorem
raptor agit currus et nomine quemque vocando
exhortatur equos, quorum per colla iubasque
excutit obscura tinctas ferrugine habenas; […] 
Haud ultra tenuit Saturnius iram
terribilesque hortatus equos in gurgitis ima
contortum valido sceptrum regale lacerto
condidit; icta viam tellus in Tartara fecit
et pronos currus medio cratere recepit.

Il rapitore lancia il carro ed esorta i cavalli,
ciascuno per nome, e sui colli e sulle criniere
scuote le briglie abbrunite di ruggine scura. […]
Il figlio di Saturno non trattenne più oltre la rabbia;
incitati i tremendi cavalli, col braccio possente
immerse lo scettro regale a punta in giù nel profondo
del gorgo. La terra colpita un varco per il Tartaro
dischiuse e accolse il carro precipite dentro il cratere
(Ovidio, Metamorfosi, V, 395-399; 420-424; traduzione di G. Chiarini).

Il gesto di Proserpina che afferra con la mano la faccia di Plutone per respingerlo e impedirgli di guardare avanti è un’invenzione di Rembrandt: si tratta di un gesto istintivo e insieme abile, adeguato a un personaggio che tenta di sfuggire a un rapitore al comando di un veicolo. La fanciulla si dimena, e nella variante di Rembrandt, la sua gestualità esprime con forza la sua resistenza, ma l’efferatezza di Plutone è inesorabile come si evince dal pieno controllo che mantiene sul carro tenendo salde in pugno le redini. Nel frattempo, le compagne tirano la veste per attirarla a sé – ritorna il “gesto batavo” – e i cavalli neri si gettano freneticamente nell’abisso del Tartaro con le membra in distensione estrema. Conclude Warburg:

Tutte le frasi retoriche sentimentali sono spazzate via: soffia quell’aria inquietante dell’Ade che fa tremolare fin dal risveglio la scultura e pittura del Rinascimento (Warburg [1926] 2007, 440).

Polo II | Medea 

Rembrandt, Matrimonio di Giasone e Creusa, illustrazione per il dramma di Jan Six, Medea, acquaforte (24,3 x 18,2 cm), 1648 [presente in Mnemosyne Atlas, Tavola 73].

Medea prima dell'assassinio dei figli, affresco, da Pompei, Casa dei Dioscuri, 62-79 d.C., Napoli, Museo Archeologico Nazionale [presente in Mnemosyne Atlas, Tavola 5].

Epifanio d’Alfiano, IV Intermezzo de La Pellegrina, Disegno, 1592, Firenze.

Epifanio d’Alfiano, IV Intermezzo de La Pellegrina (dettaglio), disegno, 1592, Firenze.

Medea fugge sul carro, riproduzione a stampa nell’opera teatrale Medea: treur-spel di Jan Vos, Amstedam 1718 [presente in Mnemosyne Atlas, Tavola 73].

L’incisione a stampa del frontespizio dell’edizione del 1648 della tragedia Medea di Jan Six, presente nella Tavola 73 dell’Atlante Mnemosyne, è il secondo polo del campo di forze in cui avviene la riattivazione dell’Antico nell’arte di Rembrandt. Medea non è presentata come madre e infanticida ma si trova, in postura meditativa, fuori dallo spazio scenico, a osservare le nozze di Giasone e Creusa in una quiete quanto mai spietata: con il pugnale che tiene in mano, alla fine del dramma compirà la propria vendetta. In questa immagine il vuoto dilatato tra impulso e azione è come cristallizzato. Il riconoscimento della duplicità del moto della passione e il superamento da parte di Rembrandt dei limiti dello stile dell’intermezzo barocco, segnano la fine del “corteggio mitologico” (Warburg 1966, 85) e del “gesticolare privo di anima” (Warburg [1926] 2007, 607), e l’avvento di una nuova unità di parola e suono, trasformatrice di energie. In Italia l’inizio di questa rivoluzione avviene negli intermezzi teatrali de La pellegrina allestita a Firenze nel 1589, dalla quale secondo Warburg ha origine il teatro d’Opera.

In questa immagine notiamo anche che la sospensione di Medea col pugnale in mano e quella di Amleto che sfodera la spada nella scena di cui sopra coincidono: la Medea di Rembrandt non compie spargimenti di sangue durante le nozze di Giasone e Creusa, così come Amleto non interviene durante la preghiera dello zio. E sarà da ricordare che nel teatro olandese del tempo assistere a spargimenti di sangue in scena era tutt’altro che raro. È significativo che, in questo contesto, l’incisione posta sul frontespizio della tragedia di Six non raffiguri il momento dell’azione, ma quello dell’attesa; Warburg annota nei suoi appunti la similitudine tra la postura della Medea di Rembrandt e quella rinvenuta circa un secolo dopo in un affresco nella casa dei Dioscuri a Pompei in cui, similmente, la figura femminile è rappresentata col pugnale in mano mentre medita l’uccisione dei figli che giocano. La casa dei Dioscuri viene scoperta nel 1826, ma già Gotthold E. Lessing menziona questa postura di Medea nel suo Laocoonte del 1767 in riferimento a un famoso quadro, oggi perduto, di Timomaco un tempo esposto nel tempio di Venere Genitrice a Roma. Si tratta del probabile modello dell’affresco rinvenuto a Pompei, e a cui è dedicato un epigramma di Filippo da Tessalonica, citato da Lessing e ripreso da Warburg negli appunti: 

Sei tu dunque sempre assetata del sangue de’ tuoi figli? Hai tu sempre al fianco Giasone e Creusa ad attizzare continuamente il tuo furore? Il malanno li colga anche dipinta qual sei. Philippus IV,9-10 

Ma com’è possibile che un’immagine scoperta nelle rovine di Pompei riemerga un secolo in anticipo nell’epoca di Rembrandt prima ancora che Winckelmann introducesse le sue distinzioni tra l’estetica dell’Antichità greca e quella romana? Secondo Warburg si tratta di un “fantasma patetico dell’antichità pagana” (WIA, lll.61.6.1,ff. 49 ss) che Rembrandt riprende da un modello che potrebbe essere la tragedia di Seneca ma che per noi resta sconosciuto.

L’incisione di Rembrandt delle nozze di Giasone e Creusa illustrerebbe un tableau vivant che sarebbe stato rappresentato tra il secondo e il terzo atto del dramma di Six: di questo intermezzo non c’è traccia nel testo drammaturgico. Non è chiaro quale sia l’origine della scena: se sia stata ripresa da Six da un altro dramma di matrice post-elisabettiana (Leendertz Jr. 1923-1924, 76) o se l’invenzione sia da attribuire a Rembrandt per illustrare la seconda edizione del testo che sarà poi alla base della messa in scena (Konst 2002, 50). 

La sospensione di Medea si può considerare una sorta di entracte, la sospensione che entra in gioco quando il tempo e lo svolgimento drammaturgico della fabula si interrompono: in questo caso, anche se le nozze tra Giasone e Creusa accadono implicitamente tra un atto e l’altro, l’“entracte” di Medea è comunque un episodio ininfluente ai fini dello sviluppo della narrazione (questo il carattere dell’“entracte” così come è stato teorizzato da Vescovo 2007, 67-68). La peculiarità del tableau vivant è che gli attori vengono trattenuti in scena per tutto il tempo in cui il “quadro” dura e che registicamente sono trattati come elementi dello scenario che fa da sfondo all’azione sospesa: la loro eloquenza è affidata alla disposizione sul fondale e alla loro gestualità immobile. La potenza dell’immagine di Medea, statuaria nel proscenio con il pugnale in mano, risultava così amplificata dalla sospensione del tempo della rappresentazione: in questo tempo la dilatazione massima tra impulso e azione coincide con l’intervallo tra due atti, un tempo vuoto in cui la tensione interiore diventa ancor più insostenibile fino a esplodere in un tempo differito, e tanto più sarà tardi quanto più l’atto sarà incisivo ed efficace.

La versione di Medea che Rembrandt propone è del tutto atipica nel Teatro di Amsterdam, diretto al tempo da Jan Vos: all’epoca, infatti, il teatro olandese era caratterizzato dal largo uso di macchine sceniche e di effetti speciali. Così è per la Medea dello stesso Vos in cui l’intero dramma è popolato di soluzioni spettacolari e di macchine, e all’apparato scenografico era richiesto un alto grado di capacità tecnica per consentire repentini cambi di ambientazione, giochi pirotecnici, oggetti trasmutati in persone e attori in volo sopra nuvole e carri trainati da draghi o fantasmi. Come ricorda Warburg nella lettera a Neumann il motto utilizzato da Vos per chiamare le genti a teatro era “Met kunst– en vliegwerken”, dove il termine “vliegwerken” indica proprio le sofisticate scenografie che costituivano la novità del teatro dopo la sua ristrutturazione e che Vos chiedeva di adottare anche ai suoi colleghi per aumentare l’affluenza del pubblico (vedi Tim Vergeer 2015).

Rembrandt dunque compie la riattivazione energetica dell’Antico anche nel contesto del teatro di fine Cinquecento, e lo fa scegliendo di evidenziare, nel tempo della sua rappresentazione pittorica, la frattura del tempo drammatico, concentrando l’attenzione sul differimento tra impulso e azione. In Vos, assistiamo invece all’allontanamento dell’“aspetto mentale tragico”; così si evince da questo appunto di Warburg dal testo preparatorio della conferenza su Rembrandt: 

In Jan Vos i serpenti che gettano fuoco dal carro magico di Medea scacciano dalla scena l’aspetto mentale tragico. L’entusiasmo incondizionato del pubblico concerne le rozze arti trasformatrici della tecnica scenica. Se guardiamo più attentamente la Maga sul carro trainato dai serpenti, non vi è alcun dubbio che sotto i nostri occhi si compie un rinascimento demoniaco dell’Antico: il tipo originario della strega pagana Medea acquisisce i suoi diritti in quanto principessa degli Inferi. Lucifero, con il quale condivide il dominio della città infernale, è di stirpe nobile: corrisponde infatti, come chiarisce in modo dettagliato il testo dell’intermezzo, alla descrizione che di Lucifero fa Dante (Warburg [1926] 2007, 606).

Lo schema di depotenziamento/riattivazione dell’Antico rappresentato in Tavola 70 viene riproposto in Tavola 73 nella dialettica tra la Medea di Vos e quella di Rembrandt. La presenza del carro volante con i draghi è, per Warburg, un segnale della fase depotenzata della trasmissione, in quanto si tratta di una mera forma di intrattenimento del pubblico per mezzo della scenotecnica. La Medea di Vos è tra i primi drammi che vengono messi in scena nel Teatro di Amsterdam dopo un periodo di chiusura dovuto alla sua ristrutturazione, e coincide con l’inizio dell’incarico di direzione dello stabile conferito al drammaturgo. Quando Warburg ci invita a guardare più attentamente la Maga, non si sta riferendo con un epiteto a una delle figure di Medea ritratte nelle stampe del dramma di Vos (e presente anche in Tavola 73), ma all’incisione su rame di Epifanio d’Alfiano che è presente nelle prime due versioni di Tavola 73 del Mnemosyne Atlas, ma assente nell’ultima.

L’immagine scoperta da Warburg e contenuta in I costumi teatrali per gli Intermezzi del 1589 (Warburg [1895] 2004) rappresenta l’allestimento scenico del IV Intermezzo de La pellegrina in cui la Maga sorvola l’Inferno, ambientazione di questo Intermezzo, proprio su un carro trainato da draghi. Al centro della scena si vede Lucifero, le cui fattezze e gestualità seguono la descrizione che ne fa Dante nel XXXIV Canto dell’Inferno (vedi Malvezzi 1903, 49). Il carro della Maga migra e giunge nell’opera di Vos in cui viene anche mantenuto il dettaglio dello spargimento di sangue dei fanciulli ma il drammaturgo non si impegna nell’operazione di trasformazione e riattivazione dell’Antico nel proprio contesto storico e geografico. Pertanto, non essendoci alcun differenziale di energia, quanto rimane del carro è, secondo Warburg, la sua funzione più rozza: l’effetto scenico serve ad assecondare e ad appagare i gusti del pubblico meravigliandolo con la scenografia pirotecnica (Warburg [1926] 2007, 606).

Polo III | Giulio Civile

a sinistra: Antonio Tempesta, Giuramento di Giulio Civile, incisione (16 x 7 x 21 cm) quarta illustrazione dalla serie La guerra dei romani contro i Batavi [presente in Mnemosyne Atlas, Tavola 72].
al centro: Otto van Veen, Giuramento di Giulio Civile, olio su tavola (38 x 52 cm), 1600-1613, Amsterdam, Rijksmuseum [presente in Mnemosyne Atlas, Tavola 72].
a destra: Goevert Flinck e Jürgen Ovens, Giuramento di Giulio Civile, olio su tela, 1659-1662; il dipinto che ha sostituito la versione di Rembrandt [lo schizzo di Mary Hertz della riproduzione fotografica dell’opera è presente in Mnemosyne Atlas, Tavola 72].

Il Giuramento di Giulio Civile è il dipinto monumentale realizzato da Rembrandt e gli allievi sulla rivolta batava, secondo il racconto di Tacito (Tacito, IV, 14-15). L’opera era stata commissionata dai borgomastri per esaltare, attraverso il parallelismo con la rivolta antica, la recente guerra di liberazione dell’Olanda contro la Spagna, come decorazione della galleria perimetrale della Burgerzaal del Municipio di Amsterdam. L’opera rimase nella collocazione a cui era destinata per circa due anni prima di essere rimossa, ridotta nelle sue dimensioni dallo stesso Rembrandt (da 546 x 538 cm a 196 x 309 cm), e rivenduta all’asta (Pinotti 2007, 498-499). Non si sa con certezza quale sia stata la causa della rimozione, e della riconsegna all’autore, del dipinto: sino al momento della scoperta alla fine del XIX secolo del quadro (tagliato) di Rembrandt, che dal XVIII secolo si trova a Stoccolma, gli studiosi hanno proposto diverse ipotesi riassunte da Pinotti nell’articolo La sfida del batavo monocolo (Pinotti 2005, 499): tra queste, l’analisi di Henri van de Waal riprende quella di Warburg e si sofferma sulla differenza rispetto agli altri dipinti del ciclo della rivolta batava concepiti per il Municipio. Come era stato stabilito dalla committenza, Rembrant e gli allievi, incaricati del lavoro dopo la morte di Goevert Flinck (pittore che avrebbe dovuto realizzare l’intero ciclo prima dell’improvvisa scomparsa), prendono a modello le incisioni di Tempesta con lo stesso soggetto raccolte nel volume Batavorum cum Romanis bellum pubblicato da Otto van Veen (de Waal 1952, 217); incisioni che risultano essere eleganti e smorzate di quella tensione patetica che Tacito riproduce in scrittura raccontando gli episodi della guerra di liberazione batava. Al contrario Rembrandt, sebbene conoscesse le incisioni di Tempesta delle quali, stando a Warburg, possedeva almeno duecento riproduzioni, tuttavia non le utilizza e attinge direttamente dalla fonte tacitiana che viene restituita in immagine con spietata oggettività: il giuramento con la stretta di mano, in Tempesta, o con la sinistra al petto e la destra levata, in van Veen – entrambe gestualità classicamente romane – viene invece siglato nella versione di Rembrandt col rito barbaro dell’incrocio delle spade.

Sebbene sia Tacito il primo a fornire la più antica testimonianza del rituale dell’incrocio delle spade nell’episodio del giuramento di Giulio Civile, il tema era già riemerso nell’immaginario nordico ben prima di essere ripreso da Rembrandt tra 1661 e il 1662 (gli anni in cui lavora nel cantiere del Municipio di Amsterdam). L’esempio che Warburg cita nella conferenza del 1926 è la V scena del I atto dell’Amleto (1600-1602 circa); si tratta del momento in cui Amleto esorta gli amici Orazio e Marcello a giurare una seconda volta “sulla spada” per poter avere assoluta certezza che l’incontro con lo spettro del padre rimarrà segreto.

AMLETO | Non divulgate mai ciò che avete visto stanotte.
ORAZIO e MARCELLO | Mio signore, non lo faremo.
AMLETO | Ebbene, giuratelo.
ORAZIO | In fede, signore, io non lo farò.
MARCELLO | E neanch’io, mio signore, in fede.
AMLETO | Sulla mia spada.
MARCELLO | Abbiamo già giurato, mio signore.
AMLETO | Sì, ma ora sulla mia spada. Lo Spettro grida da sotto il palcoscenico
SPETTRO | Giurate!
[…]
ORAZIO | Formulate il giuramento, signore.
AMLETO | Giurate sulla mia spada di non parlare mai di quanto avete visto
(William Shakespeare, Amleto I.5; traduzione di Franco Marenco).

Le parole di Amleto rivelano il profondo valore che veniva riconosciuto al rito del giuramento sulla spada. La stessa scena appare anche in uno dei tableaux vivants allestiti in Piazza Dam nel maggio del 1609 per festeggiare la Tregua dei dodici anni. Per i tableaux, che mettevano in scena la storia di Tarquinio e Lucrezia, il poeta nazionale Pieter Corneliszoon Hooft scrisse le didascalie e Claes Jansz Visscher ie riprodusse in incisione (e così si trovano riprodotte in Tavola 71). Un altro caso è attestato nel 1650, quando il drammaturgo olandese Jan Bara pubblica una tragedia dal titolo Herstelde Vorst che è ricalcata sull’Amleto di Shakespeare e ne riprende ancora una volta la scena (citata da Warburg per esteso sia nella conferenza del maggio 1926 che nella lettera a Neumann del gennaio 1927):

LODOW | Voglio rovesciare le vostre parole Rasimo, dobbiamo giurare in questo luogo fedeltà nei pericoli, nelle avversità pazienza per la gioia della nostra signora Metelle, alla quale ulula quel cane infernale.
LAMID | Noi tutti spaccheremo la testa di colui grazie al quale vostra sorella e tutti noi siamo stati espulsi.
LODOW | Sguainate la vostra spada
RASIM | Iniziate il giuramento come sollievo [per Metelle] per le sue miserie, come vendetta per la vostra sofferenza
LODOW |Giuro che colpirò la disgraziata testa di quel tiranno che mi mise al mondo dalle sue maledette reni, come spegnimento della mia vendetta, come consolazione per il mio principe se dovessi diventare spergiuro, il fulmine acciacchi il mio petto
RASIM | Giuro che stritolerò l’infero muso di quel cane della Stige che seccherò dal tronco le radici più feconde, per redenzione di Metelle; se dovessi venir meno a queste parole il principe del Cielo mi trafigga con il fulmine.

Rembrandt risale alla fonte antica, ovvero a Tacito, ma non poteva ignorare questi riferimenti teatrali a lui cronologicamente prossimi: in effetti la sua versione pittorica rispetto alle versioni di Flinck e Ovens è la prova che l’artista ha un occhio alla fonte, ma è anche consapevole dell’importanza del rituale arcaico nell’immaginario teatrale contemporaneo.

Da notare inoltre che nella sua versione del Giuramento, Rembrandt riveste i commensali con abiti burgundi che sostituiscono gli abiti di foggia romana scelti originariamente da Flinck e Ovens, che ancora si trova nel Municipio. Inoltre Rembrandt rappresenta Giulio Civile mostrandolo frontalmente, con l’orbita vuota ben in vista, dettaglio che invece viene nascosto in van Veen e Tempesta rendendo il volto di profilo. Nella lettera a Neumann, Warburg nota che quanto Rembrandt riprende dall’incisione di Tempesta è il gruppo di fronte al tavolo rivolto di spalle, che viene sfruttato dal maestro per rafforzare la frontalità dei commensali restituendo con maggior impatto il loro tumulto interiore e trasformando quello che Warburg descrive ironicamente come un “pic-nic notturno nel bosco” – dove sono radunate personalità di rango ben vestite (in van Veen e Tempesta) – in una comunione di vendicatori di sangue (Warburg [1927] 2005, 527). Si evince dunque che Rembrandt dimostra di essere l’unico tra gli artisti del suo tempo interpellati per il ciclo del Municipio ad aver letto e affrontato uno studio puntuale della fonte storica. È proprio questa oggettività che fa sì che la fase stanca dello “svuotato pathos anticheggiante” sia definitivamente superata e così si apra la fase della riattivazione dell’Antico. Rembrandt rinuncia a qualsivoglia allegoria ed elemento decorativo, e addensa la composizione: con lo studio approfondito della fonte e delle sue tensioni incalzanti, sul piano dello svolgimento, quali il rumore, l’eccitazione e il dinamismo generale, che vengono concentrate in un’atmosfera di silenzio, di gesti muti che racchiudono “un mondo di infinita e timida interiorità” (Neumann 1918, 57).

Rembrandt non si limita a rappresentare alla lettera le parole di Tacito, ma emerge nello stile del dipinto l’influenza di uno degli oggetti di studio dell’artista: l’Ultima cena di Leonardo da Vinci, che conosce per mezzo dell’incisione di Giovanni Briago (l’opera e l’incisione sono presenti in Tavola 72).

a sinistra: Claes Jansz Visscher, Bruto giura con i suoi compagni vendetta contro il figlio del re per il disonore di Lucrezia, tableau vivant messo in scena in Piazza Dam in occasione dei festggiamenti per la Tregua dei Dodici anni, Incisione, 1609 [presente in Mnemosyne Atlas, Tavola 71].
al centro: Rembrandt, Giuramento di Giulio Civile, olio su tela (196 x 309 cm), 1661-1662, Stockholm, Nationalmuseum. [presente in Mnemosyne Atlas,Tavola 72].
a destra: Leonardo da Vinci, Ultima cena, affresco (460 x 880 cm.), 1495-1498. Milano, S. Maria delle Grazie. [presente in Mnemosyne Atlas, Tavola 72]

Rispetto alle altre versioni dello stesso tema, il Giuramento di Rembrandt è ambientato in un interno, e in questo svia rispetto al racconto di Tacito, e la scena è presentata frontalmente, con lo sguardo di Giulio Civile rivolto direttamente allo spettatore. Inoltre, l’intero gruppo di commensali viene disposto affinché sostenga la centralità dislocata di Civile: a differenza di Leonardo che presenta il desco perfettamente frontale e Cristo al centro, Rembrandt inclina quasi impercettibilmente il taglio dell’immagine e sposta il soggetto principale un po’ verso sinistra, alterando dunque la coincidenza tra la centralità geometrica della tela con la centralità compositiva. L’energia che passa attraverso le posture dei commensali e i loro sguardi magneticamente attratti dalla figura del condottiero viene concentrata e restituita allo spettatore dal solo occhio di Giulio Civile, rivolto verso l’esterno a colpire chi è fuori dalla rappresentazione: da quell’unico punto sensibile tutto il potere convogliato dalle mani e dalle spade viene riversato al di fuori del quadro. È per questa ragione che la figura di Giulio Civile, pur essendo lontana dalla linea centrale geometrica del quadro, rimane il pilastro che sostiene concettualmente e strutturalmente la composizione. 

Oltre alla ripresa formale del cenacolo di Leonardo, negli appunti Warburg si riferisce a James G. Frazer rispetto alla dimensione arcaica del valore della comunione del pasto, momento che Rembrandt riattiva facendo emergere la dimensione liturgica propria dell’atto del mangiare, mettendolo in polarità con l’istituzione del sacramento dell’Eucarestia rappresentato da Leonardo:

È questa l’idea che nella società primitiva rende sacro il legame prodotto dal mangiare in comune: partecipando dello stesso cibo due uomini si danno per così dire un pegno della loro buona condotta: ciascuno garantisce all’altro che non tremerà alcun insidia a suo danno poiché, essendo fisicamente unito a lui per il cibo comune che han nello stomaco, qualunque danno gli faccia il suo compagno ricadrebbe il suo proprio capo con la stessa forza precisa con cui cadrebbe sulla testa della sua vittima (Frazer [1890, 1922] 1973, 316).

Si rende manifesta così, in tutta la sua potenza liturgica la violenza dell’atto politico di una rivoluzione per la liberazione di un popolo in procinto di compiersi, che viene espressa non con movimenti adeguati a quella energia, ma in modo trattenuto e sospeso, con espressioni contratte e concentrate: il moto interiore è già violenza in atto. Ecco perché il Giulio Civile si pone su una soglia che lo rende un polo energeticamente attivo, capace di riattivare e reinventare l’energia dell’Antico in cui la visione della memoria del passato predomina, anche in forma di rappresentazione drammatica: 

Il Giulio Civile di Rembrandt simboleggia un momento in cui né la narrazione storico-antica del proprio passato – che si era conservata grazie alla memoria nella parola e nell’immagine –, né la rappresentazione drammatica e immediatamente viva nei tableaux vivants o nelle opere teatrali potevano indurre il genio [Rembrandt] a romanizzare l’eloquenza o condurlo a una posa teatrale (Warburg [1926] 2007, 627).

L’opera di Rembrandt come teatro dell’azione sospesa

Nella prospettiva della riattivazione energetica dell’Antico, le feste e il teatro, nel loro essere tramite tra vita e arte, consentono la migrazione delle formule patetiche nel contesto del Barocco olandese: Rembrandt sa intercettare la potenzialità di nuovi elementi ispirati all’Antico, sa farla esplodere nella misura di una drammaturgia dell’attesa che ha luogo nel teatro della coscienza: nella Medea e nel Giulio Civile l’artista coglie, come aveva già fatto Shakespeare nel suo Amleto “la sofferenza della coscienza di chi è condannato a un comportamento tragico” (Warburg [1926] 2007, 629). Rembrandt infatti si sofferma non sull’atto ma sul riflesso dell’atto nel personaggio tragico e sulla loro “coscienza pencolante tra un movimento riflesso e un comportamento riflessivo” (Warburg [1926] 2007, 627). Si tratta di una finezza concettuale e psicologica che rischia di perdere nella gara con le manifestazioni di eccesso dei “produttori dell’apprezzamento trionfale” in cui il pathos non è mai sofferenza della coscienza ma strepito espressivo, ma proprio per questo generalmente più apprezzato nell’immediato dal pubblico.

Nell’esempio emblematico del Giuramento di Giulio Civile forze scaturite da poli energeticamente opposti caricano energeticamente l’opera: è in questo punto che il mito ovidiano – nella forma della forza dinamica di Proserpina e in quella statica di Medea – e il racconto storico di Tacito si incontrano assieme al rituale nordico del giuramento delle spade, già riemerso nel teatro; a questi elementi Rembrandt applica una composizione formale dedotta da Leonardo – il tema cristiano dell’Ultima cena. Tuttavia, il legame tra l’Ultima cena e il Giuramento va oltre l’aspetto puramente formale.

È per lo scontro misurato di questi elementi che “nel caso di Giulio Civile è possibile dimostrare l'evento sorprendente di una trasformazione [Umformung, sottolineato nell’originale] organicamente riuscita del patrimonio dell’Antico” (Warburg [1927] 2005, 527). Nel suo saggio Rembrandt, l’Antico e la rappresentazione del patto sociale, fondamentale per i temi e gli spunti ermeneutici di questo lavoro, Ghelardi argomenta come Warburg “muovendo da Rembrandt, aveva dunque inteso indicare il processo attraverso il quale il mondo moderno aveva finito per secolarizzare l’eredità delle antiche potenze pagane” (Ghelardi 2022, 200). In questo frangente la riattivazione dell’Antico è giocata sulla differenza che il gesto produce nel suo contraddirsi sul nascere, nella sua contrazione, così stretta e tesa che se ne percepisce l’effetto senza che se ne possa cogliere all’istante la causa. Distillata a una dose di contrazione altrimenti impossibile, l’azione è sospesa nel ritardo del gesto: “L’intervallo eternamente mobile tra impulso e azione [Antirieb und Handlung]; sta a noi decidere quanto possiamo dilatare, con l’aiuto di Mnemosyne, questo intervallo della respirazione” (Warburg [1926] 2007, 632).

Appendice I

L’antico italiano nell’epoca di Rembrandt (appunti per la conferenza tenuta il 29 maggio 1926 presso la Biblioteca Warburg di Amburgo)

Aby Warburg, traduzione di Maurizio Ghelardi, edizione Aragno, Torino 2007.

Signore e Signori, qualsiasi scienziato che si accinge ad affrontare un problema storico-culturale legge sull’ingresso della sua officina le parole di Goethe: “Quel che chiamate spirito dei tempi / è in sostanza lo spirito degli uomini /nei quali i tempi si rispecchiano”. La verità annientatrice di questa sentenza è stata percepita in seguito in tutta la sua veemenza da coloro che hanno cercato di risolvere tale questione. Se, malgrado tutto, questa sera ho l’intenzione di sostenere una revisione parziale di questa sentenza è perché sono spinto dalla consapevolezza che non tutto è stato provato finora dal punto di vista metodologico al fine di fissare lo spirito dei tempi a partire dalle voci della propria epoca. Finché le sporadiche concordanze tra parola e immagine non si annodano in un ordine sistematico di corpi lucenti e finché, ad esempio, le connessioni di tipo naturale e formale tra arte figurativa e dramma non sono riconosciute affatto nel loro reciproco legame, anzi non sono considerate assieme, occorre concedere all’incriminato storicismo il diritto di tentare di esibire nell’immagine lo spirito dei tempi a partire dalla voce e dalla forma dello spirito dell’epoca. Ma così facendo ci escludiamo dall’ambito della connessione tra parola, azione e immagine, dato che finiamo per essere noi la fonte dell’errore più grande. Inoltre, lo spirito dei tempi si svela anche attraverso quella strada indiretta e poco frequentata che consiste nel cercare di osservarlo come un principio selettivo consapevole o inconsapevolepresente nell’artista quando tratta il patrimonio ereditario antico conservato grazie alla memoria. L’Antichità pagana, così come ci è pervenuta in parole e immagini, nella forma manoscritta o artistica, è servita e serve tuttora alla cultura europea, a partire dalla decadenza dell’Antichità, come fondamento della sua civilizzazione universale. La peculiare costituzione mentale nazionale europea trova infatti anzitutto la sua ragione nel confronto con il patrimonio ereditario antico, sicché quest’ultimo costituisce per noi una costante obiettiva che nello specchio delle diverse epoche, benché esse credessero di essere del tutto oggettive, tradisce l’atto soggettivo, attraverso cui possiamo leggere, in base ad una considerazione psicologicamente comparata, la tendenza alla selezione o al mutamento del tempo in quanto funzione sovrapersonale di uno sviluppo intimamente connesso e in parte condizionato sociologicamente. Questo duplice metodo di fornire testimonianze mediate e immediate a proposito del legame con l’Antico deve essere applicato questa sera, in un modo certamente inadeguato, ma che comunque deve essere presentato, all’epoca di Rembrandt. Quali elementi della eredità antica interessavano l’epoca di Rembrandt in modo così forte da introdursi nella creazione artistica in quanto forza costitutrice dello stile? Cercheremo di comprendere attraverso alcuni esempi e in modo chiaro il confronto decisivo con l’Antichità pagana a partire dal mito, dalla storiografia e dal dramma. Naturalmente per dimostrare ciò nel corso di una breve serata possiamo addurre solo alcune prove. Cercheremo di illustrare attraverso tre esempi il Rinascimento dell’universo immaginario pagano, così come si affaccia nel XVII secolo:
1) come si presenta la figura di Proserpina a partire dal mito?
2) come si esprime nella storia antica l’influenza di Tacito?
3) come emerge dalla tragedia greca Medea di fronte ai nostri occhi?

Prima di analizzare le opere d’arte elencheremo brevemente le personalità, vale a dire i dotti, i poeti e i committenti che ci offrono con la loro parola, a condizione che la sappiamo richiedere in modo abbastanza pressante, il patrimonio ereditario figurativo dell’Antico. Inoltre, dobbiamo coinvolgere, in quanto anello di congiunzione significativo dal punto di vista della storia dello sviluppo, un genere artistico che di solito, visto che non appartiene all’arte più eccelsa, non è rispettato a sufficienza. Si tratta dell’art officiel, vale a dire dell’arte per i solenni ricevimenti pubblici, per i quali nelle Fiandre e in Olanda fin dalla notte dei tempi l’aspetto costruttivo utilizza per l’architettura trionfale una immagine allegorica ingegnosa, rappresentata talvolta da persone viventi, come decorazione più eloquente di una città in festa. In tal modo, indipendentemente dal modello antico diretto, per l’epoca di Rembrandt dobbiamo tener conto dei dotti, così come degli artisti, in quanto mediatori del tempo delle concezioni anticheggianti. Non siamo giunti a queste personalità grazie ad una ricerca, ma – e ciò parla a favore del metodo che abbiamo utilizzato – esse si presentano di per sé nell’ambito concreto e delimitato della storia dell’arte. Tra i dotti e poeti ricordo anzitutto Pieter Cornelis Hooft (1581-1647) traduttore di Tacito, poeta drammatico olandese che, navigato uomo di Stato, costituì nel suo castello a Muiden un centro di spiriti eminenti. Ugualmente importante nel suo ambito fu Joost van Vondel, musa ispiratrice e personalità di spicco della poesia olandese (1584-1679). Inoltre, anche se a maggior distanza, segue colui che risvegliò il dramma olandese, vale a dire Samuel Coster (1579-1665), mentre, come si vede nella sua opera, il dotto Caspar van Baerle (Barlaeus) (1584-1648) fu per Rembrandt di grande importanza. Ad altri poeti drammatici del tempo come Gerard Brandt e Jan Bara rivolgeremo la nostra attenzione al momento opportuno. Tra gli artisti olandesi di questo periodo ricordiamo solo le date di Rembrandt (1606-1669), Moeyaert (1600-1655), Lievens (1604-1674), Jurgen Ovens, l’allievo dello Holstein di Rembrandt, nato nel 1623 a Tönningen e morto nel 1678 a Friedrichstadt, Goevert Flink (nato a Cleve nel 1615 e morto ad Amsterdam nel 1660), così come Vaenius (1558-1626). Il fiorentino Antonio Tempesta (1555-1630) richiede una premessa più precisa, poiché egli, in quanto illustratore di Ovidio e Tacito, conduce di persona ai poeti eminenti, vale a dire all’opera di Vondel e Hooft e alla traduzione di Tacito. Tempesta fu uno dei virtuosi prodotti della fertilità italiana, inviati dall’Italia in tutta Europa durante il XVI secolo. Egli faceva parte dei maestri di ballo italiani che insegnavano il comportamento monumentale e l’eleganza gestuale, e produsse con facilità una straordinaria quantità di opere monumentali e di piccole incisioni in rame. La sua opera abbraccia più di mille incisioni su rame che comprendono l’intero ambito della vita umana, mondana e religiosa. Tempesta illustrò la Bibbia e la vita dei Martiri con la stessa abilità con cui celebrò le grandi e piccole gesta degli eroi antichi nella saga e nella storia, eseguì inoltre piante di città. Neppure dobbiamo dimenticare le numerose incisioni di animali, in particolare di cavalli, che, a dispetto del realismo, non celano mai la loro provenienza dai cavalli romani dei trionfi. Inoltre, siccome era un carattere retto e amabile, divenne per i Paesi Bassi un amico pernicioso, poiché il suo elegante modo di esprimersi finì per introdurre in modo indolore in queste terre la maniera anticheggiante. Per quanto concerne le nostre ricerche ci interessa discutere qui Tempesta in quanto illustratore di Ovidio e di Tacito. In tale ambito si mostrano i limiti del suo talento. Difatti, mentre la sua rapida maniera calligrafica è sufficiente per la loquacità vivace e avventurosa di Ovidio, egli si rivela un direttore teatrale inadeguato quando vuole raffigurare la trattenuta tensione della lotta di liberazione dei Romani e dei Batavi. Il nostro compito sarà quello di mostrare la doppia radice di questa pateticità antico-pagana del mito o della storia, così come essa fu ampliata in quanto forza immediatamente determinante (e funesta) per la costituzione dello stile e per lo sviluppo del gusto, grazie soprattutto all’Italia antica e di quel tempo. Rembrandt si è occupato a fondo dell’Italia e del patrimonio antico, fatto questo su cui esiste un’intera letteratura. Che sotto questo aspetto si debba anzitutto tener conto di Antonio Tempesta è cosa già rivelata dagli studi precedenti. Il fatto che Rembrandt possedesse 200 sue incisioni, e che avesse affrescato per un commerciante una intera stanza con scene tratte da Ovidio, ci offre l’appiglio formale per accostare i due artisti.

1 | Antonio Tempesta, Ratto di Proserpina, incisione (10,2x11,6 cm.), 1606 [presente, specchiata, in Mnemosyne Atlas, Tavola 70].

2 | Antonio Tempesta, Ratto di Proserpina, incisione (18,3x14 cm), 1634 in Jacob Struys, Ontschakingh van Proserpina, Amsterdam : Cornelis Danckertsz, 1634, frontespizio [presente in Mnemosyne Atlas, Tavola 70].

Come illustrazione per Ovidio, Tempesta ha raffigurato anche il Ratto di Proserpina [Fig. 1]. Con un possente salto al galoppo, Plutone guida due cavalli. Proserpina gesticola. Plutone la tiene tra le braccia su un cocchio simile ad una nave che termina in un ghigno mostruoso mentre si dirige verso una oscura voragine. Davanti alla caverna la ninfa Cíane afflitta emerge dall’acqua nella quale sarà poi trasformata.

Questa illustrazione [Fig. 2], una copia di Tempesta, fu aggiunta ad una specie di opera in musica di Struys – Ontschakingh van Proserpina – che fu messa in scena nel 1634. Non si tratta in alcun modo della vera e propria scenografia, ma di una semplice copia. Occorre chiedersi se l’antica scenografia italiana abbia ancora, seppur alla lontana, una influenza.

3 | Jacopo del Sellaio, Orfeo ed Euridice, pittura su cassone, 1471, Kiev, Khanenko Museum [presente in Mnemosyne Atlas, Tavola 5 e Tavola 41]

Se guardiamo il cassone con il Ratto di Euridice di Jacopo del Sellaio [Fig. 3], la cui esecuzione si collega alla messa in scena nel 1472 [1480] dell’Orfeo italiano di Poliziano, non si può certo negare che la tenebrosa caverna è un pronipote della costruzione in cartone che sul cassone rappresenta l’ingresso agli Inferi sui quali regna Plutone. Il parallelismo tra la creazione per le feste e la tramandata pateticità antica si mostra in Struys ancora in un altro modo.

Una illustrazione per l’inizio dell’atto in cui Plutone atterra ci mostra il re degli Inferi che guida i cavalli marini verso la riva [Fig. 4] sulla quale attendono in atteggiamento ostile Venere e Amore, scena che, in relazione a Tempesta, è antichissima parte delle peculiari feste medicee fiorentine. In tal modo Plutone viaggiava veramente sull’acqua.

Andando indietro col tempo osserviamo, su un arazzo chepresenta una celebre festa con allegoria sull’acqua che fu data dalla regina Caterina de’ Medici in onore dell’ambasciatore spagnolo, Plutone che corre sul mare [Fig. 5]. Ulteriori mostri acquatici sono addomesticati come se ad essi fosse stata impartita una educazione cortese, che si esprime perfino in canti. Si tratta di feste che anche in seguito saranno celebrate in Kennilworth e Alwathan, il cui ricordo riecheggia nel Sogno di una notte di mezza estate ove Oberon chiede a Puck: “[Mio caro Puck, vieni qui. Ti ricordi che, seduto su una scogliera, ascoltavo una sirena che sul dorso di un delfino mandava voci sì dolci e armoniose che il mare villano a quel canto si fece cortese …]”.

Per fare un parallelo con le feste olandesi non dobbiamo assolutamente dimenticare il relativo contesto. Come si scorge in Struys o sull’arazzo di Bayonne, anche qui Nettuno nuota nell’Amstel per salutare in forma allegorica Maria de’ Medici, quando ella fece visita ad Amsterdam in quanto esule regina di Francia. Possiamo vedere ciò in una illustrazione della grande opera di Baerle di cui vi mostro una pagina [Fig. 6].

4 | Plutone, Venere e Amore, incisione (18,3 x 14 cm), 1634 di Antonio Tempesta da: Jacob Struys, Ontschakingh van Proserpina, met de met de Brugloft van Pluto. Ghespeelt op de Amsterdamsche, Amsterdam 1634, A [presente in Mnemosyne Atlas, Tavola 70].
5 | Festa sull'acqua, sesto di otto del ciclo delle Feste dei Valois della Manifattura di Bruxelles dai disegni di Antoine Caron rappresentante festeggiamenti in occasione dell'incontro tra le corti francese e spagnola a Bayonne nel 1565, 1580 ca., Firenze, Galleria degli Uffizi.
6 | Salomon Savery (da Simon Jacobsz de Vlieger), Le solennità per l’accoglienza a Maria Medici in Amsterdam: arco di trionfo sull’isola dell’Amstel, Incisione, 1639 [presente in Mnemosyne Atlas, Tavola 60].

7 | Claes Cornelisz Moeyaert, Ratto di Proserpina, olio su tavola (41,2 x 67,5 cm), 1644 ca., collocazione sconosciuta [presente in Mnemosyne Atlas, Tavola 70].

Osservando adesso il Ratto di Proserpina di Moeyaert [Fig. 7] ci attende una ulteriore sorprendente incursione nella potenza della tradizione, anche se da tutt’altro punto di vista. Da un lato non v’è dubbio che proprio da Tempesta siano tratti questi cavalli degli Inferi al galoppo con il loro eroico temperamento. Ma l’intera composizione rimanda in realtà a un sarcofago antico con Proserpina che Moeyaert ha utilizzato come fonte di motivi per decorare la scena tragica. Riguardo alle conoscenze archeologiche di Moeyaert avremo occasione più avanti di portare ulteriori prove. Le sue raffigurazioni di Proserpina sono in sostanza semplici varianti della ragazza che sull’antico sarcofago cerca inutilmente di arrivare in aiuto della sua compagna. Perfino il salto al galoppo dei cavalli è anticheggiante, così come i gesti di Proserpina che cerca di liberarsi dalle braccia di Plutone. La peculiare forza di Moeyaert si fa notare non solo nel paesaggio, ma perfino nel modo in cui è rappresentato il tentativo di soccorso di una delle compagne, che cerca di tener ferma con la sua veste la rapita con un gesto diretto che è batavo e certamente non anticheggiante. Perfino i grossi raggi del cocchio recano una impronta di una irreale veridicità.

8 | Peter Nolpe, Allegoria sulla discordia in Francia, incisione, 1638.

Oltre a ciò, se prestiamo attenzione ad una delle allegorie che l’artista creò nel 1638 per l’arrivo di Maria [Fig. 8], si vede in fondo un cocchio, dove sta in piedi una Venere nuda e visibilmente disperata, e pure nella forma del cocchio stesso un tipo di architettura che somiglia ad un vano tentativo di idealizzare un carro a due ruote per una decorazione di festa. Il collega Henkel di Amsterdam mi ha fatto notare che l’Andromeda di Rembrandt ha influenzato la forma della donna nuda. È probabile. Dobbiamo infatti tener conto di una reciproca fecondazione, da noi totalmente dimenticata, tra una vita modellat dalle feste e l’arte figurativa. Dipende dalla forza della personalità artistica, che crea dal substrato delle forme che ci sono state tramandate.

9 | Rembrandt, Ratto di Proserpina, olio su tavola (84,8 x 79,7 cm), 1630 ca., Berlin, Staatliche Museen, dettaglio [presente in Mnemosyne Atlas, Tavola 70].

Se rivolgiamo poi la nostra attenzione a Rembrandt [Fig. 9], troviamo tre differenze nella concezione del mito che mostrano l’artista in procinto di liberarsi dal triste linguaggio affettato dei sarcofagi, senza che il contenuto mitologico smarrisca in forza poetica. Il cocchio si lancia verso gli Inferi. Proserpina non vuole sapere della generale gesticolazione del lamento, e afferra Plutone in modo risoluto alla faccia. Alla veste di lei si attaccano le sue compagne che sembrano emergere dall’acqua con i loro corpi nascosti dalla vegetazione. Il carro di Rembrandt deriva senz’altro dalla stessa fucina di quello di Tempesta, con l’unica differenza che il ghigno si è trasformato in una maschera di leone. Tuttavia, la cosa più convincente sono i cavalli che non sono più disposti a fare eroicamente il civettuolo salto al galoppo per cui ogni capello della criniera appare un dux: essi si lanciano nel baratro degli Inferi. È rilevante che Rembrandt si avvicini proprio in questo motivo più ad Ovidio che in qualsiasi altra rappresentazione, poiché il poeta fa piantare al furioso principe degli Inferi il suo scettro quando la terra non apre abbastanza velocemente il suo crepaccio, e solo a questo punto si apre l’abisso che divora il tiro. Tutte le frasi retoriche sentimentali sono spazzate via: soffia quell’aria inquietante dell’Ade che fa tremolare fin dal risveglio la scultura e pittura del Rinascimento. La nuova oggettività di Rembrandt così come, provenendo dall’Italia del XV secolo, dominava i superlativi europei del linguaggio gestuale, conduce al superamento della formulazione di uno svuotato pathos anticheggiante. Mi servo di un unico esempio che illustra con chiarezza l’influenza preponderante di un simile conio per i valori espressivi, affinché rispettiamo l’avversario contro il quale conduciamo la lotta per lo stile.

10 | Donatello, Deposizione di Cristo, pietra calcarea (138 x 188 cm) 1446-1453, Padova, Altare della Basilica del Santo. [presente in Mnemosyne Atlas, Tavola 42].

Solo dopo aver verificato su un rilievo come quello risalente alla scuola di Donatello [Fig. 10] che cosa abbia significato l’ingresso della formulazione di pathos antica dei sarcofagi per il conio dei valori espressivi europei, si acquisisce un criterio per valutare la tenacia della sopravvivenza dell’Antico nella gestualità sovraintensificata dell’espressione linguistica. I superlativi interdetti del lutto passionale, conseguenza della superiorità della loro esperienza orgiastico-cultuale, si rivelano perfino là dove nella disciplina cristiana dei secoli precedenti. Il corpo di Cristo, così come viene composto nella bara, somiglia fin nel dettaglio a un sarcofago con Meleagro, e perfino il rilievo sul sarcofago sembra essere una variante libera di un sarcofago con Proserpina. Qualsiasi studioso serio, che conosce anche gli altri esempi attestati dell’ingresso della formulazione di pathos antica del lamento funebre, deve rinunciare a parlar a questo proposito dell’aspetto meramente decorativo. Ricordiamo in tal senso solo due esempi principali: la stilizzazione tipica del lamento funebre sul rilievo di Verrocchio che rappresenta la morte di Francesco Tornabuoni era stata influenzata dal sarcofago con Alcesti, e anche il lamento per la morte di Francesco Sassetti, eseguito nella sua cappella mortuaria, si servì del linguaggio formale di un sarcofago con Meleagro. Non dobbiamo meravigliarci che l’eccitazione del linguaggio gestuale delle Metamorfosi di Ovidio riveli una affinità con il pathos degli antichi sarcofagi se teniamo conto, come ha chiarito una volta Reinhardt, che Ovidio e i sarcofagi trattano gli stessi temi, poiché sullo sfondo dei miti di trasformazione e di inseguimento del poeta latino si percepisce l’idea originaria della danza della morte, sotto il simbolo dell’eterno divenire e dileguarsi nel regno della natura che si sviluppa e perisce. Per giungere allo stile semplificato della efficacia monumentale corre in aiuto dell’art officiel olandese, anche se solo temporaneamente, l’antica tradizione dell’immagine vivente: nel tableau vivant dell’echafaud, una piccola vetrina aperta sul davanti grazie a poche figure che non erano adatte per finezze patetiche e che richiedevano invece una mobilità estrema, indipendentemente dal fatto che esse fossero rappresentate da esseri viventi o da figure modellate.

11 | Il sogno di Paride, Mercurio, tableau vivant per l’arrivo della principessa Giovanna la Pazza a Bruxelles nel 1496, disegno a penna acquarellato su carta, Berlin, Staatliche Museen, Kupferstichkabinett [presente in Mnemosyne Atlas, Tavola 55].

Le miniature di un manoscritto cartaceo, in possesso del Kupferstichkabinett di Berlino, illustrano una serie di echafauds che erano mostrati sulle piazze pubbliche come contenitori per i tableaux vivants: ad esempio quello di Bruxelles del 149[6] esposto per l’ingresso di Giovanna la Pazza [di Castiglia] [Fig. 11]. Sotto il sipario aperto si intravedono poche persone che indicano precisi rapporti. Si tratta di una illustrazione allegorica. Il prof. Hermann di Berlino nelle sue Forschungen zur Theatergeschichte ha apprezzato per primo il significato di queste precoci realtà nell’ambito delle feste. Le tre donne sedute sono definite come tres vergines, anche se la loro connessione dal punto di vista illustrativo resta oscura. Di contro si vede chiaramente come l’illustrazione della Bibbia si trasformi qui in corporeità fiamminga. Così, grazie a sei personaggi, è sostenuta la leggenda di Tobia, poiché ognuno di essi è mostrato in modo distinto. La verticalità domina per il semplice fatto che l’immagine deve per noi essere chiara da lontano senza che si verifichino delle sovrapposizioni essenziali.

12 | Claes Jansz Visscher, Serie di tableaux vivant allestiti in Piazza Dam in occasione della Tregua dei Dodici anni il 5 maggio 1609, incisione, 1609. [presente in Mnemosyne Atlas, Tavola 71].

13 | Claes Jansz Visscher, Bruto giura con i suoi compagni vendetta contro il figlio del re per il disonore di Lucrezia
Incisione
, 1609 [presente in Mnemosyne Atlas, Tavola 71]. Didascalia superiore: “Staet op gesla ht: de slaef Behuÿslert heÿmelÿck, / Dat Brutus Sons Terquün beloven toude Rÿck” [“Alzati, razza: lo schiavo sente di nascosto, / Che i figli di Bruto promettono a Tarquinio l’antico regno”].

Quando poi, dopo lunghe e accanite lotte, si giunse tra Spagna e Olanda alla tregua del 1609, questo evento fu celebrato sul Dam ad Amsterdam con tableaux vivants. Una incisione in rame di Visscher ci presenta lo stile della rappresentazione [Fig. 12]. La scena è delimitata da una sorta di portale con in alto un arco ribassato affiancato da due fini colonne. Sopra il cornicione due tritoni con il tridente in mano cavalcano su due cavalli marini che galoppano in modo veemente, mentre sulla sommità ornata da un baluardo riposa un dio fluviale. Grazie alle dieci incisioni di Visscher che circondano la scena riusciamo a capire quali tableaux erano stati raffigurati: le storie di Bruto, Tarquinio e Lucrezia erano state rappresentate in base al racconto di Livio, mentre i versi esplicativi erano stati creati dal famoso poeta nonché uomo di Stato Pieter Cornelis Hooft.

Tra i tableaux vivants intendiamo soffermarci in dettaglio solo sulla congiura dei figli di Bruto [Fig. 13]. Due cavalieri incrociano le loro spade e sembrano giurare con la lama, mentre sullo sfondo un altro uomo obbliga il cospiratore al giuramento. Dietro alla tenda si intravede un uomo che osserva la cospirazione.

Un foglio volante, che si è conservato dall’epoca di Maurizio di Orange e che si riferisce ad un fallito attentato del 1623, ci mostra una simile cospirazione. I congiurati giurano, posando le loro spade dalla lunga lama sul capo dei cospiratori. Sopra si scorge un rispettivo banchetto durante il quale sono tessuti questi intrighi degli arminiani. Grazie alle fiere annuali abbiamo testimonianza della sequenza di singole scene che raffiguravano fatti truculenti. Cfr. Knuttel 34.59. 1623 Cospirazione degli arminiani contro Maurizio d’Orange (fallita).

Una notizia riguardo alle celebrazioni in onore di Guglielmo d’Orange, finora non pubblicata nel contesto di questa rappresentazione, ci dà la chiave per spiegare la provenienza di questa cornice barocca ai tableaux vivants. Quando nel 1584, dopo la vittoria di Gröningen, fu festeggiato ad Amsterdam il principe Maurizio d’Orange, alla sua residenza lo attendeva un arco di trionfo, ove si scorgeva in cima Nettuno con i suoi tritoni e all’interno Giulio Civile con alcuni Romani sotto i suoi piedi che tentavano inutilmente di fuggire. Nella didascalia si leggevano i seguenti versi di Spieghel: “Giulio Civile scacciò la dura violenza dei Romani dai territori del Reno e dei Batavi. / O se i Paesi Bassi potessero riconquistare la libertà grazie all’eroe di Nassau!”. Dunque, già 68 anni prima dell’opera di Rembrandt, Giulio Civile era per l’Olanda un simbolo della sua arte nazionale celebrativa. Come si può dedurre dalla breve descrizione, non priva di retorica muscolare in quanto raffigurazione di una battaglia, Giulio Civile sembra dunque trattare i Romani che si contorcono sotto i suoi piedi come san Giorgio vittorioso sul drago, come san Michele, che ha abbattuto Lucifero, oppure come l’imperatore romano aveva fatto raffigurare sulle sue gigantesche colonne i vinti.

14 | Antonio Tempesta, Roma e Batavia, frontespizio del libro illustrato Batavorum cum Romanis bellum pubblicato da Otto van Veen nel 1612.

Sul frontespizio dei libri illustrati olandesi delle guerre dei Batavi [Fig. 14], la pace felicemente conseguita tra questi ultimi e Roma è simboleggiata dalle figure di due donne armate che si danno la mano. L’illustrazione è intrisa di un tratto di spensieratezza e di una mobilità drammatica che mostra come l’incisore non solo fosse capace di dar vita a dei rilievi di battaglie romane (p. 30), ma fosse abituato anche a riempire senza difficoltà ampie superfici con movimenti (benché non enormi) in grande stile. Se ci prefiggiamo di acquisire la giusta misura per cogliere le esigenze del gusto dei contemporanei per le decorazioni del Palazzo pubblico di Amsterdam, non dobbiamo dimenticare che nel 1612, vale a dire nei giorni della tregua durata dodici anni, l’accento non cadeva sull’idea della sollevazione, dato che essa era stata in certo qual modo appagata dal sentimento che la disputa era stata infine superata. Vedremo che nelle lunette destinate al palazzo pubblico, l’odierno Municipio di Amsterdam, la tendenza di Tempesta verso l’eleganza monumentale ebbe la meglio sulla oggettività interiormente disperata di Rembrandt.

15 | Rembrandt, Giuramento di Giulio Civile, olio su tela (196 x 309 cm), 1661-1662, Stockholm, Nationalmuseum, dettaglio. [presente in Mnemosyne Atlas, Tavola 72].

16 | Goevert Flinck e Jürgen Ovens, Giuramento di Giulio Civile, olio su tela, 1659-1662; il dipinto che ha sostituito la versione di Rembrandt [lo schizzo di Mary Hertz della riproduzione fotografica dell’opera è presente in Mnemosyne Atlas, Tavola 72].

Il Municipio di Amsterdam, vale a dire l’attuale Palazzo Reale, costruito da van Campen dal 1648 al 1655, è un edificio sontuoso secondo il gusto italiano con giganteschi spazi per le feste. La sala principale è circondata da una galleria che era aperta fino ai tempi di Luigi Napoleone, cosicché le immagini nelle lunette, poste negli angoli di questo ballatoio, erano illuminate adeguatamente, mentre oggi, dopo che Luigi Napoleone fece murare le aperture, queste figure non ricevono più nessuna illuminazione. In queste otto lunette eseguite secondo le incisioni di Tempesta sono raffigurate, seguendo Tempesta, le battaglie tra Batavi e Romani. Le lunette misurano 5 metri e mezzo in larghezza e più di 6 metri in altezza. In questi spazi furono appunto collocati i colossali dipinti. La vicenda delle lunette aveva attirato l’attenzione degli studiosi già prima della grande mostra tenuta ad Amsterdam, soprattutto grazie al libro di Carl Neumann Aus der Werkstatt Rembrandts che riassume le ricerche svolte fino allora fornendo nuovi risultati. Inoltre, grazie alla ricerca di Harry Schmidt, è stata stabilita e caratterizzata l’opera di Ovens. Ultimamente si sono aggiunti i saggi del dr. Bauch e del dott. Schneider. Per la prima volta disponiamo grazie allo studio di Schmidt-Degener (Gids) su Vondel e Rembrandt, di una chiara verifica circa la duplicità della evoluzione stilistica della cultura olandese del XVII secolo, che cercava di trovare per così dire il suo stile espressivo monumentale tra vivacità mimica romanizzante e tensione della natura fisiognomica olandese.

L’ispirazione del programma della decorazione del Palazzo pubblico di Amsterdam deve essere ricondotta a Vondel. Philipp von Zesen vide nel 1663 due opere con la congiura di Civile e con la sollevazione sugli scudi di [Brinnone]; il quadro di Rembrandt [Fig. 15] può essere stato collocato qui solo tra il 1660 e il 1662, poiché Philipp von Zesen scorse già la congiura eseguita da Ovens [Fig. 16]. Il primo contratto per l’esecuzione della serie di immagini delle lunette era stato dato a Goevert Flinck, che però morì nel 1660. Molto probabilmente i disegni di Jurgen Ovens, che noi conserviamo qui [Amburgo] alla Kunsthalle, vanno ricondotti agli schizzi di Goevert Flinck. Le lunette erano state dipinte in modo provvisorio in due giorni già una prima volta da Flinck, come arte di circostanza per accogliere Amalia von Solms e i suoi ospiti, tra i quali la consorte del principe del Brandeburgo e Giovanni Maurizio di Nassau. Lo stesso dicasi per la sequenza definitiva tratta da Tacito, che doveva essere rapidamente terminata per ricevere la vedova del principe Guglielmo II e suo figlio di otto anni.

Non vi è dubbio alcuno, e più avanti lo dimostrerò in modo dettagliato, che l’intero ciclo si basi sulle illustrazioni di Tempesta. Le scene tratte da Tacito, che nel 1612 erano state stampate in un libro illustrato dal tono patriottico, erano state incise da Tempesta, che aveva fatto ricorso come modello agli schizzi di Otto Vaenius, uno dei maestri di Rubens. Rivolgiamoci adesso a tre momenti della narrazione di Tacito riflessi nelle illustrazioni di Vaenius, Tempesta, Ovens e Lievens.

17 | Antonio Tempesta, Claudio Civile arrestato e suo fratello Paolo decapitato, incisione (16,5 x 21 cm) terza illustrazione dalla serie La guerra dei Romani contro i Batavi, incisione, 1611.

Nella incisione di Tempesta è drammaticamente raffigurato come in primo piano cada la testa di Paolo e come Giulio Civile sia condotto nella prigione romana [Fig. 17]. Sullo sfondo troneggia il legato. Questa illustrazione assume un significato particolare poiché fu essa ad indurre Vondel ad apprezzare in sommo grado l’arte di Tempesta, come spiega esplicitamente il poeta nella sua introduzione al dramma Batavschen Gebroeders. La sua introduzione costituì il modello e il motivo che rese possibile la sequenza delle immagini tratte da Tacito nel Palazzo pubblico di Amsterdam: 

Claudius Ciuilis et Iulius Batali, fratres, regia stirpe oriundi cohortes suorum ducentes falso rebellionis crimine apud Romanos deferuntur. Hinc Paulum Fonteius decollari praecipit, Civili vero catenae iniectae, quid deinde Romam captiuus mittitur.

Senza la conoscenza dell’intero ciclo sarebbe difficile indovinare che ci troviamo di fronte al giuramento dei Batavi sotto la guida di Giulio Civile, l’uomo che, privo di un occhio, infiammò i suoi Batavi di notte nella foresta, riferendosi all’eroe per la libertà Annibale, anch’egli monocolo. [Fig. 18] 

18 | Antonio Tempesta, Giuramento di Giulio Civile, incisione (16,7 x 21 cm) quarta illustrazione dalla serie La guerra dei Romani contro i Batavi [presente in Mnemosyne Atlas, Tavola 72].

Civilis ontslaghem synde, noodt de principaelste van't Landt in't Schaker bosch,
Verhaelt hoe dat sy niet meer als medeghesellen van e Romeynen, maer als
slaven ghehouden werden, ende dad sy sterck ghenoegh waren om den Ro-
meynem te wederstaen, waer toe hyse beweeght, ende neemste den eet af.

Civilis carcere liberatus primores gentis in sacrum nemus ad epulas vocat; de injurijs Romanis conqueritur, se iam non ut socios, sed servorum loco, haberi docet, esse sibi quoque vires ijs resistendi. Qui magno cum assensu auditus patrijs execrationibus universos adegit. 

19 | Rembrandt, Cristo guarisce gli infermi, acquaforte nota come Stampa dei cento fiorini (28,1 x 38,8 cm), 1649 [presente in Mnemosyne Atlas, Tavola 74].

20 | Torneo a Zwickau, disegno, 1573.

[Fig. 19] Matteo, [XIX], 13-15: “Allora gli furono presentati fanciulli, che loro imponga le mani, e benedica: ma i discepoli li sgridavano. Or Gesù disse: ‘Lasciate i fanciulli, e non li impedite, venire a me: ché di tali è il regno de’ cieli’, e, imposte loro le mani, passò di quivi”. Matteo, IV, 24: “E n’andò la fama di Lui in tutta la Siria; e presentarongli tutti i malati, da varii morbi e travagli compresi; e indemoniati, e maniaci, e paralitici: e li curava”.

In occasione di una festa dei tiratori a Zwickau nel 1545 [Fig. 10], scorgiamo i danzatori di spada e a sinistra in primo piano un gruppo di macellatori che sulla pelle di una mucca fanno saltare in aria un garzone. Qui l’innalzamento sugli scudi si è trasformato in una azione drasticamente derisoria. Grazie a Reuter apprendiamo il racconto del rettore che descrive questo far saltare in aria come uno scomodo rito iniziatico per gli scolari. Gli allievi di Mecklenburg chiamano questo rito “scharwackeln”. “E poi buttandoti in aria ti procuriamo una piacevole eccitazione”. Ciò significa che i monelli si tengono a vicenda adoperando le braccia come i danzatori di spada tengono le loro lame per far saltare in aria l’adepto per poi riprenderlo. Panconcelli-Calzia. “Domani si inizia, previo pagamento di un obolo, anzitutto sarai messo su un tavolo e quindi sarai manipolato da dietro con dei lessici; poi tramite il tavolo ti scuoteremo ben bene tutto il corpo, fatto questo che per te rappresenterà un piacevole eccitamento. Di seguito ti getteremo in aria in questo modo: sei coppie intrecceranno tra loro le mani come se volessero ballare con gioiose signore una scozzese. Sarai disteso su questa sorta di tappeto fatto di mani e così ti lanceremo in aria contando fino a tre finché non toccherai il soffitto. Cadrai e noi di nuovo ti lanceremo in aria fin quando le tue e le nostra ossa resisteranno”. (F. Reuter, Urgeschicht cit., Olle Kamelien VI, Dörchläuchting, cap. 6).

Dietro a questo cerimoniale apparentemente giuridico dell’innalzamento sugli scudi scorgiamo nelle epoche tarde un frammento di una usanza popolare, sotto il quale si annida una misteriosa religiosità.

Una testimonianza sopravvissuta fino alla fine del XIX secolo è quella della Danza delle spade, detta in Inghilterra “Morris Dance”, la cui venerazione circolare termina improvvisamente con l’uccisione del pazzo che poi risorge. Nonostante la presenza di alcuni aspetti sciocchi, è certo che con questa danza si entra in un ambito ove domina lo scherno, vale a dire nel regno dei Saturnalia, dove il sommo onore terreno si lega ad una fine infame e violenta. Frazer nel suo Ramo d’oro ci ha indicato la strada per comprendere una tale duplice tragicità della regalità originaria in quanto polarità inerente alla sua forma primitiva.

Questo breve sguardo laterale ha il solo scopo di indicare che i due dipinti del Palazzo pubblico di Amsterdam esprimono la funzione della volontà popolare di riflettere la tradizione fedele di Tacito. Si tratta di un uso originario germanico. Esso rappresenta nel suo rapporto con il dominatore una opposizione assoluta rispetto al culto degli imperatori, la cui gloria è prodotta dai sudditi sottoposti in modo incondizionato alla sua volontà. Ma proprio questa apoteosi della forza umana penetra dal mondo romano nello stile artistico ufficiale dell’Olanda, ed esige sulle pareti del Municipio che vediamo qui il suo culto.

21 | Rembrandt, Matrimonio di Giasone e Creusa (illustrazione per il dramma di Jan Six, Medea), acquaforte (24,3 x 18,2 cm), 1648 [presente in Mnemosyne Atlas, Tavola 73].

A costo del suo temperamento nobile Medea si trasforma da strega in una vera e propria figura della sofferenza: ha inizio il dramma borghese, la scena in quanto istituzione morale. Forza statica trasformatrice, trasformazione di uno stile: Rembrandt. Rembrandt, Medea (solo nella seconda edizione del 1679 è stata aggiunta l’illustrazione?) (soltanto 2 agosto 1679       allegato?) [Fig. 21].

Qui Creusa e Giasone giurano fedeltà reciproca Medea, moglie di Giasone, indegnamente cacciata, è aizzata dal rancore, la sete di vendetta la incita: Ahimé! quanto ti costerà cara l’infedeltà. (Jan Six, Medea, Dramma, 1648, Amsterdam).

Premessa: “… poiché era impossibile che Medea fosse palesemente una maga e che fosse volata in aria di fronte a tutti … mentre Giasone scorta la salma di Creusa egli trova Medea che sta nella galleria. Allora Medea, per far morire Giasone mille volte, butta giù la figlia; e per sfuggire a sofferenze più atroci uccide se stessa …”.  

Primo atto, p. 3: Giasone ha reso mio padre per mezzo di filtri, stufature e salassi, giovane come prima, gagliardo e in gamba: poi provò la sua arte su Pelia, che era molto malato e troppo debole, ma invano. Così lo fece morire mentre gli sussurrava negli orecchi del principe Acaste, suo figlio.

Jan Six, Medea 1648, 17: “Euippe: … e, fatto questo che accresce la mia paura, percepisco l’immagine capovolta di Giunone”;

Jan Six, Medea 1648, 9:“Euippe: Ma come? Dopo che lei, alla sua destra, ci si è spostati di fronte a Giunone nella fertile terra di Corcira?”

22| Epifanio d’Alfiano, IV Intermezzo de La Pellegrina, Disegno, 1592, Firenze.

23 | Medea fugge sul carro, riproduzione a stampa nell’opera teatrale Medea: treur-spel di Jan Vos (Amstedam 1718) [presente in Mnemosyne Atlas, Tavola 73].

Inferno 1589. L’effetto distruttore dal punto di vista mentale si chiarisce solo a patto di spiegare – cosa che finora non è stata fatta – che questa gioia per la macchina volante ha una tradizione secolare che inizia a Firenze. Una incisione su rame di Epifanio d’Alfiano [Fig. 22] finora sconosciuta rappresenta un intermezzo che fu inscenato nel 1589 in occasione delle nozze del cardinal Ferdinando con Cristina di Lorena. In Jan Vos i serpenti che gettano fuoco dal carro magico di Medea [Fig. 23] scacciano dalla scena l’aspetto mentale tragico. L’entusiasmo incondizionato del pubblico concerne le rozze arti trasformatrici della tecnica scenica. Se guardiamo più attentamente la Maga sul carro trainato dai serpenti, non vi è alcun dubbio che sotto i nostri occhi si compie un rinascimento demoniaco dell’Antico: il tipo originario della strega pagana Medea acquisisce i suoi diritti in quanto principessa degli Inferi. Lucifero, con il quale condivide il dominio della città infernale, è di stirpe nobile: corrisponde infatti, come chiarisce in modo dettagliato il testo dell’intermezzo, alla descrizione che di Lucifero fa Dante. Gli italiani superarono questo stile dell’intermezzo barocco e, come ho cercato di mostrare in altro luogo, dettero vita all’Opera proprio partendo da questo intermezzo del 1589. Al gesticolare privo di anima si contrappose la nuova unità di parola e suono trasformatrice di energie, mentre il recitativo divenne il trasformatore magico della commozione passionale. L’Olanda non sperimentò una cosa simile grazie alle proprie forze. Ma all’Inghilterra fu donato il genio di Shakespeare, il quale impose al pubblico ad un tempo la duplicità della commozione passionale e del sommo distacco come Leitmotiv delle sue creazioni di caratteri. Si trattava di un pubblico che voleva essere costretto a passare dalla delizia degli occhi della recita in maschera alla condivisione della tragedia del distacco.

Per J. Bara Herstelde Vorst. Terzo atto

LODOW | Voglio rovesciare le vostre parole Rasimo, dobbiamo giurare in questo luogo fedeltà nei pericoli, nelle avversità pazienza per la gioia della nostra signora Metelle, alla quale ulula quel cane infernale.
LAMID | Noi tutti spaccheremo la testa di colui grazie al quale vostra sorella e tutti noi siamo stati espulsi.Lodow: Voglio rovesciare le vostre parole Rasimo, dobbiamo giurare in questo luogo fedeltà nei pericoli, nelle avversità pazienza per la gioia della nostra signora Metelle, alla quale ulula quel cane infernale.
LODOW |  Sguainate la vostra spada Rasim: Iniziate il giuramento come sollievo [per Metelle] per le sue miserie, come vendetta per la vostra sofferenza
LODOW |  Giuro che colpirò la disgraziata testa di quel tiranno che mi mise al mondo dalle sue maledette reni, come spegnimento della mia vendetta, come consolazione per il mio principe se dovessi diventare spergiuro, il fulmine acciacchi il mio petto
RASIM | Giuro che stritolerò l’infero muso di quel cane della Stige che seccherò dal tronco le radici più feconde, per redenzione di Metelle; se dovessi venir meno a queste parole il principe del Cielo mi trafigga con il fulmine

Questa sera abbiamo cercato di delineare, seppur in modo tangente, un atto della tragica lotta per lo stile monumentale nell’Europa del Nord. Con ciò abbiamo tentato per la prima volta di tener conto della creazione drammatica in senso ampio. Nessun altro, se non il relatore, può rammaricarsi di più dell’insufficienza di questo primo tentativo. Anche se a ben vedere, per farsi una idea chiara e non definitiva dell’insieme delle opere teatrali e degli intermezzi, non vi è altro aiuto che l’opera di Kalff sulla letteratura, che per di più resta quasi sepolta nella splendida opera Amsterdam in de zeventiende eeuw. Inoltre, c’è da dire che, dopo essersi impadroniti faticosamente della bibliografia, si è coscienti che le opere in questione non si trovano nelle biblioteche tedesche e che nelle librerie è molto difficile e molto costoso poterle acquistare. È stato solo grazie alla direzione liberale della Biblioteca reale universitaria di Leida, che conserva uno spirito veramente scientifico, e grazie al sostegno di un libraio molto collaborativo, che abbiamo potuto accennare alle tappe principali di questa circolazione vitale delle forze costitutrici dello stile.

Il Giulio Civile di Rembrandt simboleggia un momento in cui né la narrazione storico-antica del proprio passato – che si era conservata grazie alla memoria nella parola e nell’immagine – né la rappresentazione drammatica e immediatamente viva nei tableaux vivants o nelle opere teatrali potevano indurre il genio a romanizzare l’eloquenza o condurlo ad una posa teatrale. Che l’amara e virile serietà che risiede in questa rappresentazione della vendetta non piacesse ai signori del Palazzo pubblico di Amsterdam dimostra solo come allora, e in qualunque epoca e terra europea, l’arte per le feste prendesse atto in modo riluttante di esperienze costrittive. Chi interiormente esige da coloro che prediligono l’arte uno stato d’animo interiore che predispone verso l’incerto e pericoloso futuro, vale a dire una compartecipazione all’eterno problema amletico circa la sofferenza della coscienza pencolante tra un movimento riflesso e un comportamento riflessivo, siano questi ultimi presenti in Medea o in Giulio Civile in quanto immagini di culto che implicano una moralità, correrà sempre il pericolo di essere sconfitto sul campo dai produttori dell’apprezzamento trionfale del presente. Ma il giorno del risorgere tra coloro che cercano è giunto per la titubante Medea grazie a Lessing, e per Giulio Civile grazie a Rembrandt.

24 | Medea prima dell'assassinio dei figli, affresco, da Pompei, Casa dei Dioscuri, 62-79 d.C., Napoli, Museo Archeologico Nazionale [presente in Mnemosyne Atlas, Tavola 5].

Medea-Ercole. L’epoca di Rembrandt non fece alcuna distinzione dal punto di vista estetico tra Antichità greca e Antichità romana, poiché com’è noto risale a Winckelmann l’intuizione in base alla quale esigiamo che la peculiarità più essenziale di ogni quiete classica sia la nobile semplicità e la quieta grandezza che sprigiona dalla cultura dell’Antico. Questa intenzione fu in seguito elevata nel Laocoonte di Lessing a duratura legge critico-artistica. Nell’epoca di Rembrandt, dunque un secolo prima che Pompei riemergesse dalle rovine (1748), era impossibile che la pittura antica potesse provocare una impressione caratteristica che, come fa vedere ad esempio in modo commovente la titubante Medea nell’affresco a Pompei, fosse esistito non solo un pathos romano sui sarcofagi e uno trionfale imperial-militare, ma perfino una cultura greca che era sensibile, come solo Shakespeare poteva essere, alla sofferenza della coscienza di colui che è condannato ad un comportamento tragico. Proprio in una indecisa Medea, che con la spada in mano non si è ancora risolta se uccidere o meno i suoi figli mentre giocano, così come essa è stata raffigurata su una parete a Pompei [Fig. 24], probabilmente affrescata dal pittore greco dell’epoca di Cesare Timomachus, Lessing nel suo Laocoonte scorge l’esempio più convincente del saggio timore dello stile classico di rappresentare una azione transitoria. Lessing conviene così con quell’epigrammatico greco che aveva biasimato il pittore che aveva raffigurato la Medea assassina con le seguenti parole: “Hai l’intenzione per sempre di uccidere? Al diavolo tu e il tuo dipinto!”.

I critici della religione, i filologi e gli psicologi ci hanno insegnato da lungo tempo che l’esperienza demoniaca che trascina all’espressione non inibita appartiene alla scultura greca quanto la serenità olimpica. Ciò che una simile tensione polare nell’arte e nell’osservazione sull’arte abbia significato per l’Olanda del XVII secolo, lo abbiamo cercato di abbozzare questa sera. Non solo. La passeggiata, per la quale avevo chiesto la vostra paziente attenzione, attraverso le zone semi-sotterranee delle officine che coniano i valori espressivi mentali, doveva servire a preparare, al di là di una estetica meramente formale, la strada ad una dottrina energetica della espressione umana in base a una ricerca filologico-storica capace di dar conto della connessione tra la creazione artistica figurativa e la dinamica della vita reale o della vita che drammaticamente plasma. L’ascesa di Elio verso il Sole e la discesa di Proserpina negli Inferi simboleggiano due tappe che appartengono in modo inscindibile al ciclo della vita, come l’inspirazione e l’espirazione. Come unico bagaglio per intraprendere questo viaggio possiamo portare con noi solo l’intervallo eternamente mobile tra impulso e azione: sta a noi decidere quanto possiamo dilatare, con l’aiuto di Mnemosyne, questo intervallo della respirazione.

Indipendentemente da questa musica futuristica, spero di aver chiarito oggi che non è possibile, quasi fosse una pistola puntata al petto, porre l’aut-aut all’Antico se esso sia stato classicamente quieto o eccitato in modo demoniaco. Dipende dal carattere soggettivo dei posteri e non dai fatti oggettivi del patrimonio ereditario antico se noi siamo stimolati a compiere una azione passionale, oppure se ci sentiamo acquietati in una serena saggezza. Così, ogni epoca ha il Rinascimento dell’Antico che merita. 

Appendice II

Lettera di Aby Warburg a Carl Neumann del 22 gennaio 1927

Edizione a cura di Andrea Pinotti (2005). Traduzione di Lucamatteo Rossi 

Indirizzo attuale: Partenkirchen, Hotel Gibson

Al molto onorato caro professore

Una breve vacanza invernale, che ho trascorso a Partenkirchen, mi offre l’opportunità di rispondere più dettagliatamente alla Vostra lettera dell’8 gennaio. Mi scuso per la macchina da scrivere, che mostra anche perché non sono ad Amburgo durante il semestre. Ho sforzato un po’ gli occhi e di conseguenza ho dovuto rimandare al semestre estivo le mie lezioni sulle “Tipologie della ricerca nell’ambito del Rinascimento” che avevo iniziato avendo Jacob Burckhardt come unico punto di riferimento. Si erano iscritti circa 25 appassionati storici dell’arte e le relazioni erano già state assegnate. Nelle mie considerazioni introduttive su Jakob Burckhardt mi è stato evidente che non ho riscontrato in nessun ricercatore un’attenzione più penetrante della Vostra, dato che con la Vostra intelligenza, ferma e appassionata e tuttavia così chiaramente critica, avete spianato e costruito i sentieri che portano al punto di osservazione di Jakob Burkhardt. Sono certo che sia i giovani sia i più anziani man mano che ci addentreremo nello studio di Burckhardt saranno sempre più colmi della stessa riverente gratitudine per la sua guida, per come si svolge nel corso della proposizione della sua attività di storico, la tipica, tragica dicotomia del pensatore lucido dell’Europa occidentale che oscilla tra la dedizione struggente e dimentica di sé al mondo dell’espressione, con tutti i suoi alti e bassi, e la volontà di una formulazione idealistica e ferma in forma sublime. 

La sua varia formazione | Jakob Burkhardt apparteneva alla regione a metà tra il nord e il sud della Svizzera. In gioventù era stato un appassionato seguace dell’inappagato desiderio tedesco di liberazione interiore e aveva sviluppato una forte sensibilità per la gestualità – gallica e teatrale – della Rivoluzione francese, cercando e trovando poi nella cultura italiana le forme plasmate nella lotta contro il caos. Voglia gentilmente scusare questa digressione del tutto superflua – ché con voi è “come portare civette ad Atene” – ma vorrei argomentare meglio la mia posizione sul problema dell’Antico per dimostrarvi che siete in grave errore a vedere una contraddizione nella mia posizione rispetto alla questione fondamentale, che è: che cosa significa l’Antico per i popoli del Nord? Quel che io vedo è solo una crisi generale europea tra la funzione della memoria e la riflessione su di sé. Se partiamo dall’ipotesi che l’eredità dell’Antico comprenda le forme impresse sia della serena tettonica classica espressa in atteggiamenti, parole e immagini, sia dell’istintività del pathos spinta al limite estremo della capacità di espressione nei modelli che ne custodiscono per sempre la memoria, si apre per noi la seguente possibilità di osservazione comparativa scientifico-culturale: possiamo constatare quali differenze selettive sono causate dalla mentalità dell’epoca in esame, nella misura in cui lasciamo affiorare, attraverso una doppia proiezione sulla stessa superficie dell’immagine, il contrasto formale tra l’Antico in adumbratione – la sinopia, la traccia di sottofondo – e l’opera d’arte successiva all’antica che ad esso si ricollega.  

Ho cercato di applicare questo processo a Rembrandt, perché nel caso del Giulio Civile è possibile dimostrare l’evento sorprendente di una trasfigurazione [sottolineato nell’originale] organicamente riuscita del patrimonio dell’Antico. Tuttavia, nel fare questo tentativo, mi sono dovuto avventurare ad attingere dall’opera di Rembrandt altre opere con soggetti antichi. Il campo di oscillazione della sua polarità dell’Antico è definita da due antipodi: il Ratto di Proserpina e l’illustrazione di Medea [per l’opera teatrale Medea di Jan Six]. Tra la dinamica drammatica del rapimento ovidiano, e la compostezza tragica trattenuta, classicamente greca di Medea, si colloca il pathos tacitiano della tensione interiore dell’essere che incombe sull’azione.

Se si tenta, cosa mai fatta prima, di individuare in alcune personalità di artisti gli importatori delle Pathosformeln antiche, emerge in particolare Antonio Tempesta come fornitore di un repertorio di gesti antichi, e questo fatto, in generale, non è sfuggito alla ricerca degli studiosi. Tempesta illustrò sia Ovidio che Tacito, e persino van den Vondel lo testimonia espressamente nel descrivere l’illustrazione di Tempesta come modello stilistico delle rappresentazioni ovidiane [il ratto di Prosperpina] e dei fratelli batavi [Paolo e Giulio Civile]. Al poeta olandese, che tenta la catarsi delle passioni tragiche attraverso “la grande forma”, l’eleganza delle forme antiche nella postura e nella gestualità (nella loro varietà mitologica greca e in quella dell’arte ufficiale romana) rendono sostanzialmente incomprensibile l’immediatezza antiretorica del Giulio Civile [di Rembrandt] (su questo rimando al saggio di Schmidt-Degener in “De Gids” tradotto negli “Studien” della Kulturwissenschaftliche Bibliothek Warburg).

Se dunque, da questa prospettiva, si confronta l’illustrazione di Tempesta della congiura di Giulio Civile con i disegni e i dipinti di Rembrandt, l’unico elemento che rimane è solo un gruppo di persone seduto a un tavolo visto di spalle e intorno a que tavolo, che ha il lato corto rivolto verso l’esterno, persone ben vestite e di rango sono riunite per un picnic notturno nel bosco; [in Rembrandt invece] diventa una comunione di vendicatori di sangue che, sul lato lungo del tavolo, aprono in modo frontale la porta laterale, per così dire, alla pienezza del loro tumulto interiore. Anche se si ipotizza che le parti eliminate dalla composizione, mediante la subordinazione spaziale, attenuassero l’enfasi della fratellanza nel sangue non si può sfuggire alla domanda: Questo autentico dramma interiore dell’anima ha forse messo Rembrandt in una posizione di svantaggio rispetto ai più compiacenti artisti a lui contemporanei? Poiché ora è l’opera di Ovens – la cosiddetta “tela nera” – a essere appesa nel luogo in cui [prima] era appeso il Giulio Civile di Rembrandt? È necessario anche rispondere a questa domanda: abbiamo usato tutti i mezzi a nostra disposizione per farci un’idea dell’arte di Ovens, che è colui che ha rimpiazzato Rembrandt?

Quando alla fine del 1924 questo interrogativo cominciò ad agitarmi, trovai che: 
1) nei disegni della Kunsthalle di Amburgo attribuiti a Ovens non era stato riconosciuto che si trattava di illustrazioni di Tacito, e che erano in stretta connessione con le composizioni di Tempesta; 
2) l’idea di avere una fotografia della “tela nera” [di Ovens], con tutti i mezzi tecnici possibili, non mi lasciava l’animo in pace. Dopo diversi sforzi (in cui A. Pauli in particolare mi è stato di grande supporto), S.M. la Regina d’Olanda, con una concessione di cui non sarò mai abbastanza riconoscente, ha permesso l’erezione delle necessarie impalcature necessarie per scattare le foto (cosa che risultò gradita anche perché il soffitto doveva comunque essere riparato). A partire dalle fotografie realizzate alla massima scala possibile, c’erano ora abbastanza indizi per poter ricreare chiaramente la composizione di Ovens nei suoi accenti principali, ed essa si è rivelata come una mera forma annacquata della già scarsa inventiva di Tempesta.

Il disegno di Amburgo [attribuito a Ovens] non mostra altro che la stretta di mano, mentre, nella composizione più grande (lo schizzo allegato è stato realizzato da mia moglie) si vede il tentativo di enfatizzare ulteriormente l’atto del giuramento. Si può notare che il personaggio di Giulio Civile, che riceve la stretta di mano, ha egli stesso la mano sinistra levata per giurare, ma non c’è nulla che alluda al rito delle spade o alla tavola disposta frontalmente, sul lato più lungo.

Per comprendere il processo euristico, devo intrecciare a questo discorso elementi della mia ricerca personale. Quando nel 1924, dopo anni di assenza, ho potuto avere in mano nuove immagini, trovai, guidato indirettamente portato dalle ricerche di Saxl, la riproduzione a colori del Giulio Civile nel libro di Kruse, della cui esistenza non avevo prima la minima idea. Ho quindi chiesto a Saxl dove avrei potuto trovare maggiori dettagli su quest’opera e sono stato naturalmente introdotto al Vostro studio che è esemplare e ricco di informazioni; la mia prima impressione ha trovato espressione nelle parole: “Italia, Shakespeare”, che Saxl ha ascoltato con il suo debito scetticismo, ma subito dopo mi aiutò a trovare l’illustrazione tacitiana di Tempesta-van Veen nel Kupferstichkabinett di Vienna, dove abbiamo fatto fotografare l’intera serie. A parte il Vostro saggio, non ho prestato molta attenzione al resto della letteratura critica. 

Emerse così, presto, l’elemento italiano della retorica di Tempesta: la trasformazione dello stile era avvenuta mediante l’innesto della memoria leonardesca dell’Ultima Cena e si rivelò così lo strano processo per cui il pittore ‘classico’ italiano del XV secolo [Leonardo] già aveva condizionato il pittore barocco del XVII secolo [Rembrandt] nella riformulazione di un mutato atteggiamento di fondo. Il secondo elemento di questa riformulazione, quello drammatico, è emerso invece solo dopo mesi di minuziose ricerche sulle prime descrizioni e sui drammi olandesi, che sono così difficili da recuperare. Solo grazie alla generosa collaborazione della biblioteca di Leida, che ha prestato al mio istituto una quarantina di testi fra i più rari, è stato possibile dimostrare il potere trasformativo della riproduzione scenografica, in cui l’accento deve naturalmente cadere sulla disposizione frontale, esperibile da due punti di vista. Da un lato, è emerso che la scena del giuramento con la spada, ad esempio, era stata rappresentata e dipinta nella serie dei tableaux vivants, come risulta dalle incisioni di Visscher. Quando, nel 1609, dopo la fine della guerra tra Spagna e Olanda, fu dichiarata l’indipendenza dell’Olanda, l’evento fu solennemente proclamato sul Dam di Amsterdam e fu celebrato con tableaux vivants, corredati con didascalie esplicative ispirate a Livio, scritte in olandese da Pieter Cornelis Hooft. Il tema del giuramento con la spada compare nella Congiura dei figli di Bruto Tarquinio, dove due figure prestano giuramento sulle loro spade incrociate, mentre sullo sfondo un terzo personaggio, lo stesso Tarquinio, stringe la mano a un altro cospiratore, sollevando al contempo un’ascia da battaglia con la mano sinistra. 

Abbiamo dunque davanti ai nostri occhi due schemi iconografici costitutivi delle scene di giuramento: il giuramento con la spada (proprio come nell’Amleto), e il patto siglato dalla stretta di mano come in Tempesta – e in van Veen-Tempesta nella corrispondente illustrazione, apparsa nel 1612 – in cui i congiurati si astengono dall’impugnare l’arma tagliente. Invece, il truculento teatro olandese dell’epoca di Rembrandt non rinunciava a questo effetto che veniva servito al pubblico come una festa per gli occhi e per le orecchie, accompagnato dai toni sanguinolenti e roboanti, come si usava all’epoca, del finale. La tragedia di Jan Bara intitolata Herstellte Vorst, rappresentata ad Amsterdam nel 1650, contiene nel terzo atto una scena di giuramento:

LODOW | Voglio rovesciare le vostre parole Rasimo, dobbiamo giurare in questo luogo fedeltà nei pericoli, nelle avversità pazienza per la gioia della nostra signora Metelle, alla quale ulula quel cane infernale.
LAMID | Noi tutti spaccheremo la testa di colui grazie al quale vostra sorella e tutti noi siamo stati espulsi.
LODOW | Sguainate la vostra spada.
RASIM | Iniziate il giuramento come sollievo [per Metelle] per le sue miserie, come vendetta per la vostra sofferenza.
LODOW | Giuro che colpirò la disgraziata testa di quel tiranno che mi mise al mondo dalle sue maledette reni, come spegnimento della mia vendetta, come consolazione per il mio principe se dovessi diventare spergiuro, il fulmine acciacchi il mio petto.
RASIM | Giuro che stritolerò l’infero muso di quel cane della Stige che seccherò dal tronco le radici più feconde, per redenzione di Metelle; se dovessi venir meno a queste parole il principe del Cielo mi trafigga con il fulmine parole il principe del Cielo mi trafigga con il fulmine (traduzione da Maurizio Ghelardi). 

Il momento shakespeariano del ritardo della vendetta [nell’Amleto], che ci tiene col fiato sospeso come segno della sua tragica umanità, viene buttato a mare come zavorra antisensazionalistica. Nel dipinto monumentale di Rembrandt, invece, come nel dramma di Shakespeare, non c’è nessun gesticolare di ballerini spadaccini, ma piuttosto una virilità silenziosa, tutta rivolta a quel che accadrà. Se si desiderava compiacere i gusti del pubblico con cortese accondiscenza, o con un omaggio muscolare e rumoroso, allora affidarsi a Rembrandt – che era una sorta di “bottiglia di Leida” riempita di vita interiore al punto da essere insopportabile – non era certo la scelta giusta. Questo invece era quello che poteva fornire Rubens. Il vero ideale etico della continentia, in cui l’accidia dell’uomo saturnino si è infine purificata nel corso dei secoli in “piacere disinteressato”, è stato ucciso in Europa da una forma d’arte a cui non si è finora prestata sufficiente attenzione: la macchina teatrale italiana. Seneca, che purtuttavia nei suoi drammi consentiva che le atrocità avvenissero solo dietro le quinte, viene preso alla lettera. Nella tragedia del teatro olandese, Medea getta i suoi figli sulla scena come bambole di cera insanguinate. “Met kunsten vliegwerken”, “Spettacoli artistici con voli aerei”, è lo slogan pubblicitario con cui Jan Vos, idolatrato dai suoi contemporanei, incita la gente a frequentare il suo teatro di Amsterdam. Ma sappiamo che tali mezzi dovevano essere utilizzati già nel 1634 nel dramma olandese Ontschaking van Proserpina di Struys, perché li vediamo comparire nelle illustrazioni contemporanee del libretto di scena che, tra l’altro, prendono come modello l’illustrazione ovidiana di Tempesta; scopriamo così il problema principale dello sviluppo dello stile nel XVII secolo è l’opposizione tra due ideali tra loro in forte opposizione che si conservano nella memoria collettiva dell’Antico, e che oscillano tra l’anelito alla tranquillità tettonico-compositiva e la volontà di aumentare il moto degli istinti, cioè in quella polarità dell’anima in cui, con uno sguardo universale, avviene come direbbero i sapienti indiani con l’inspirazione e l’espirazione di Dio (o per meglio dire del Demiurgo). 

Da questo mio punto di vista, che posso solo accennare in uno schizzo, confidando nella vostra complicità e indulgenza, l’eredità dell’Antico mi si presenta come un problema di memoria generale della mentalità europea, per cui per me non si può parlare di schierarsi a favore o contro l’Antico, allo stesso modo per cui a un medico non è permesso di fare distinzioni tra “malattie pure” e “malattie impure”. Solo considerando la questione dell’eredità dell’Antico come il sintomo di una necessità sovra-personale che si presenta a ogni tentativo di orientarsi intellettualmente in modo consapevole, mi sembra che possiamo raggiungere il punto archimedeo di riferimento, e a partire da questo per noi è fuori gioco l’alternativa come aut-aut tra un’estetica pratica e etica.

E non è questa mia una sorta di indifferenza volta a idolatrare l’eredità dell’Antico. Al contrario, il carattere nazionale può essere considerato un elemento forte e resistente come l’acciaio, ma solo quando ha fatto i conti con la cultura pagana nella piena consapevolezza della sua alterità. Le condizioni somatiche e topologiche sono solo lati di un parallelogramma di forze: trovare la direzione della diagonale in questo parallelogramma e verificarne la continuità di valore è propriamente, a mio avviso, il compito dello storico. 

Questo ci riporta, indirettamente, a Jakob Burchkardt: l’oblio di sé e il dinamismo istintivo dell’ispirazione germanica alla libertà all’infinito, e l’ammirata subordinazione alle forme preconiate dell’Antico sono i due lati del parallelogramma dell’anima, e la loro diagonale è l’oggetto della [nostra] più riverente riconoscenza, a cui solo una critica scrupolosa, nella sua esemplarità, dà la sua più alta giustificazione reale. 

Nota su Giulio Civile e Roma | Nel caso del Giulio Civile porre la questione come aut-aut [Olanda o Roma] induce a un empasse concettuale, perché il romano Tacito è l’unico storico della preistoria batava e non parla dei Batavi come “nativi” ma come di guardie dell’esercito imperiale nella provincia. Giulio Civile fa la fronda al potere perché il suo onore di confederato dei Romani era stato insultato in modo sanguinoso; e quanto si sentisse romano è dimostrato dal fatto che per il suo essere guercio evocava le glorie romane di altri due celebri monocoli, Annibale e Sertorio, e al contempo non disdegnava di rafforzare la sua autoctonia batava tingendosi la barba di rosso (cfr. Tacito, passim).

Nel giardino dei salti di pensiero | Ovidio, Claudiano, Seneca, il Laocoonte, l’Apollo del Belvedere, sono solo alcune delle innumerevoli maschere del pathos (Pathosmasken) nel coro della tragedia “Enérgheia”, in cui ci sono solo pochi personaggi: Mania, Sophrosyne, Mneme e Virtus. Gli atti di queste tragedie sono ciò che chiamiamo epoche della cultura. Oppure, se non ne volete sapere di questa metafora antica, vi propongo come prima presentazione (un’insegna luminosa) di un ipotetico spezzone cinematografico dal titolo L’autoaffermazione tedesca e la citazione è questa frase: “Ma qual è il vero possesso dell’eredità per l’uomo? Solo la pausa eternamente fugace tra l’impulso e l’azione”. Ma sarebbe bene però non dover declamare come un mistero al megafono questa nota marginale sul tema: “Dal riflesso alla riflessione, e ritorno”; meglio metterla invece dentro una busta da lettera, al vecchio modo, per dimostrare a un amico e collega di antica data che stiamo entrambi tirando verso la stessa – certo, infinita – direzione. 

Così a seguire.
 

Riferimenti bibliografici
Fonti
  • AWO I.1
    A. Warburg, La rinascita del paganesimo antico e altri scritti (1889-1914), a c. di M. Ghelardi, S. Müller, Torino 2004.
  • AWO I.2
    A. Warburg, La rinascita del paganesimo e altri scritti (1889-1914), vol. II, a cura di M. Ghelardi, trad. di S. Müller, Torino 2007.
  • AWM II
    A. Warburg, Fra antropologia e storia dell’arte, a cura di M. Ghelardi, Torino 2021.
  • GS VII
    A. Warburg, Bilderreihen und Ausstellungen, a cura di U. Fleckner e I. Woldt, Akademie, Berlino 2012.
  • Malvezzi 1903
    C. Malvezzi, Intermedi per la commedia rappresentata in Firenze l’anno 1589 per le nozze di Ferdinando I de’ Medici con Cristina Lorenza, in Gli albori del melodramma, vol 1, a cura di A. Solerti, Torino 1903.
  • Warburg [1985] 2004
    A. Warburg, I costumi teatrali per gli Intermezzi del 1589: i disegni di Bernardo Buontalenti e il ‘Libro di conti’ di Emilio de’ Cavalieri in AWM II, 429-482.
  • Warburg 1926 [2007]
    A. Warburg, L’antico italiano nell’epoca di Rembrandt [Italienische Antike im Zeitalter Rembrandts] in AWO I.2.
  • Warburg [1926] 2012
    A. Warburg, Italienische Antike im Zeitalter Rembrandts in Nachhall der Antike, hrsg. von P. Schneider, Zürich 2012, 69-101.
  • Warburg [1927] 2005
    A. Warburg, Lettera di Aby Warburg a Carl Neumann, 22 gennaio 1927, in Pinotti 2005.
Riferimenti bibliografici
English abstract

Through a comparative study of unpublished notes, lectures and seven panels from Aby Warburg's Mnemosyne Atlas, the author has attempted a reconstruction of the sense of Warburg’s latest studies on the migration of the Pathosformeln from Southern to Northern Europe, and on their weakening and reactivation processes in the context of seventeenth century Holland. One of the main leading elements in Warburg’s study is that of theatre conceived both as printed text, i.e. as physical vector capable of migrating pathos formulas, and as the site of the Shakespearian revolution that had introduced the concept of suspension, i.e. the void between impulse and action. Rembrandt, a careful observer of his own time, managed to reactivate Ovid’s mythological tales and Tacitus’s chronicles. He did so by including into his paintings elements that, like Shakespeare’s theatre, had revolutionised the art of his own time, thus breaking the long chain of minor fifteenth century Italian works portraying the same subjects definable as mere copies of the same models devoid of any originality. Although these works are considered as models of the seventeenth century Dutch “art officiel”. Rembrandt’s Conspiracy of Claudius Civilis marks a revolutionary break from those models. This work distinguishes itself from other contemporary thanks to Rembrandt’s formal and theological grafting of Leonardo’s Last Supper, as well as to his appliance of the Shakespearean “dramaturgy of suspension”, and to the painter’s study of Tacitus. This painting is defined by Warburg as “the astonishing event of an organically successful transformation of the heritage of Antiquity”.

keywords | Rembrandt; Mnemosyne; Proserpina; Medea; Claudius Civilis; Theatre; Shakespeare.

La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)

The Editorial Board of Engramma is grateful to the colleagues – friends and scholars – who have double-blind peer reviewed this essay.
(cf. Albo dei referee di Engramma)

Per citare questo articolo / To cite this article: L. Rossi, Drammaturgia dell’azione sospesa
Trasformazioni della carica gestuale e riattivazione dell’Antico nelle Tavole su Rembrandt del Mnemosyne Atlas
, “La Rivista di Engramma” n. 206, ottobre/novembre 2023, pp. 99-144 | PDF of the article 

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2023.206.0009